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Lo “spettatore” della storia

ottobre 19th, 2012

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Moore è uno di quegli autori che, pur avendo scritto relativamente poco ­– cinque romanzi, una manciata di racconti – si è conquistato di diritto un posticino nel ristretto pantheon degli autori “classici”. In una ideale classifica sui “cento migliori romanzi” prodotti dalla sf, non potrebbe certo mancare il suo Anniversario fatale, da più parti definito “un classico minore”. Ma prima di addentrarci nell’esame di questo romanzo, vediamo brevemente chi era il suo autore.

Ward Moore nacque a Madison, nel New Jersey, il 10 agosto 1903: in seguito la sua famiglia si trasferì a Montreal, dove il giovane Moore seguì pochi e discontinui studi. Autodidatta, si dedicò a una serie affascinante di lavori, una caratteristica che si trova in molte biografie di autori statunitensi. Mentre fa il commesso in una libreria newyorkese, pubblica alcune poesie su giornali minori; in seguito, ne aprirà una propria nel Midwest.

Nel 1929 lo troviamo a Los Angeles dove lavora in una fattoria; dopo aver lavorato nell’edilizia e in un cantiere navale – durante la seconda guerra mondiale – si inserisce nel mondo dell’editoria mantenendosi come recensore, scrivendo come “negro” per conto terzi oppure in proprio. Nel 1942 pubblica il suo primo romanzo, Breathe the Air Again, scritto in uno stile picaresco che ricorda da vicino il mondo tratteggiato da Steinbeck in romanzi come La corriera stravagante e Vicolo Cannery.

Fa il suo ingresso nel mondo della sf con Più verde del previsto, romanzo caustico sugli effetti “a valanga” di una nuova qualità di fertilizzante che in breve farà conquistare all’erba tutte le terre emerse. E di tanto in tanto, su riviste e antologie, appaiono suoi racconti, in cui si avverte sempre la mano felice dello scrittore di razza.

Nel 1953 dà alle stampe il suo capolavoro: pubblicato prima su rivista; poi allargato per il mercato librario – una pratica comune negli Usa – basta da solo ad assicu­rargli fama imperitura. Il titolo originale, Bring the Jubilee (qualcosa come “festeggia il giubileo”) viene da una delle canzoni in voga durante la guerra civile ameri­cana (quella erroneamente conosciuta da noi come “guerra di secessione”, termine sconosciuto negli Usa) e cantata dalle truppe sudiste, Marching Through Geor­gia. Si tratta di uno dei primi e più maturi esempi nella subcategoria dei mondi paralleli e dei viaggi nel tempo. Al contrario però di altri romanzi ambientati su una Terra parallela (il più famoso dei quali forse resta La svastica sul sole di Dick), in cui l’autore ha la possibilità di inserire quanti cambiamenti desidera alla storia a noi nota (e di questa possibilità molti ne abusano) qui le linee temporali divergono solo a partire dalla battaglia di Gettysburg (combattuta dal 1° al 3 luglio del 1863). In più, a differenza di altri romanzi del genere, qui s’inne­sta il tema del viaggio nel tempo che, creando un para­dosso, modifica il futuro fino a farlo coincidere con il nostro. Scritto in tono vagamente elegiaco, ma sempre centrato sul tema primario del tempo, il libro è anche una controversia un po’ dotta tra determinismo e libero arbitrio; non a caso Moore insiste sulla qualifica di “spettatore” del suo protagonista, uno spettatore che, seppure involontariamente, sconvolge a tal punto le linee della storia da divenire il più importante “facito­re” di storia mai nato. La sua “non azione” sconvolgerà a tal punto la storia da modificarne l’intero corso.

Nel 1954 Moore pubblica Lot, un racconto lungo che, unito al successivo La figlia di Lot, rappresenta un eccellente contributo alla tematica dell’olocausto e delle sue conseguenze. Strutturato sul tema biblico della distruzione di Sodoma (la moderna Los Angeles) e delle sue conseguenze, i due racconti hanno trovato anche la via dello schermo nel 1962 con Il giorno dopo la fine del mondo, diretto e interpretato da Ray Milland (un film che non rende alcuna giustizia ai testi da cui è stato tratto).

Nel 1962 scrive Joyleg insieme ad Avram Davidson, romanzo satirico sui guasti prodotti dalla burocrazia. Il suo ultimo romanzo, Caduceus Wild, che in realtà  aveva scritto nel 1959, verrà pubblicato postumo. Ward Moore muore il 29 gennaio 1978.

              

                                                                                                           Marzio Tosello

 

 

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Clarke & Pohl – Clarke

ottobre 18th, 2012

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Arthur Clarke, dallo spazio

alle spezie: un apprezzamento

e una testimonianza

 

Sulla Luna hanno messo piede per primi gli inglesi. Le astronavi, per i lunghi viaggi nello spazio, hanno bisogno di motori atomici. Su Marte ci sono piante e animali. I mari della Luna sono immensi bacini di polvere. Intorno alla Terra ruotano immense stazioni spaziali, vere isole nel cielo con a bordo centinaia di persone. Nel 2001 si raggiunge il nostro satellite regolarmente, si progetta un viaggio su Giove e le astronavi sono dirette da supercomputer senzienti… Sono tutte affascinanti “previsioni” contenute in libri di Arthur C. Clarke, e ovviamente non realizzate. E’ vero, accanto ad esse vi sono anche molte altre previsioni che abbiamo visto avverarsi, compresa quella, clamorosa, dell’impiego di satelliti artificiali in orbita geostazionaria per le telecomunicazioni, contenuta peraltro non in un suo racconto, ma in un articolo divulgativo.

E’ vero anche che tutto questo apparato parascientifico era proprio ciò che ci colpiva da ragazzi, e costituiva la pezza d’appoggio principale per difendere, negli anni Sessanta e Settanta dell’ahimè secolo scorso, la dignità del nostro genere letterario contro la critica togata, incline a supportare la famigerata battuta della buonanima di Mike Bongiorno, che infelicemente in tv lo definì “fantascemenza” (e ancor brucia il ricordo, in nostra tarda età). All’epoca, accanto a chi si basava proprio sui contenuti scientifici per sostenere che l’amata fantascienza era “una cosa seria”, c’era anche chi s’affannava ad additarne i magnanimi lombi in Platone, Luciano, Dante, Ariosto eccetera eccetera.

Poi, il tempo e l’ampliamento degli orizzonti culturali ci hanno fatto capire che l’importanza del nostro genere letterario non sta affatto nella “previsione tecnico-scientifica”. Non ha molta importanza se abbia o non abbia, ad esempio, previsto nei particolari la bomba atomica prima dell’esplosione di Alamogordo nel 1945, se abbia previsto le astronavi quando non c’erano neppure gli aerei di linea. Fosse veramente così – come ormai scriviamo da un bel pezzo – i risultati della tecnoscienza che viviamo ai giorni nostri e sulla nostra pelle, dovrebbero farci gettare il 90 per cento della fantascienza nella discarica delle delusioni letterarie: i cellulari e la Rete non se li è mai sognati, ad esempio, eppure deliziano e ossessionano i nostri giorni. Di personal computer non ha mai parlato, eppure ne stiamo usando uno per scrivere queste righe.

Ad altro, dunque, bisogna guardare per valorizzare la fantascienza e i suoi autori più importanti. Jean Baudrillard da tempo sostiene chel’immaginario fantascientifico è giunto a “ricoprire tutta la realtà”, per cui non è più possibile costruire dell’immaginario partendo dal mondo come oggi lo conosciamo e viviamo: il cosiddetto “genere del futuro” non avrebbe più insomma alcun futuro. Una posizione certo estrema ed eccessiva (la realtà offre ancora infiniti spunti per ipotesi futuribili), ma che in sostanza pone un problema: ci deve pur essere qualcosa d’altro, al di là dell’immaginare “previsioni scientifiche”, tale da poter far sopravvivere la fantascienza ad infinitum.

Prendiamo allora come esempio Arthur C. Clarke, che è come dire l’icona della fantascienza in Italia. E’ stato proprio lui, infatti, a far spalancare gli occhi e la mente dei ragazzi e degli adulti del 1952 sugli spazi sconfinati oltre la realtà del quotidiano (il quotidiano del dopoguerra, della ricostruzione, del Piano Marshall): intanto con i due alieni tentacolati sulla copertina del primo fascicolo di “Scienza Fantastica” che nell’aprile 1952 illustravano il suo racconto Missione di soccorso, e poi la città sotto la cupola e il razzo fusiforme sulla copertina del romanzo Le sabbie di Marte sul primo fascicolo de “I romanzi di Urania” del 10 ottobre 1952. Se c’è un nome con cui identificare la science fiction, per noi italiani, è proprio il suo.

Allo stesso tempo, però, voler misurare Clarke solo con il solo metro della previsione scientifica, cucendogli addosso l’abito dell’anticipatore par excellence, come si è spesso fatto e si continua a fare (magari insieme a Isaac Asimov), non solo è un errore ma anche una grave ingiustizia nei suoi confronti. Tutte le cosiddette “anticipazioni scientifiche” presenti nelle sue opere sono infatti niente altro che puri espedienti narrativi, e lui stesso (lo ha confermato personalmente a Sebastiano Fusco, che ha avuto la ventura d’incontrarlo) era il primo a dubitare che fossero corrette o che potessero realizzarsi mai. Lo spessore della figura di Clarke come scrittore e soprattutto come genio visionario si fonda su ben altri valori. Si fonda sulla grandiosità delle sue concezioni, sulla vastità della sua immaginazione e soprattutto sulla portata etico-morale del suo insegnamento. Insomma, su quello che in America, patria d’elezione del nostro genere letterario, è stato efficacemente definito sense of wonder, quel senso del meraviglioso che ti afferrava nel 1952 leggendo i primi “Romanzi di Urania” e che non sempre – purtroppo – oggi ti prende ancora leggendo la fantascienza contemporanea (e non si tratta di una questione d’età)…

Questo, in effetti, è vero per tutta la fantascienza nel suo complesso. E’ riduttivo considerarla semplicemente come “narrativa d’anticipazione” soltanto perché tratta, come diceva Edgar Allan Poe, di mellonta tauta, “cose che avverranno”. Prevedere cose che si potrebbero verificare non è poi molto difficile (anche Gianfranco de Turris nei suoi racconti di ventenne lo ha fatto, benché del tutto alieno da una cultura scientifica): basta fare centomila predizioni, e qualcuna di esse si avvererà per forza. Una letteratura che camminasse su queste sole gambe, andrebbe ben poco lontano. In realtà la fantascienza, come disse un altro intellettuale francese, Maurice Blanchot, è una mirabile manifestazione della funzione profetica.

Qui bisogna intendersi.

Il termine “profeta”, oggi, ha assunto il significato di “persona che conosce il futuro”. Un tempo, non era così. Indovinare l’avvenire non era compito dei profeti, bensì degli indovini: genìa di trista fama, usi smerciare le loro dubbie capacità in cambio di moneta, e non molto apprezzati perché in genere non ci azzeccavano o erano soliti nascondere la loro ignoranza dietro discorsi fumosi, come fanno oggi gli astrologi da rotocalco. I profeti biblici, o i vati della classicità (per non parlare degli oracoli, che erano diretta manifestazione di un dio), avevano tutt’altra funzione: loro compito era lanciare ammonimenti dal profondo significato morale, avvertendo interi popoli, o culture, o la stirpe umana nel suo complesso, che se avesse deviato dall’insegnamento divino, o dalle leggi etiche, o dai princìpi morali, o dal semplice buon senso, il destino avrebbe avuto in serbo per loro eventi assai poco piacevoli. O, di converso, ricordare che la speranza nel futuro riposa nell’osservazione dei precetti divini o dei retti giudizi umani (il che, se vogliamo, come insegnava Socrate è la stessa cosa).

Per fare questo, vati e profeti impiegavano visioni grandiose espresse in linguaggio lussureggiante, ricolme di simboli e allegorie. La biblica visione d’Ezechiele, o i sogni di Daniele, ne sono esempi. Non è un caso che siano stati presi come spunto per divagazioni fantascientifiche: l’avvento di creature aliene, il sorgere di nuove civiltà, e se ne siano azzardate financo ricostruzioni “astronautiche”.

Non è un caso, appunto perché la fantascienza, come ha acutamente osservato Blanchot, non prevede: ammonisce. Ci avverte, per esempio, che l’uso della scienza senza coscienza ci porterà alla rovina (e ce ne accorgiamo ora, che viviamo nell’incubo nucleare, nella paura del disastro ecologico, della penuria d’energia e chi più ne ha più ne metta). Ci mostra e dimostra che gli esperimenti sociali attuati a beneficio di una sola classe, quale che essa sia, aprono la strada alla tirannide. Che l’assopirsi della creatività dietro realizzazioni stultificanti porta al rimbecillimento culturale. Che manipolare la natura umana intervenendo sulle sue origini senza un preciso rigore etico a guidarci può portare alla perdita della nostra stessa identità. D’altro canto, c’insegna anche che la scienza usata rettamente può aprirci le porte dell’universo. Che la concordia è la chiave d’ogni progresso. Che l’uomo è perfettibile, ma deve trovare in se stesso la spinta all’elevazione. Gli esempi al riguardo, nella narrativa fantascientifica, sono infiniti: non faremo torto alle conoscenze dei lettori di “Urania” andando a indicare loro degli esempi, li conoscono già benissimo. Ne citiamo uno soltanto, per rendere omaggio al ricordo di un autore amatissimo, nostro amico per cinquant’anni, di recente scomparso: Ray Bradbury, che con Fahrenheit 451 ha profetizzato l’annichilimento della cultura se insisteremo a volerla sostituire con le sitcom e a demonizzare la libertà di pensiero espressa nei libri (di carta).

Orbene, di questo tipo di fantascienza “profetica”, la più nobile, una delle più grandi realizzazioni della letteratura, Arthur Clarke era l’indiscusso campione. Come detto, lui stesso per primo si rendeva conto che l’elemento “anticipatore”, la semplice previsione tecnologica, non andava visto come il centro della narrazione, ma come l’innesco per visioni più ampie, di portata autenticamente cosmica. Per questo, come disse a Sebastiano Fusco nel corso dell’incontro già citato, e su cui torneremo, scelse come “io narrante” di Preludio allo spazio, il romanzo in cui raccontava della conquista della Luna, non uno scienziato, un tecnico che aveva partecipato in prima persona alla realizzazione dell’impresa, bensì uno storico: ovvero un umanista, non un tecnocrate. Una persona che sapesse cogliere il senso dell’inizio dell’astronautica come il manifestarsi di una nuova sfida destinata al progresso dell’umanità non soltanto sul piano scientifico, ma soprattutto su quello etico e morale. Un testimone: ed è questa una delle funzioni precipue dei profeti, l’essere testimoni dei propri tempi. Non conta che la conquista dello spazio, malgrado le previsioni, sia ancora lungi dall’essere realizzata: ciò che conta è la rappresentazione dell’ansia faustiana che spinge l’uomo verso le stelle.

Quest’incombere del futuro, questo senso di sgomento di fronte ai destini dell’umanità, sempre in bilico tra l’elevazione e la rovina (e quanti esempi al riguardo ci fornisce la storia!) è presente in molti altri scrittori, ovviamente, non soltanto in Clarke. Ma quanti di loro hanno saputo raggiungere una tale grandiosità di visioni? Quanti una tale profondità di ammaestramento? Ci viene in mente un solo esempio, un autore stranamente da noi poco frequentato, anch’egli inglese: Olaf Stapledon. Poi, in parte, Philip K. Dick, in parte Robert A. Heinlein, in parte Isaac Asimov e A.E. van Vogt, e ben poco altro.

Quanti hanno saputo concepire una visione così elevata e rarefatta come quella di La città e le stelle, uno dei capolavori di Clarke? Un romanzo nel quale è tracciata non soltanto la diagnosi del male futuro, ovvero l’asservimento dell’uomo alla stessa tecnologia da lui creata, ma anche la terapia, ovvero il recupero della spiritualità attraverso la ribellione dell’artista verso il conformismo. Quale immagine simbolica dell’incombere del futuro è pari a quella dell’immensa torre alta trentaseimila chilometri di Le fontane del paradiso? Una struttura sconvolgente alla cui ombra l’umanità vale meno di una formica, e il cui unico parallelo si trova non nella tecnologia ma nell’arte, ovvero i mirabili affreschi tracciati nell’amata isola di Ceylon da un remoto e dimenticato maestro delle immagini. La vicenda scorre su due piani paralleli, il lontano passato e il lontano futuro, e racconta con plastica simbolicità una vicenda di elevazione e caduta: un’allegoria del cammino umano che sembra non dar luogo alla speranza, ma che ha in sé i germi della rigenerazione. All’antico artista vennero troncate le mani perché non potesse ripetere una seconda volta, per un altro re, un’opera così alta. All’umanità, rimane comunque il miraggio delle stelle.

E che dire dello straordinario soggetto di 2001: Odissea nello spazio, in cui si sono fusi gli ingegni di due fra i più grandi visionari del secolo scorso, Clarke e il creatore d’immagini Stanley Kubrik? Al di là delle anticipazioni tecnologiche (ben poco realizzate) ciò che conta nella vicenda è la mirabile conclusione (per molti criptica e oscura, mentre non lo è affatto), in cui emerge con grande potenza allegorica il sogno alchemico della coincidentia oppositorum, la fusione del microcosmo umano con il macrocosmo divino. Il germe dell’uomo che innesca il germe dell’universo. Il finale della pellicola riecheggia in modo suggestivo un antico testo chiamato Tavola di Smeraldo attribuito a Ermete Trismegisto, in cui viene narrata simbolicamente l’origine del Tutto. Fusco accennò a questa simmetria con Clarke, nel corso del suo incontro, chiedendogli se avesse mai letto la Tavola. Lo scrittore confessò di non averla mai sentita nominare. Quando Fusco gliela recitò (è molto breve, dodici frasi in tutto, tra cui famosissima la prima: “Ciò che è in alto è come ciò che è in basso, e ciò che è in basso è come ciò che è in alto per fare il miracolo della Cosa Unica”), Clarke ne fu impressionato e disse che gli sembrava un resoconto preciso dell’origine del cosmo, da parte di qualcuno che, chissà come, in epoche remote (la più antica testimonianza della Tavola risale al settimo/ottavo secolo di questa era) aveva compreso la necessità della Grande Unificazione, il Santo Graal della fisica, ovvero una formula in grado di unificare la Teoria della Relatività (il macrocosmo) con la fisica quantistica (il microcosmo). Per uno che di alchimia non si era mai interessato, è una straordinaria intuizione.

Chiudiamo con un ultimo ricordo personale, legato all’incontro con Fusco cui si è già accennato. Risale a una quindicina d’anni fa. Essendosi recato in India per questioni di lavoro, Fusco non sì fece sfuggire l’occasione di recarsi anche nello Sri Lanka, a trovare Clarke nella sua villa, situata su una collina a cui si arriva per una strada piuttosto scoscesa. Fusco era già da molti anni in corrispondenza con Clarke, ed anzi, poco più che ragazzetto, gli aveva inviato una lettera avvertendolo che in Italia i suoi libri erano apparsi, fino ad allora (parliamo dell’inizio degli anni Sessanta) in traduzioni pesantemente massacrate da tagli ed equivoci. Clarke se ne infuriò e mandò una lettera all’editore intimando che le ristampe eventuali dei suoi libri fossero corrette, come poi avvenne. Anche per questo, lo scrittore fu lieto di conoscere di persona il suo corrispondente.

Bene, Clarke era come lo si poteva immaginare: un inglese che più inglese non si può, di una cortesia che più cortesi non si può, e di una conversazione incredibilmente spiritosa. Dopo un’oretta di piacevoli chiacchiere, invitò Fusco a un giro nel giardino della sua villa: un itinerario incantato tra profumi esotici, piante lussureggianti, fiori enormi dagli splendidi colori. Giunto al centro, si fermò e con un ampio gesto della mano e un sorrisetto ironico, esclamò: “Odissea nelle spezie” (in inglese: A spice odyssey). La battuta doveva piacergli molto, perché a quanto pare la ripeteva praticamente ad ogni suo ospite. Comunque sia, questa è l’immagine di Arthur Clarke che ci è più cara: un gentile e ironico profeta nel giardino del paradiso.

Gianfranco de Turris

Sebastiano Fusco

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Clarke & Pohl: Pohl

ottobre 18th, 2012

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Mister fantascienza, l’uomo

che ha vissuto per intero

il secolo della sf

 

Nato nel 1919, sposato cinque volte (la sua terza moglie è stata Judith Merrill, grande antologista e scrittrice di fantascienza), attivo fin dagli anni Quaranta come autore, agente letterario e curatore di collane, Frederik Pohl è sinonimo di fantascienza americana come pochi altri scrittori. Nella prima parte della sua carriera pubblica sotto una fitta varietà di pseudonimi e collabora con altri membri della società del “Futurians”, nata a New York per raggruppare gli appassionati e autori dell’epoca: particolarmente fruttuoso si rivelerà il sodalizio con Cyril M. Kornbluth, un autore chiave degli anni Quaranta e Cinquanta insieme al quale Pohl scriverà eccellenti racconti. Questi testi sono reperibili oggi in tre antologie: The Wonder Effect del 1962 (tr. it. La civiltà dell’incubo, La Tribuna 1977), Before the Universe and Other stories (1980) e Our Best: The Best of Frederik Pohl and C.M. Kornbluth (1987). Sempre con Kornbluth, Pohl avrebbe dato alla fantascienza del dopoguerra il capolavoro The Space Merchants (1953, I mercanti dello spazio) e altri tre notevoli romanzi: Search the Sky del 1954 (Frugate il cielo, in Urania n.305, 1963;), Gladiator at Law del 1959 (Gladiatore in legge, ediz. più recente Editrice Nord,1989) e Wolfbane,1959 (Il segno del lupo, Editrice Nord 1975).

Nel 1940-41 Pohl entra nel mondo dell’editoria collaborando con Alden Norton alla cura di riviste come “Astonishing Stories” e “Super Science Stories”. Nel 1943 le due testate cessano la pubblicazione; Pohl viene arruolato nell’esercito americano e partecipa alle operazioni alleate in Puglia e Campania, con relativo soggiorno al Vomero (Napoli). Dopo la guerra, e tornato negli Stati Uniti, Fred Pohl diviene agente letterario e quindi assistente di Horace Gold alla direzione di “Galaxy”, una delle due riviste di sf più influenti del dopoguerra. In quel periodo pubblica, insieme con Lester Del Rey, il romanzo Preferred Risk (1955, tr. it. Rischio di vita, Fanucci 1976). Altro fortunato sodalizio letterario è quello con Jack Williamson, in collaborazione con il quale Pohl scrive la trilogia sottomarina Undersea Quest, Undersea Fleet e Undersea City (1954-1958, i primi due usciti su Urania come La città degli abissi e La giungla sotto il mare rispettivamente nel 1955 e 1960) e soprattutto il ciclo delle Scogliere dello spazio, ospitato prima su Urania e quindi raccolto in volume unico dalla Nord nel 1977. I romanzi che compongono il ciclo sono The Reefs of Space del 1964, Starchild del 1965 e Il conclusivo Rogue Star, apparso nel 1969. Sempre con Williamson Pohl dà vita nel 1975 alla prima parte della saga avventurosa The Farthest Star (tr. it. L’ultima stella, Editrice Nord 1978), cui farà seguito nel 1983 Wall Around a Star, riunito col precedente nel volume omnibus The Saga of Cuckoo (1983).

Tra il 1963 e il 1968 Pohl dirige le riviste “Worlds of Tomorrow”, “International Science Fictlon” e soprattutto “If”, una consorella di “Galaxy” che sotto la sua guida conquista per ben tre volte il premio Hugo destinato alla migliore pubblicazione professionale (1966-68). Ma le riviste non sono la sua unica specialità: tra il 1953 e il ’59 Pohl aveva già curato due delle più celebri serie di antologie di fantascienza: Star Science Fiction Stories e Star Short Novels, inaugurando un filone editoriale che nel dopoguerra, con la graduale perdita d’importanza delle riviste a favore del libro tascabile, si sarebbe rivelato determinante.

In proprio Pohl scrive una serie di romanzi che a volte sembrano meno brillanti di quelli creati con Cyril Kornbluth, ma in lui è in atto una maturazione che darà presto notevoli frutti: Slave Ship,1957 (Le navi di Pavlov, Urania l962), Drunkard’s Walk, 1960 (Il passo dell’ubriaco, Editrice Nord 1976), A Plague of Pythons, 1965 (La spiaggia dei pitoni, Editrice Nord 1977), The Age of the Pussyfoot, 1969 (Passi falsi nel futuro, Editrice Nord l971) e The Merchant’s War ,1984 (Gli antimercanti dello spazio, Interno GialIo 1991). Quest’ultimo libro rappresenta il seguito ideale dei Mercanti scritto nel ’53 con Cyril Kornbluth.

Nel 1976 il nostro pubblica sul “Magazine of Fantasy and Science fiction” il romanzo Man Plus (Uomo più, Editrice Nord l977), cui fa seguito nel 1979 JEM: The Making of a Utopia (tradotto come JEM, la costruzione di un’utopia dall’Editrice Nord, 1981). Quello stesso anno pubblica ancora Cool War (Guerra fredda, Editrice Nord 1982) e inaugura la fortunata serie di Gateway (La porta sull’infinito, Editrice Nord 1979), cui seguono Beyond the Blue Event Horizon (Oltre l’orizzonte azzurro, Editrice Nord l982), Heechee Rendezvous (Incontro con gli Heechee, Editrice Nord l984), The Annals of the Heechee (Gli annali degli Heechee, Editrice Nord 1987), la raccolta di racconti The Gateway Trip (1990) e ancora The Boy Who Would Live Forever (2004). Nel 1982 Pohl espande il racconto vincitore del premio Hugo “The Gold at the Starbow’s End” (l972) nel romanzo Starburst (Alla fine dell’arcobaleno, Editrice Nord 1983). Nell’83 ripete l’operazione con il bellissimo racconto del 1954 “Il morbo di Mida”, ricavandone il romanzo The Midas Plague. Nel 1984 racconta un’immaginaria storia di New York nel futuro con The Years of the City (Gli anni della città, Editrice Nord 1985). Del 1986 sono The Coming of the Quantum Cats (L’invasione degli uguali, Editrice Nord 1987) e il romanzo fantapolitico Terror, nel quale, per effetto di esperimenti nucleari, si scatena una catastrofe planetaria. Sul tema delle catastrofi Pohl torna nel 1987 con il realistico Chernobyl. I romanzi successivi rivelano un Pohl al pieno delle sue capacità creative, che volentieri torna allo humour nero e alla satira pungente delle sue opere più caustiche: Black Star Rising (l985), Narabedla Ltd (Narabedla, Sperling & Kupfer 1988), The Day the Martians Came, 1988 (Il giorno dei marziani, Sperling & Kupfer 1989), Homegoing,1989 (Il lungo ritorno in Urania n. 1289,1996) e The World at the End of Time, 1990 (Il mondo alla fine del tempo, Sperling & Kupfer 1993).

I racconti brevi di Pohl sono raccolti in una nutrita serie di antologie: Alternating Currents (l956), The Case Against Tomorrow, 1957 (Processo al domani in Galassia n.53, La Tribuna 1965), Tomorrow Times Seven (1959), The Man Who Ate the World (1960), Turn Left at Thursday (1961), The Abominable Earthman (1963), The Best of Frederik Pohl, 1975 (come Il tunnel sotto il mondo e Il marziano in soffitta, rispettivamente in Urania n. 802 e 804, l979).

Di notevole importanza l’autobiografia The Way the Future Was, 1978, in cui Pohl ricostruisce con cura e nostalgia il mondo della fantascienza attraverso quattro decenni cruciali. Non c’è pericolo di sovrastimare l’importanza di Frederik Pohl, sia come romanziere che come editor. Colto e mordace, dotato di un notevole senso dell’umorismo, si è trovato a suo agio tanto nel genere “sociologico” che lo ha reso famoso negli anni Cinquanta – in collaborazione con Kornbluth – quanto nelle storie avventurose scritte con Jack Williamson o nei numerosi romanzi in proprio. Negli anni Ottanta e Novanta Pohl ha dimostrato ancora di sapersi rinnovare e di poter offrire at lettore una fantascienza di alto livello, sia dal punto di vista delle idee sociali, che da quello delle audaci concezioni scientifiche e del puro divertimento. Ha coronato la sua carriera scrivendo, con Arthur C. Clarke, L’ultimo teorema che qui presentiamo, un romanzo sul quale il coautore americano si è espresso così: “Come progetto è nato poco più di quindici anni fa, quando, durante un viaggio in Italia, sono uscito dagli scavi di Pompei e ho detto a mia moglie: ho una grande idea per un libro, Pompei trasformata in un parco a tema. Proprio allora è arrivata l’offerta di Arthur per collaborare a The Last Theorem e ho messo da parte il mio libro ‘a solo’: è uscito in seguito, con il titolo Pompei. Questo perché Arthur aveva una data di consegna programmata, io no. Personalmente, preferisco non firmare un contratto prima di avere già scritto il libro, odio le date di consegna… Il libro racconta l’ossessione di un uomo per la matematica e il metodo scientifico.”

 

G.L.

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Urania 1952-2012 prima parte

ottobre 9th, 2012

La famiglia Mondadori (Arnoldo, il figlio Alberto e l'editore Valentino Bompiani, con le signore)

Urania 1952-2012

Ovvero, come la macchina del tempo non si è mai fermata

Ottobre 1952: sessant’anni fa usciva il primo numero dei “Romanzi di Urania”. Novembre 1952, a distanza di un mese appariva nelle edicole anche “Urania” rivista. Per festeggiare la ricorrenza, vi anticipiamo quattro momenti della lunga avventura editoriale delle nostre collane. Il tutto dalle pagine del volume Il futuro alla gola: una storia di Urania 1952-2012 di Giuseppe Lippi che uscirà all’inizio del 2013 (per gentile concessione dell’editore Profondo Rosso, Roma).

Omaggio a Monicelli

Il re Giorgio

Nel raccontare la storia della nostra collana, molto spazio è stato dedicato alle figure dei fondatori, in primo luogo Giorgio Monicelli (1910-1968) che ha curato la rivista “Urania” e i suoi “Romanzi” fin dal 1952, partendo da un progetto che gli stava a cuore dall’anteguerra. Ma benché la figura di Monicelli sia diventata giustamente leggendaria, come quella di un Jules Verne o almeno uno Hugo Gernsback dei nostri lidi, non bisogna dimenticare che ben difficilmente un giornalista solitario ― per quanto nipote di Arnoldo Mondadori ― avrebbe potuto varare una nuova linea editoriale di successo. E’ per questo che va dato il giusto credito ad Alberto Mondadori (1914-1976), secondo figlio di Arnoldo e cugino di Monicelli, che fiancheggiava il padre nella direzione della casa editrice al tempo della rinascita. Nell’Italia di Giorgio Monicelli e Alberto Mondadori, si decise di varare non una, ma due collane di fantascienza: “Urania” sarebbe stata una rivista di racconti e rubriche; una collana parallela, “I romanzi di Urania”, avrebbe ospitato i testi più lunghi. Furono questi ultimi ad uscire per primi il 10 ottobre 1952, al prezzo di 150 lire per 160 pagine; la rivista di racconti avrebbe visto la luce il mese dopo. Il direttore responsabile delle due testate era Gino Marchiori, il curatore Monicelli. L’editor o meglio il publisher ― se volessimo usare in anticipo questi termini aziendali molto più recenti ― era Alberto Mondadori (che, in qualità di editore, non figurava nel tamburino redazionale). Per il momento “Urania” non aveva una redazione vera e propria: oltre ad esserne curatore, Giorgio Monicelli ne era anche redattore letterario e a volte traduttore. In seguito, i compiti più tipicamente redazionali sarebbero stati affidati ad Andreina Negretti, a sua volta abile traduttrice, che rimase l’unica responsabile del lavoro quotidiano dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, quando venne affiancata da Lea Grevi e poi da Marzio Tosello.

Ma per tornare ai tempi eroici di Monicelli, diremo subito che “Urania” rivista non fece presa come si era sperato e cessò le pubblicazioni nel dicembre 1953, dopo appena quattordici numeri. E’ un peccato, perché la formula della rivista di racconti avrebbe permesso di trasmettere appieno l’impatto della science fiction moderna, che negli anni Cinquanta aveva la sua punta di diamante nel racconto breve. Storie mature sul piano stilistico, ingegnose e spesso paradossali venivano pubblicate ogni mese nella moltitudine di riviste anglo-americane: in Italia se ne sarebbe avuta la prova definitiva qualche anno più tardi, con l’antologia di Sergio Solmi e Carlo Fruttero Le meraviglie del possibile (Einaudi, 1959). Nei quattordici numeri di “Urania” rivista sono raccolti numerosi capolavori della fantascienza: racconti come “Le maschere” di Fritz Leiber, “Terrore” di Richard Matheson, “Esodo nero” di Ray Bradbury (un episodio delle Cronache marziane), una versione breve di Fahrenheit 451 pubblicata con il titolo Gli anni del rogo, “L’ultimo marziano” di Fredric Brown, “I mangiatori di loto” di Stanley G. Weinbaum (un classico degli anni Trenta sempre fresco e attuale, o rara avis). Inoltre, la rivista mondadoriana avrebbe tradotto la produzione corrente di scrittori come John Wyndham, Katherine MacLean, John D. Macdonald, Damon Knight, Frank G. Robinson, Murray Leinster, Clifford Simak e Isaac Asimov, tolta dai mensili americani “Astounding Science Fiction”, “Amazing Stories”, “The Magazine of Fantasy and Science Fiction” e soprattutto “Galaxy”. Su “Urania” rivista non ci sono state concessioni alla nostalgia, al passato remoto, a velleitarismi di alcun genere. Il vezzo principale è consistito nel pubblicare, talora a puntate, romanzi per ragazzi come I vampiri di Venere apparso nel primo numero: un testo che, per quanto scritto da un noto astronomo come Philip Latham, venne condensato nella versione italiana ed era del resto, fin dall’origine, un prodotto per giovanissimi.

Si è dunque trattato di una bella e precoce pubblicazione soffocata dalla sorella maggiore, la collana di romanzi che avrebbe finito per surclassarla. Se “I romanzi di Urania” attecchirono è perché si diedero alla robusta forma dell’intrattenimento generale, del romanzo d’azione oltre che di idee. Ed escono tuttora, benché con il n. 153 del giugno 1957 la testata sia diventata “Urania” tout-court. L’ultimo numero firmato da Giorgio Monicelli come curatore è stato il 267, nell’ottobre 1961. Ma chi era il leggendario pioniere dei “Romanzi” e probabile inventore del neologismo “fanta-scienza”? Com’era cominciata la sua meteorica carriera? Le cose stanno così: Arnoldo Mondadori aveva cominciato l’attività editoriale insieme all’amico Tomaso Monicelli e ne aveva sposata la sorella, Andreina. A Tomaso erano nati due figli, Giorgio e Mario, sia pure da diversa madre. Giorgio, futuro fondatore di “Urania”, era un figlio illegittimo dell’attrice Elisa Severi e sarebbe cresciuto in casa dei Mondadori, sotto le cure personali della zia Andreina. Era nato a Tradate il 21 maggio 1910, sarebbe morto a Milano il 20 novembre 1968. Dalla prima moglie, Italia Buzzi (sposata nel 1937), aveva avuto tre figlie: Diana, Fede ed Eva. In seguito aveva abbandonato la famiglia per andare a vivere con Maria Teresa Maglione, detta “Mutti”, che collaborava con lui in campo editoriale e avrebbe tradotto numerosi romanzi sotto pseudonimo.

In un’intervista raccolta per “Urania”da Lorenzo Codelli nel 1997, il regista Mario Monicelli ci ha lasciato il seguente ritratto del fratello: «Giorgio era più grande di me di sette od otto anni: tra noi c’è un altro fratello, Franco, poi vengo io e quindi Mino che ne ha quasi cinque meno di me. Voglio precisare che Giorgio era figlio di un’altra madre, un’attrice teatrale molto nota ai primi del Novecento: mio padre aveva avuto con lei una relazione, ma la signora non aveva mai voluto sposarlo. Ricordo che da ragazzo andavo spesso a trovare Giorgio in casa dell’altra signora. Mio fratello aveva soltanto la licenza liceale, non so se si fosse mai iscritto all’università; trovò presto da guadagnare come traduttore e mio padre, da parte sua, aveva altre gatte da pelare, per cui non fece sforzi particolari per convincerlo a continuare gli studi. Giorgio è entrato alla Mondadori e piano piano si è fatto strada. Ha curato diverse collane e per la “Medusa” ha scoperto molte belle cose. Prima della guerra ha diretto anche dei settimanali, tra cui, mi pare, uno dedicato alla narrativa poliziesca che si chiamava “Il cerchio verde”. Era un appassionato di astrofisica, leggeva trattati divulgativi e ricordo che nei primi anni Trenta voleva spiegarmi la relatività di Einstein, una cosa che non capiva neanche lui! Credo che “Urania” sia nata da questa passione, Giorgio aveva avuto l’intuizione che dovesse essere una collana popolare. Leggeva l’inglese e quindi aveva a disposizione testi che non arrivavano in Italia. Traduceva anche, ma non parlava né capiva la lingua viva: aveva imparato l’inglese sulla carta e leggeva quei segni come fossero il sanscrito…

«Per cominciare, e prima di collaborarvi stabilmente, Giorgio acchiappò da Mondadori qualche traduzione dal francese; in seguito si trasferì a Milano ed entrò nella casa editrice come correttore di bozze e traduttore. Mio fratello era considerato un artista, un rompiballe; come il suo amico Cesare Zavattini non voleva orari fissi, arrivava in ritardo e perciò veniva continuamente multato. Facevano strani scherzi, da goliardi, come attraversare la stanza del direttore editoriale a piedi scalzi! Contrariamente a Zavattini, mio fratello non ha mai potuto o voluto fare lo scrittore vero e proprio. Aveva provato a scrivere qualche racconto, ma non ne era rimasto soddisfatto; io stesso ne ho letti un paio, ma erano cose truci piene di gente complessata che si uccideva. Comunque, ebbe sempre un certo rimpianto per questo abbandono. Giorgio passava le sue nottate con un tipo ancora poco considerato nell’ambiente, Giorgio Scerbanenco, giornalista e autore di racconti gialli ambientati a Milano in un’epoca in cui si doveva ambientare tutto in Inghilterra o chissà dove. Frustrati, gran bevitori di vino tutti e due, la sera erano sempre ubriachi, in quegli anni anteguerra. Durante la guerra mio fratello Giorgio entrò in una formazione partigiana; per un anno o due fu anche questore di una città importante, Varese mi pare. Alla liberazione del Nord tornò in ditta: Arnoldo Mondadori, durante il conflitto, era scappato in Svizzera per paura di requisizioni o sequestri, ma ora l’attività si andava riorganizzando. Voglio ancora dire che mio fratello è stato il primo ad aver tradotto in ltalia Malcolm Lowry, anche se quando lo scrittore venne in ltalia per conoscere il suo traduttore, i due non riuscivano a comunicare! Allora si misero a bere barbera e a sghignazzare, insieme a Scerbanenco, come si può immaginare. Giorgio è morto prima di aver compiuto sessant’anni, di cirrosi epatica…”

Giuseppe Lippi

(1 – continua)

L'illustratore Kurt Caesar

Un intervento di Giuseppe Lippi sul portale Mondadori

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Isaac Asimov e il sarto

settembre 10th, 2012

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Nel 1966 «Urania» (“la più famosa collana di fantascienza”) si presentava nella miglior veste tipografica della sua lunga carriera. Un rombo colorato in alto a sinistra – definito tecnicamente losanga – portava impresso il nome della testata e la gloriosa specificazione da noi messa pudicamente tra parentesi. Alla destra del rombo, il cui colore cambiava di settimana in settimana e si intonava con quello delle copertine, campeggiavano il titolo del volume e il nome dell’autore. Al centro, su fondo bianco e racchiusa in un cerchio dal bordo rosso, una straordinaria illustrazione di Karel Thole che mozzava il fiato. No, non era soltanto questo: le illustrazioni di Thole facevano capire (è una questione di gusto) che altrove, da qualche parte, il mondo era misterioso, bello o straordinario. Che c’era posto per per il grottesco, l’erotismo e il terrore. Quanta intelligenza e raffinatezza racchiudessero quei perfetti cerchi è risaputo, ormai, in ogni angolo della terra. Ma nel 1966 pensavamo di essere ancora in pochi a condividere quel mondo tenebroso, a trarre profitto dall’insegnamento mostruoso del Maestro, il cui apocrifo vangelo di natività apocalittiche, mutazioni esagerate, piaghe d’Egitto rivedute e corrette con inesauribile fantasia, sodome e gomorre, accoppiamenti naturali e innaturali, non finiva di deliziarci.

Nel 1966, in agosto, Karel Thole pubblicò una delle copertine più memorabili di quell’estate. Vi si vedeva un uomo anziano che inciampava in un bambolotto, uno di quei bambolotti d’una volta che quando erano nudi, senza capelli o senza una mano (come nel caso immaginato dal nostro pittore), mettevano decisamente l’angoscia. Sia l’uomo che la bambola sembravamo volteggiare in uno spazio immateriale, impossibile, e guardando il contesto si capiva subito perché.

L’uomo e la bambola erano sospesi fra due paesaggi totalmente diversi ma inspiegabilmente contigui. Il bambolotto sembrava intenzionato a morire sull’asfalto del paesaggio più riconoscibile e terrestre, anzi, forse era già morto. L’uomo (in giacca e presumibilmente cravatta, un orecchio messo in evidenza dalla straordinaria calvizie, non un pelo su tutto il cranio) stava invece trascolorando, trasumanando nell’Altrove. Nel lato destro della tavola, quello agghiacciante del bambolotto, campeggiavano ancora i tranquillizzanti grattacieli di Chicago, benché simili a Torri di Babele sovrastate da nembi apocalittici; nel lato sinistro, preponderante (le due metà del disegno non sono perfettamente simmetriche), ribolliva e sbocciava dal nulla una visione, sorprendentemente colorita, del caos. Sarebbe confortante poter dire che quelle sagome erano geometriche, quelle figure organiche, che insomma qualcosa le rendesse simili alle forme del nostro mondo: ma era impossibile. Probabilmente l’uomo calvo, Schwartz, aveva varcato una volta per tutte la soglia dei confini della realtà e si era imbattuto – per errore, per caso, per la cieca indifferenza del cosmo – in un universo di Pure Forme, l’iperuranio di un mondo inconcepibile che in quei colori e in quelle aperture conservava le matrici perfette di un’inimmaginabile realtà.

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L’inconsapevole ma sostanziale affinità tra il romanzo e la classica copertina di Thole (e in un certo senso quella di Franco Brambilla per l’edizione attuale, con la sua tensione dell’umano verso il sovrumano) sta nel fatto che questa è la storia di un uomo comune, un piccolo sarto qualsiasi, proiettato in un’avvetura molto più grande di lui. In Paria dei cieli – 1949, il suo primo romanzo – Asimov ci trasporta in un remoto futuro dove mette in scena una tragicommedia sulla questione dell’antisemitismo. È il 1949, teniamolo a mente: la guerra è finita da poco e si sono appena scoperti gli orrori della persecuzione nazista. Asimov, alla sua prima prova lunga dopo gli anni dei racconti brevi e dei pulp, sente di dover dire la sua e lo fa scopertamente, senza usare quel più sottile reticolo, quella grana meno grossa dei romanzi successivi. Nonostante il tono un po’ didascalico, tuttavia, Paria è un buon romanzo che tiene ancor oggi: e se non tutti i personaggi di contorno hanno le sfaccettature che l’autore intendeva attribuire loro (il Procuratore, novello Ponzio Pilato, lo scienziato pentito Shekt eccetera), la figura centrale di Schwartz, il sarto ebreo proiettato nell’avvenire per scoprirsi ancora una volta paria, ma che diventerà l’asso nella manica del libro, è sicuramente ben disegnata. Notevole anche il risvolto superomistico, che Asimov sottrae agli avversari di campo (Nietzsche eccetera) e che, grazie alle qualità democratiche della sua fantascienza, proietta tranquillamente sull’eroe quotidiano. È un importante luogo fantascientifico quello per cui il reietto, il perseguitato, può in realtà nascondere poteri superiori, anzi è un luogo della fiaba e del fantastico in generale. Nella fantascienza a volte si viene perseguitati proprio perché si è “super” (come in Slan di A.E. van Vogt), ma il più delle volte la persecuzione avverrebbe comunque e i poteri extranormali permettono all’eroe di riscattarsi. Essi sono, in altre parole, l’equivalente della sua dignità.

È probabile che il tema del superuomo nasca in fantascienza dal bisogno di controbilanciare – con la complicità del darwinismo – il diffuso senso d’inadeguatezza dell’uomo in una società tecnologica; eppure uno degli autori che hanno meglio affrontato il tema, a parte l’esempio ormai storico di Olaf Stapledon (Odd John), è Theodore Sturgeon, che non è tanto interessato alla superiorità quanto alla diversità dei suoi eroi. Paria dei cieli dibatte vari problemi connessi al razzismo, ma è evidente la volontà di Asimov di stemperare (fino a un certo punto, almeno) la terribile lacerazione cui si trovarono di fronte i tanti piccoli ebrei dopo la catastrofe della guerra. In ogni modo, nella bella scena conclusiva la solitudine di Schwartz è l’implicita dimostrazione che non è possibile lasciarsi indietro il passato.

Paria dei cieli forma, con Le correnti dello spazio e Il tiranno dei mondi, una trilogia che si svolge nello stesso universo delle Fondazioni e che in un certo senso prepara le vicende della celeberrima saga galattica. In questo romanzo, e negli altri due citati, siamo in un’epoca precedente a quella descritta nella serie delle Fondazioni (v. sotto), quando Trantor è ancora la capitale dell’impero e duecento milioni di mondi fanno parte della gigantesca confederazione. La sequenza storica è dunque completa.

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David Ambrose, esiste “io”?

settembre 10th, 2012

Uno scrittore inglese raccoglie

la classica sfida sulla realtà

del mondo. A modo suo…

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Quando diciamo ‘io’, tutti crediamo di sapere quel che intendiamo. In realtà, è una parola che si trova al centro dei più accaniti dibattiti di filosofia e neuroscienze, due campi ormai limitrofi. La sensazione soggettiva che ci viene dal buonsenso è che ‘io’ si trovi dentro il cervello, protetto da una scatola cranica: ma dove esattamente? Anche se l’io potesse venire individuato fisicamente, e non può, il problema teorico rimarrebbe. La concezione occidentale dell’io vuole che esso ‘nasca al mondo’, mentre per gli orientali è meglio dire che nasce dal mondo e non conviene tentare un’opposizione tra i due piani, perché sarebbe fonte di infinite nevrosi. Molto meglio armonizzare l’individualità con l’ambiente di cui fa parte, come avviene per piante e alberi. Ma alcuni filosofi occidentali si sono spinti ancora più in là, teorizzando che l’io semplicemente non esista e che si tratti di un residuo del dualismo cartesiano fra cervello e pensiero, quando il secondo era visto come lo ‘spirito’ racchiuso nel primo. Secondo la loro interpretazione, l’io non sarebbe altro che un ‘punto focale narrativo’ nell’incessante attività cerebrale”.

In questo articolo scritto per il quotidiano inglese “The Independent”, David Ambrose mette il dito non soltanto su un problema centrale della coscienza, ma sul dilemma che occupa gran parte della sua narrativa. Non a caso lo scrittore inglese è stato definito il più brillante miscuglio di Alfred Hitchcock e Stephen Hawking, perché i suoi thriller riguardano il rapporto tra mondo e individuo, e la soluzione del mistero consiste nel far luce sulla percezione della realtà. Fantascienza pura, si direbbe nella lingua che ci è più cara, quella del “se”… Ambrose è nato nel 1943 e ha studiato legge a Oxford. Famoso per la sceneggiatura di The Survivor (il film diretto da David Hemmings tratto da un vecchio romanzo di “Urania” di James Herbert), ha scritto una ventina di copioni cinematografici e numerosi romanzi di successo, da questo Man Who Turned Into Himself a Superstizione e La madre di Dio, pubblicati in Italia da Meridiano Zero. Ma nel suo interessantissimo sito, che si può consultare all’indirizzo http://www.davidambrose.com/, vi sono altre chicche per il lettore dai gusti speculativi. Per commentare il romanzo Il fascino discreto di Charlie Monk, ad esempio, eccolo farsi avanti con un articolo dal titolo estremamente problematico: “La realtà è oggettiva?”. In proposito, lo scrittore inglese ha qualche dubbio e leggendo i suoi romanzi, noi con lui. Tuttavia osserva: “Non possiamo dimostrare che la realtà esista ed è quella che percepiamo, ma non importa. Anche se avessimo immaginato tutto, le cose di cui facciamo esperienza sarebbero le stesse che se ci venissero da fuori”. (Tra parentesi, questo era il messaggio di un altro grande della sf già negli anni Cinquanta: Fredric Brown.)

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Se non fosse che la voga dilagante, prepotente e ossessiva del noir ha imposto di etichettare sotto questa specie anche i romanzi geometrico-fantastici di Ambrose – i quali, beninteso, sono anche tesissimi thriller – potremmo incoronare in lui il degno erede di Michael Crichton e dei migliori autori di fantascienza “vera” dei nostri giorni. Quella che all’inizio nemmeno sembrava sf, ma le cui incognite possono essere risolte solo alla luce della x che rappresenta la quarta dimensione. D’altronde, a “Urania” non importa e non è mai importato il falso problema delle incasellature: “L’etichetta è oggettiva?” Quasi certamente no. Quello che conta è il mistero.

G.L.

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Peter F. Hamilton e il mistero del Vuoto

agosto 6th, 2012

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Nato il 2 maggio 1960 a Rutland, in Inghilterra, Hamilton ha esordito con un racconto pubblicato sulla rivista “Fear” nel 1989. La sua fama è stata tuttavia decretata dal romanzo La crisi della realtà del 1996 che, insieme a L’alchimista delle stelle (1997), Il dio nudo (2000) e al romanzo breve “Escape Route” (1997), forma uno dei più grandi cicli avventurosi della storia della fantascienza, la “Night Dawn Trilogy” (l’Alba della notte), da noi tradotta nell’arco di ben dieci volumi di “Urania”.

Sono quindi seguiti i due romanzi Pandora’s Star (2004) e Judas Unchained (2005), che formano il dittico del Commonwealth. Nello stesso scenario saranno ambientati i tre romanzi della trilogia del Vuoto: Il sogno del Vuoto (2007), Il tempo del Vuoto (2008) e il terzo romanzo che qui presentiamo, L’evoluzione del Vuoto (2010). The Dreaming Void si apre milleduecento anni dopo gli avvenimenti descritti nel romanzo Judas Unchained, in cui Hamilton aveva raccontato la terribile guerra fra l’umanità e gli extraterrestri che vivono su due stelle misteriose a mille anni luce dal Commonwealth. Le stelle, battezzate Dyson Alpha e Dyson Beta perché erano letteralmente scomparse dallo spazio e inglobate in una sfera di Dyson, sono cadute in mano ai Prime, intelligenze immobili che si servono di schiavi deambulanti per assoggettare gli altri mondi. Dotatasi di nuove armi quantiche in grado di trasformare la materia inerte in energia (e quindi distuggere interi pianeti), l’umanità passa al contrattacco e sgomina le forze degli invasori. E’ da questo quadro complesso che sboccia, dodici secoli più tardi, l’azione di The Dreaming Void. Il Vuoto è una zona artificiale dove le leggi fisiche sono diverse da quelle dello spazio ordinario: pare che sia stata costruita miliardi di anni fa dalla prima razza intelligente apparsa nella galassia. Le razze più antiche la temono perché di tanto in tanto si verifica una fase di espansione in cui l’anomalia inghiotte le stelle vicine per decine di anni-luce.

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A sovvertire l’immagine negativa del Vuoto è però giunto un uomo, Inigo, il quale è in contatto con Edeard, che abita all’interno della spettacolosa costruzione, nella città vivente di Makkathran. Inigo sogna progressivamente tutta la vita di Edeard e su tale base fonda il movimento del Sogno vivo, costruendo un duplicato della città che battezza Makkathran 2. I seguaci di Inigo cominciano a preparare il Pellegrinaggio, grande migrazione che dovrebbe portare i fedeli del Sogno vivo all’interno del Vuoto, nella città di Makkathran.

Le razze extraterrestri e la magggior parte dell’umanità sono contrarie al Pellegrinaggio perché temono che scatenerà una nuova fase si espansione del Vuoto. E infatti, alla fine del Sogno del Vuoto vediamo che il confine dell’anomalia ha preso ad allargarsi.

Una delle razze aliene, quella degli Ocisen, ha già inviato una flotta che ha per scopo la distruzione della federazione nota come Commonwealth. Inoltre, all’interno del Commonwealth stesso ciascuno dei gruppi di potere cerca di sfruttare a proprio vantaggio la situazione, e a opporsi a queste manovre tutt’altro che chiare ci sono soltanto l’ammiraglio Kazimir e l’investigatrice Paula Myo, intorno alla quale si aggirano autentici nemici come l’assassina che si fa chiamare la Gatta e dubbi informatori come Troblum.

 

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La storia del Commonwealth e quella di Edeard li portano a capire, ciascuno per ciò che lo riguarda, la natura del Vuoto. Nel Tempo del Vuoto e nel presente, conclusivo L’evoluzione del Vuoto, i mille fili dell’affresco si riuniscono: i Signori Celesti del Vuoto hanno bisogno di un Secondo Sognatore, ma non riescono a trovarlo. Racconto nel racconto: Edeard, colui che la gente chiama il Camminatore sull’Acqua, sa che deve incarnare il ruolo messianico che gli è stato assegnato, battendosi contro i potentati del crimine di Makkathran… In definitiva, i popoli della galassia devono decidere se ostacolare o facilitare il Pellegrinaggio nell’anomalia, che consiste di un indistruttibile “microuniverso” affamato di energia. Penetrare il Vuoto è forse il destino? C’è chi sostiene che si tratti ormai di una necessità.

G.L.

Il sito dell’autore si trova all’indirizzo http://www.peterfhamilton.co.uk/

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Poul Anderson

agosto 6th, 2012

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È ben nota a tutti i lettori di fantascienza la distinzione tra due modi diversi di intenderla e interpretarla: secondo tale distinzione esisterebbe, da un lato, una produzione attenta in particolar modo all’evoluzione della tecnologia, con le sue implicazioni sull’esistenza dell’umanità nel futuro. Come illustre precursore di tale concezione normalmente si cita il francese Jules Verne e, all’interno del genere, il suo stesso fondatore, Hugo Gernsback, che nel romanzo Ralph 124C421 + non sembra far altro che elencare situazioni future generate da invenzioni tecnologiche. Dall’altro lato un manipolo non sparuto di scrittori, prendendo le mosse dalle opere di Herbert George Wells, si propone di lasciare in prospettiva lo sfondo tecnologico e di focalizzare le storie sui valori dei protagonisti, sulle ripercussioni morali, psicologiche, sociali, degli eventi futuri. Tale produzione, definita normalmente “umanistica” per distinguerla dalla consorella, denominata “tecnologica” o “hard sf”, conta tra i suoi artefici personalità di rilievo come Theodore Sturgeon, Ray Bradbury, James Ballard e altri.

Come al solito la verità sta nel mezzo, e lo dimostrano i tantissimi scrittori specializzati che hanno saputo e voluto costruire le loro storie mescolando con efficacia le due componenti: ecco, dunque, la vera “narrativa scientifica”, nella quale il primo termine richiama l’elemento romanzato, il raccontar storie, la fabulazione come riproduzione della realtà, mentre il secondo vi aggiunge, arricchendolo e delimitandolo, il background tecnologico, lo scenario futuristico in cui agiranno i nostri posteri. Poul Anderson, scrittore americano di origine scandinava, nato il 25 novembre 1926 e scomparso il 31 luglio 2001, appartiene a pieno titolo alla categoria di autori che non hanno voluto sacrificare alcuno degli aspetti costitutivi della narrativa fantascientifica, accettandoli e utilizzandoli tutti con buoni risultati espressivi. Anderson si fa notare come scrittore estremamente versatile, capace di svariare indifferentemente nei vari sottogeneri senza mai perdere in brillantezza di risultati. La sua narrativa, che conta decine di romanzi e centinaia di racconti, non appare mai monocorde o noiosa, e i motivi sono molteplici.Intanto, perché Anderson era un uomo di vasti interessi: pur avendo una formazione di base scientifica (era laureato in fisica), non ha mai trascurato anche altri aspetti del sapere, tra cui la storia, la letteratura, la filosofia. A chi gli chiese, un giorno, quale fantascienza preferisse, rispose:

Vorrei che ci fosse ancor più fantascienza tecnologica al livello di Hal Clement o Gregory Benford, semplicemente perché mi piace. Tuttavia, esistono tante altre cose da leggere oltre la fantascienza. Buon Dio, in fondo non ho ancora letto tutte le opere di Aristotele!

D’altra parte, Anderson non ha mai dimenticato che il lettore cerca soprattutto distrazione e divertimento, per cui, fin dalle sue prime prove di scrittore, è stato attento a conferire alle sue storie un marcato carattere d’azione, nella più genuina tradizione della fantascienza (non a caso è stato definito, con un pizzico di esagerazione, l’ultimo erede dell’Età d’oro del genere). Qualche anno fa, poi, rievocando i suoi esordi di giovane autore alle prime armi, egli volle “nobilitare” il racconto d’avventura o di evasione, di solito maltrattato dai critici:

Il racconto d’azione è sempre stato una forma legittima fin dai tempi di Omero, se non da prima ancora. Inoltre, il mio desiderio era di provare tutte le forme narrative possibili.

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Lois Mc Master Bujold

agosto 6th, 2012

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Il nuovo romanzo di Miles Vorkosigan,

ovvero la rinascita della space opera

Nata a Columbus (Ohio, Stati Uniti) nel 1949, Lois McMasters Bujold ha vinto quattro volte il premio Hugo per il miglior romanzo e con la popolarissima saga dei Vor ha dato vita a un classico moderno della sf. Quando nel 1986 uscì L’apprendista, uno tra i primi episodi del lungo ciclo, la nuova space opera emetteva i primi vagiti. Quella vecchia, nel senso di classica, veniva ancora letta dai filologi e dai curatori di collane di ristampe, i quali del resto la rileggeranno a vita. I lettori contemporanei, tuttavia, cercavano sensazioni nuove e non accontendandosi degli exploit di Larry Niven, incoraggiavano apertamente l’avventura spaziale a sfondo morale di Orson Scott Card (che vinse i maggiori premi con il ciclo di Ender), quella scientifica di Gregory Benford, mentre si preparavano ad applaudire i romanzi di David Brin e del coltissimo Iain Banks. L’avventura spaziale, si sa, è un sottogenere che a sua volta ne conta parecchi: c’è quella “puzzolente”, vale a dire logora e desueta, che va bene più che altro per i neofiti; c’è la variante cosmica, dove non è impossibile scorgere un’ambizione metafisica; e c’è la space opera militare, ieri cara a Heinlein e oggi, anni Ottanta, a David Gerrold e Lois McMaster Bujold. Ma i tempi erano cambiati a tal punto che a questi si dovrebbe aggiungere un sottogenere sempre più influente come la space opera televisiva. Dopo due decenni di Star Trek, Next Generation, Battlestar Galactica, Spazio 1999 e quant’altro, l’avventura spaziale aveva ereditato dalla TV un ingrediente che si è dimostrato fondamentale alla fine del XX secolo come lo era stato nella space opera dei primordi: l’accento messo sui personaggi. Cosa sarebbe il ciclo della Legione delo spazio senza i tre formidabili moschettieri del futuro, e in particolare Giles Habibula? E cosa sarebbe la saga di Arcot, Wade e Morey di John Campbell, o il ciclo di Aarn Munro, senza gli eroi eponimi? Per non parlare di Elliott Grosvenor, il protagonista-connettivista di Crociera nell’infinito di A.E. van Vogt. La serie di Miles Vorkosigan, che è diventata ben presto una favorita del pubblico, è stata scritta a partire dal 1983-84 e pubblicata dal 1986 con titoli come L’onore dei Vor e L’apprendista, quest’ultimo pubblicato proprio su “Urania” nel n. 1211 del 1993. L’ultimo titolo, Cryoburn (2010), è il romanzo che presentiamo oggi; come i grandi esempi che abbiamo citato, è imperniata anch’essa su un eroe caratteristico e memorabile, Vorkosigan appunto, malfatto nel corpo (soffre di menomazioni piuttosto gravi) e malvisto dai nemici che conoscono la sua reputazione. Nell’ambiente della fantascienza si capì subito che era spuntato un nuovo talento e che un intero genere – quello della space opera militare, o d’intrigo – sarebbe risorto dalle ceneri con nuovo orgoglio e nuove cose da dire. I numerosi titoli di cui si compone la serie, indipendenti l’uno dall’altro e leggibili in modo autonomo, hanno confermato questa impressione. Vorkosigan è un personaggio credibile, addirittura realistico nelle sue avventure e sventure, cui il pubblico si affeziona. Il futuro galattico in cui si muove è ben circostanziato e Lois McMaster Bujold dimostra di essere l’autrice che più di tutti ha saputo traghettare un certo tipo di sf classica verso le esigenze dela produzione moderna. Quali sono queste esigenze? Innanzi tutto la serialità e in secondo luogo l’ampio respiro di ogni romanzo, che non solo racconta una lunga avventura ma costituisce un affresco, se il termine non sembra troppo abusato, di un angolo di galassia e di un aspetto della civiltà interstellare che si svilupperà in un domani barocco e tuttavia ancora riconoscibile.

In passato, “Urania” non ha potuto avvicinarsi ai capitoli sempre più lunghi della saga bujoldiana per ragioni di mole e perché i diritti erano ormai detenuti da altri editori, ma oggi, compiendo uno sforzo non indifferente, si è assicurata la ristampa de I due Vorkosigan – uno dei titoli più ricercati della serie, apparso all’inizio dell’anno in “Urania collezione” – e del recente Cryoburn (2010), l’inedito che proponiamo qui. Ne I due Vorkosigan la lotta fra due fratelli, e quindi fra Miles e la sua immagine “potenziata”, è il filo conduttore di un’aspra vicenda che sembra riecheggiare i classici del romanzo d’intreccio. Nello stesso tempo, I due Vorkosigan è davvero una grande space opera, dove il vorticare della galassia si sente anche nelle scene e nelle situazioni più claustrofobiche.

Cryoburn è il nuovo capitolo della saga e dipinge un’invenzione tra le più allettanti della sf (e della letteratura di sempre): la vita eterna. La criocamera inventata dagli esseri del pianeta New Hope II, i cosiddetti Kibou-daini, può resuscitare i morti recenti. Fin qui il miracolo: ma ai Kibou-daini non basta, giacché vogliono trasformare la loro scoperta nella prima franchise per sconfiggere la morte. L’invenzione – che intendono commercializzare in tutta la galassia – insospettisce però Vorkosigan, anche perché se tutti pretendessero di vivere all’infinito, qualcosa nel “turnismo dell’esistenza” prima o poi s’incepperebbe. Non a caso su New Hope ci sono grossi problemi, e la camera della vita rischia di suscitare effetti incontrollabili sul mondo stesso che l’ha generata. Un romanzo ad ampio respiro, ricco di situazioni e particolari interessanti e non solo di colpi di scena; il capitolo maturo di una serie da tempo ai vertici della fantascienza attuale.

G.L.

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Harry Harrison

luglio 14th, 2012

Il grande autore di Largo! Largo!

e di Galaxy Rangers torna ai lettori

con il suo personaggio più famoso

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Nato nel Connecticut come lo yankee di Mark Twain, Harry Harrison (classe 1925) è un grande della fantascienza moderna che riproponiamo con l’ultima avventura del suo personaggio più celebre, quel Jim diGriz che tanto successo ha avuto per anni anche in Italia. Noto con il nome di battaglia del Ratto d’acciaio inossidabile (“ratto” nel senso di manigoldo, sorcio e approfittatore), dal 1961 vive una serie di avventure rocambolesche in cui è dipinto come un epico avventuriero delle stelle dai mezzi molto spicci, un “masnadiero” che non fa rimpiangere né Il vagabondo dello spazio di Fredric Brown, né i più tremendi “pirati” della recente letteratura cyberpunk. A parte la personalità stessa di Jim, un uomo duro ma comprensivo, che sa essere spietato e giusto a modo suo, la serie offre il destro ad Harrison per descrivere tutta una serie di ambienti pittoreschi, di situazioni corrosive – al limite della satira di costume – e di personaggi di contorno molto umani, come era, soprattutto nei primi racconti della serie, la compagna di Jim, Angelina. L’humour che si confà ad Harrison, tuttavia, non è fine a se stesso né tantomeno distruttivo: sotto, batte un cuore innamorato delle cose che mette alla berlina. Lo dimostra un altro fortunato romanzo harrisoniano che abbiamo tradotto qualche tempo fa sulle pagine di “Urania”, il divertente Galaxy Rangers (Star Smashers of the Galaxy Rangers, 1973), galoppata sui temi della space opera che si rifaceva allo stile dei suoi capolavori satirici, in primo luogo Bill, eroe galattico del 1965, una delle grandi storie di guerra interplanetaria per ridere.

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