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Robert A. Heinlein: il futuro è un maestro di vita

luglio 22nd, 2013

imagesUn autore sempre amato torna con i due tra i romanzi brevi più originali della sua carriera

 Robert Anson Heinlein è nato a Butler, Missouri, nel 1907 ed è morto nel 1988. Dopo aver dovuto rinunciare alla carriera di ufficiale navale a causa di una malattia, si è dedicato alla fantascienza e scrivendo sulle riviste di John W. Campbell Jr. (“Astounding” e “Unknown”) è divenuto in pochissimo tempo uno dei suoi maestri moderni. Nel periodo maturo della sua carriera ha firmato alcuni tra i libri per ragazzi più riusciti non solo della science fiction ma di tutta la narrativa avventurosa, come Cittadino della galassia (Citizen of the Galaxy, 1957) e Fanteria dello spazio (Starship Troopers, 1959). Ha affrontato molti temi classici, aggiornandoli: la subdola invasione aliena in Il terrore dalla sesta luna (The Puppet Masters, 1951), il viaggio nel tempo in La porta sull’estate (The Door Into Summer, 1957), il futuro della tecnologia in Waldo (id., 1942); ma ha anche introdotto concetti nuovi, dal confronto tra scienza e magia in Anonima stregoni (Magic, Inc., 1940) all’astronave generazionale di Universo (Orphans of the Sky o Universe, un testo degli anni Quaranta riveduto nel 1963), il cui tema è stato poi largamente sfruttato; fino al capovolgimento in termini della questione razziale in La fortezza di Farnham (Farnham’s Freehold, 1962), romanzo che abbiamo già presentato in versione integrale su “Urania collezione”.

Molti dei suoi racconti, a cominciare dalla “Linea della vita” (1939), possono essere visti come il tentativo di raccontare il futuro storicamente, traendone gli insegnamenti che stanno a cuore a Heinlein e a molti della sua generazione: americani pragmatici, decisi a vincere la Seconda guerra mondiale, a trasformare il mondo in senso tecnocratico e ad amministrarlo come un meccanismo a orologeria. Nei racconti della “Storia futura”– così battezzata dallo stesso Heinlein – vi è la presa di coscienza che l’America è ormai ben altra cosa rispetto ai tempi dei Padri fondatori, ma anche di Abramo Lincoln. Il fatto è che il grande paese si è automatizzato, alterando la propria fisionomia e la volontà che l’accompagna; d’ora in poi la felicità, il diritto all’autorealizzazione, la fede in Dio eccetera non passeranno più per i boschi di Walden o per le riflessioni dei trascendentalisti, ma per le fabbriche, i campi d’aviazione e le catene di montaggio.

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Mike Resnick

febbraio 21st, 2013

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Nato nel 1942 [e morto nel 2020, NdR], scrittore e allevatore di cani, Mike Resnick ha esordito nel 1965 con il romanzo burroughsiano The Forgotten Sea of Mars e per molti anni ha scritto ogni genere di narrativa commerciale, dalla fantasy avventurosa debitrice di Edgar Rice Burroughs (The Goddess of Ganymede, 1967 e Pursuit on Ganymede, 1968) ai libri erotici, invariabilmente firmati con pseudonimi. Questo lungo periodo della sua carriera corrisponde perfettamente al ritratto del “paperback writer” senza soldi e senza speranza cui il mercato in trasformazione degli anni Sessanta-Settanta permetteva di sopravvivere in modo sempre più incerto, e di cui ci hanno lasciato memorabili trasposizioni la canzone dei Beatles (“Paperback Writer”, appunto) e romanzi come Il mondo di Herovit di Barry Malzberg e Addio Sheherazade di Donald E. Westlake. Quest’ultimo è la storia di un romanziere softcore che non sa più cosa inventare per eccitare il suo pubblico fantasma; il primo, invece (da noi ripubblicato la scorsa estate ikn “Urania collezione”), è l’odissea di un autore di fantascienza vecchio stampo che non riesce più a sopravvivere nella giungla dei tascabili ed è messo di fronte al totale sfruttamento della sua creatività.

Tra i romanzi fantascientifici di Resnick, che si è scostato un paio di volte dal genere ma ha sempre finito col ritornarvi, si segnalano Redbeard (1969), un’avventura post-atomica ambientata nella metropolitana di New York, e una novelization della serie Battlestar Galactica scritta dopo una lunga assenza dal settore. Negli anni Ottanta ha dato vita a due cicli avventurosi: i Racconti del Centro Galattico (con i romanzi Sideshow, 1982, The Three-Legged Hootch Dancer, 1983, The Wild Alien Tamer, 1983 e The Best Rootin’ Tootin’ Shootin’ Gunslinger in the Whole Damned Galaxy, 1983) e  i Racconti della Cometa di Velluto (Eros Ascending, 1984, Eros at Zenith, 1984, Eros Descending, 1985 ed Eros at Nadir, 1986). Il primo è ambientato in un luna-park, il secondo in un bordello spaziale.

Più impegnativi i racconti della raccolta Bwana & Bully! (1981), seguiti dai romanzi Ivory: A Legend of Past and Future (1988), Paradise: A Chronicle of a Distant World (1989) e Purgatory (1993), in cui Resnick affronta i problemi del colonialismo in vari paesi dell’Africa trasferendoli su scala interplanetaria. Si inseriscono nella stessa vena Inferno (1994, con lo stesso titolo su “Urania” n. 1257) e i racconti o romanzi brevi “Kirinyaga” (1988) e “The Manamouki” (1990), entrambi vincitori del premio Hugo. Il romanzo breve “Seven Views of Olduvai Gorge” (1994), ambientato in Africa e imperniato sulle origini dell’umanità, ha vinto nel 1995 il premio Nebula per la sua categoria.

Su “Urania” sono già usciti numerosi romanzi di Mike Resnick: The Soul Eater (1981, col titolo Il divoratore di anime nel n. 978, una sorta di Moby Dick in versione fantascientifica), Walpurgis III (1982, con il titolo Il pianeta di Satana, n. 984), The Branch (1984, Il tronco di Davide, n. 990), The Dark Lady, (Ritratto in nero, n. 1092), e i già citati Purgatory (Purgatorio, n. 1253) e Inferno (id., n. 1257).  Il killer delle stelle (Widowmaker, 1995; in “Urania” n. 1449) presenta le avventura di Jefferson Nighthawk, assassino noto su molti mondi con il nome di Fabbricante di Vedove.

Come antologista ha curato, fra l’altro, l’antologia di “recursive science fiction” – storie di fantascienza sul mondo della fantascienza – Inside the Funhouse, da noi tradotta in “Urania” n. 1273 col titolo Fantashow. Starship: Pirate (2006), il romanzo che presentiamo oggi, prosegue l’intensa serie spaziale che ha già prodotto Starship: Mutiny (Gli ammutinati dell’astronave, 2005, da noi pubblicato esattamente un anno fa).

 

G.L.

 

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L’apprendista stregone

febbraio 20th, 2013

Fra gli autori di fantascienza che hanno cominciato a farsi un nome nell’ultima parte del XX secolo, rinnovandone completamente il bagaglio culturale e il modo di scrivere, John Varley è uno dei pochi che siano riusciti a imporsi all’attenzione di pubblico e critica con un relativamente piccolo numero di opere.

Nato a Austin, nel Texas, nel 1947, ha frequentato la Michigan State University prima di sposarsi e di mettere al mondo tre figli; fino al 1973 ha lavorato come scrittore freelance prima di dedicarsi all’arte di scrivere a tempo pieno. Ha pubblicato sia romanzi che numerose raccolte di racconti.

Dotato di un’esuberante inventiva, ricco d’idee e di trovate originali, Varley si è soprattutto imposto per merito della sua narrativa breve, quella in cui s’avverte subito la presenza del vero scrittore di fantascienza.

Il nostro genere è infatti eminentemente basato sulle idee più che sui personaggi, gli scavi introspettivi o le descrizioni liriche. E se tutto questo rimane appannaggio del romanzo mainstream, è altrettanto vero che quello fantascientico offre altre possibilità ai suoi autori, prima fra tutte quella di dispiegare la propria arte al servizio dell’invenzione.

Gran merito del fatto che alcuni romanzi di sf resistano più di altri alle ingiurie del tempo e al mutare dei gusti dei lettori deriva dal fatto, come nel particolare caso di Varley, che ci si trova di fronte a uno scrittore di razza, fornito di quella particolare dote, non a tutti elargita, che fa sì che i suoi libri non vivano di una sola idea ma ne contengano, come un gioco di scatole cinesi, altre che prolificano libere e ricche di stimoli, guidando il lettore in una selva di sentieri.

Nel campo della narrativa breve Varley ha vinto il premio Hugo con il racconto “The Pusher”; nello stesso anno il Locus Award è stato assegnato al romanzo breve Blue champagne, mentre nel 1984 s’è aggiudicato Hugo, Nebula e Locus per un altro romanzo breve, Press Enter, che attualmente sta allargando alle dimensioni di romanzo vero e proprio.

Uno dei punti di forza della sfolgorante affermazione di Varley sta, oltre che nella ricchezza inventiva, anche nella particolare attenzione che rivolge alle nuove frontiere aperte sia dall’esplorazione dello spazio sia dalle scoperte della fisica e della medicina. Nei suoi lavori è facile imbattersi in esseri che sono il frutto di miracoli prodigiosi dell’ingegneria genetica e vivono in habitat spaziali in cui si sente l’influsso della idee di Gerard K. O’Neill, un autore ampiamente citato anche nel primo romanzo di questo ciclo, Titano. Le sue forme di vita aliene  tengono conto dei suggerimenti di Carl Sagan e delle possibili, infinite ricombinazioni del DNA secondo parametri fin qui sconosciuti.

Ma il racconto breve, che pure gli ha dato tante soddisfazioni, a un certo punto ha cominciato ad andargli stretto. Varley ha sentito il bisogno di allargare i propri orizzonti, di spiegare meglio i concetti già espressi ma non affrontati in profondità. Bioingegneria, economia planetaria, ambiente chiuso e artificiale sono i temi di “Addio, Robinson Crusoe”, un racconto del 1975 le cui idee tornano nella serie di Cirocco Jones inaugurata con Titano.

Il primo romanzo di Varley, Linea calda Ophiucus, è del 1977, e riprende il tema degli Invasori già trattato in “Picnic su Lunachiara” (1974) di cui estende i confini. Se nel racconto l’attenzione era focalizzata su un singolo episodio, nel romanzo abbraccia il vasto  problema di un’umanità scacciata dal suo pianeta. Quanto veniva accennato in “Picnic su Lunachiara”, in Linea calda Ophiucus viene ripreso e ampiamente spiegato. Varley dimostra di essere un autore generoso, uno che non s’accontenta di un solo tema attorno al quale ricamare complessi ghirigori, ma che accumula idee e proposte per arricchire il più possibile la propria narrativa. In Linea calda Ophiucus l’umanità non solo ha sviluppato la manipolazione genetica degli uomini oltre che dei vegetali, ma anche la possibilità di trasferire la memoria da un individuo a un nuovo corpo, di fatto sconfiggendo la morte, che diviene così un concetto astratto. Il tutto calato in un’avventura sfaccettata in cui coesistono, con mirabile equilibrio, invenzioni sociali, magie tecnologiche e avventure spaziali.

Varley non può essere certo considerato uno stilista, ma ha un modo immediato di affrontare i problemi, il che fa sì che i suoi romanzi si leggano d’un fiato, perché la fantasia viene continuamente stimolata, anche quando gli argomenti trattati non sembrano originali, come nel caso di Titano, alla cui base c’è l’eterno tema della narrativa statunitense, il viaggio come conoscenza, ricerca e presa di coscienza.

La serie di Cirocco Jones, che s’inizia con Titano per proseguire con Nel segno di Titano e Demon, è in linea con tutta la produzione di Varley: la Terra è sempre vista come qualcosa di remoto, una culla che ci si è lasciata alle spalle, come la giovinezza e le prime esperienze, per vivere la propria vita “altrove”. Un altrove che per Varley è rappresentato soprattutto da mondi chiusi su se stessi, come quelli che s’incontrano nella maggior parte dei suoi racconti e soprattutto in quest’ultima trilogia. Varley sembra avere il bisogno di sentire intorno a sé – e quindi lo costruisce in torno ai suoi personaggi – un mondo che, per quanto vasto, sia protettivo come un ventre materno, le cui insidie siano tutte controllabili o dalle capacità innate del protagonista o da quelle infuse, come accade a Cirocco nelle ultime pagine di Titano. Per quanto sballottati dagli eventi, i suoi eroi hanno sempre la possibilità-capacità di assumerne il controllo, di tenere comunque la posizione di centro in qualsiasi evenienza.

Lo scrittore Ian Watson ha scritto di lui: “Varley è un po’ come un alchimista: muta costantemente il piombo in oro, anche se il piombo spesso è sul punto di tornare ad essere quel che era… e a volte ci riesce”.

 

Marzio Tosello

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illustrAutori del fantastico/2

febbraio 12th, 2013

Franco Brambilla, cartoline dal futuro

Seconda puntata del dossier dedicato ai grandi illustratori della fantascienza e fantastico. E’ il turno di quel Franco Brambilla che ha da poco superato il numero di presenze di Kurt Caesar, risultando così il più prolifico dopo l’inarrivabile Karel Thole.


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Nato a Milano il 23 marzo 1967, fin da piccolo Franco Brambilla si nutre a base di immaginario fantascientifico attraverso libri, fumetti, cinema e televisione: dai romanzi di Jules Verne divorati nelle lunghe estati al mare al Jeff Hawke di Sydney Jordan, dalle visioni di Jean Giraud in arte Moebius e Juan Gimenez ai supereroi, fino alle serie tv britanniche e i multiformi universi dell’animazione giapponese.

Dopo il diploma di maturità scientifica nel 1986 e quello di Illustrazione all’Istituto Europeo del Design nel 1991 (dove incontra Aldo Di Gennaro tra i docenti), inizia a lavorare professionalmente nel capoluogo lombardo presso la società di servizi Edistudio, dove impara i primi rudimenti dell’illustrazione assistita dal calcolatore allora ancora agli albori. In pochi anni realizza migliaia di illustrazioni tecnico-scientifiche per libri di scolastica e divulgazione scientifica, che si concentrano nei periodi invernali e lasciano lunghi periodi di bonaccia creativa. Il giovane scaccia l’inattività ideando i personaggi di Full & Berto, un gatto e un cane che nel 1994 accompagnano i lettori più giovani in quattro volumetti divulgativi per la Fabbri.

Ma la passione per l’illustrazione 3D prende il sopravvento e nel 1998, avviata la collaborazione alle pagine Multimedia per l’inserto “Corriere Economia” allegato al “Corriere della sera” del lunedì, fonda l’Airstudio con Giacomo Spazio (a cui si aggiunge presto Pierluigi Longo), in breve tempo punto di riferimento nella progettazione grafica e nell’illustrazione per le maggiori case editrici italiane, che gli dà modo fino alla chiusura nel 2011 di allargare gli orizzonti in periodici come “Abitare” e “D – la Repubblica delle Donne”. A questo punto, diventa insopprimibile il richiamo alla fantascienza: armatosi di un portfolio con le sue migliori prove, Brambilla decide di puntare subito in alto e proporsi per “Urania” a Giacomo Callo, ancor oggi art director Mondadori. Complice anche la copertina per “Decoder” n.11 dedicata nel 1996 a James Ballard, che viene apprezzata in casa editrice, il colloquio ha buon esito e porta al debutto dell’artista milanese sui “Classici Urania” n.259 nell’ottobre 1998 (per Giove chiama Terra, di Ben Bova) e di lì a poco sulla rinnovata “Urania” con il n.1381 del 2 luglio 2000 (La guerra dei folli, di Sarah Zettel).

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illustrAutori del fantastico

febbraio 12th, 2013

GIUSEPPE FESTINO, IL FUTURO IN BIANCO E NERO

Nato a Castellammare di Stabia (NA) il 22 settembre 1943, seguendo il padre agente di Pubblica sicurezza Giuseppe Festino si trasferisce nel 1947 a Pallanza, frazione di Verbania, e nel 1951 a Domodossola. È sul Lago Maggiore che si appassiona all’illustrazione e ai fumetti, grazie a “il Vittorioso” e le coloratissime copertine di Curt Caesar (all’anagrafe lorena Kurt Kaiser), con dettagliati paginoni tecnico-scientifici.

Dopo il servizio militare, nel 1965 incontra a Milano l’editore Piero Dami che lo indirizza dal fratello Rinaldo noto come Roy D’Amy, che gestisce lo Studio Produzioni Editoriali D’Ami dove Festino lavora per tre anni, facendo pratica e collaborando ai primi dieci volumi della collana “Guarda e scopri gli animali”, progettata per Alberto Peruzzo ma poi edita dalle Edizioni AMZ dal 1966 al 1972. Intanto frequenta i corsi serali all’Accademia di Brera, finché si concentra su altri lavori: l’Enciclopedia Medica DeAgostini, figurine disneyane per l’Editrice Moderna, libri di scolastica per Minerva Italica e qualche copertina di dischi. Registra anche per la Ricordi diretta da Iller Pataccini: la colonna sonora per la trasmissione tv svizzera La trappola, una Barbara Ann in italiano nel 1966 come corista nei Pop Seven con Roberto Vecchioni e un brano di Wilma Goich.

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Sono anni ricchi di fermento, sulla scia della primissima fanzine italiana “Futuria fantasia”, interamente realizzata dal quindicenne Luigi Cozzi nell’ottobre 1962 (ristampata con grafica di Ferruccio Alessandri nel luglio 1963). Al cinema Arcadia di Milano, rinato nel 1969 sulle ceneri del cineteatro Carcano (che tornerà al vecchio nome nel 1980 abbandonando le proiezioni), proprio Cozzi nel maggio e giugno 1975 organizza con Ugo Malaguti un’epocale rassegna di vecchi film di fantascienza, che fa scuola in tutt’Italia. Festino incontra altri appassionati come Angelo De Ceglie e firma le copertine per le riviste “Vox Futura” e “Alternativa”, fino alla più famosa “Robot” diretta da Vittorio Curtoni con articoli di Giuseppe Lippi e Giuseppe Caimmi, dal n.5 dell’agosto 1976 fino al conclusivo n.40 del luglio 1979… oltre al n.1 di “Aliens” (novembre 1979) con gli interni di ogni numero e la collana I Libri di Robot (13 volumi nel 1978-79) per Armenia Editore, i primi 8 volumi della collana I Libri della Paura (1978-79) per SIAD Edizioni e un paio di copertine per la rivista francese “Fiction”. Ma sono soprattutto i disegni interni tratteggiati in bianco e nero per ”Robot”, da cinque a nove in ogni fascicolo, che colpiscono e affascinano per la loro capacità evocativa e il piacevole accompagnamento alla narrazione, contribuendo a trasportare il lettore in una dimensione fantastica ma “più vera del vero”, perché ricreata personalmente da ciascuno a partire dalle atmosfere suggerite nel testo e nelle illustrazioni.

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Pohl & Kornbluth

febbraio 6th, 2013

Frederik Pohl

 

Nato nel 1919, sposato cinque volte (la sua terza moglie è stata Judith Merrill, grande antologista e scrittrice di fantascienza), attivo fin dagli anni Quaranta come autore, agente letterario e curatore di collane, Frederik Pohl è sinonimo di fantascienza americana come pochi altri scrittori.Nella prima parte della sua carriera Pohl pubblica sotto una fitta varietà di pseudonimi e collabora con altri membri della società del “Futurians”, nata a New York per raggruppare gli appassionati e autori dell’epoca: particolarmente fruttuoso si rivelerà il sodalizio con Cyril M. Kornbluth, un autore chiave degli anni Quaranta e Cinquanta insieme al quale Pohl scrive eccellenti racconti. Questi testi sono reperibili oggi in tre antologie: The Wonder Effect del 1962 (tr. it. La civiltà dell’incubo, La Tribuna 1977), Before the Universe and Other stories (1980) e Our Best: The Best of Frederik Pohl and C.M. Kornbluth (1987). Sempre con Kornbluth, Pohl avrebbe dato alla fantascienza del dopoguerra il capolavoro The Space Merchants (1953, I mercanti dello spazio che qui ripresentiamo) e altri tre notevoli romanzi: Search the Sky del 1954 (Frugate il cielo, in Urania n.305, 1963; rist. in Urania collezione n. 120), Gladiator at Law del 1959 (Gladiatore in legge, ediz. più recente Editrice Nord,1989) e Wolfbane,1959 (Il segno del lupo, Editrice Nord 1975).

Nel 1940-41 Pohl entra nel mondo dell’editoria collaborando con Alden Norton alla cura di riviste come “Astonishing Stories” e “Super Science Stories”. Nel 1943 le due testate cessano la pubblicazione; Pohl viene arruolato nell’esercito americano e partecipa alle operazioni alleate in Puglia e Campania, con relativo soggiorno al Vomero (Napoli). Dopo la guerra, e tornato negli Stati Uniti, Fred Pohl diviene agente letterario e quindi assistente di Horace Gold alla direzione di “Galaxy”, una delle due riviste di sf più influenti del dopoguerra. In quel periodo pubblica, insieme con Lester Del Rey, il romanzo Preferred Risk (1955, tr. it. Rischio di vita, Fanucci 1976). Altro fortunato sodalizio letterario è quello con Jack Williamson, in collaborazione con il quale Pohl scrive la trilogia sottomarina Undersea Quest, Undersea Fleet e Undersea City (1954-1958, i primi due usciti su Urania come La città degli abissi e La giungla sotto il mare rispettivamente nel 1955 e 1960) e soprattutto il ciclo delle Scogliere dello spazio, ospitato prima su Urania e quindi raccolto in volume unico dalla Nord nel 1977. I romanzi che compongono il ciclo sono The Reefs of Space del 1964, Starchild del 1965 e Il conclusivo Rogue Star, apparso nel 1969. Sempre con Williamson Pohl dà vita nel 1975 alla prima parte della saga avventurosa The Farthest Star (tr. it. L’ultima stella, Editrice Nord 1978), cui farà seguito nel 1983 Wall Around a Star, riunito col precedente nel volume omnibus The Saga of Cuckoo (1983).

Tra il 1963 e il 1968 Pohl dirige le riviste “Worlds of Tomorrow”, “International Science Fictlon” e soprattutto “If”, una consorella di “Galaxy” che sotto la sua guida conquista per ben tre volte il premio Hugo destinato alla migliore pubblicazione professionale (1966-68). Ma le riviste non sono la sua unica specialità: tra il 1953 e il ’59 Pohl aveva già curato due delle più celebri serie di antologie di fantascienza: Star Science Fiction Stories e Star Short Novels, inaugurando un filone editoriale che nel dopoguerra, con la graduale perdita d’importanza delle riviste a favore del libro tascabile, si sarebbe rivelato determinante.

In proprio Pohl scrive una serie di romanzi che a volte sembrano meno brillanti di quelli creati con Cyril Kornbluth, ma in lui è in atto una maturazione che darà presto notevoli frutti: Slave Ship,1957 (Le navi di Pavlov, Urania l962), Drunkard’s Walk, 1960 (Il passo dell’ubriaco, Editrice Nord 1976), A Plague of Pythons, 1965 (La spiaggia dei pitoni, Editrice Nord 1977), The Age of the Pussyfoot, 1969 (Passi falsi nel futuro, Editrice Nord l971) e The Merchant’s War ,1984 (Gli antimercanti delio spazio, Interno GialIo, 1991). Quest’ultimo libro rappresenta il seguito ideale dei Mercanti scritto nel ’53 con Cyril Kornbluth.

Nel 1976 il nostro pubblica sul “Magazine of Fantasy and Science fiction” il romanzo Man Plus (Uomo più, Editrice Nord l977), cui fa seguito nel 1979 JEM: The Making of a Utopia (tradotto come JEM, la costruzione di un’utopia dall’Editrice Nord, 1981). Quello stesso anno pubblica ancora Cool War (Guerra fredda, Editrice Nord 1982) e inaugura la fortunata serie di Gateway (La porta sull’infinito, Editrice Nord 1979), cui seguono Beyond the Blue Event Horizon (Oltre l’orizzonte azzurro, Editrice Nord l982), Heechee Rendezvous (Appuntamento con gli Heechee, Editrice Nord l984), The Annals of the Heechee (Gli annali degli Heechee, Editrice Nord 1987) e la raccolta di racconti The Gateway Trip (1990). Nel 1982 Pohl espande il racconto vincitore del premio Hugo “The Gold at the Starbow’s End” (l972) nel romanzo Starburst (Alla fine dell’arcobaleno, Editrice Nord 1983). Nell’83 ripete l’operazione con il bellissimo racconto del 1954 “Il morbo di Mida”. Nel 1984 racconta un’immaginaria storia di New York nel futuro con The Years of the City (Gli anni della città, Editrice Nord 1985). Del 1986 sono The Coming of the Quantum Cats (L’invasione degli uguali, Editrice Nord 1987) e il romanzo fantapolitico Terror, nel quale, per effetto di esperimenti nucleari, si scatena una catastrofe planetaria. Sul tema delle catastrofi – imputabili, più o meno direttamente, ai sovietici – Pohl torna nel 1987 con il realistico Chernobyl. I romanzi più recenti rivelano un Pohl al pieno delle sue capacità creative, che volentieri torna allo humour nero e alla satira pungente delle sue opere più caustiche: Black Star Rising (l985), Narabedla Ltd (Narabedla, Sperling & Kupfer 1988), The Day the Martians Came, 1988 (Il giorno dei marziani, Sperling & Kupfer 1989), Homegoing,1989 (Il lungo ritorno in Urania n. 1289,1996), The World at the End of Time, 1990 (Il mondo alla fine del tempo, Sperling & Kupfer 1993) e Pompei 2079 (All the Lives He Led, 2011). Ha collaborato con Arthur Clarke alla conclusione del romanzo L’ultimo teorema (The Last Theorem, 2008).

I raccontI brevi di Pohl sono raccolti in una nutrita serie di antologie: Alternating Currents (l956), The Case Against Tomorrow, 1957 (Processo al domani in Galassia n.53, La Tribuna 1965), Tomorrow Times Seven (1959), The Man Who Ate the World (1960), Turn Left at Thursday (1961), The Abominable Earthman (1963), The Best of Frederik Pohl, 1975 (come Il tunnel sotto il mondo e Il marziano in soffitta, rispettivamente in Urania n. 802 e 804, l979).

Di notevole importanza l’autobiografia The Way the Future Was, 1978, in cui Pohl ricostruisce con cura e nostalgia il mondo della fantascienza attraverso quattro decenni cruciali. Non c’è pericolo di sovrastimare l’importanza di Frederik Pohl, sia come romanziere che come editor. Colto e mordace, dotato di un notevole senso dell’umorismo, si è trovato a suo agio tanto nel genere “sociologico” che lo ha reso famoso negli anni Cinquanta – in collaborazione con Kornbluth – quanto nelle storie avventurose scritte con Jack Williamson o nei numerosi romanzi in proprio. Negli anni Ottanta e Novanta Pohl ha dimostrato ancora di sapersi rinnovare e di poter offrire at lettore una fantascienza di alto livello, sia dal punto di vista delle idee sociali, che da quello delle audaci concezioni scientifiche e del puro divertimento.

 

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Cyril M. Kornbluth

 

Nato a New York nel 1923, è attivo come appassionato di fantascienza negli anni Trenta e frequenta il gruppo dei “Futurians”, come del resto Frederik Pohl. Sotto l’esempio dei colleghi comincia a scrivere giovanissimo, verso i quindici anni. I suoi racconti appaiono sulle riviste con vari pseudonimi, tra cui S.D. Gottesman e Cecil Corman. Frequenta l’università a Chicago, quindi è arruolato nell’esercito e durante la Seconda guerra mondiale è di stanza in Europa. Nel dopoguerra, approfittando della legge speciale per i reduci, torna a frequentare l’università di Chicago e in quella città trova un impiego presso la Trans Radio Press, che manterrà fino al 1951. Dal ’51 all’anno della sua prematura scomparsa, il 1958, Kornbluth si dedica a tempo pieno all’attività di scrittore.

Oltre ai romanzi scritti insieme a Frederik Pohl, e di cui abbiamo già parlato, pubblica con Judith Merrill Outpost Mars, 1952 (Il lago del sole, a puntate su Urania rivista a partire dal n. 7) e nello stesso anno il celebre Gunner Cade (L’ordine e le stelle, prima nei Romanzi di Urania e poi presso Libra Editrice, 1975).

In proprio ha scritto alcuni romanzi ancora oggi validissimi: Takeoff , 1951 (Domani la luna, in Galassia n. 67, La Tribuna 1966), The Syndic, 1953 (come L’era della follia nei Romanzi di Urania n. 72, 1955; come Non è ver che sia la mafia in Classici Fantascienza Mondadori n. 6,1977) e Not this August (Non sarà per agosto, ediz. più recente in Classici Urania n. 154, 1990). I racconti brevi di Cyril Kornbluth sono apparsi in varie antologie e, in Italia, in due raccolte personali: Gli idioti in marcia (The Best Science Fiction Stories of C.M. Kornbluth, 1968; in Galassia n. 141, La Tribuna 1971) e Oltre la Luna (A Mile Beyond the Moon, 1958; in Urania n. 1056, 1987). Nel 1997 la NESFA Press ha pubblicato un volume gigante che raccoglie tutta la narrativa breve di Cyril M. Kornbluth: His Share of Glory. Morto a trentacinque anni per infarto (soffriva di ipertensione maligna), Kornbluth resta una delle grandi figure della sf americana, a cavallo tra il suo periodo pionieristico e la piena modernità.

 

G.L.

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Paul Di Filippo

dicembre 19th, 2012

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Ha scritto romanzi, manuali discrittura e fumetti, ma il suo

genere preferito resta il racconto

Nato il 29 ottobre 1954 a Providence, Rhode Island – la città di H.P. Lovecraft – Di Filippo è uno degli autori più innovativi della fantascienza moderna. “Urania” l’ha introdotto nel suo carniere con la raccolta di racconti L’imperatore di Gondwana (2005) apparsa nel n. 1520, ed è stato subito un buon successo. Perché Di Filippo non scrive soltanto romanzi – fra cui ricordiamo Would It Kill You to Smile? (1998), Muskrat Courage (2000), Little Doors (2002), Fuzzy Dice (2003), Spondulix (2004), Beyond the Farthest Precinct, Time’s Black Lagoon (entrambi 2006), Cosmocopia (2008), Roadside Bodhisattva (2010) e la novella La principessa della giungla lineare (2010) – ma  soprattutto short stories e romanzi brevi. Le sue raccolte sono di un tale qualità che è proprio con questo genere che abbiamo pensato di presentarlo al pubblico italiano. A cominciare dalla Trilogia Steampunk del ’95 per continuare con Destroy All Brains! (1996), Ribofunk (1996), Fractal Paisleys (1997), Strange Trades (2001), Neutrino Drag (2004), L’imperatore di Gondwana (2005), il presente Vendesi tempo, affare sicuro (Shuteye for the Timebroker, 2006), fino a Harsh Oases (2009) e After the Collapse (2011), si tratta di libri magnifici fin dal titolo provocatorio e non di rado intriso di humour noir. I racconti di Paul Di Filippo non sono a base di teorie fisiche più o meno “estrapolate” o di rutilanti avventure di circostanza: o meglio, contengono avventure (qualcuno) ed escursioni nel possibile della scienza (qualcun altro), ma contengono anche tutto il resto, cioè il mondo in bilico che ci circonda, con la sua pericolosa tendenza a diventare un ideogramma, una cifra sospesa tra quella che ieri consideravamo la realtà e quello che lo sarà domani, dopo infinite manipolazioni sociali e culturali. Sono, in altre parole, narrazioni moderne o postmoderne, tranci di visione insaporiti dal gusto dell’intreccio narrativo, ma rispecchianti una varietà di situazioni che non è comune riscontrare in fantascienza o in altri generi circoscritti. Insieme, tutti questi ingredienti formano la totalità di uno sguardo sul reale, ovvero (come l’ha definita lo stesso Di Filippo che non si nasconde dietro un dito), “una fantascienza sbalordita e ripiena, multiplex-massimalista, ricomplicata e a banda larghissima”.

Cosa ne penseranno i lettori di “Urania”? ci siamo chiesti in primo luogo. La risposta è arrivata, entusiastica, dopo la pubblicazione della precedente raccolta di Paul, L’imperatore di Gondwana. Il pubblico ne ha pensato tutto il bene possibile, ricollegando idealmente le sorprendenti trovate del nostro a quelle di altri autori di punta: Brian W. Aldiss, Michael John Harrison o John Crowley, solo per fare qualche esempio. Di Filippo è un autore appassionante, come già sanno i lettori della celebre trilogia Steampunk pubblicata dodici anni fa dalla Nord e ripresa più tardi da Delos Books. La materia di questo inventore straordinario è solo in parte la scienza o il futuribile: è evidentemente la fiction che lo interessa di più, sia nel senso delle sue personali finzioni che della letteratura in generale. Come si sa, la parola inglese “fiction” designa qualunque forma di narrativa, dal racconto al romanzo, e di qualsiasi genere. Ecco dunque Di Filippo mettere al suo arco una serie di frecce che si allontanano sempre più dal quotidiano e dal banale, e che, pur conservando una traiettoria rigorosa e calcolata al millimetro, quando raggiungono il bersaglio aprono una breccia nel centro del fantastico. E’ il tragitto, a pensarci bene, di tutta la narrativa che valga qualcosa: parte da solide premesse, da una realtà che si riteneva conosciuta e conoscibile, e sfreccia verso… dove? Una galassia di possibilità che nel caso di Paul Di Filippo consiste molto spesso negli universi alternativi della creazione. Si accede ai suoi mondi non solo attraverso astronavi o falle dimensionali, ma attraverso libri, scrittori e personaggi storici: per questo i suoi eroi sono così spesso romanzieri o inventori.

La presente raccolta costituisce la traduzione integrale del volume americano Shuteye for the Timebroker del 2006 e vuole confermare l’attenzione di “Urania” verso un autore che è grande nelle sue storie steampunk, acutissimo nei pastiche letterari (ci siamo divertiti a leggere una sua reinterpretazione del mito della Creatura della Laguna nera, Time’s Black Lagoon) e assolutamente originale anche quando deve scrivere il soggetto di un fumetto, come Top Ten: Beyond the Farthest Precinct (2005) e Doc Samson (2006). Ma non è meno brillante  quando consegna alle stampe un manuale di scrittura creativa, per cui rimandiamo a How To Write Science Fiction (A Maximalist And Recomplicated Travel Into Sci-Fi, 2011). Quello che più conta, non è un autore che segua mode, correnti o scuole: potete incasellarlo come volete, ma Paul sfida tutte le categorizzazioni; è lui e basta, come Sheckley era Sheckley e Bradbury non aveva altri capiscuola che se stesso. Ad entrambi i grandi narratori americani Di Filippo deve qualcosa, ma in primo luogo la sua autonomia e il suo occhio critico. Poi, se vogliamo, quella punta di umorismo nero che francamente ci sta come un candito sull torta, e che a tratti può ricordare il riso a denti stretti di Kurt Vonnegut.

Paul Di Filippo in Italia. Di origine italiana, probabilmente campana, Paul Di Filippo è tornato recentemente nel nostro paese, ospite della Italcon di Bellaria. Così, a fine maggio, eccolo sbarcare a Bologna con la moglie Deborah Newton e proseguire per Bellaria (Rimini), dove finalmente abbiamo potuto conoscerlo di persona e intavolare più di una curiosa conversazione con lui. Dopo l’acclamazione alla convention – in compagnia di un altro gradito ospite americano, David Gerrold – Paul e Deborah hanno proseguito per la Sicilia insieme ad Armando Corridore e Ugo Malaguti che li accompagnavano nel viaggio. Questo incontro ravvicinato del terzo tipo non ha fatto che migliorare il feeling già esistente tra “Urania” e Paul, al punto che… è nato un progetto di cui parleremo in uno dei prossimi numeri.

Per il momento, segnaliamo ai lettori l’utilissimo sito dell’autore (in lingua inglese):

http://paul-di-filippo.com/

E la voce su Wikipedia italiana:

http://it.wikipedia.org/wiki/Paul_Di_Filippo

Raccomandiamo anche l’introduzione di Salvatore Proietti a La principessa della giungla lineare (Delos Books), il cui incipit si può leggere gratuitamente su Amazon.com (sito americano): www.amazon.com e quindi La princpessa della giungla lineare (Italian Edition), nel reparto Kindle ebooks.

Inoltre, sono leggibili online gli estratti di due interviste (in inglese) fatte a Paul dalla rivista “Locus”:

settembre 2003 – http://www.locusmag.com/2003/Issue09/DiFilippo.html

marzo 2012 – http://www.locusmag.com/Perspectives/2012/03/paul-di-filippo-chameleon/

G.L.

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Daniel F. Galouye

dicembre 19th, 2012

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Nato a New Orleans 1’11 Febbraio 1920 e deceduto dopo una lunga malattia nella città natale il 7 settembre 1976, Daniel Francis Galouye era uno degli autori di sf più dotati tra quelli che iniziarono a scrivere nel periodo degli anni ‘50.

Galouye trascorse praticamente tutta la sua vita nello stato della Louisiana, nella cui università, nel 1941, aveva ottenuto una laurea in giornalismo. Dopo una breve avventura giovanile nel campo editoriale, in guerra aveva fatto il pilota di aerei sperimentali ed era stato uno dei primi uomini al mondo a pilotare dei razzi. Alla fine della guerra si era sposato ed era tornato alla sua primitiva passione: lo scrivere. Dal 1946 al 1965 lavorò come giornalista, ed aveva raggiunto il grado di condirettore del “New Orleans States–Item” quando, nel 1965 appunto, era stato costretto a ritirarsi a causa di malanni risalenti al periodo della guerra ed ora aggravatisi.

Come autore di sf, Galouye non è stato certo molto prolifico (solo sei romanzi in tutto), ma si può senz’altro dire che il livello narrativo delle sue opere è piuttosto elevato. Forse leggermente trascurato nel suo paese, è invece molto apprezzato in Inghilterra e in Germania dove sono apparse anche svariate raccolte dei suoi racconti più famosi, risalenti in buona parte al suo periodo letterariamente più fecondo e maturo, che va dal 1954 al 1964.

Il suo esordio nel campo fantascientifico risale al marzo del 1952 con Rebirth, apparso su “Imagination”; da questo racconto avrebbe tratto in seguito, nel 1961, il presente Dark Universe.

Dopo un paio d’anni trascorsi nello pseudo-anonimato dalle riviste minori del gruppo Hamling, in cui peraltro produsse opere altamente drammatiche come Stanotte il cielo cadrà (Tonight the Sky Will Fall, “Imagination”, maggio 1952) ed il suo seguito The Day the Sun Died (“Imagination”, ottobre 1955), nel 1954 entrò a far parte della grande famiglia di “Galaxy”, affiancandosi autorevolmente agli altri scrittori che Horace Gold, direttore della rivista, andava lanciando in quel periodo: scrittori come Damon Knight, William Tenn, Frederik Pohl & Cyril Kornbluth, Robert Sheckley, Algis Budrys e altri che avrebbero lasciato la loro impronta sul genere fantascientifico.

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Il racconto che lo presentò al pubblico di “Galaxy”, “Il tempio di Satana” (settembre 1954) e racconti come” See-Eyeng Dog” e “City of Force” rimangono dei piccoli gioielli meritevoli di essere ricordati più spesso e ristampati per i lettori più giovani che non hanno avuto l’occasione di leggerli al tempo della loro prima pubblicazione (discorso che vale anche per gli Stati Uniti, oltre che per l’Italia). La freschezza della narrazione e l’ingegnosità dell’idea di base dimostrano subito il talento innato del narratore vero.

Dark Universe (Universo senza luce) ne è la conferma più lampante: in questo romanzo Galouye riprende un tema ovvio come quello della catastrofe nucleare, da un’angolazione del tutto nuova. Il suo ritratto di un’umanità costretta a vivere in caverne sotterranee dove non arriva la luce, della conseguente civiltà basata sull’eccezionale sviluppo del senso dell’udito e del tatto, e della precaria esistenza dei superstiti, legata ai pochi beni loro rimasti (bestiame, pozzi d’acqua e piante fibrose) ma costantemente minacciata da pipistrelli giganti e altri mostri delle tenebre, risulta di grande effetto e pienamente convincente. Soprattutto, rivela un’abilità notevole il modo con cui Galouye descrive le religioni e le credenze popolari che si sono formate a proposito della leggendaria sostanza chiamata «luce». L’atmosfera cupa ed evocativa in cui è immerso il romanzo rende più che giustificata la reputazione di «classico» ad esso già attribuita, e confermata dalla candidatura al Premio Hugo del 1962 per il miglior romanzo.

La prosa concisa, efficace, priva di barocchismi e derivata dal miglior stile giornalistico, permette un paragone per nulla blasfemo con quella di Robert Heinlein, narratore per eccellenza del genere fantascientifico. E con Heinlein, Galouye ha in effetti anche altri punti di contatto: ad esempio la simpatia per il tema dell’invasione della Terra da parte degli alieni. Ben due romanzi di Galouye (Psychon e Percezione infinita) sono imperniati sull’idea di una Terra asservita ad esseri di altri mondi.

Altri interessi ci sembrano tuttavia predominanti nell’opera dello scrittore, primo tra tutti quello per i poteri psi e l’evoluzione della mente umana. Se “City of Force” (Galaxy, Aprile 1959) e Psychon (1963) narrano della rivolta dei terrestri contro sfere di energia pura di origine extra–terrestre, attuata per mezzo di un contatto o di uno scontro mentale, Percezione infinita (1966) presenta un’invasione del nostro pianeta in cui gli alieni adoperano una terribile arma mentale. E ancora, in Mindmate abbiamo una potente organizzazione che imprime la matrice mentale di persone uccise sui cervelli di volontari prezzolati, mentre “See Eyeing Dog” si basa sull’idea di un contatto mentale empatico che permette ad esseri umani ciechi di servirsi della vista di cani addestrati in maniera particolare.        

Un altro tema che ricorre con una certa frequenza nelle opere di Galouye è quello della disgregazione della realtà. Come Dick, anche Galouye sembra piùttosto turbato dalla natura mutabile di un’illusoria realtà. Sia il giovanile ma già notevole Tonight the Sky Will Fall che il successivo e più maturo Simulacron–3 esprimono una disperazione tipicamente dickiana di fronte ad un universo che appare troppo vasto e disarticolato per poterlo comprendere. La situazione superbamente paranoica di Tonight the Sky Will Fall, in cui la realtà dell’esistenza del cosmo è legata alla volontà del protagonista, trova un riscontro nell’altalena tra il mondo reale e il mondo simulato creato dal gigantesco computer Simulacron–3, in cui viene sballottato Doug Hall proprio in quel romanzo. Si tratta di «universi d’incubo», in cui la naturale tendenza cosmica del regresso entropico verso uno stato di caos e dissociazione totale sembra essersi accelerata a dismisura. L’uomo rimane oppresso da questa atmosfera di cupo sconforto: è una sensazione che Dick ha espresso a meraviglia in opere come Illusione di potere (Now Wait for Last Year), Le tre stimmate di Palmer Eldritch (The Three Stigmata of Palmer Eldritch) e “Faith in Our Fathers” (per citarne solo alcune). Galouye non esce tuttavia sconfitto dal paragone: nei due romanzi sopra ricordati, riesce a trattare con altrettanta bravura questo tema che è un po’ il cavallo di battaglia di Philip Kindred Dick, aggiungendovi una «suspense» travolgente che ha invero pochi eguali nel campo. Si può dunque ben vedere come Galouye fosse un autore multiforme e vario, a suo agio con i soggetti più disparati: indice questo del vero talento narrativo, un talento narrativo spesso perduto in tanta sf successiva.

 

Sandro Pergameno

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Lo “spettatore” della storia

ottobre 19th, 2012

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Moore è uno di quegli autori che, pur avendo scritto relativamente poco ­– cinque romanzi, una manciata di racconti – si è conquistato di diritto un posticino nel ristretto pantheon degli autori “classici”. In una ideale classifica sui “cento migliori romanzi” prodotti dalla sf, non potrebbe certo mancare il suo Anniversario fatale, da più parti definito “un classico minore”. Ma prima di addentrarci nell’esame di questo romanzo, vediamo brevemente chi era il suo autore.

Ward Moore nacque a Madison, nel New Jersey, il 10 agosto 1903: in seguito la sua famiglia si trasferì a Montreal, dove il giovane Moore seguì pochi e discontinui studi. Autodidatta, si dedicò a una serie affascinante di lavori, una caratteristica che si trova in molte biografie di autori statunitensi. Mentre fa il commesso in una libreria newyorkese, pubblica alcune poesie su giornali minori; in seguito, ne aprirà una propria nel Midwest.

Nel 1929 lo troviamo a Los Angeles dove lavora in una fattoria; dopo aver lavorato nell’edilizia e in un cantiere navale – durante la seconda guerra mondiale – si inserisce nel mondo dell’editoria mantenendosi come recensore, scrivendo come “negro” per conto terzi oppure in proprio. Nel 1942 pubblica il suo primo romanzo, Breathe the Air Again, scritto in uno stile picaresco che ricorda da vicino il mondo tratteggiato da Steinbeck in romanzi come La corriera stravagante e Vicolo Cannery.

Fa il suo ingresso nel mondo della sf con Più verde del previsto, romanzo caustico sugli effetti “a valanga” di una nuova qualità di fertilizzante che in breve farà conquistare all’erba tutte le terre emerse. E di tanto in tanto, su riviste e antologie, appaiono suoi racconti, in cui si avverte sempre la mano felice dello scrittore di razza.

Nel 1953 dà alle stampe il suo capolavoro: pubblicato prima su rivista; poi allargato per il mercato librario – una pratica comune negli Usa – basta da solo ad assicu­rargli fama imperitura. Il titolo originale, Bring the Jubilee (qualcosa come “festeggia il giubileo”) viene da una delle canzoni in voga durante la guerra civile ameri­cana (quella erroneamente conosciuta da noi come “guerra di secessione”, termine sconosciuto negli Usa) e cantata dalle truppe sudiste, Marching Through Geor­gia. Si tratta di uno dei primi e più maturi esempi nella subcategoria dei mondi paralleli e dei viaggi nel tempo. Al contrario però di altri romanzi ambientati su una Terra parallela (il più famoso dei quali forse resta La svastica sul sole di Dick), in cui l’autore ha la possibilità di inserire quanti cambiamenti desidera alla storia a noi nota (e di questa possibilità molti ne abusano) qui le linee temporali divergono solo a partire dalla battaglia di Gettysburg (combattuta dal 1° al 3 luglio del 1863). In più, a differenza di altri romanzi del genere, qui s’inne­sta il tema del viaggio nel tempo che, creando un para­dosso, modifica il futuro fino a farlo coincidere con il nostro. Scritto in tono vagamente elegiaco, ma sempre centrato sul tema primario del tempo, il libro è anche una controversia un po’ dotta tra determinismo e libero arbitrio; non a caso Moore insiste sulla qualifica di “spettatore” del suo protagonista, uno spettatore che, seppure involontariamente, sconvolge a tal punto le linee della storia da divenire il più importante “facito­re” di storia mai nato. La sua “non azione” sconvolgerà a tal punto la storia da modificarne l’intero corso.

Nel 1954 Moore pubblica Lot, un racconto lungo che, unito al successivo La figlia di Lot, rappresenta un eccellente contributo alla tematica dell’olocausto e delle sue conseguenze. Strutturato sul tema biblico della distruzione di Sodoma (la moderna Los Angeles) e delle sue conseguenze, i due racconti hanno trovato anche la via dello schermo nel 1962 con Il giorno dopo la fine del mondo, diretto e interpretato da Ray Milland (un film che non rende alcuna giustizia ai testi da cui è stato tratto).

Nel 1962 scrive Joyleg insieme ad Avram Davidson, romanzo satirico sui guasti prodotti dalla burocrazia. Il suo ultimo romanzo, Caduceus Wild, che in realtà  aveva scritto nel 1959, verrà pubblicato postumo. Ward Moore muore il 29 gennaio 1978.

              

                                                                                                           Marzio Tosello

 

 

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Clarke & Pohl – Clarke

ottobre 18th, 2012

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Arthur Clarke, dallo spazio

alle spezie: un apprezzamento

e una testimonianza

 

Sulla Luna hanno messo piede per primi gli inglesi. Le astronavi, per i lunghi viaggi nello spazio, hanno bisogno di motori atomici. Su Marte ci sono piante e animali. I mari della Luna sono immensi bacini di polvere. Intorno alla Terra ruotano immense stazioni spaziali, vere isole nel cielo con a bordo centinaia di persone. Nel 2001 si raggiunge il nostro satellite regolarmente, si progetta un viaggio su Giove e le astronavi sono dirette da supercomputer senzienti… Sono tutte affascinanti “previsioni” contenute in libri di Arthur C. Clarke, e ovviamente non realizzate. E’ vero, accanto ad esse vi sono anche molte altre previsioni che abbiamo visto avverarsi, compresa quella, clamorosa, dell’impiego di satelliti artificiali in orbita geostazionaria per le telecomunicazioni, contenuta peraltro non in un suo racconto, ma in un articolo divulgativo.

E’ vero anche che tutto questo apparato parascientifico era proprio ciò che ci colpiva da ragazzi, e costituiva la pezza d’appoggio principale per difendere, negli anni Sessanta e Settanta dell’ahimè secolo scorso, la dignità del nostro genere letterario contro la critica togata, incline a supportare la famigerata battuta della buonanima di Mike Bongiorno, che infelicemente in tv lo definì “fantascemenza” (e ancor brucia il ricordo, in nostra tarda età). All’epoca, accanto a chi si basava proprio sui contenuti scientifici per sostenere che l’amata fantascienza era “una cosa seria”, c’era anche chi s’affannava ad additarne i magnanimi lombi in Platone, Luciano, Dante, Ariosto eccetera eccetera.

Poi, il tempo e l’ampliamento degli orizzonti culturali ci hanno fatto capire che l’importanza del nostro genere letterario non sta affatto nella “previsione tecnico-scientifica”. Non ha molta importanza se abbia o non abbia, ad esempio, previsto nei particolari la bomba atomica prima dell’esplosione di Alamogordo nel 1945, se abbia previsto le astronavi quando non c’erano neppure gli aerei di linea. Fosse veramente così – come ormai scriviamo da un bel pezzo – i risultati della tecnoscienza che viviamo ai giorni nostri e sulla nostra pelle, dovrebbero farci gettare il 90 per cento della fantascienza nella discarica delle delusioni letterarie: i cellulari e la Rete non se li è mai sognati, ad esempio, eppure deliziano e ossessionano i nostri giorni. Di personal computer non ha mai parlato, eppure ne stiamo usando uno per scrivere queste righe.

Ad altro, dunque, bisogna guardare per valorizzare la fantascienza e i suoi autori più importanti. Jean Baudrillard da tempo sostiene chel’immaginario fantascientifico è giunto a “ricoprire tutta la realtà”, per cui non è più possibile costruire dell’immaginario partendo dal mondo come oggi lo conosciamo e viviamo: il cosiddetto “genere del futuro” non avrebbe più insomma alcun futuro. Una posizione certo estrema ed eccessiva (la realtà offre ancora infiniti spunti per ipotesi futuribili), ma che in sostanza pone un problema: ci deve pur essere qualcosa d’altro, al di là dell’immaginare “previsioni scientifiche”, tale da poter far sopravvivere la fantascienza ad infinitum.

Prendiamo allora come esempio Arthur C. Clarke, che è come dire l’icona della fantascienza in Italia. E’ stato proprio lui, infatti, a far spalancare gli occhi e la mente dei ragazzi e degli adulti del 1952 sugli spazi sconfinati oltre la realtà del quotidiano (il quotidiano del dopoguerra, della ricostruzione, del Piano Marshall): intanto con i due alieni tentacolati sulla copertina del primo fascicolo di “Scienza Fantastica” che nell’aprile 1952 illustravano il suo racconto Missione di soccorso, e poi la città sotto la cupola e il razzo fusiforme sulla copertina del romanzo Le sabbie di Marte sul primo fascicolo de “I romanzi di Urania” del 10 ottobre 1952. Se c’è un nome con cui identificare la science fiction, per noi italiani, è proprio il suo.

Allo stesso tempo, però, voler misurare Clarke solo con il solo metro della previsione scientifica, cucendogli addosso l’abito dell’anticipatore par excellence, come si è spesso fatto e si continua a fare (magari insieme a Isaac Asimov), non solo è un errore ma anche una grave ingiustizia nei suoi confronti. Tutte le cosiddette “anticipazioni scientifiche” presenti nelle sue opere sono infatti niente altro che puri espedienti narrativi, e lui stesso (lo ha confermato personalmente a Sebastiano Fusco, che ha avuto la ventura d’incontrarlo) era il primo a dubitare che fossero corrette o che potessero realizzarsi mai. Lo spessore della figura di Clarke come scrittore e soprattutto come genio visionario si fonda su ben altri valori. Si fonda sulla grandiosità delle sue concezioni, sulla vastità della sua immaginazione e soprattutto sulla portata etico-morale del suo insegnamento. Insomma, su quello che in America, patria d’elezione del nostro genere letterario, è stato efficacemente definito sense of wonder, quel senso del meraviglioso che ti afferrava nel 1952 leggendo i primi “Romanzi di Urania” e che non sempre – purtroppo – oggi ti prende ancora leggendo la fantascienza contemporanea (e non si tratta di una questione d’età)…

Questo, in effetti, è vero per tutta la fantascienza nel suo complesso. E’ riduttivo considerarla semplicemente come “narrativa d’anticipazione” soltanto perché tratta, come diceva Edgar Allan Poe, di mellonta tauta, “cose che avverranno”. Prevedere cose che si potrebbero verificare non è poi molto difficile (anche Gianfranco de Turris nei suoi racconti di ventenne lo ha fatto, benché del tutto alieno da una cultura scientifica): basta fare centomila predizioni, e qualcuna di esse si avvererà per forza. Una letteratura che camminasse su queste sole gambe, andrebbe ben poco lontano. In realtà la fantascienza, come disse un altro intellettuale francese, Maurice Blanchot, è una mirabile manifestazione della funzione profetica.

Qui bisogna intendersi.

Il termine “profeta”, oggi, ha assunto il significato di “persona che conosce il futuro”. Un tempo, non era così. Indovinare l’avvenire non era compito dei profeti, bensì degli indovini: genìa di trista fama, usi smerciare le loro dubbie capacità in cambio di moneta, e non molto apprezzati perché in genere non ci azzeccavano o erano soliti nascondere la loro ignoranza dietro discorsi fumosi, come fanno oggi gli astrologi da rotocalco. I profeti biblici, o i vati della classicità (per non parlare degli oracoli, che erano diretta manifestazione di un dio), avevano tutt’altra funzione: loro compito era lanciare ammonimenti dal profondo significato morale, avvertendo interi popoli, o culture, o la stirpe umana nel suo complesso, che se avesse deviato dall’insegnamento divino, o dalle leggi etiche, o dai princìpi morali, o dal semplice buon senso, il destino avrebbe avuto in serbo per loro eventi assai poco piacevoli. O, di converso, ricordare che la speranza nel futuro riposa nell’osservazione dei precetti divini o dei retti giudizi umani (il che, se vogliamo, come insegnava Socrate è la stessa cosa).

Per fare questo, vati e profeti impiegavano visioni grandiose espresse in linguaggio lussureggiante, ricolme di simboli e allegorie. La biblica visione d’Ezechiele, o i sogni di Daniele, ne sono esempi. Non è un caso che siano stati presi come spunto per divagazioni fantascientifiche: l’avvento di creature aliene, il sorgere di nuove civiltà, e se ne siano azzardate financo ricostruzioni “astronautiche”.

Non è un caso, appunto perché la fantascienza, come ha acutamente osservato Blanchot, non prevede: ammonisce. Ci avverte, per esempio, che l’uso della scienza senza coscienza ci porterà alla rovina (e ce ne accorgiamo ora, che viviamo nell’incubo nucleare, nella paura del disastro ecologico, della penuria d’energia e chi più ne ha più ne metta). Ci mostra e dimostra che gli esperimenti sociali attuati a beneficio di una sola classe, quale che essa sia, aprono la strada alla tirannide. Che l’assopirsi della creatività dietro realizzazioni stultificanti porta al rimbecillimento culturale. Che manipolare la natura umana intervenendo sulle sue origini senza un preciso rigore etico a guidarci può portare alla perdita della nostra stessa identità. D’altro canto, c’insegna anche che la scienza usata rettamente può aprirci le porte dell’universo. Che la concordia è la chiave d’ogni progresso. Che l’uomo è perfettibile, ma deve trovare in se stesso la spinta all’elevazione. Gli esempi al riguardo, nella narrativa fantascientifica, sono infiniti: non faremo torto alle conoscenze dei lettori di “Urania” andando a indicare loro degli esempi, li conoscono già benissimo. Ne citiamo uno soltanto, per rendere omaggio al ricordo di un autore amatissimo, nostro amico per cinquant’anni, di recente scomparso: Ray Bradbury, che con Fahrenheit 451 ha profetizzato l’annichilimento della cultura se insisteremo a volerla sostituire con le sitcom e a demonizzare la libertà di pensiero espressa nei libri (di carta).

Orbene, di questo tipo di fantascienza “profetica”, la più nobile, una delle più grandi realizzazioni della letteratura, Arthur Clarke era l’indiscusso campione. Come detto, lui stesso per primo si rendeva conto che l’elemento “anticipatore”, la semplice previsione tecnologica, non andava visto come il centro della narrazione, ma come l’innesco per visioni più ampie, di portata autenticamente cosmica. Per questo, come disse a Sebastiano Fusco nel corso dell’incontro già citato, e su cui torneremo, scelse come “io narrante” di Preludio allo spazio, il romanzo in cui raccontava della conquista della Luna, non uno scienziato, un tecnico che aveva partecipato in prima persona alla realizzazione dell’impresa, bensì uno storico: ovvero un umanista, non un tecnocrate. Una persona che sapesse cogliere il senso dell’inizio dell’astronautica come il manifestarsi di una nuova sfida destinata al progresso dell’umanità non soltanto sul piano scientifico, ma soprattutto su quello etico e morale. Un testimone: ed è questa una delle funzioni precipue dei profeti, l’essere testimoni dei propri tempi. Non conta che la conquista dello spazio, malgrado le previsioni, sia ancora lungi dall’essere realizzata: ciò che conta è la rappresentazione dell’ansia faustiana che spinge l’uomo verso le stelle.

Quest’incombere del futuro, questo senso di sgomento di fronte ai destini dell’umanità, sempre in bilico tra l’elevazione e la rovina (e quanti esempi al riguardo ci fornisce la storia!) è presente in molti altri scrittori, ovviamente, non soltanto in Clarke. Ma quanti di loro hanno saputo raggiungere una tale grandiosità di visioni? Quanti una tale profondità di ammaestramento? Ci viene in mente un solo esempio, un autore stranamente da noi poco frequentato, anch’egli inglese: Olaf Stapledon. Poi, in parte, Philip K. Dick, in parte Robert A. Heinlein, in parte Isaac Asimov e A.E. van Vogt, e ben poco altro.

Quanti hanno saputo concepire una visione così elevata e rarefatta come quella di La città e le stelle, uno dei capolavori di Clarke? Un romanzo nel quale è tracciata non soltanto la diagnosi del male futuro, ovvero l’asservimento dell’uomo alla stessa tecnologia da lui creata, ma anche la terapia, ovvero il recupero della spiritualità attraverso la ribellione dell’artista verso il conformismo. Quale immagine simbolica dell’incombere del futuro è pari a quella dell’immensa torre alta trentaseimila chilometri di Le fontane del paradiso? Una struttura sconvolgente alla cui ombra l’umanità vale meno di una formica, e il cui unico parallelo si trova non nella tecnologia ma nell’arte, ovvero i mirabili affreschi tracciati nell’amata isola di Ceylon da un remoto e dimenticato maestro delle immagini. La vicenda scorre su due piani paralleli, il lontano passato e il lontano futuro, e racconta con plastica simbolicità una vicenda di elevazione e caduta: un’allegoria del cammino umano che sembra non dar luogo alla speranza, ma che ha in sé i germi della rigenerazione. All’antico artista vennero troncate le mani perché non potesse ripetere una seconda volta, per un altro re, un’opera così alta. All’umanità, rimane comunque il miraggio delle stelle.

E che dire dello straordinario soggetto di 2001: Odissea nello spazio, in cui si sono fusi gli ingegni di due fra i più grandi visionari del secolo scorso, Clarke e il creatore d’immagini Stanley Kubrik? Al di là delle anticipazioni tecnologiche (ben poco realizzate) ciò che conta nella vicenda è la mirabile conclusione (per molti criptica e oscura, mentre non lo è affatto), in cui emerge con grande potenza allegorica il sogno alchemico della coincidentia oppositorum, la fusione del microcosmo umano con il macrocosmo divino. Il germe dell’uomo che innesca il germe dell’universo. Il finale della pellicola riecheggia in modo suggestivo un antico testo chiamato Tavola di Smeraldo attribuito a Ermete Trismegisto, in cui viene narrata simbolicamente l’origine del Tutto. Fusco accennò a questa simmetria con Clarke, nel corso del suo incontro, chiedendogli se avesse mai letto la Tavola. Lo scrittore confessò di non averla mai sentita nominare. Quando Fusco gliela recitò (è molto breve, dodici frasi in tutto, tra cui famosissima la prima: “Ciò che è in alto è come ciò che è in basso, e ciò che è in basso è come ciò che è in alto per fare il miracolo della Cosa Unica”), Clarke ne fu impressionato e disse che gli sembrava un resoconto preciso dell’origine del cosmo, da parte di qualcuno che, chissà come, in epoche remote (la più antica testimonianza della Tavola risale al settimo/ottavo secolo di questa era) aveva compreso la necessità della Grande Unificazione, il Santo Graal della fisica, ovvero una formula in grado di unificare la Teoria della Relatività (il macrocosmo) con la fisica quantistica (il microcosmo). Per uno che di alchimia non si era mai interessato, è una straordinaria intuizione.

Chiudiamo con un ultimo ricordo personale, legato all’incontro con Fusco cui si è già accennato. Risale a una quindicina d’anni fa. Essendosi recato in India per questioni di lavoro, Fusco non sì fece sfuggire l’occasione di recarsi anche nello Sri Lanka, a trovare Clarke nella sua villa, situata su una collina a cui si arriva per una strada piuttosto scoscesa. Fusco era già da molti anni in corrispondenza con Clarke, ed anzi, poco più che ragazzetto, gli aveva inviato una lettera avvertendolo che in Italia i suoi libri erano apparsi, fino ad allora (parliamo dell’inizio degli anni Sessanta) in traduzioni pesantemente massacrate da tagli ed equivoci. Clarke se ne infuriò e mandò una lettera all’editore intimando che le ristampe eventuali dei suoi libri fossero corrette, come poi avvenne. Anche per questo, lo scrittore fu lieto di conoscere di persona il suo corrispondente.

Bene, Clarke era come lo si poteva immaginare: un inglese che più inglese non si può, di una cortesia che più cortesi non si può, e di una conversazione incredibilmente spiritosa. Dopo un’oretta di piacevoli chiacchiere, invitò Fusco a un giro nel giardino della sua villa: un itinerario incantato tra profumi esotici, piante lussureggianti, fiori enormi dagli splendidi colori. Giunto al centro, si fermò e con un ampio gesto della mano e un sorrisetto ironico, esclamò: “Odissea nelle spezie” (in inglese: A spice odyssey). La battuta doveva piacergli molto, perché a quanto pare la ripeteva praticamente ad ogni suo ospite. Comunque sia, questa è l’immagine di Arthur Clarke che ci è più cara: un gentile e ironico profeta nel giardino del paradiso.

Gianfranco de Turris

Sebastiano Fusco

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