Profili

Edmond Hamilton tra due mondi

novembre 18th, 2013

“Com’è bella l’avventura,

Un cavallo e una chitarra

Ogni punto della terra

per fermarsi o per andar.

 

Com’è bella questa vita,

senza ieri e né domani,

tutto il mondo fra le mani

e una voglia di cantar.

 

E se l’amore verrà

sono qui.

Io gli offrirò

tutto quello che ho.

 

Ma è più bella l’avventura,

senza ieri e né domani,

tutto il mondo fra le mani

per fermarsi o per andar.”

 

Domenico Modugno

 

Edmond Hamilton (1904–1977) è stato uno dei primi scrittori a portare l’avventura nella fantascienza, e in due forme: avendo partecipato alla nascita del genere con le rutilanti space opera degli anni Venti e Trenta, una parte della sua produzione è pervasa dai toni del weird, l’arcano che si presume debb trasudare dallo spazio incognito. La prosa s’imporpora, le immagini sprizzano colori ultraterreni (o terreni ma rivestiti dei nomi più poetici), le stelle sono chiamate “soli” per fare più effetto. «Milioni di soli» popolano un ammasso galattico letterario, «milioni di stelle» soltanto un atlante astronomico. Ma questo è ancora nulla: i soli hanno seminato pianeti e i pianeti fertili come uteri hanno prodotto razze variegate, quale a forma di stella, quale di medusa, comunque una figliolanza molto strana. Gli extraterrestri brillano di tutti i colori dell’arcobaleno e hanno un fegato ipertrofico che travasa bile nel sangue verde, invelenendoli contro di noi. Noi la norma, i begli esseri umani, i civili esploratori di un cosmo pulito e non tentacolato. La fantascienza weird, che pigia sul pedale dello straordinario e l’extramondano come certe storie di spettri – non dovrebbe accadere ma è accaduto – ha un unico problema: non è sostenibile troppo a lungo, perché il lettore si assuefà mentre l’autore esaurisce la scorta di wonder e terror. Ecco, allora, la necessità di inventare una seconda e più pratica forma di narrativa: meno mostri, meno fanghiglia verde, meno inspiegabili putrescenze sulle paratie delle astronavi e più muscoli, disintegratori, battaglie e cannoni a raggi.

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“Urania” 1600

novembre 18th, 2013

Dalla storia alla Cabala,

i molti aspetti di un

traguardo “numerico”

 

Dopo aver compiuto sessant’anni nell’ottobre 2012, “Urania” festeggia, appena tredici mesi dopo, l’uscita del numero 1600 che, caso significativo, è dedicato al romanzo italiano vincitore del concorso 2012. Si conferma dunque come l’unica testata (rivista, collana) al mondo che attualmente possa cumulare due caratteristiche importanti: la più continuativamente longeva e quella con più fascicoli al suo attivo. Una cifra inconsueta, per non dire significativa, in un ambito, quello delle pubblicazioni dedicate all’immaginario, che raramente ha raggiunto di questi traguardi neppure negli Stati Uniti d’America, patria d’elezione della science fiction popolare.

Se andiamo a dare un’occhiata alle riviste più longeve sia in attività che defunte, vedremo che non tutte riuniscono le due caratteristiche di “Urania”. In teoria il primato della longevità dovrebbe spettare ad “Amazing Stories”, la capostipite, fondata da Hugo Gernsback (1884-1967) nel 1926 e durata sino al 1995, poi ripresa saltuariamente nel 1999 e nel 2005 senza successo. Ci sarebbe poi un’altra rivista, anche più continua nel tempo, che ha avuto però due nomi diversi: come “Astounding Stories” è nata nel 1930 ed è stata portata al successo da John W. Campbell (1910-1971), che la diresse dal 1937 al momento della morte; ma dopo tre decenni, nel 1960, la rivista cambiò nome e divenne “Analog Science Fact and Fiction” e dura sino ad oggi,  quindi da cinquantatre anni, distribuita perlopiù in abbonamento.

Nell’ambito di un altro settore dell’immaginario, la famosa “Weird Tales” uscì dal 1923 al 1954, per  trentun anni consecutivi, con tentativi di farla rivivere negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta e Duemila. Ultimo tentativo nel 2007. “Urania” ha, rispetto alle autorevoli testate americane, una regolarità di uscita, una unicità di nome ed un formato cartaceo al quale si può riferire un numero complessivo di fascicoli superiore, ma soprattutto l’uscita ininterrotta in edicola dal 1952, senza alcuno iato o mutamento sostanziale di nome (al massimo nel 1957 dopo 152 numeri, da “I romanzi di “Urania”” a “Urania”, che è ben diverso dal caso “Astounding/Analog”).

In Francia la collana di romanzi di fantascienza “Anticipation” della casa editrice Fleuve Noir, nata quasi contemporaneamente a “Urania” nel 1951, ha pubblicato 2001 volumi tascabili (cifra fantascientificamente simbolica!), quindi più di “Urania”, ma ha chiuso i battenti nel 1997, dopo quarantasei anni. In Germania esce il settimanale di romanzi di fantascienza “Perry Rhodan”, personaggio creato da Walter Ernsting nel 1961: a tutt’oggi sono apparsi oltre 2700 fascicoli della serie ordinaria più molti altri di varie serie speciali, scritti attualmente da una ventina di autori ai quali se ne devono aggiungere altrettanti per i decenni passati. Qui si tratta di una collana popolare dedicata ad un solo  personaggio che si rivolge esplicitamente ad un pubblico giovanile, nulla a che vedere con “Urania”, anche se la cifra resta impressionante per la risonanza che ancora ha dopo cinquantadue anni ed il trascorrere delle generazioni, ampliatasi nel frattempo ai fumetti, ai film e ai videogiochi.

“Urania” ha dunque un senso nella petite histoire della narrativa popolare del nostro paese. E’ una testata che ha accompagnato gli italiani, almeno quelli con certe propensioni immaginative e letterarie, per quattro generazioni (anni ‘40, ‘60, ‘80 e 2000) lungo le vie della fantasie scientifiche, facendoci man mano conoscere i vari generi, autori, tendenze, filoni. Certo, l’iniziale “età d’oro” sembra irripetibile perché allora si poteva pescare fra i grandi scrittori che si erano succeduti nei precedenti venticinque anni nei paesi di lingua inglese, ma anche in seguito, con la sua regolarità di uscite, ci ha fatto conoscere le novità che si affacciavano nell’editoria estera, attingendo per un certo periodo anche a quella francese e sporadicamente a quella tedesca, romena, russa e cinese. Quando venne lanciato il primo satellite artificiale nel 1957 o quando avvenne il primo sbarco sulla Luna nel 1969, i lettori di fantascienza (che seguivano anche “Oltre il Cielo”, “Cosmo” e “Galaxy”) non erano impreparati, e s’irritarono non poco quando i giornali scrissero che ormai “la realtà aveva superato la fantasia”.

“Urania” è cambiata in molte cose, come si è già detto; copertina, colore, formato, logo e periodicità: quindicinale, mensile, quattordicinale, settimanale (per un lungo periodo è stata l’unico settimanale di fantascienza al mondo, a parte “Perry Rhodan” che però ha le tipicità già accennate) e ovviamente curatori, ma la sua sostanza è rimasta la stessa: aprire una finestra sull’alterità, un passato-presente-futuro diverso, permettendo di sognare e appassionarsi a cose non di questo mondo. Certo, in sei decenni ha ricevuto anche la sua dose di critiche, per difetti o scelte d’impostazione che man mano ha corretto al fine di arricchire la sua formula editoriale: scelte che, se fossero state diverse, avrebbero consentito di far prendere alla fantascienza italiana strade alternative. Ma questa è roba da ucronia, anche se non lo si scrive certo qui per la prima volta. Il primo “difetto” consisté nell’abbreviare i romanzi che non entravano nella lunghezza prefissata della collana (la cosiddetta foliazione), e quindi nelle mediocri traduzioni con errori e travisamenti (ne fanno fede le nuove traduzioni dei “classici” che “Urania” ripubblica). Ormai un argomento superato positivamente da anni grazie alla competenza dei curatori che vennero dopo Monicelli e Fruttero e Lucentini, e alla possibilità di ampliare la foliazione dei fascicoli. Oggi abbiamo la possibilità di leggere romanzi integrali anche di quattro o cinquecento pagine.

Il secondo punctum dolens fu l’atteggiamento nei confronti degli scrittori italiani. Mentre tra le due guerre la protofantascienza nazionale aveva i suoi autori specializzati o quasi, che pubblicavano ad esempio sulla collana  “Il romanzo d’avventure” e sul quindicinale  “Il giornale illustrato dei viaggi”, dal 1952, a causa della americanizzazione imperante nei costumi e nei gusti, si decise di adottare camuffamenti anglosassoni, francesi o comunque esotici, a parte poche eccezioni tra cui quella rappresentata da Franco Enna, famoso però già come autore di polizieschi. Se invece di Elisabeth Stern, Audie Barr, Julian Berry e così via si fosse scelto di usare i loro veri nomi, il pubblico di lettori italiani di fantascienza non avrebbe sviluppato una sorta di idiosincrasia preconcetta per le firme nazionali, pensando che gli italiani fossero incapaci costituzionalmente di scrivere fantascienza. Viceversa, ad esempio in Francia, le citate edizioni Fleuve Noir, nelle collane “Anticipation” e “Angoisse”, pubblicavano sin dagli anni Cinquanta autori francesi alternati a inglesi, e ben presto soltanto autori nazionali con il loro riverito nome. In Germania, a partire dagli anni Sessanta, lo stesso.  Il pubblico non li rifiutava certamente.

Ma anche questo è ormai acqua passata: “Urania” pubblica la sua appendice critica e/o narrativa ormai da tempo e soprattutto ha istituito nel 1990 un premio che resta unico a questo livello, dato che gli altri nati insieme con lui, il Premio Cosmo e il Premio Solaria, hanno chiuso i battenti dopo poco. Ventitre anni fa il Premio Urania diede la possibilità di reinserire firme italiane sulla testata dopo una lunghissima assenza, e creò anche un piccolo “effetto valanga”, dato che per un certo periodo i romanzi di nostri autori furono anche due o tre ogni anno, rimbalzando poi nei “Millemondi”. Attraverso di esso è possibile individuare l’evoluzione di temi e tendenze fra gli autori vincitori, sia nomi già noti sia esordienti, dalla space opera all’antiutopia, dalla storia alternativa al connettivismo. Infine, è servito da stimolo: non pochi sono gli autori che, giunti in finale ma non vincendo, hanno poi rimesso mano alle loro opere modificandole e migliorandole sino a riuscire a farle pubblicare.

Stiamo assistendo ad un fenomeno curioso. In un momento in cui – inutile nascondersi dietro un dito – in Italia la fantascienza non  ha ancora raggiunto il successo di altri generi di narrativa popolare come il poliziesco, l’orrore e il fantastico, anzi in un momento in cui sembra, come dire, battere la fiacca, essa al contrario pare attirare l’attenzione di autori mainstream e servire da sfondo di romanzi ambientati nel futuro (in specie italico) per effettuare una critica socio-culturale o vere e proprie antiutopie. Però senza mai essere definita tale, quasi che da parte di editori e autori ci si vergognasse di un nome non del tutto ancora accettato. In ogni caso, il “genere” viene ormai sfruttato assai spesso senza dirlo esplicitamente. Sicché, a livello specializzato, la presenza di “Urania” può essere utile e stimolante sia grazie al colloquio diretto con i lettori di recente approdato dalla rete alla carta stampata, sia, appunto, con il Premio “Urania” (e il recentissimo Premio Stella Doppia dedicato ai racconti) per poter mettere in luce le potenzialità esistenti. E naturalmente, per aggiornare i lettori sulle opere che vengono prodotte, sempre in gran copia, ormai in tutto il mondo.

 

Al di là delle considerazioni storiche, l’aver raggiunto il fascicolo 1600 è un fatto straordinariamente significativo. E’ un bellissimo numero, il 1600, dal punto di vista dei simbolismi connessi. Giusta quanto s’apprende dai tomi del sapiente Jorg Sabellicus dedicati alla disciplina tradizionale della numerologia (1), la sua radice cabalistica è 7, ovvero 6 + 1. Il significato che si associa al 7 è il mistero, l’ignoto, la verità da scoprire. E’ il numero degli enigmi e delle esplorazioni in terre incognite, tanto nel mondo materiale che in quello mentale. E’ il numero che sigilla i coraggiosi che salpano verso l’ignoto, guidati dalle sette stelle dell’Orsa, e scandagliano i sette mari e i sette cieli. La radice numerica del nome Odisseo è 7, e così quella di Einstein e di Gagarin, il primo uomo nello spazio. Il 7 identifica cioè quanti, con le azioni o con il pensiero, bramano sciogliere gli enigmi per nessun altro motivo che il loro essere enigmi, che vogliono vedere al di là delle montagne solo perché le montagne ci sono e sono lì, davanti ai loro occhi. Coloro che non esitano a varcare le porte d’avorio del sogno né le soglie quantistiche dello Stargate. Un tempo, era il sigillo del mago, oggi lo è dello scienziato: davvero il numero adatto a identificare chi sente il fascino delle “avventure nel tempo e nello spazio” (per quanti non lo sapessero, questa era la frase che incorniciava il logo dei primi “Romanzi di Urania””).

Gli elementi che compongono il numero 1600 sono le cifre 1 e 6, e la non-cifra 0. Di quest’ultima diremo dopo. Vediamo ora i significati tradizionali di 1 e 6. L’1 è, ovviamente, la cifra del primato: identifica chi per primo conquista la vetta e vi s’asside, restano a guardare dall’alto quanti s’affaticano inanemente a imitarli. E’ il numero di chi apre la strada e vi s’inoltra per primo, lasciando gli altri ad arrancare dietro di sé. E’ il numero di chi è primo non soltanto una volta, ma è primo sempre: tutti gli altri si dovranno accontentare, al massimo, del 2, accapigliandosi fra loro. Volete sapere qual è la radice cabalistica del nome “Urania”? Avete indovinato: 1.

Quanto al 6, è il numero della stabilità e della durevolezza. L’esagono, fra tutti i poligoni regolari, è quello che suddivide il piano con il minimo perimetro per porzione di spazio: rappresenta dunque l’essenzialità, la radice di ogni sviluppo di forme possibili. E’ l’infinito moltiplicarsi di ogni eventualità secondo scansioni logiche e non secondo uno sviluppo caotico. E’ la razionalità che impone regole alla fantasia. Insomma, è la fantascienza, dove ogni futuro possibile è analizzato secondo ragione, cartesianamente, e non semplicemente attraverso la libera affabulazione. Inoltre, gli atomi che compongono le cellule viventi si dispongono secondo legami esagonali. Il 6 è dunque anche il numero della vita, che sempre si moltiplica e s’accresce, come gli infiniti esagoni sistematicamente riempiono lo spazio infinito. Jorge Luis Borges, che di simbolismo se n’intendeva, compose la sua “Biblioteca di Babele” come un estendersi infinito di celle esagonali. La Creazione venne compiuta in 6 giorni.

Il 6 è anche il numero della famiglia, intesa come cellula base per lo sviluppo ordinato della società. E’ perciò il numero più adatto ad identificare quella grande famiglia che è il fandom di fantascienza. Una famiglia variegata, eterogenea, chiassosa, spesso litigiosa, ma comunque legata da un indissolubile vincolo di fratellanza. Molte società segrete, fra cui i Templari, avevano simboli che si richiamavano all’esagono, o lo includevano. Nel numero 1600, accanto all’1 e al 6 sono posti due zeri. Lo zero, essendo nulla, non ha significato in sé, però può aver valore significante. I due zeri indicano che il 16 può essere duplicato, o raddoppiato: si arriva così al 32. Quest’ultimo è uno dei numeri al quale sono associati i simbolismi più vasti. E’ presente in tutte le architetture tradizionali, sempre con profondi significati. Tanto per dire, nel Sepher Yetzirah, il libro base della Kabbalah, si dice che Dio incise il suo nome nel Tutto in “trentadue mirabili vie di sapienza”. Le colonne del Tempio di Salomone vennero costruite secondo una proporzione fra altezza e circonferenza di 3:2. In ebraico il 32 si scrive con le lettere beth e lamed, che insieme formano la parola bethel, cioè “casa di Dio” e, lette al contrario, lev, ovvero “cuore dell’uomo”. In altre parole, per entrare nella casa edificata da Dio, cioè l’universo visibile e invisibile, dobbiamo rovesciarci e guardare dentro noi stessi. Questa è impresa destinata ai mistici e a chi abbia animo abbastanza forte. Noi ci accontentiamo di far volare il nostro cuore (che per gli antichi era la vera sede della mente) aprendo le pagine di un libro che si spalancano sull’infinito.

Guardate dove ci può portare lontano il ragionare in modo un po’ “laterale” su un fascicolo di fantascienza.

I due zeri del 1600 indicano anche uno spazio che va riempito: in altre parole, ci dicono che è aperta la strada – anzi è sicura – verso la duplicazione (gli zeri sono due): siamo dunque in marcia verso il numero 3200, e ci arriveremo. Non riuscirà a vederlo chi scrive, sciaguratamente, a meno che non si realizzi un auspicabile passaggio della periodicità di “Urania” alla cadenza quotidiana (e anche in quel caso sarebbe dubbio). Ci riusciranno invece tutti i nostri lettori: almeno, è quanto loro auguriamo. Un augurio fatto da chi ha avuto la ventura di comprare in edicola il primo numero della nostra collana. Non sappiamo quanti siano i superstiti che possano dire altrettanto, ma supponiamo non siano legione.

Questo per dire che “Urania” è stata per noi compagna di tutta una vita, piccola (ma neanche poi tanto) isola salvifica nel mare procellarum dell’esistenza. Le dobbiamo molto, dai sogni da ragazzini alla mania collezionistica, dalle incavolature alle soddisfazioni, e con lei a chi l’ha realizzata: dal non abbastanza ricordato Giorgio Monicelli, che l’ideò, all’ultima sua guida, Giuseppe Lippi, amico nostro e non de la ventura. Li ringraziamo tutti, e che il 1600, con i suoi tanti significati simbolici, sia di augurio.

Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco  

 

 

(1) Magia dei numeri, Edizioni Mediterranee, Roma 1976; Manuale di numerologia, Mediterranee, Roma, 2001.

 

 

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John W. Campbell

ottobre 21st, 2013

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John W. Campbell, garanzia di fantascienza

Ogni volta che i nostri lettori dicono di voler leggere “sf e solo sf”, senza contaminazioni fantasy, al riparo da impiastri horror et similia, essi non lo sanno, ma dovrebbero correre al più vicino ufficio della SIAE e versare le competenze dovute a John W. Campbell jr. Era l’unico uomo al mondo che fosse in grado da vivo (e lo è tuttora in spirito) di garantire solidità nell’approccio al futuro, naturalezza nell’ingresso in un mondo che non ci appartiene ma che erediteremo un giorno, riservatezza nel trattamento dei dati. Senza Campbell e la sua rivista “Astounding Stories” – poi ribattezzata “Astounding Science Fiction” e infine “Analog” – non avremmo avuto la prima età d’oro della science fiction americana, quella che in Italia fu definita “fantascienza tecnologica”. In realtà, la sf pubblicata su “Astounding” dagli scrittori della scuderia Campbell era anche un genere sociale, proiettato all’utopia e al suo contrario, la dystopia popolare, ma in seguito questo fatto venne messo tra parentesi perché negli anni Cinquanta un’altra testata, “Galaxy”, si sarebbe specializzata così bene nei temi della social sf da far sottovalutare il precedente apporto campbelliano.

John Campbell assunse la direzione di “Astounding”, il mensile pubblicato a New York dalla Street & Smith, nel 1937. Succedeva al fondatore della testata Harry Bates, un uomo d’azienda buono per tutti i generi del pulp nonché abile scrittore in proprio, e a F. Orlin Tremaine, artigiano del giornalismo popolare che aveva aiutato “Astounding” ad emergere dall difficili acque del fallimento Clayton, il suo primo editore. Nonostante una curiosa idiosincrasia personale (sembra che Tremaine comprasse ottimi racconti senza leggerli, e in seguito permetteva ai suoi redattori di condensarli prima della pubblicazione: è capitato alle Montagne della follia e a L’ombra calata dal tempo di Lovecraft), intorno al 1937 fu nominato direttore editoriale della Street & Smith. Questa promozione lasciò vacante il suo posto che venne ricoperto dal giovane Campbell, un’altra scoperta tremainiana. Nato nel 1910 a Newark, New Jersey, Campbell avrebbe voluto studiare al MIT perché le scienze erano sempre state la sua passione, ma la prestigiosa scuola di tecnologia del Massachusetts lo bocciò per non aver superato l’esame di tedesco.  (Come occuparsi di fisica e non conoscere la lingua di Hermann Oberth?) Lo studente respinto provò a lenire la cocente delusione mettendosi a scrivere fantascienza e indirizzandola un po’ a tutte le riviste, compresa “Astounding”. Anzi, fu proprio su quella pubblicazione – per lui fatale, ormai – che diede il meglio di sé, producendo fra l’altro tre dei racconti proposti in questo volume: “Twilight” (“Crepuscolo” o, nella nostra edizione, “Sette milioni di anni”: novembre 1934); “Night” (“Notte” ovvero “Alla fine del tempo”: ottobre 1935) e “Who Goes There?” (“Chi va là” o anche “La cosa da un altro mondo”: agosto 1938).

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Ian Watson

ottobre 21st, 2013

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Torna il maestro di A.I. intelligenza artificiale, già collaboratore di  Kubrick e Steven Spielberg

Ian Watson (n. 1943) è uno tra i maggiori autori inglesi di fantascienza. Notissimo per aver scritto il soggetto cinematografico di A.I. Iintelligenza artificiale (il film di Stanley Kubrick-Steven Spielberg tratto dal racconto di Brian W. Aldiss), ha esordito nel 1969 con il racconto “Roof Garden Under Saturn”, apparso sulla rivista “New Worlds”. A partire dal 1976, questo ex-insegnante d’inglese ed ex-professore di futurologia al Politecnico di Birmingham (con relativi corsi sulla fantascienza) si è dedicato alla letteratura a tempo pieno. Diversi romanzi e molti racconti sono apparsi anche in italiano, dove la sua opera è stata costantemente seguita da “Urania”. Il romanzo d’esordio di Watson, The Embedding (1973), è uscito – con il titolo Il grande anello, 1979 – nella collana “Sigma” di Moizzi, che ha presentato diverse opere notevoli degli anni Settanta; mentre quello stesso anno vede l’inizio delle traduzioni di Watson nella nostra collezione, che fa uscire Miracle Visitors del ’78 come La doppia faccia degli UFO. L’anno successivo, 1980, è sempre “Urania” a proporre un’importante antologia apparsa in Inghilterra nel ’79, The Very Slow Time Machine (Cronomacchina molto lenta). Come autore di racconti Watson è originale e prolifico: ne ha scritti oltre cento.

Benché le sue brillanti short stories continuino ad apparire in appendice a “Urania” e su altre pubblicazioni – una per tutte, la pluriristampata “Convention mondiale del 2080” – bisogna aspettare il 1986 prima di vedere un altro romanzo di Watson nella nostra lingua. E’ Il libro del fiume (The Book of the River, 1983), compendio di quattro parti uscite originariamente sul “Magazine of Fantasy and Science Fiction” e seguito poi da Il libro delle stelle (The Book of Stars, 1984; tr. it. 1988) e Il libro delle Creature (The Book of Being, 1985; tr. it. 1988), tutti apparsi sulle nostre pagine nella traduzione di Laura Serra. E’ il tentativo di Watson di comporre un vasto affresco a metà tra la fantascienza e il fantastico, e gli conquista le simpatie di un pubblico più vasto. Nel 1990 la  “Biblioteca di Nova SF” recupera God’s World del 1979 (Il pianeta di Dio), un romanzo a sfondo metafisico in cui la nostra razza riceve in dono la propulsione interstellare, ma solo un gruppo ristretto di individui viene scelto per raggiungere il pianeta dei donatori e incamminarsi sulla strada di un’imprevedibile trasformazione. Nel 1997 appare su “Urania” L’ultima domanda (Hard Question, 1996), un thriller tecnologico ricco di sorprese, e nel 2000 Superuomo legittimo (Converts). Intanto, nel 1999 l’Editrice Nord ristampa, nelle proprie collane, Il grande anello e La doppia faccia degli UFO, cambiando i titoli a entrambi: diventano rispettivamente Riflusso  e L’enigma dei visitatori. Nel 2002 esce su Urania Il mistero dei Kyber (Under Heaven’s Bridge, un romanzo del 1981 scritto in collaborazione con Michael Bishop). Nel 2004 Hobby & Work fa uscire Draco (id., 2002) e Harlequin (id., 2004). Nel 2005 replica “Urania” con L’anno dei dominatori (Mockymen, 2003), mentre Hobby & Work presenta I figli del caos (Caos Child, 2004).

Tra i romanzi che restavano inediti in Italia, The Fire Worm (1988) che qui presentiamo è uno dei più originali per concezione e sfondo storico, con un richiamo alle scoperte dell’alchimia che non suonerà fuori luogo in chiave fantascientifica; mentre rimangono da scoprire The Jonah Kit (1975), vincitore del premio British Science Fiction; The Gardens of Delight (1980), Deathhunter (1981), Chekhov’s Journey (1983), Queenmagic, Kingmagic (1986), Whores of Babylon (1988), The Flies of Memory (1990) e altri testi notevoli.

Nel giudizio di John Clute e Peter Nicholls, forse i migliori studiosi contemporanei della fantascienza inglese, “la narrativa di Ian Watson, a volte obbiettivamente ardua nella sua complessità, può essere vista come una vivace rivolta contro l’oppressione intellettuale e politica, ma anche come una dichiarazione dei limiti – almeno per quanto riguarda gli esseri umani – del concetto di realtà. Quest’ultimo, essendo stato creato su misura dei nostri ristretti canali percettivi, risulta soggettivo e parziale; il tentativo umano di accedere a realtà più complesse, attraverso metodi che vanno dalle droghe alle discipline linguistiche, dalla meditazione a un’educazione radicalmente innovata, non sarà mai completamente coronato dal successo. L’umanità è troppo limitata, troppo poca cosa per afferrare la realtà nel suo complesso. Ian Watson è forse lo scrittore di fantascienza contemporaneo che meglio sintetizza questi temi, e il meno illuso”.

G.L.

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Leigh Brackett di Marte

settembre 18th, 2013

leigh_brackettLe avventure marziane riproposte in questo volume sono state scritte e pubblicate su rivista tra il 1949 e il 1964, mentre nel 1967 sono state raccolte in volume con il titolo The Coming of the Terrans (Storie marziane). Insieme a quelle contenute nel dittico dei Canali di Marte, da noi pubblicato anni fa (1), formano un ciclo unitario e forniscono un’immagine del pianeta rosso tutt’altro che convenzionale, se per “convenzione” si intendono i dati scientifici ormai comunemente accettati e trasmessi dalle sonde spaziali fin dagli anni Settanta. Oggi sappiamo che Marte è un luogo deserto, con due lune piccolissime e una temperatura vagamente paragonabile a quelle della terra solo all’equatore, perché la maggiore distanza dal sole lo rende un pianeta freddo. Potrebbe essere terraformato, è vero: ma per adesso ci appare come una gelida Death Valley che solo per dimensioni, e grazie alla presenza di un’atmosfera rarefatta, può essere considerato il pianeta più “ospitale” del sistema solare. Tuttavia c’è stato un periodo di tempo abbastanza lungo – dalle osservazioni di Schiaparelli nel 1877 sino agli anni Cinquanta del XX secolo – in cui l’opinione pubblica è stata influenzata dalle prime, azzardate speculazioni su Marte o dalle immagini dei pulp magazine, e il pianeta rosso è stato concepito come un mondo abitabile e abitato, teatro di ogni sorta di fantasie. Un esempio recente lo si è potuto vedere al cinema, con l’epico John Carter prodotto dalla Disney e tratto dai romanzi di Edgar Rice Burroughs: film che mette in scena le antiche civiltà marziane con la disinvoltura di un péplum un po’ aggiornato.

A quegli scenari favolosi si è ispirata Leigh Brackett, la scrittrice nata a Los Angeles nel 1915 e attiva molto presto anche nell’ambiente del cinema. Nel 1946 avrebbe sposato Edmond Hamilton, un altro affermato autore di fantascienza, e collaborato ad alcuni dei primi racconti di Ray Bradbury, trasferitosi a Los Angeles proprio negli anni Quaranta. Brackett ha pubblicato racconti e romanzi di fantascienza, polizieschi (Un cadavere di troppo, Giano), spionistici (Amico mio, fratello assassino, “Segretissimo” Mondadori) ed è morta a Lancaster, in California, nel 1978, un anno dopo la scomparsa del marito; aveva appena completata la sceneggiatura dell’Impero colpisce ancora di Irvin Kershner (1977). Collaboratrice dei pulp ma anche sceneggiatrice affermata per registi come Howard Hawks (Il grande sonno, 1939) e Robert Altman (Il lungo addio, 1973), ha dedicato gran parte della sua opera letteraria alla continuazione del genere marziano.

Quello inaugurato nel 1911 da Burroughs con Under the Moons of Mars, la prima escapade di John Carter, non era il solo esempio a disposizione. Un’abile narratrice degli anni Trenta e Quaranta, Catherine L. Moore, aveva creato un taciturno avventuriero del futuro, Northwest Smith, le cui imprese erano “fantastiche” in un senso più consapevole rispetto a Burroughs e sconfinavano nel gotico. Northwest Smith è un pistolero in cerca di guai su Venere e su un Marte che sembra un paesaggio del West animato da un tocco spettrale. Senza il suo esempio, probabilmente non esisterebbero i colori cupi e le lande romantiche di Leigh Brackett, perché in Burroughs non ve n’è quasi traccia. Nei racconti della Brackett assistiamo a una sintesi di queste attitudini: intrecci senza risparmio d’azione ma anche atmosfere inquietanti e misteriose.

Gran parte della sua produzione, creata tra la fine degli anni Trenta e la metà dei Settanta, è ambientata sul Marte di fantasia cui abbiamo accennato: era nello spirito dei tempi ed era un po’ la politica di “Planet Stories”, la rivista di fantascienza avventurosa su cui sarebbero uscite anche le prime Cronache marziane di Ray Bradbury. Proprio come in Bradbury, vi è in Brackett una sfida cosciente all’immagine del pianeta rosso resa dall’astronomia e dalla fantascienza ortodossa: il suo tentativo non è di costruire un mondo dell’avvenire o della possibilità; al contrario, è quello di appropriarsi di un mondo di sogno, rivendicando le capacità dell’immaginazione. Il risultato è un ambiente crepuscolare, malinconico e dimenticato, una dell grandi creazioni del sottogenere che i critici chiamano planetary romance. (Nell’ambito della fantascienza popolare lo hanno coltivato soprattutto gli americani, da Jack Vance a Marion Z. Bradley, ma vi sono numerosi classici inglesi. Senza voler scomodare il Voyage to Arcturus di David Lindsey o la trilogia di C.S. Lewis, va ricordato che uno dei primi esempi del genere si deve a Edwin Arnold, autore di Lieut. Gullivar Jones: His Vacation pubblicato nel 1905, e che un suo entusiastico continuatore è stato il giovane Michael Moorcock, con un proprio ciclo marziano.)

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K.W. Jeter

settembre 18th, 2013

Image1-10236_w525Un grande amico di Dick,

il continuatore di Blade Runner

e l’inventore dello steampunk

Americano, nato nel 1950 e famoso, inizialmente, soprattutto per alcuni romanzi horror, Kevin Wayne Jeter è oggi riconosciuto come un importante autore di fantascienza e fantasy. È stato il creatore del termine “steampunk”, da lui coniato nel 1986, anche se il suo primo romanzo, Seeklight, risale a undici anni prima. Nel 1979 ci ha dato un seguito della Macchina del tempo di Wells intitolato Morlock’s Night, che “Urania” ha tradotto come La notte dei Morlock. Il suo primo romanzo edito in Italia è però Telemorte (The Glass Hammer, 1985), pubblicato nel n. 1020 di “Urania”.
Probabilmente il suo libro di science fiction più controverso è Dr. Adder (1972, ma rimasto inedito fino al 1984), una storia dickiana tradotta in italiano da Fanucci con lo stesso titolo. Dark Seeker (1987, tradotto da “Urania” come L’ospite) è un romanzo d’angoscia che sfrutta il tema degli allucinogeni. Il presente Infernal Devices: A Mad Victorian Fantasy (1987) è un romanzo steampunk, corrente letteraria che secondo alcuni critici è stata inaugurata proprio da Jeter con La notte dei Morlock. Si tratta di romanzi che, pur essendo tipicamente fantascientifici e sfruttando temi classici come il viaggio nel tempo, l’invenzione innovarice, ecc., fanno riferimento ai capostipiti del genere — Wells, Verne, Conan Doyle — per immergersi con ironia nel mondo vittoriano che generò quelle fantasie archetipali.
Di K.W. Jeter su “Urania” sono apparsi anche Farewell Horizontal (L’addio orizzontale, 1989) e Madlands (Madlands, Terre impossibili, 1991). A metà degli anni Novanta lo scrittore, che è stato amico personale di Philip K. Dick e ancora oggi considera il suo maestro, ha dedicato due seguiti alla vicenda di Blade Runner: Blade Runner 2 (Blade Runner 2: The Edge of Human, 1995) e Blade Runner, la notte dei replicanti (Blade Runner 3: Replicant Night, 1996). Nel 2000 avrebbe pubblicato un terzo seguito intitolato Blade Runner 4: Eye and Talon. Dopo un lungo silenzio letterario, interrotto soltanto da alcuni romanzi su commissione del ciclo di Star Wars, Jeter ha ripreso a scrivere pubblicando il romanzo online The Kingdom of Shadows (2011), il fantasy Death’s Apprentice in collaborazione con Gareth Jefferson Jones (2012) e Fiendish Schemes (2013), un seguito ideale delle Macchine infernali.

G.L.

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Fritz Leiber, sfide della mente

agosto 13th, 2013

FrtizLeiberTra gli scrittori che hanno esordito all’inizio della prima Età d’oro della fantascienza americana, cioè intorno al 1939, Fritz Leiber è il più eccentrico. Anche lui ha pubblicato su “Astounding” e “Unknown”, allora riviste leader del settore, ma si è subito distinto per una voce particolare, quasi dissonante. Rispetto alla pattuglia di autori che si apprestavano a inventare la sf tecnologica, Leiber ha cantato fuori dal coro, tessendo moderni sortilegi più in linea con il mainstream letterario che con il “genere”. E quando sarebbe passato alla sf ortodossa, ne avrebbe fatto un uso disinvolto e personale, ponendo quasi dal nulla le premesse della “social sf” . Anziché celebrare le conquiste di una tecnologia titanica, o il gigantismo dell’uomo che si espande in un universo di stelle e soprattutto di macchine, preferisce mostrarne il lato in ombra. Leiber è stato un artista dei chiaroscuri, dei terrori che può nascondere l’ignoto, delle società future “stregate” perché è stregata la mente degli esseri umani. Fertile e ossessivo, dotato di un macabro senso dell’umorismo ma soprattutto di una prosa ricca e anti-banale, tesserà negli anni un vero e proprio arazzo in nero dell’America, lasciando intravedere, oltre il tessuto, le meraviglie di un cosmo a più dimensioni che normalmente ci sfiora soltanto ma che a volte prende il sopravvento su di noi. Per Leiber non sono i razzi a collegarci intimamente allo spazio, ma i nostri nervi. Le stelle nere, i vortici dell’assurdo, i mondi inesplorati non rispondono a un navigatore razionale quanto all’inconscio, di cui l’universo è un’immagine specchiata. Visto in quest’ottica, Fritz Leiber non è solo un bravo autore del fantastico o un acuto antiutopista, ma una voce degna di un Poe avveniristico. Di più, è un uomo colto nel senso in cui lo sono di solito gli scrittori europei: mentre per gli americani quella che conta è il know-how, la cultura sul campo, per il nostro il lato umanistico è importante e le sue sfide sono anche, e soprattutto, sfide della mente.

Nato a Chicago nel 1910, da una coppia di attori come Poe (suo padre, Fritz Leiber senior, è riconoscibile nel ruolo dell’altissimo prete che accompagna Charlie Chaplin alla ghigliottina nel finale di Monsieur Verdoux), il giovane Fritz Reuter Leiber non ha avuto una vita avventurosa né premature esperienze amorose. Non a caso la sua autobiografia giovanile, uscita anche in italiano nel volume La luce fantasma, si intitola Poco disordine e poco sesso precoce. Questo giovanotto alto, magro e affascinante come il padre attore, è alquanto solitario; scrive lunghe lettere a H.P. Lovecraft, dal quale riceve incoraggiamento per la sua vocazione letteraria, e gradualmente si sforza di trovare una propria voce. Pubblicherà i primi racconti fantastici su “Unknown” e “Weird Tales”, raccogliendoli più tardi nel volume dal titolo shakesperiano Neri araldi della notte (Night’s Black Agents, 1947). Non si accontenterà di spettri derivati né di imitazioni: c’è della fantascienza nei suoi terrori, ma soprattutto c’è la modernità della notte americana, l’eleganza del palcoscenico. In uno dei racconti più famosi della raccolta, “Fantasma di fumo”, lo smog e i residui tossici dell’industria materializzano uno spettro al passo con i tempi, paragonabile forse solo allo “It” di Theodore Sturgeon, e tuttavia più urbano; ne “I sogni di Albert Moreland” un uomo solo gioca, notte dopo notte, una partita a scacchi contro un avversario fantomatico che vede in sogno; dall’esito della partita dipenderà la sorte del mondo reale. Un’idea folgorante che si svolge in una dimensione onirica, del tutto al di là del banale tessuto quotidiano, eppure ricca di pathos; una dimensione notturna e pericolosa dove la tensione nasce dalla disperata solitudine del giocatore. In storie memorabili come“Ai raggi X”, la ricerca dell’ignoto va di pari passo con la rappresentazione di ambienti attuali e personaggi sofisticati. Nel 1938 Leiber aveva deciso di rielaborare una trama ideata con l’amico Harry Otto Fischer e di scrivere il racconto “Il gioiello nella foresta”, noto anche come “Due in cerca di avventure”: la prima trama ambientata nell’immaginario mondo di Nehwon che diventerà la sua creazione fantastica più duratura.

Il mondo di Nehwon (parola che rappresenta il rovescio di No When, “in nessun tempo”) è un universo magico dotato di una coerente geografia ed economia. La tecnologia è ferma a prima dell’invenzione delle armi da fuoco e nella corrotta capitale Lankhmar si muovono personaggi coraggiosi e pieni di curiosità, barbari e uomini civili, bellissime donne e poco raccomandabili negromanti. I protagonisti della serie – nota anche come ciclo delle Spade – sono due: il barbaro Fafhrd, venuto dal nord, e l’Acchiappatopi Grigio (Gray Mouser) che è il suo scudiero, amico e aiutante. Veri e propri moschettieri senza moschetto, ma con spade affidabili e personalizzate, i due amici amano, combattono e soffrono come due eroi della mitologia, mentre i maghi loro protettori e gli stregoni loro nemici si adoperano a tuffarli nelle avventure più impossibili, costringendoli a rischiare continuamente la vita. Il modello su cui è basata la figura di Fafhrd è probabilmente Conan, il gigantesco cimmero creato da Robert E. Howard; ma si cercherebbe invano un equivalente dell’Acchiappatopi Grigio nella saga del barbaro howardiano: questo personaggio piccolino, mingherlino, incappucciato di grigio e abilissimo con il fioretto, è più vicino a certi saggi e disillusi eroi del romanzo picaresco che a qualsiasi personaggio della narrativa d’azione. Perché la fantasy di Leiber non è un genere soltanto avventuroso, e proprio il Mouser serve a introdurre l’elemento beffardo o di riflessione che caratterizzerà, d’ora in poi, le loro incessanti peripezie. Al genere cui appartengono i romanzi e i racconti di Nehwon, Fritz Leiber attribuisce un’etichetta di sua invenzione: si tratta, dirà giocando con le parole, di sword & sorcery, spada e magia, un po’ come si dice “cappa e spada” per indicare i romanzi di Alexandre Dumas. (Più tardi, sull’onda del grande successo popolare di Tolkien, a sword & sorcery si preferirà la nuova locuzione heroic fantasy, entrata anche nell’uso italiano come “fantasia eroica”.) Come vedremo meglio fra poco, dopo un promettente inizio alla fine degli anni Trenta l’attenzione di Leiber verrà distratta dal genere fantasy per alcuni decenni; ma a partire dagli anni Sessanta vi tornerà con sempre più vigore, completando l’ultimo romanzo del ciclo delle Spade pochi anni prima della morte, avvenuta nel 1992: e sarà un piccolo gioiello come Il cavaliere e il fante di spade.

Nonostante il tenace attaccamento al mondo di Nehwon, il primo romanzo scritto e pubblicato da Leiber non appartiene a quell’affascinante universo (i tempi non erano ancora maturi), bensì a un filone più in voga come il thriller soprannaturale. Il titolo del romanzo, pubblicato nel 1939, è Conjure Wife e significa più o meno “La moglie strega”, ma in Italia è uscito prima come Ombre del male e poi come Il complotto delle mogli. Nel frattempo Leiber si è finalmente sposato e dalla bellissima Jonquil avrà il figlio Justin. Fritz e Jonquil vivono insieme da poco: sul giovane scrittore ex-casto, il matrimonio ha l’effetto di scatenare fantasie archetipali e Conjure Wife è la storia di un professore universitario del New England il quale scopre che la moglie è dedita alla magia, anzi che tutte le donne, all’insaputa dei maschi, sono streghe. La battaglia per il potere che esse conducono è pericolosissima, ma necessaria: molto spesso agiscono a fin di bene per proteggere o difendere i mariti. E’ un’idea scioccante, degna di essere sviluppata e messa a fuoco anche nei romanzi successivi.

L’alba delle tenebre (Gather, Darkness!,1943 ) parla di un’altra fantastica lotta per il potere. Si tratta del primo libro di fantascienza di Leiber, e mette in scena una civiltà opprimente del futuro in cui le redini della politica sono nelle mani di una strana chiesa; streghe e stregoni rappresentano l’opposizione all’ordine costituito. Si vede subito che Leiber ha tutte le carte in regola per alimentare il nascente filone della science fiction “sociologica”; oltretutto, il mercato del fantastico va gradualmente restringendosi e il nostro decide di rivolgersi alle riviste di fantascienza. Tra la fine degli anni Trenta e la fine del decennio successivo, Leiber tenta varie attività: insegnante in un piccolo college dell’Est (su cui modellerà l’università di Hempnell in Conjure Wife), predicatore, redattore. Dopo la Seconda guerra mondiale, per lunghi anni lavorerà nella redazione del periodico “Science Digest” e scriverà nel tempo lasciatogli libero dall’ufficio e da un paio di gravi crisi personali segnate da problemi di alcoolismo, ma anche dalla morte della carissima Jonquil. Nonostante tutte le difficoltà porterà a termine, a intervalli, molti importanti romanzi di science fiction: I tre tempi del destino (Destiny Times Three, 1945, una complessa storia di viaggi nel tempo), Il verde millennio (The Green Millennium, 1953, una storia di visitatori dal futuro) e Le argentee teste d’uovo (The Silver Eggheads, 1961), bella parodia dell’industria editoriale e della produzione letteraria in serie che si legge ancor oggi con piacere.

Questi romanzi sarebbero bastati a chiunque per costruirsi una solida reputazione. In realtà, altri autentici gioielli del periodo sono i numerosi e originalissimi racconti brevi usciti su riviste come “Galaxy”, “The Magazine of Fantasy and Science Fiction”, “Amazing” e “Fantastic”. Sono queste storie raffinate, moderne, a volte macabre, a stabilire in tutto il mondo la fama di Fritz Leiber, facendone uno dei grandi innovatori del genere. Né l’interesse per il fantastico viene meno: un romanzo come Scacco al tempo (The Sinful Ones, 1953) si rivela un thriller memorabile in cui un uomo e una donna scoprono di essere le sole creature “vive” in un mondo di marionette. Qui il terrore raggiunge livelli quasi astratti e l’avventura ha un ritmo incalzante, ricco di suspense.

Ma, come dicevamo, molte delle sorprese migliori vengono dagli ottimi racconti brevi. In “Brutta giornata per le vendite”, per esempio, assistiamo al dramma concentrato in poche pagine di un robot che è l’unico superstite dell’attacco atomico scatenato sull’America. In “Un secchio d’aria” la fine del mondo è vista attraverso gli occhi di un bambino asserragliato con la famiglia in un rifugio dove l’aria congelata viene resa respirabile da un processo di liquefazione, dopo che la Terra è uscita dall’orbita e si è perduta nel buio e nelle bassissime temperature del vuoto esterno. In “Prossimamente”, un’altra crudele storia americana, un lottatore di catch sfoga la propria frustrazione picchiando e torturando una ragazza che gli resta vicina proprio per permettergli di farlo. E non sono che alcuni esempi fra i tanti. Intanto, verso la metà degli anni Sessanta Fritz Leiber abbandona il giornalismo e l’editoria per dedicarsi a tempo pieno all’attività di scrittore. In questo periodo pubblica romanzi impegnativi come Il grande tempo (The Big Time, 1959; premio Hugo nel 1960) e più tardi Novilunio (The Wanderer, 1964), che lo consacrano fra i maestri del genere. Il grande tempo riprende e amplia un’idea che Leiber aveva già lanciato in una serie di racconti: quella della Guerra dei Cambiamenti, una partita mortale giocata fuori del tempo normale dalle due misteriose fazioni dei Ragni e dei Serpenti. Chi siano questi signori eternamente in conflitto non è dato saperlo: ma poiché lo scopo della guerra è proprio quello di modificare gli avvenimenti nel tempo normale, i soldati vengono reclutati fra le genti di tutti i pianeti e tutte le epoche storiche. Lo svolgimento della serie – che comprende, oltre a Il grande tempo, i racconti de La guerra e i labirinti – non concede molto al racconto d’azione fine a se stesso, anzi denota una notevole complessità di idee e una finezza stilistica che in alcuni episodi raggiunge il capolavoro. Il romanzo Il grande tempo, in particolare, sembra un’opera teatrale: è tutto ambientato in un bar fuori dell’universo in cui gli ufficiali delle varie fazioni (e delle varie epoche) vanno a riposarsi nelle pause della Guerra dei Cambiamenti, un conflitto che uccide i ricordi e la storia prima ancora che la vita spirituale e materiale di miliardi di combattenti.

Dopo l’esperimento di Novilunio, altro romanzo vincitore del premio Hugo (1964) il cui pretesto è offerto dall’avvicinarsi alla Terra di un misterioso corpo celeste, ma che è anche un affresco della società americana nel decennio di più radicale trasformazione del dopoguerra, Leiber si concede una pausa. Tornerà alla fantascienza cinque anni più tardi, con la sua ultima opera lunga in questo campo, Il fantasma del Texas (A Specter Is Haunting Texas, 1969), una satira della rivalità fra Mex e Tex, cioè i messicani e i loro vicini texani che si risolve in una scorribanda nell’umorismo nero.

Da questo momento in poi Fritz Leiber si concentra sulla narrativa fantastica: i racconti del soprannaturale che escono per tutti gli anni Sessanta su “Fantastic” e sul “Magazine of Fantasy and Science Fiction”, le nuove avventure del ciclo di Nehwon (fra cui il romanzo Le spade di Lankhmar, 1961-1968) e il romanzo del mistero Nostra Signora delle Tenebre (1975). Nei racconti del soprannaturale Leiber dipinge uno straordinario ritratto dell’America moderna: come Lovecraft aveva fatto per il New England dei primi del secolo, che è spesso il vero protagonista delle sue fantasmagorie, così Fritz Leiber disegna il panorama sensibile, evocativo e misteriosamente attraversato da presenze “estranee” della Chicago anni Cinquanta, delle spiagge californiane o di San Francisco, la città in cui finirà per trasferirsi. Così, in “La ragazza dagli occhi famelici” un nuovo tipo di vampiro ipnotizza le sue vittime da immensi cartelloni pubblicitari; nei racconti californiani “Il gondoliere nero” e “Un frammento del mondo delle tenebre” Leiber affronta un problema importante della narrativa fantastica (e che sarà largamente ignorato nei decenni successivi a base di thriller sensazionali): come si possa rendere credibile un racconto soprannaturale oggi. Il mondo radiografato in storie memorabili come “Mezzanotte sull’orologio di Morphy” è il nostro mondo e, allo stesso tempo, un universo misterioso e imprevedibile che Leiber esamina fino nelle pieghe più riposte. Ed è grazie a quest’analisi attenta, mai superficiale, che autore e lettore scoprono il volto segreto, non-ufficiale della realtà. In un universo di meraviglie e paura com’è quello leiberiano, nessuno è veramente al sicuro ma a tutti è dato giocare una leale partita con l’Ombra, o se preferite con la Metà oscura.

Il genere di Leiber non è tanto “l’orrore nel quotidiano” che verrà divulgato e spesso banalizzato nei decenni successivi; è invece un orrore meditato, elegante come un film in bianco e nero, capace di astrazioni. Per lui una realtà accettata passivamente è priva di senso, un velo mediocre; solo squarciandolo, con un’operazione che è un rito magico e artistico, si arriva a cogliere la realtà intima delle cose, il ponte gettato fra noi e l’abisso. Infatti, così come non c’è soluzione di continuità fra la mente e l’inconscio, non può esistere interruzione possibile tra il mondo interiore e il cosmo in cui si aggirano i “paramentali”, le pericolosissime entità evocate da Fritz Leiber. Si tratta di esseri reali e nel contempo psichici che rappresentano la versione aggiornata degli Antichi di Lovecraft: archetipi viventi, simboli non tanto dell’uomo razionale quanto dell’estraneità che gli appartiene, e con la quale ogni concezione troppo superficiale dovrà prima o poi fare i conti.

La stessa visione torna nel romanzo dark Nostra Signora delle Tenebre, in cui uno scrittore di San Francisco dovrà affrontare un’antica maledizione letteraria e un mostro nato dalla sua devozione per i libri. Dalle minacce future della fantascienza ai mondi della fantasy, fino alle nere distese del terrore cosmico: un autore completo come Fritz Leiber sembra fatto apposta per ricordarci che la vena di Poe non si è affatto inaridita nella seconda metà del XX secolo, ma ha dato gemme preziose che vale la pena dissotterrare.

Giuseppe Lippi

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Robert J. Sawyer

agosto 13th, 2013

20081115-si-rob-at-desk-cropRobert J. Sawyer, nato a Ottawa nel 1960, è considerato uno degli autori di punta della sf di lingua inglese ed è anche l’unico scrittore canadese di sf a tempo pieno; vive a Tornhill, nell’Ontario, con la moglie Carolyne. Di lui “Urania” ha pubblicato numerosi romanzi, tra cui Apocalisse su Argo (Golden Fleece, 1990), Starplex (id. 1996, giunto in finale al Premio Nebula), Mutazione pericolosa (Frameshift, 1997), I transumani (Factoring Humanity, 1998), Mindscan (2005) e Rollback (2008). La trilogia WWW, una straordinaria serie di ipotesi sui misteri del Web che “Urania” ha presentato nella sua interezza, è stata inaugurata due anni fa con WWW: Wake (2009), che abbiamo pubblicato con il titolo WWW 1: Risveglio . Gli altri due titoli del ciclo sono WWW 2: In guardia (WWW : Watch, 2010), apparso l’anno successivo, e WWW 3: Webmind (WWW Watch, 2011) che presentiamo in questo volume.

Il primo libro di Sawyer, Apocalisse su Argo, è stato proclamato da Orson Scott Card “miglior romanzo del 1990″ (su “Fantasy and Science Fiction”). Starplex è giunto in finale al Premio Nebula. Anche Mutazione pericolosa ha vinto un premio, questa volta in Spagna. Tra i suoi romanzi segnaliamo ancora Illegal Alien (1997), Far Seer (1992), Fossil Hunter (1993), Foreigner (1994), End of an Era (1994). Sono in opzione i diritti cinematografici di Illegal Alien e The Terminal Experiment, che, come anche Golden Fleece, sono una mescolanza di giallo e fantascienza. Far-Seer, Fossil Hunter e Foreigner compongono la cosiddetta “Quintaglio Ascension Trilogy” e raccontano rispettivamente le storie degli equivalenti extraterrestri di Galileo, Darwin e Freud. Dal romanzo Avanti nel tempo (Flashforward, 1999) è stata tratta l’omonima serie televisiva. Il brillante ciclo del Neanderthal Parallax, una delle opere più acclamate della produzione di Sawyer, è uscito su “Urania”in tre volumi: La genesi della specie (Hominids, 2002, premio Hugo 2003; Urania n. 1536), Fuga dal pianeta degli umani (Humans, 2003; Urania n. 1542) e Hybrids (2004).

Il “New York Times” ha detto di lui: “Robert J. Sawyer è uno scrittore di grande fiducia nei propri mezzi e un abile estrapolatore scientifico”. “Mystery News” aggiunge: “Al pari di giganti come Asimov ed Heinlein, Robert J. Sawyer ha capito, forse più di qualunque scrittore contemporaneo, che la fantascienza è letteratura di idee”.

Il sito online di Robert J. Sawyer è all’indirizzo http://www.sfwriter.com/index.htm

La sua bibliografia italiana è sul Catalogo della fantascienza, fantasy e horror: http://www.fantascienza.com/catalogo/A0738.htm#4719

(G.L.)

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David G. Hartwell e Kathryn Cramer

agosto 13th, 2013

6a00d8341c6bcf53ef00e54f3693ba8833-500wiNato nel 1941, americano, David Hartwell è attivo nel campo della  fantascienza dal 1971, prima con iniziative bibliografiche di un certo pregio (Science Fiction and Fantasy  Authors: a Bibliography of First Printings of their Fiction and  Selected Nonfiction, 1979, in collaborazione con L.W. Currey), poi con  un’intensa attività di giornalista e consulente editoriale. Dal 1988  recensisce le novità di fantascienza sulla “New York Review of Science Fiction”, pubblicazione di cui Hartwell è diventato, negli anni, proprietario. È stato consulente o editor per  numerose e importanti case editrici, lottando con le necessità  commerciali di queste ultime per difendere la sua ricerca del nuovo. Non a caso  l’Encyclopedia of Science Fiction definisce l’attività di Hartwell una tightrope walk o “passeggiata sulla fune”.

Come editor ha svolto un’opera encomiabile per Signet Books (fin dal 1971-’73), Berkley/Putnam (1973-’78), Gregg Press (una casa editrice universitaria  specializzata in ristampe di classici, 1975-’86), ecc. Per il gruppo Pocket Books/Simon & Schuster (1978-’83) ha creato la celebre collana di romanzi “Timescape”, mentre, conclusa quell’esperienza, è passato alla Tor Books – forse il principale editore americano di sf – in  qualità di consulente. Ha compiuto altre esperienze presso Arbor House  e William Morrow. Come antologista ha curato ampie raccolte dedicate all’horror (The Dark Descent, in italiano Il colore del male, ed. Armenia) e alla fantascienza, di cui ha voluto compendiare la storia attraverso l’intero arco del XX secolo (Ascent of Wonder: The Evolution of Hard sf, ecc.) In America, la serie The Year’s Best Science Fiction esce ormai da quasi vent’anni.

Kathryn Cramer, scrittrice di racconti e antologista, collabora da
anni con David G. Hartwell. È cresciuta a Seattle, nel nord-ovest degli Stati Uniti, ma ora vive tra Pleasantville, New York, e Boston.
Diplomata in matematica alla Columbia University, nello stesso ateneo  si è laureata in studi americani. Tra i suoi molti libri si contano antologie di hard sf, fantasy (The Year’s Best Fantasy) e horror (Walls of Fear), ma anche manuali (Staying on Top When Your World Turns Upside Down: How to Triumph over Trauma and Adversity, ovvero “Restare in piedi quando il nostro mondo si capovolge: come superare traumi e avversità”). Il suo racconto “In Small & Large Pieces” ha indotto Bruce Sterling a dichiarare: “Sono cose che nessun essere sano di mente può capire”. In effetti è la storia di due fratelli, la femmina psicotica e il maschio suicida. Recentemente, Kathryn Cramer ha fondato uno studio di consulenza per editori elettronici.

Il racconto americano di fantascienza
A lungo il racconto è stato la spina dorsale della fantascienza
americana, e anzi negli anni dal 1926 al 1945 ha costituito il 90%
della produzione ospitata sulle riviste (i pulp magazine, il primo dei  quali fu “Amazing Stories”). Oggi le due più note raccolte annuali del “Meglio” sono quelle curate da David G. Hartwell (che “Urania” e  “Millemondi” hanno tradotto fin dall’inizio) e da Gardner Dozois. Quest’ultima è una gigantesca antologia per noi poco praticabile (per questioni di mole, ma in passato ne abbiamo tradotte alcune in edizione rilegata e poi ne abbiamo ristampato il contenuto in due volumi della serie “Millemondi”). Prima di Hartwell-Cramer e di Gardner Dozois, le più popolari raccolte del meglio dell’anno sono state curate, in USA, da Terry Carr (a partire dal 1964), Donald A. Wollheim e Lester Del Rey (dall’inizio degli anni Settanta). In Inghilterra raccolte analoghe sono uscite a cura di Brian W. Aldiss e Harry Harrison.


G.L.

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Il primo, il secondo e gli altri mondi

luglio 22nd, 2013

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“Fin dall’inizio della carriera di McDonald è stato evidente un certo interesse per i rapporti che intercorrono fra i paesi del Terzo mondo (o almeno, paesi che non sembrano paradigmatici del Primo) e gli abitanti di altri mondi in arrivo fra noi.  In Sacrifice of Fools (1996), un romanzo che dialoga piuttosto intimamente con le idee espresse nella Trilogia aleutiana di Gwyneth Jones, una razza di extraterrestri sessualmente ambigui  – ambiguità che appaiono più o meno trasgressive proprio a causa dell’ambientazione irlandese – è coinvolta in una serie di avvenimenti che potrebbero trasformare il pianeta.” Così scrivono Roz Kaveney e John Clute alla voce “Ian McDonald”della Encyclopedia of Science Fiction online. Così è anche per Il fiume degli dei (River of Gods, 2004, qui presentato in traduzione integrale), un lungo e impegnativo romanzo che segna il ritorno dell’autore sul mercato italiano dopo parecchi anni e affronta i problemi del prossimo futuro dal punto di osservazione dell’India. O meglio, degli stati che affollano e affolleranno con sempre maggiore indipendenza quel vivacissimo subcontinente. “River of Gods”, scrivono ancora Kaveney e Clute, “è ambientato nel 2047, anno del centesimo anniversario dell’indipendenza indiana. I numerosi stati che si sono staccati dalla madre federale sono alle prese con il terribile problema del cambiamento climatico e coinvolti nello sviluppo di nuove intelligenze artificiali, spingendosi ben oltre i limiti ‘consentiti’ dalla conservatrice America, una potenza che tenta invano di mantenere le sue antiche prerogative. Questo immenso e credibile teatro d’azione riesce a darci una visione del futuro di straordinario realismo.” Non a caso Il fiume degli dei ha vinto nel 2005 il premio della BSFA come miglior romanzo ed è stato candidato allo Hugo. Nella raccolta di racconti Cyberabad Days (2008) sono compresi alcuni testi ambientati nella stessa epoca e luoghi, tra cui un seguito alle vicende raccontate nel romanzo; ma anche il racconto “The Djinn’s Wife”, tradotto in italiano come “La moglie del djinn” su “Robot”.

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