Poul Anderson

agosto 6th, 2012 by Moderatore

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È ben nota a tutti i lettori di fantascienza la distinzione tra due modi diversi di intenderla e interpretarla: secondo tale distinzione esisterebbe, da un lato, una produzione attenta in particolar modo all’evoluzione della tecnologia, con le sue implicazioni sull’esistenza dell’umanità nel futuro. Come illustre precursore di tale concezione normalmente si cita il francese Jules Verne e, all’interno del genere, il suo stesso fondatore, Hugo Gernsback, che nel romanzo Ralph 124C421 + non sembra far altro che elencare situazioni future generate da invenzioni tecnologiche. Dall’altro lato un manipolo non sparuto di scrittori, prendendo le mosse dalle opere di Herbert George Wells, si propone di lasciare in prospettiva lo sfondo tecnologico e di focalizzare le storie sui valori dei protagonisti, sulle ripercussioni morali, psicologiche, sociali, degli eventi futuri. Tale produzione, definita normalmente “umanistica” per distinguerla dalla consorella, denominata “tecnologica” o “hard sf”, conta tra i suoi artefici personalità di rilievo come Theodore Sturgeon, Ray Bradbury, James Ballard e altri.

Come al solito la verità sta nel mezzo, e lo dimostrano i tantissimi scrittori specializzati che hanno saputo e voluto costruire le loro storie mescolando con efficacia le due componenti: ecco, dunque, la vera “narrativa scientifica”, nella quale il primo termine richiama l’elemento romanzato, il raccontar storie, la fabulazione come riproduzione della realtà, mentre il secondo vi aggiunge, arricchendolo e delimitandolo, il background tecnologico, lo scenario futuristico in cui agiranno i nostri posteri. Poul Anderson, scrittore americano di origine scandinava, nato il 25 novembre 1926 e scomparso il 31 luglio 2001, appartiene a pieno titolo alla categoria di autori che non hanno voluto sacrificare alcuno degli aspetti costitutivi della narrativa fantascientifica, accettandoli e utilizzandoli tutti con buoni risultati espressivi. Anderson si fa notare come scrittore estremamente versatile, capace di svariare indifferentemente nei vari sottogeneri senza mai perdere in brillantezza di risultati. La sua narrativa, che conta decine di romanzi e centinaia di racconti, non appare mai monocorde o noiosa, e i motivi sono molteplici.Intanto, perché Anderson era un uomo di vasti interessi: pur avendo una formazione di base scientifica (era laureato in fisica), non ha mai trascurato anche altri aspetti del sapere, tra cui la storia, la letteratura, la filosofia. A chi gli chiese, un giorno, quale fantascienza preferisse, rispose:

Vorrei che ci fosse ancor più fantascienza tecnologica al livello di Hal Clement o Gregory Benford, semplicemente perché mi piace. Tuttavia, esistono tante altre cose da leggere oltre la fantascienza. Buon Dio, in fondo non ho ancora letto tutte le opere di Aristotele!

D’altra parte, Anderson non ha mai dimenticato che il lettore cerca soprattutto distrazione e divertimento, per cui, fin dalle sue prime prove di scrittore, è stato attento a conferire alle sue storie un marcato carattere d’azione, nella più genuina tradizione della fantascienza (non a caso è stato definito, con un pizzico di esagerazione, l’ultimo erede dell’Età d’oro del genere). Qualche anno fa, poi, rievocando i suoi esordi di giovane autore alle prime armi, egli volle “nobilitare” il racconto d’avventura o di evasione, di solito maltrattato dai critici:

Il racconto d’azione è sempre stato una forma legittima fin dai tempi di Omero, se non da prima ancora. Inoltre, il mio desiderio era di provare tutte le forme narrative possibili.

E’ questo il secondo motivo che fa di lui un autore sempre interessante e raramente ripetitivo: la volontà di cimentarsi in nuovi campi narrativi, anche esterni alla “sf”, come, per esempio, il romanzo poliziesco e la fantasy (è stato socio eminente della saga, cioè la Swordsmen and Sorcerers’ Guild of America). Nel campo del giallo ha ottenuto il premio “Cock Robin” per il miglior poliziesco e il premio “Mortey-Montgomery” per il miglior saggio su Sherlock Holmes, oltre a essere membro del Mistery Writers of America e dei Baker Street Irregulars, l’associazione degli appassionati di Sherlock Holmes. Non per nulla James Blish, che ad Anderson ha dedicato un breve ma succoso saggio, ha osservato con pertinenza che

Poul Anderson, lo scienziato, il tecnico, lo stilista, il bardo, l’umanista, l’umorista – l’elenco potrebbe continuare all’infinito – è completamente immune da qualsiasi mutamento delle mode e delle tendenze. È, in breve, un artista autentico.

In effetti, a non conoscerne l’autore, chi oserebbe attribuire alla stessa penna opere così diverse come, ad esempio, La spada spezzata e Tau Zero, oppure Tre cuori e tre leoni e Quoziente 1000? Lo scrittore stesso ha inteso fare un po’ di chiarezza autodefinendosi, piuttosto modestamente, “un cantastorie all’antica”; eppure, a un esame più attento, non sfugge la presenza di alcuni elementi costanti o, se si preferisce, di certi connotati che si inseriscono in un sistema ideologico nient’affatto difficile da individuare. La sua è una fantascienza che, secondo la ben nota formula di Roger Caillois, deriva legittimamente dal grande patrimonio popolare delle fiabe, che sapevano trasmettere agli ascoltatori, divertendoli, contenuti formativi. È stato Robert Scholes, il noto critico e teorico americano, autore con R. Kellog di un’opera fortunata, La natura della narrativa, a delineare con sicurezza i tratti essenziali di questa particolare fantascienza in un prezioso libretto, purtroppo inedito in Italia: Structural Fabulation, edito nel 1975. In esso, tra l’altro, osserva:

La narrativa è caratterizzata dalla sua abilità nel realizzare due funzioni, che possiamo definire sublimazione e cognizione. La sublimazione è la qualità artistica che toglie l’ansia, che rende la vita più sopportabile: a volte questa capacità viene definita con un termine spregiativo, escapismo. (…) La cognizione ci permette di conoscere meglio noi stessi e la nostra situazione esistenziale.

Partendo da questi due postulati, il ragionamento di Scholes prosegue identificando nella sf il genere di narrativa moderna in cui, più che in ogni altro, quelle due funzioni si sono proficuamente incarnate: infatti, essa è

una forma nello stesso tempo vecchia e nuova, radicata nel passato ma senz’altro moderna, orientata verso il futuro ma non vincolata a esso. La sf descrive un mondo totalmente discontinuo da quello che conosciamo, eppure torna a confrontarsi con il mondo presente secondo le modalità della conoscenza.

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Dopo aver distinto due varietà storiche di “opera didattica” o di “fabulazione”, quella “dogmatica” (es. la Divina Commedia di Dante) e quella “speculativa” (l’Utopia di Tommaso Moro), Scholes delinea l’evoluzione di quest’ultima, ben presto legatasi alla nascita della scienza moderna, fino a quella che lui definisce la “fabulazione strutturale”, cioè una forma tutta moderna di narrativa che riesce a soddisfare, nel contempo, i nostri bisogni sublimativi e cognitivi. La sua definizione è probabilmente una delle più soddisfacenti anche della fantascienza stessa (e ben sappiamo quanti ci abbiano provato):

Vista in termini culturali, la fabulazione strutturale è un genere di narrativa dell’immaginazione fortemente influenzata dalla scienza moderna. È specificatamente romantica in quanto rompe, consapevolmente e deliberatamente, con ciò che normalmente definiamo realtà, ma sviluppa i suoi arbitrari parametri con un rigore e una consistenza che imita, pur in modo fittizio, il rigore del metodo scientifico.

Sublimazione, cognizione: ovvero da un lato la fantasia, il sogno, l’avventura, la visione; dall’altro la logica, il metodo, il raziocinio: ecco il nostro Poul Anderson! Perché, se è vero che si tratta di uno scrittore multiforme e poliedrico, se è vero che le sue storie non sembrano seguire una stessa direzione, è ancor più vero che esse ruotano sempre su due cardini che ne costituiscono la chiave di volta, il filo conduttore, vale a dire la forte componente avventurosa insieme a una proposta di riflessione e valutazione. Prendiamo i due cicli più importanti nei quali Anderson ha fatto confluire gran parte dei suoi romanzi e racconti, quello della Lega polesotecnica e quello dell’Impero terrestre. Con essi ha voluto presentarci un vasto affresco del futuro della razza umana e, nello stesso tempo, sottoporci delle coordinate ideologiche e filosofiche di cui lui stesso ha dato le motivazioni:

La storia è sempre stata uno dei miei più grandi interessi. Da giovane ho letto Spengler e ne sono rimasto molto colpito; poi ho letto Toynbee e altri studiosi di storia. La natura di certi processi storici fondamentali – il crollo di una civiltà, la sua rinascita o la sua stessa esistenza – rimangono soggetti a controversie.

L’accenno a Spengler, noto autore del Tramonto dell’occidente e tra i più accaniti critici del mondo moderno, ha rafforzato la convinzione di coloro che vedono in Anderson un autore portatore di una ideologia conservatrice, se non addirittura reazionaria. In realtà, non sono rari nelle sue opere i momenti che sembrano giustificare tale tesi. Nel racconto “Gli ultimi eroi” (1958) troviamo un piccolo villaggio dell’Ohio, dopo la fine della civiltà americana, dove la gente è riuscita a ricostruire il tessuto organico della comunità, vivendo modestamente ma serenamente, finché la sua esistenza viene minacciata dalla presenza di due personaggi che simboleggiano le due precedenti concezioni del mondo, quella liberal-capitalistica e quella comunista; lo zio Jim, il “pazzo” del paese, detto il “repubblicano”, nostalgico dei tempi andati e sempre pronto a parlare di produzione, di profitto e di guadagno, e il “compagno” Henry Miller, il Natolibero, portatore di concezioni ugualitaristiche e collettivistiche, entrano ben presto in forte contrasto tra loro, minacciando la quieta esistenza del villaggio, e finendo per eliminarsi reciprocamente. Qui la metafora è cristallina: Anderson mostra di respingere i due sistemi allora dominanti, ambedue visioni dogmatiche e per questo fondamentalmente nemiche della natura umana, a favore di una soluzione più “tradizionale” e più “naturale”, fondata su rapporti umani semplici e spontanei.

D’altronde, il suo legame d’affetto con il sapere e la visione tradizionali resta uno dei punti forti della sua concezione ideale della vita, e lo stanno a dimostrare il suo attaccamento alle saghe nordiche e i famosi romanzi di fantasy ed heroic fantasy. Qualche anno fa, a Charles Platt che gli chiedeva in un’intervista i motivi della sua simpatia per l’età feudale, Anderson ha risposto adducendone due molto significativi per comprendere certe sue prese di posizione:

Forse le strutture del feudalesimo sono alla base dell’uomo agricolo, figura a cui spesso si ritorna, mentre ogni altra forma di civiltà appare instabile. Il mio interesse è rivolto inoltre a una società fortemente strutturata, e quella feudale vi rientra appieno. Non si tratta di semplice gerarchia, ma di una visione elaborata che aggiunge colore alla storia con i suoi dettagli pittoreschi. In altre parole, è un modo per ricollegarsi e sentire l’attrazione della tradizione, che altrimenti nella fantascienza tende a scomparire. Le società dipinte nelle storie di fantascienza solitamente sembrano non avere tradizione.

In realtà Anderson, che è persona di indole estremamente mite e riservata, non si è mai difeso apertamente dall’accusa di conservatorismo né, tanto meno, è stato al gioco della polemica, limitandosi a dire, molto saggiamente, di andare a vedere qual è la realtà contro cui lui intende reagire e polemizzare. Da buon “conservatore libertario” (la definizione è sua) egli rigetta come pericolose tutte le ideologie sistematiche e tutti gli -ismi, preferendo una concezione piuttosto pessimistica se non addirittura desolata delle “magnifiche sorti e progressive” e della natura del potere.

I due grandi cicli andersoniani appaiono come spietate analisi dei meccanismi perversi che a poco a poco, fatalmente, inceppano il processo evolutivo di una civiltà e ne sanciscono la inevitabile decadenza. Il declino inizia quando i governanti perdono lo slancio della partenza e la carica ideale e le cose proseguono per inerzia, delegittimandosi. Si veda, per esempio, come questo motivo sia da Anderson analizzato nell’importante romanzo Orion risorgerà; ogni sistema di vita che si costituisca a dogma e che si consideri portatore della verità non può che essere nefasto per gli uomini, ed anche la civiltà dei Mauri che, dopo l’olocausto nucleare, era pur pervenuta a una convivenza fondata sul rispetto della natura e sull’utilizzazione delle energie dolci, si corrompe divenendo sistema e meccanismo di conquista, finché nelle ultime pagine della vicenda Anderson lancia, attraverso la sua eroina, un messaggio “forte” ai popoli della terra:

Uomini, donne di tutte le nazioni, di tutte le razze e condizioni, vi lascerete ancora a lungo manipolare? Quando andrete finalmente a dire ai vostri governanti “basta”? Quando andrete finalmente a esigere il diritto di gestire le vostre vite?

È la regola dell’entropia, ben nota da Anderson come progressiva perdita di energie positive: “Nessun popolo, che offra ai suoi giovani solo lusso e sicurezza, può vivere a lungo”. Per questo, forse, c’è in lui tanto rigetto, diretto o indiretto, contro la civiltà del successo, in cui le doti migliori dell’uomo, le sue immense possibilità creatrici sono state sacrificate sull’altare dell’egoismo e dell’individualismo sfrenato:

Il concetto di libertà individuale e di un governo limitato nei suoi poteri è stato un grande ritrovato. Non è detto che funzioni per tutte le culture, ma per buona parte dell’Europa occidentale è definitivamente provato essere il sistema più produttivo e che ha dato maggiori opportunità per realizzare i propri potenziali o semplicemente per rendere più felice la propria vita. Per questo sono così colpito dal fatto che i muri si stiano rialzando intorno a noi. Io sento che il concetto di libertà del singolo, che fu inventato nel diciottesimo secolo dai Padri fondatori, stia perdendo incisività e interesse agli occhi della gente. E non penso che credere questo sia necessariamente reazionario.

Gli stessi due protagonisti dei cicli, il mercante Van Rijn e l’agente terrestre Dominic Flandry, incarnano due tipi ormai in declino, vale a dire l’individualista che agisce solo per il proprio tornaconto (e lo fa anche con metodi non proprio cristallini) e l’idealista stanco, l’eroe malinconico che crede ancora in certi valori e continua a combattere sebbene conscio del destino cui l’umanità va incontro. Il pessimismo scorato di Anderson di fronte a una civiltà che ha perso e dimenticato i giusti principi non lascia molti spiragli alla speranza: come ha scritto in epigrafe al racconto “Stella mineraria” (1973): “Alla fine Dio il Cacciatore abbatte ogni creazione e ogni cosa che sia stata fatta dalle creature”. L’uomo ha come sola risorsa la sua intelligenza, la sua forza, le sue visioni, perché “la vita non ha propositi e significati estrinseci; è solo un altro fenomeno dell’universo fisico: semplicemente è”.

Ma pur al centro di questa sconsolata visione, l’uomo può redimersi, può diventare eroe, a condizione che sappia ammettere le sue debolezze e accettare lo stato in cui è costretto ad agire, assumendosene appieno le responsabilità, comprese quelle che implicano qualcosa di rischioso. Infatti, egli dice, l’uomo non deve interrompere il suo cammino di civiltà, non deve rinunciare alla lotta. La sfida contro l’entropia delle energie esterne e interne si riassume allora in una triplice formula, che Anderson fa comparire in quasi tutte le sue creazioni:

1° L’uomo ha bisogno di una sfida;

2° L’uomo deve rispondere alla sfida;

3° L’uomo deve saper accettare la responsabilità insita nell’azione.

Solo a queste condizioni ci sarà speranza; ed è questo che intuiscono gli uomini a bordo dell’astronave Leonora Christine in Tau Zero, lanciata verso l’immensità spazio-temporale. Un pugno di umanità che sta perdendosi nelle dimensioni dell’inimmaginabile, ma che alla fine ritrova la forza di contrastare l’entropia e di accettare la sfida:

Penso che abbiamo un dovere da compiere, verso la razza che ci ha procreati, verso i bambini che noi stessi potremo ancora procreare: il dovere di continuare, fino alla fine.

Ed è in queste parole, che possono sintetizzare efficacemente il messaggio di questo autore molto amato ma anche ingiustamente criticato, che noi troviamo l’humus stesso della fantascienza, che con i suoi sogni ci ha resi più vivi, perché come ha detto un giorno un saggio, “la vita è sogno”.

Giuseppe Caimmi

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2 Responses

  1. Irene Vanni

    Io non lo trovo da nessuna parte in provincia di Pisa. Oltretutto i giornalai in città, i pochi aperti, mi dicono che d’agosto o non arriva nulla o dirottano tutto verso il mare…

  2. Giuseppe C.

    Ciao Giuseppe!
    Mi hai fatto una bella sorpresa, grazie!

    A presto, mitico

    G.C.

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