Profili

Joe Haldeman

febbraio 12th, 2009

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Torna con i suoi racconti un classico della sf “politica” americana. Ecco la presentazione dell’autore firmata da Giuseppe Lippi.

Nato nel 1943, Joseph William Haldeman si è diplomato in fisica e astronomia e ha combattuto in Vietnam tra il 1967 e il 1969 come geniere, rimanendo gravemente ferito. Da questa esperienza ha ricavato un’onorificenza (il Purple Heart) e un primo romanzo, uscito nel 1972, che parla di quella guerra (War Year). Il suo primo libro di fantascienza, The Forever War (Guerra eterna, 1974), vinse i premi Hugo e Nebula. Quel celebre testo – costituito dalla fusione di più racconti apparsi in precedenza sulla rivista “Analog” – rappresenta una trasposizione in chiave fantascientifica della guerra, esperienza umana e letteraria che per Haldeman parve concludersi nel 1975 con un altro testo breve, “You Can Never Go Back”.

Se il più famoso romanzo di fantascienza militare era stato, fino a quei tempi, Starship Troopers (Fanteria dello spazio, 1959) di Robert A. Heinlein, Guerra eterna si presentò fin dall’inizio come un anti-Fanteria, permeato da una visione decisamente più disincantata e dolorosa del conflitto, e interessante proprio come resoconto traslato delle esperienze dell’autore nel Sud-est asiatico.

Negli anni seguenti Haldeman si è riconfermato autore di un’interessante serie di romanzi e racconti, perlopiù di genere tecnologico: Ponte mentale (Mindbridge, 1976), Al servizio del TB II (All My Sins Remembered, 1977), l’avventura di Star Trek Il pianeta del giudizio (Planet of Judgement, 1977), Mondo senza fine (World Without End, 1979), Scuola di sopravvivenza (There Is No Darkness, 1983), Fondazione Stileman (Buying Time, 1989), Il paradosso Hemingway (The Hemingway Hoax, 1992) e l’ambizioso 1968.

Per molti anni Haldeman ha giurato che non avrebbe mai scritto un seguito di The Forever War. La decisione di pubblicare un nuovo, ampio romanzo che si ricollegasse idealmente al suo capolavoro è venuta molti anni dopo e non è stata di Haldeman – come egli stesso ha dichiarato – ma degli editori. The Forever Peace (1997, che “Urania” ha pubblicato come Pace eterna nel n. 1336) non era un classico sequel ma riprendeva alcuni motivi del libro più famoso e, soprattutto, alcune preoccupazioni. A Pace eterna seguirà, nel 1999, l’autentica seconda parte di The Forever War, che Haldeman accetterà di scrivere nel giro di poco più di due anni e intitolata Forever Free (Missione eterna, in “Urania” n. 1413). Qui non solo i temi di fondo sono quelli del romanzo originale, ma vi compaiono, impensabilmente trasformati, anche i personaggi di The Forever War: in particolare il veterano Mandella.

Al ciclo di Guerra eterna si ricollega anche il racconto principale della raccolta che pubblichiamo questo mese, uscita negli USA con il titolo A Separate War nel 2006, e che costituisce una vetrina ideale della produzione breve di Haldeman tra il 1995 e il 2005. In esso torniamo al memorabile finale di Forever War per riviverlo da un punto di vista diverso; non solo, ma abbiamo il vantaggio di confrontarlo con le idee degli altri racconti, lucidi e spesso arrabbiati contro un certo modo di amministrare il paese, contro un certo modello di società. Un testo politico? Certamente, come lo è stato The Forever War. Con i suoi racconti e romanzi Joe Haldeman rimane un solido punto di riferimento della fantascienza americana nell’ultimo quarto di secolo. I nostri lettori l’hanno particolarmente apprezzato anche di recente con L’astronave immortale (Old Twentieth, un denso romanzo centrato sul tema della memoria e delle missioni spaziali a lungo termine uscito nel giugno 2007) e con I protomorfi, tradotto da “Urania” nel numero di gennaio 2008.  

G.L.

[Per la sua bibliografia completa si rimanda al Catalogo della SF, Fantasy e Horror a cura di Ernesto Vegetti.]

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Lino Aldani (1926-2009)

gennaio 31st, 2009

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La notte tra venerdì 30 e sabato 31 gennaio 2009 è morto Lino Aldani, il più conosciuto narratore della fantascienza italiana dagli anni Sessanta fino ad oggi. Si trovava nell’ospedale di Pavia dove era stato ricoverato da tempo per una malattia incurabile a un polmone. I primi sintomi si erano avuti in settembre, poi le condizioni si sono aggravate. La notizia ci è giunta dalla figlia Elettra. Una funzione civile si svolgerà nella sede comunale di S. Cipriano Po, il paese dove Aldani era nato e abitava dal 1968, lunedì 2 febbraio alle ore 14,00.

Per ricordarlo pubblichiamo una mini-biografia e un lungo pezzo (con intervista) su di lui.

In sintesi

Lino Aldani, considerato il principale esponente della fantascienza italiana, è morto a Pavia il 31 gennaio 2009 per un’incurabile malattia a un polmone. Nato nel 1926 a San Cipriano Po (PV), vi si è ristabilito nel 1968. Nei quarantadue anni intermedi ha vissuto e lavorato a Roma, come professore di matematica. Ha cominciato a scrivere negli anni Cinquanta e a pubblicare nel 1960. Ha scritto soprattutto racconti fantastici e di fantascienza, e solo a partire dal 1977 alcuni romanzi: Quando le radici (1977, ma iniziato dieci anni prima), Eclissi 2000 (1979), Nel segno della luna bianca (ovvero Febbre di luna, 1980, in collaborazione con Daniela Piegai), La croce di ghiaccio (1989), Themoro Korik (2007). La casa editrice Perseo, oggi ribattezzata Elara (Bologna) ha raccolto in cinque volumi l’opera completa di Aldani: La croce di ghiaccio, Ontalgie, Aria di Roma andalusa, Febbre di Luna e Themoro Korik, il suo ultimo romanzo. A questi titoli si può aggiungere la raccolta a quattro mani, firmata con Ugo Malaguti, Millennium. Scrittore completo e ricco d’inventiva, Aldani si colloca tra gli autori italiani che hanno saputo interpretare con maggior sensibilità le radicali trasformazioni del paese e dell’Europa intera: non a caso è stato tradotto in molte lingue fin dagli anni Sessanta.

Ritratto di Aldani, con intervista
di Giuseppe Lippi

Aldani è stato un maestro della fantascienza grazie al primato della sua immaginazione; ma è anche lo scrittore più potente della sua generazione perché si tratta di un uomo consapevole e padrone dei suoi mezzi ben al di là dei limiti di un genere. Come buona parte della generazione che ha fatto la fantascienza classica italiana, Aldani è padano; ma è praticamente sposato a Roma, dove ha vissuto per quarant’anni, ha conosciuto sua moglie Mirella ed ha avuto la figlia Elettra.

Raccontava infatti: “Mio padre, uno chef originario di San Zenone, si era trasferito a Roma per lavorare. Mia madre era una mondina di San Cipriano Po; nel 1926, per farla partorire, i miei erano tornati in paese, ma avevo quaranta giorni quando siamo andati definitivamente a Roma. Durante la Seconda guerra mondiale sono tornato a San Cipriano per un periodo di quattordici mesi. Ero renitente alla leva e avevo deciso ad andare in collina fra i partigiani. Ho studiato matematica e filosofia, materie che poi ho insegnato nelle scuole serali: però la scuola l’ho odiata, appena ho potuto sono andato via. Sono un baby pensionato dell’insegnamento.” Rievocando le origini della sua carriera letteraria, Aldani prosegue: “Nell’immediato dopoguerra ho scritto un romanzo senza titolo e diversi racconti di ambientazione partigiana. Dopo questi inizi, c’è stato un romanzo esistenziale, Le anatre di sughero. Parlava di un certo Coriolano Mauser, una mia proiezione, e della sua esistenza.
“Quanto alla passione per il fantastico, per me è un fatto naturale. Sono nato ignorante e a lungo sono rimasto tale: di conseguenza, all’epoca dei primi racconti non è che avessi riflettuto sul problema dei generi. Del resto, da ragazzi, chi aveva il tempo di leggere? I miei primi racconti fantastici li ho scritti dopo aver fatto il militare e letto Sartre, mio grande amore. Si era verso la metà degli anni Cinquanta, quando mi è venuta l’idea de ‘L’inseguito’. Più o meno a quell’epoca è uscita la rivista Urania e mi è dispiaciuto non poco quando ha chiuso dopo quattordici numeri. In seguito ho letto Planète, che conteneva altre suggestioni ma sulla stessa onda …”

Nel 1960 Aldani comincia a pubblicare i suoi racconti di fantascienza: “Ho cominciato a collaborare con Oltre il cielo, la rivista pubblicata negli anni Cinquanta e Sessanta, e mi sono familiarizzato con la redazione: l’ingegner Armando Silvestri, il direttore, e il suo braccio destro Cesare Falessi, alto quasi due metri, una specie di marziano ma con un buon acume editoriale. E’ stato lui a consigliarmi di passare dal genere satirico, con cui avevo esordito, al racconto ‘serio’ di SF. Per i miei gusti, comunque, in ‘Oltre il cielo’ c’erano troppa avventura e troppa astronautica.
“Nel 1955 ho conosciuto Mirella, mia moglie, che insegnava matematica nella stessa scuola. Il 25 luglio 1957 ci siamo sposati ed Elettra, nostra figlia, è nata nel 1964”.

Un anno prima Aldani aveva fondato una sua rivista di fantascienza, la storica “Futuro”. “Sì, Futuro è nata nel 1963. Ne ero molto soddisfatto, ma la mia era una visione utopica. Pensavo che se si publicano cose buone, il successo è automaticamente assicurato. Invece…Intorno alla rivista lavoravamo in parecchi: a parte me c’erano Massimo Lo Jacono, Giulio Raiola, Sandro Sandrelli e Inìsero Cremaschi. La prima incarnazione di Futuro è morta nel 1964, dopo il fallimento di un distributore e il subentrare del secondo. Otto numeri usciti e non vedemmo neanche un soldo, proprio perché il distributore fallì. Chiuso quel ciclo, le prospettive per la mia narrativa mi sembravano zero. Non scrivevo più niente. Intanto, già nel 1968 eravamo andati via da Roma e ci eravamo trasferiti a San Cipriano Po: ho  insegnato ancora qualche anno in zona e Mirella ha fatto lo stesso, poi ci siamo ritirati. Nel 1975 ho lasciato la scuola, mettendomi in aspettativa; quindi sono andato in pensione”.

Ma con il tempo libero a disposizione e il ritorno in Lombardia, per Aldani si prepara una nuova stagione creativa. A partire dal 1977 si darà anche al romanzo: Quando le radici (iniziato dieci anni prima) è la storia del famoso trasferimento da Roma sul Po, ma slittata nel futuro di un’Italia mostruosa; Eclissi 2000 (1979) “è una professione di fede: l’astronave Terra Madre rappresenta il socialismo e il romanzo poggia sulla tesi che non puoi costituire un governo, anche socialista, senza dire bugie e promettere cose false”. Nel segno della luna bianca (ovvero Febbre di luna, 1980, in collaborazione con Daniela Piegai), è “un fantasy dichiaratamente di sinistra, e come tale fu attaccato da più parti. Questi detrattori lo giudicarono il peggior romanzo sporcaccione prima di Porci con le ali…”

La genesi de La croce di ghiaccio (1989) “può essere cercata nel fatto che avevo un amico prete. E’ stato quest’amico a introdurmi nel mondo degli zingari, ed è lui che nel romanzo viene ammazzato dai gironiani. In realtà”, continua Aldani, “il problema religioso non è pertinente o centrale al mio libro…”. Il suo quinto romanzo, un’avventura tra il popolo rom che si svolge parzialmente a Trieste, è uscito per la Perseo Libri di Bologna con il titolo Themoro Korik. La stessa casa editrice ha raccolto in quattro volumi l’opera completa di Aldani: La croce di ghiaccio, Ontalgie, Aria di Roma andalusa e Febbre di Luna, cui si può aggiungere la raccolta a quattro mani, firmata con Ugo Malaguti, Millennium.

L’epoca in cui Aldani esordisce è quella in cui alcuni scrittori italiani, non solo di “genere”, non si vergognano affatto di interessarsi al futuro. Esso appariva non più come semplice speranza patriottica o terra promessa dai grandi ideali messianico-religiosi, ma come un “tempo nuovo” plasmato dalle realtà della scienza e della tecnica; un tempo consapevole di questioni fisiche, biologiche ed epistemologiche. E’ stata una sorta di piccola rivoluzione copernicana, ed è durata quel che è durata: eppure, questa scrittura ha lasciato un segno e tuttora muove qualcosa, nonostante che i moventi ideologici iniziali, le cause civili e l’impegno politico siano, per forza di cose, radicalmente cambiati. Lo strano periodo cui alludiamo, che forse affonda le radici nel modernismo dei futuristi e nelle aeropitture degli anni Venti e Trenta, e i cui esponenti hanno letto Marinetti-Palazzeschi-Landolfi, si situa tuttavia più tardi, nel periodo che segue la caduta del fascismo e la Seconda guerra mondiale. E’ la ricostruzione degli anni Cinquanta (che il cinema di Antonioni troverà alienante) a permetterne il fiorire; è la Civiltà delle macchine illustrata sulla rivista dell’IRI a fornirgli un’ideologia di facciata, mentre le esperienze del Politecnico, della casa editrice Einaudi e del nuovo realismo le forniranno l’ossatura contro-ideologica, la speranza cioè di un totale cambiamento di orizzonte politico.

I maggiori esponenti di questa stagione sono ben noti: Italo Calvino delle Cosmicomiche e Ti con zero, Primo Levi (che scrive le Storie naturali con lo pseudonimo di Damiano Malabaila) e tutta una serie di autori che popoleranno i decenni centrali del secolo ormai concluso: cioè poco prima che una letteratura di massa sempre più avvolgente venisse a sostituire la non inutile pagina scritta, il lavoro personale o artigianale. Oltre ai già ricordati Calvino e Levi, la categoria comprende Tommaso Landolfi, che nel dopoguerra ha pubblicato alcuni testi para- o pseudoscientifici: Un paniere di chiocciole, 1964, La pietra lunare (1968) e i Racconti impossibili, 1966; Ennio Flaiano con i satirici Un marziano a Roma (1957), Una e una notte (1958) e il surreale Melampus (1970); Dino Buzzati, il nostro più prolifico autore dell’inquietudine, con i Sessanta racconti (1958) da cui si è potuta trarre in seguito una Boutique del mistero (1964); Giuseppe Berto con il fortunato La fantarca, 1965, ristampato anche per le scuole; Carlo Fruttero e Franco Lucentini con i loro racconti di fantascienza, una lunga attività editoriale e, più tardi, anche un giallo tecnologico (A che punto è la notte, 1979).

Tra gli autori più interessanti del periodo, del resto, bisogna annoverare alcuni cineasti, quasi sempre scrittori dei propri film: Michelangelo Antonioni (Deserto rosso, 1964), Marco Ferreri (La donna scimmia, 1963; Il seme dell’uomo, 1969), Tinto Brass (Il disco volante, 1964), Ugo Gregoretti (Omicron, 1963), Elio Petri (La decima vittima, 1965), Roberto Faenza (H2S, 1969), ecc. Finita l’epoca del neorealismo, i suoi eredi si sono addentrati in un territorio nuovo per il nostro paese e che qualcuno ha tentato di bollare come “metaforlandia”, il regno delle metafore. In verità era qualcosa di molto più concreto: l’urgenza di interpretare una realtà contraddittoria e potenzialmente esplosiva con i mezzi dell’immaginazione.

Di poco successiva è la generazione di autrici e autori che hanno contribuito alla nascita del genere letterario che in Italia si chiama fantascienza, e sulla quale Aldani primeggia. In tutti, il motivo centrale è l’illusorietà di un presente in rapida trasformazione, l’attesa del XXI secolo con la spettrale antropologia che seguirà. Grazie a loro, la letteratura del futuro ha raggiunto anche gli strati popolari, attestandosi come vera e propria mitologia di un’epoca. Certo, l’impresa degli scrittori proiettati al futuro non è stata facile: come conciliarne le visioni con gli interessi di famiglie e “cose nostre”, con gli scandali e le bustarelle, con la cronica diffidenza nazionale verso ogni e qualsivoglia innovazione? Come rendere credibile – narrativamente credibile – un mondo che si suppone asettico e tecnologico, efficientissimo e raggelante e che, al tempo stesso, debba tener conto dello strapaese? Per riuscirci ci sarebbe voluto un grande umorista (e non è un caso se alcune delle più belle storie fantascientifiche italiane siano state scritte – e disegnate – da Benito Jacovitti, l’unico uomo che potesse mandare una lisca di pesce a volare nello spazio) o un uomo con almeno un piede fuori dai vizi nazionali, e perché no tutt’e due.

Lino Aldani è stato, magari senza alcun proposito, il nostro Candido dell’immaginazione scientifica, e ha rivolto il suo sogno, più che alle stelle o alle comete, al fiume e ai boschi, alle città di domani e agli uomini che le abiteranno (come Arno, il protagonista di Quando le radici: altro nome fluviale). Così ha fuso racconto speculativo e romanzo tradizionale, facendo in modo che il contenitore narrativo fosse sempre all’altezza delle aspettative letterarie; il contenuto, quando fosse il caso, si sarebbe fatto introspettivo e analitico, ma in ultima analisi sarebbe sfociato nella descrizione di un generale slittamento: la parafrasi (in un tempo vicino, immediato eppure non presente; un tempo “straniato”) di un’esperienza fondamentale, quella dell’uomo che muta.

Seguendo l’esempio innovatore di Aldani si sono mossi altri autori, fra cui Renato Pestriniero, Vittorio Curtoni e Vittorio Catani (tutti condizionati dalle strettoie di un mercato limitatissimo); mentre altri risultati sono venuti dal cinema, che ha impastato volentieri l’apologo al futuro con la commedia all’italiana; ma già negli anni Settanta quella possibilità tramontava, sopraffatta dai film porno softcore e dai generi tradizionalmente più lucrativi. Agli autori letterari non è restato dunque che rifugiarsi nell’esperimento, nel lavoro tipicamente intellettuale dell’avanguardia, nella poesia “sofferta”; o nel rinnovamento di un genere che forse non era più nemmeno un genere.

Uomo completo e ricco d’inventiva, Aldani trascende a sua volta i limiti di un genere e si colloca tra i romanzieri che hanno saputo interpretare con maggior sensibilità le potenziali trasformazioni della realtà italiana. La sua riflessione all’inizio del nuovo millennio non è per niente consolatoria:

“Gli anni 2000 sono arrivati a vuoto, inutilmente; tante cose che avrebbero dovuto mettersi a posto, invece si sono aggravate. 2002, 2003, 2004, un anno vale l’altro… Qui non si muove niente, è questo il grave. Non so dirlo con precisione, ma non siamo pronti a gestire il futuro. Ci siamo capitati in mezzo e non ce la facciamo. Negli anni Sessanta e Settanta c’è stato un ottimismo della volontà che ci ha fatto sperare, ma col passare degli anni ha avuto la meglio il pessimismo della ragione. A meno di non cambiare radicalmente il nostro atteggiamento in direzione bioetica, il mondo andrà incontro a un’immane distruzione di risorse, capacità e forme di vita. Non vedere questo equivale ad essere perduti. Una delle cose che l’umanità non vuole assolutamente capire è che da quando è iniziato un certo tipo di sviluppo, non abbiamo fatto un momento di pausa. Stiamo continuando ad andare avanti in progressione geometrica, prosciugando tutto quello che avremmo dovuto conservare per il futuro. Le attese socialiste, che condividevamo in tanti, non si sono verificate. Sì, ci ho creduto a lungo, ma ormai l’unica rivoluzione che possiamo fare consiste nel coraggio di sopportare l’attuale situazione. E’ già un pensiero rivoluzionario, perché non vuol dire condividere ma sopportare un certo stato di cose.
Scrivere science fiction ha ancora un senso? Sì, ma solo a patto di mettere in risalto la ‘pars destruens’, non la ‘pars construens’. Altrimenti ci limiteremmo ad andare avanti solo perché siamo nel campo e la conosciamo”.

Una riflessione che racchiude tutta l’opera aldaniana, realistica e visionaria insieme, civilmente impegnata e poetica, mirabolante come può esserlo un’ottava ariostesca e seria come ogni sguardo utopico sul futuro.

Tutti i racconti e romanzi di Lino Aldani sono raccolti nell’edizione uniforme pubblicata dalla Perseo libri di Bologna, oggi Elara: La croce di ghiaccio, Ontalgie, Aria di Roma andalusa, Febbre di Luna e Themoro korik, il suo ultimo romanzo (2007). A questi titoli si può aggiungere la raccolta a quattro mani, firmata con Ugo Malaguti, Millennium

Giuseppe Lippi

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Dopo la notte

gennaio 15th, 2009

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Un’analisi del volume di “Urania Collezione” presto nelle edicole, a firma di Giuseppe Lippi.

Cosa aspettava gli scampati dal Grande contagio quando la notte fosse finalmente trascorsa, ben lo sappiamo noi che di quelle tristissime ore senza luce rappresentiamo il dopo, l’alba per così dire. Allora (1962) l’interrogativo era ancora circoscritto e misterioso, e come tale stimolava l’immaginazione. Le storie di grandi catastrofi, in fondo, sono sempre storie di mondi che si aprono dopo che s’è chiuso quello precedente, come in un ciclo; storie di un rinnovamento per consentire il quale bisogna che sia fatta tabula rasa del vecchio ordine. Quando uscì la prime edizione de Il grande contagio (The Darkest of Nights, nello speciale numero 300 di “Urania”), Carlo Fruttero colse la natura premonitrice del libro con queste parole: «Dall’Inghilterra ci viene un’altra di quelle magistrali e paurose cronache dove tutto è quotidiano, riconoscibile, “vero”; e dove a un tratto entra in scena un elemento imprevisto che sconvolge tutta la società, getta nell’anarchia la nostra vita ben ordinata, riduce gli uomini a bestie impazzite dal terrore, che lottano disperatamente per sopravvivere. Come i “trifidi” di Wyndham, questo inarrestabile “contagio” diventerà uno dei classici della fantascienza».

Come già detto in quarta di copertina, non possiamo che dichiararci completamente d’accordo, tanto è vero che abbiamo deciso di riproporre il romanzo in Collezione. E’ un classico del terrore e dunque un classico della modernità (ove il terrore è una delle corde più frequentemente pizzicate dagli scrittori); e a noi che non viviamo più nella modernità, bensì in un paciugo informe e successivo che ci rifiutiamo di etichettare, ma che costituisce un incubo a sé, il romanzo sembra far squillare la corda di un presagio.

Nei colori apocalittici e nei bubboni di cui è costellato, pare avvertire davvero il trapasso dalle paure dei conflitti moderni, del catastrofismo dittatoriale, dell’inguaiamento da XX secolo, insomma, a una forma d’ansia diversa, ai castighi di una più definitiva transizione/deriva. All’inizio degli anni Sessanta presagire il caos del dopo-modernità non era difficile: ci pensava già Ballard a modo suo e fuori della fantascienza l’aveva fatto William Burroughs. Maine, però, inietta tutto questo nel corpo in deliquio della narrativa popolare, nel gran baccalà freddato della sf di genere che più genere non si può. Per giunta commista al suspense puro; al thriller, magari. Da questa prima febbre da contaminazione (che in anni successivi e più furbeschi sarebbe sfociata in una moda), Charles Eric Maine trae un’immagine davvero inquietante perché precorritrice del futuro: quella d’un mondo che crepa. Non, si badi bene, il mondo ristretto e tutto sommato provinciale dell’impero britannico, ma qualcosa di molto più diffuso e sostanziale: l’attuale, nel senso di moderno, che sussulta negli spasimi dell’agonia. E’ questo, ci sembra, il merito principale di un romanzo che sembra fatto apposta per dare il “la” alla futura mitologia dell’infezione: a causa di virus e germi patogeni, certo, ma soprattutto a causa della “contaminatio”fra generi letterari.

Oggi qualunque hack è capace di scrivere una recensione piena di elogi dell’ibrido, ma ai tempi di Maine (1962) era una novità abbastanza interessante. E non si è limitato a questo. Non a caso, tra i molti romanzi del prolifico scrittore inglese non abbiamo scelto uno dei tipici thriller fantapolizieschi: nessuno vuole negare dei meriti a Delitto alla base spaziale, per esempio (Spaceways, 1953, da cui è stato tratto il film di Terence Fisher Spaceways – viaggio nell’interspazio), ma la sua novità si arresta appunto all’innesto di un genere, la fantascienza sul giallo o viceversa, che da sola non basterebbe a giustificare l’operazione. Come hanno scritto, ancora una volta, Fruttero e Lucentini: «Maestro di fantascienza, ma più ancora maestro di suspense, Charles Eric Maine si potrebbe definire un Hitchcok avveniristico. Nei suoi romanzi, al di là del tema spaziale (come in Luna chiama Terra) o cibernetico (come in B.E.S.T.I.A.), o di neuro-chirurgia (come in Senza traccia), ciò che più colpisce il lettore è la incalzante costruzione narrativa: da un punto di partenza sempre relativamente semplice, si sviluppa in un serrato crescendo un vero e proprio enigma di tipo “giallo”, la cui soluzione giunge dopo una serie di sorprese, colpi di scena, svolte e ipotesi varie, sempre tenuti insieme da un filo logico di magistrale coerenza e credibilità».

Nel Grande contagio a tutto ciò si aggiunge qualcosa di diverso, l’infezione va oltre, e pur presentandosi al lettore con un taglio da thriller catastrofico, produce effetti sottili e un immaginario disturbante che in qualche sequenza può addirittura ricordare La nube purpurea di M.P. Shiel. E’ l’addio a una civiltà che riecheggia ancora nelle stanze della fantascienza, e che valeva la pena far riascoltare nel suo timbro originale. Non molte enciclopedie e repertori citano Maine fra i classici del genere (lasciate fare a inventoristi ed enciclopedisti), ma è sicuramente un classico minore, nel senso in cui l’intendeva Borges quando diceva che «il “minore” è un genere letterario rispettabile quanto ogni altro».

G.L.

La bibliografia completa di Charles Eric Maine è disponibile sul Catalogo dell SF, Fantasy e Horror di Ernesto Vegetti.

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Clarke, visioni dall’oceano dello spazio

dicembre 23rd, 2008

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Ospite d’eccezione su Urania Blog, la giornalista del “Manifesto” Silvana Natoli con un ritratto di sir Arthur C. Clarke (già apparso sulle pagine del supplemento culturale del quotidiano, “Alias”), di cui potete attualmente trovare in edicola nella collana “Urania Collezione” l’antologia Spedizione di soccorso.

Se fosse esistita una collana editoriale dal titolo “gli incontri che ti cambiano la vita”, Clarke avrebbe certo scritto di Kubrick (2001: Odissea nello spazio, anno di grazia 1968). Lui è già autore di romanzi importanti e quando Kubrick gli chiede un’idea, appena un’idea, per un “proverbiale buon film di fantascienza”, Clarke rispolvera un suo vecchio racconto, “La sentinella” (1948), che narra la scoperta sulla Luna di una piccola piramide, messa lì da qualche civiltà aliena, a guardia e in attesa. Di cosa? La figura enigmatica della sentinella-piramide e la domanda senza risposta, mostrano che Clarke ha compreso il desiderio di Kubrick. Poi, la genialità di Kubrick muta uno spazio, la Luna, in un contro-spazio, Giove, e la piramide in monolito, facendone la figura di una nuova mitologia, dove il massimo di futuro si genera dal passato più remoto, l’astronave dalla clava primitiva.

Simak, in Anni senza fine, vede già prefigurato nell’arco e nella freccia, segno di morte e di guerra, il destino di estinzione dell’Uomo. La clava sembra invece spingere l’Uomo in alto, verso le galassie e la gloria, ma lo prepara ad un altro genere, più sottile ed inquietante, di estinzione. I veri protagonisti del film, con Giove, il più misterioso ed alieno dei nostri pianeti, sono Hal e il Bambino delle Stelle, due mutanti…

E’ questo, soprattutto, che Clarke e Kubrick hanno in comune, d’essere refrattari al “troppo umano”. Sono i mondi che li affascinano, e gli esperimenti al limite del possibile. Come nel bellissimo Incontro con Rama (1973) di Clarke, mondo-astronave che viaggia tra le stelle, alieno ed enigmatico come il monolito, imprendibile dagli uomini. Anche Rama è una domanda senza risposta. O come nell’esperimento di città del futuro (La città e le stelle, 1956), luogo iper-tecnologico e claustrofobico, alienità costruita dall’uomo, dove il tempo è circolare e la vita sterilizzata. Poi Clarke ha moltiplicato le Odissee, ma i cicli sono sempre pericolosi: se la prima è notevole perché clona il film, il resto della quadrilogia è mediocre. Si può anche ipotizzare che Kubrick sia il genio e Clarke il talento, secondo la mirabile definizione di Carmelo Bene, per cui il talento fa quello che vuole e il genio quello che può. Tra le idee più interessanti delle varie Odissee vi è il racconto di una missione congiunta di russi e americani, alla ricerca del monolito, la dedica ai sovietici Alexej Leonov, cosmonauta e Andrej Sakharov, scienziato e premio Nobel: il tutto nel 1983, in piena guerra fredda… E tra le idee più divertenti, l’invenzione della prima Cattedra Virtuale e delle prime Guide Turistiche ai Sistemi Solari.

Clarke è un esperto scienziato, laureato in matematica e fisica al King’s College di Londra, membro della British Interplanetary Society, autore di studi pionieristici sulla comunicazione intersatellitare, premiato con numerosi riconoscimenti scientifici. Quando lo scrittore e lo scienziato in lui, non si giustappongono e non prevarica la tentazione didascalica, quando la sua intelligenza scientifica si traduce in narrazione e visione, la scienza funziona come una condizione di possibilità. Gli permette di spostare costantemente i confini e di moltiplicare la domanda-tipo della fantascienza: “e se…?”.

La credibilità di cui Clarke ha goduto nella comunità scientifica ha riguardato, in maniera inseparabile, il suo lavoro di fisico e quello letterario. Anzi, è tra scienziati ed astronauti che ha avuto i lettori più entusiasti. All’epoca del film con Kubrick non erano neanche iniziate le missioni verso Giove e nessuno aveva ancora immaginato quel gigantesco pianeta e i suoi terribili e inquietanti satelliti, Europa Ganimede e Callisto. Nel ’70 gli astronauti di Apollo 13 raccontano di avere battezzato “Odissea” il modulo di comando e d’aver ascoltato, durante il viaggio, “Zarathustra” di Richard Strauss. Quando il modulo Falcon di Apollo 15 scende sulla Luna, gli astronauti regalano a Clarke la mappa in rilievo della zona di atterraggio, con l’iscrizione: “Ad Arthur Clarke dall’equipaggio di Apollo 15, con molti ringraziamenti per le sue visioni dello spazio”. L’università dell’Illinois si è spinta fino ad organizzare feste di compleanno di Hal… Ma l’omaggio più importante è avere dato il suo nome all’Asteroide 4923, scoperto nel 1981. Lui dichiarò che avrebbe preferito l’Asteroide 2001, ma che ahimé, “era stato assegnato a un tizio di nome Einstein…”.

Tutta l’opera di Clarke è disseminata di invenzioni, a volte estrapolate dalle ricerche scientifiche, a volte anticipatrici e profetiche: i wormhole, visualizzatori del tempo; il sistema di propulsione a mini-buchi neri; il vuoto che non è vuoto, ma ribollente di energie; gli ascensori spaziali, ispirati a vari progetti di anelli intorno al mondo e torri orbitali. Quando, con la navetta Atlantis (1992) si progetta un piccolo reale passo verso l’ascensore spaziale, l’equipaggio lo annuncia in conferenza stampa esibendo il romanzo di Clarke Le fontane del paradiso (1979). Che è il vero romanzo dello Sri Lanka, dove Clarke ambienta una storia doppia e sdoppiata tra il presente tecnologico e il passato mitologico dell’isola: un ascensore spaziale, costruito nel cuore dell’antica Ceylon, si eleva costeggiandone la montagna più alta, lo Sri Pada, la cui cima raggiunge i 2240 metri, e la sua storia si intreccia alle antiche leggende e mitologie della Montagna Sacra.

Nello Sri Lanka Clarke si è trasferito fin dal 1956, affascinato dall’oceano e dalla biologia marina, cui dedica due libri, “I guardiani del mare” (1957) e “Le porte dell’oceano” (1963). L’acqua ha un posto speciale tra i temi fondanti della fantascienza, con i mondi d’acqua di Lem (Solaris) e Ballard (Il mondo sommerso) per esempio e persino con il mondo di sabbia di Herbert (Dune) nonostante, e proprio perché, essa manca del tutto: “nella lingua di Dune la parola ‘annegato’ non esiste”. In Clarke l’attrazione per l’acqua è antica, anche Rama a suo modo è un oceano che viaggia tra le stelle, un oceano cilindrico con l’acqua che sale verso l’alto anziché cadere, e rotea circolarmente. Ne La città e le stelle, in un remoto futuro, nel lago (acqua) che è il cuore della vecchia Terra appare, come sospeso, un grande pesce argenteo: sembrava, scrive Clarke “l’essenza della forza e della velocità. Qui, incorporate nella carne viva, c’erano le linee slanciate delle grandi astronavi che avevano solcato i cieli della Terra”.

In quest’isola Clarke si costruisce una casa e vi resta fino alla morte. E’ un’isola selvatica, giungla e savana, acque indomabili e tsunami: “E’ singolare – scrive – udire l’Oceano Indiano sferzato dai monsoni ruggire a pochi metri dalla mia finestra…”. E’ il suo “oriente” personale, ma non ha niente a che vedere con le piccole mitologie occidentali, con i turismi esotici. Come per altri artisti, e scienziati e filosofi, l’oriente è un necessario spaesamento del pensiero. Il confronto con una cultura e sensibilità altra (eterotopia), con un sistema simbolico differente, decentra la propria visione delle cose, incrina il senso, rimette in gioco l’intelligenza, la rende impermeabile agli assoluti, soprattutto religiosi: “la religione – scrive Clarke – è un sottoprodotto della paura, una reazione a un universo misterioso e spesso ostile (…) e la paura conduce alla crudeltà. Il solo sapere che è esistita l’Inquisizione dovrebbe indurre chiunque a vergognarsi di appartenere alla razza umana”. L’assoluto è una risposta, che si crede veritiera e definitiva, e le risposte, scrive Herbert, “sono una presa pericolosa sull’universo. Sradica le tue domande dal loro terreno, e ne vedrai penzolare le radici. Altre domande!”.Silvana Natoli

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Arthur C. Clarke

dicembre 18th, 2008

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Un profilo del maestro dell’hard sci-fi tracciato da Giuseppe Lippi.

Arthur Charles Clarke è nato a Minehead, una piccola città del Somerset (nell’Inghilterra sudoccidentale) il 16 dicembre 1917. La scienza e le sue applicazioni lo avevano sempre affascinato: suo padre, contadino, l’aveva mandato alla vicina scuola elementare di Taunton e Arthur si era appassionato all’enigma dei dinosauri ma anche al misterioso alfabeto Morse. Difficile immaginare che da quelle semplici premesse sarebbe nata la brillante carriera scientifico-letteraria del futuro autore di 2001 Odissea nello spazio.

Del resto, nell’Inghilterra degli anni Cinquanta Arthur già parlava di astronavi e satelliti geostazionari per telecomunicazioni: vale a dire oggetti che, messi in orbita come il primo Sputnik, ruotassero in sincrono con il pianeta e potessero diffondere in un emisfero le trasmissioni ricevute dall’emisfero opposto, superando l’ostacolo della curvatura terrestre. Né si trattava di semplici fantasie: il progetto del satellite geostazionario è oggi ufficialmente attribuito a Clarke, che ne ha parlato nei suoi libri di divulgazione e ha sostenuto la fattibilità del volo spaziale fin da opere come The Exploration of Space (1951) e Il volto del futuro (1955, il cui titolo originale suona appunto “The Challenge of the Spaceship”: la sfida dell’astronave). In una recente intervista Clarke ha dichiarato di aver saputo dalla segretaria di Wernher von Braun, Carol Rosin, che il grande scienziato tedesco si basò proprio su The Exploration of Space per convincere il presidente Kennedy della fattibilità del viaggio sulla luna. Leggi tutto »

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Gardner Dozois

dicembre 18th, 2008

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Celebre come editor, ma anche narratore in proprio, è l’uomo che ha rappresentato la nuova SF americana

E’ uno dei più famosi editor americani di fantascienza. Nato nel 1947, ha fatto in tempo a vivere in prima persona la spettacolare evoluzione della science fiction nel dopoguerra, dalla scomparsa degli ultimi “pulp magazine” alla ventata di rinnovamento di fine anni Sessanta e Settanta. Come narratore ha scritto una certa quantità di narrativa breve, raccolta in due volumi: The Visible Man (1977) e Slow Dancing Through Time (racconti scritti in collaborazione, 1990), ai quali bisogna aggiungere due raccolte che ne compendiano il meglio: Strange Days (2001) e Geodesic Dreams (2002). E’ autore di un solo romanzo in proprio, Strangers del 1978, ma ne ha scritti due in collaborazione con George Alec Effinger (Nightmare Blue, 1977) e George R.R. Martin e Daniel Abraham (Hunter’s Run, 2008). Come editor, ha diretto per vent’anni (1984-2004) la “Isaac Asimov’s Science Fiction Magazine”, facendole vincere più premi Hugo di qualunque altra rivista. Michael Swanwick, un romanziere che i nostri lettori conoscono bene, gli ha dedicato nel 2001 il libro-intervista Being Gardner Dozois. Per quasi un quarto di secolo Dozois ha publicato una corposa vetrina annuale dei migliori racconti di fantascienza, di cui l’antologia del meglio della SF costituisce una sorta di super-scrematura; non a caso nell’originale inglese è intitolata Best of the Best.

Il libro è uscito nel 2005 e prossimamente ne daremo la seconda parte: un appuntamento per ripassare, e tenere a portata di mano, la sf più appassionante dell’ultimo quarto di secolo.

G.L.

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Ken MacLeod

dicembre 17th, 2008

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Un autore scozzese che fa parte della nuova ondata di grandi narratori britannici, all’insegna di politica e tecnologia

Il suo nome completo è Kenneth Macrae MacLeod, ed è nato nel 1954. Dopo aver studiato zoologia all’Università di Glasgow ed aver lavorato in diversi campi, ha cominciato a pubblicare narrativa negli anni Novanta. Due romanzi del ciclo The Fall Revolution sono apparsi anche in Italia: Il piano clandestino (1995) e La divisione Cassini (1998). Il romanzo che qui presentiamo, Cosmonaut Keep, è del 2000 e inaugura la trilogia degli Engines of Light. Gli altri due romanzi della sequenza, che pubblicheremo in seguito, sono Dark Light (2001) e Engine City (2002).

L’opera di MacLeod conferma un dato che ormai da alcuni anni è sotto gli occhi di tutti: la grande rinascita della fantascienza britannica, grazie ad autori come MacLeod stesso, come Alastair Reynolds (di cui abbiamo acquistato il primo romanzo da Gollancz dopo lunghissime trattative, ma che non potreno pubblicare prima della fine 2009-inizio 2010 a causa della mole e del tempo che richiederà la traduzione) e altri liberi scrittori/pensatori. Fra i quali segnaliamo ancora Charles Stross, il già celebre Iain M. Banks, Stephen Baxter e quel Peter F. Hamilton di cui i lettori di “Urania” hanno potuto seguire, nell’arco di tre anni, la mastodontica trilogia dell’Alba della notte.

In MacLeod convergono tre filoni: quello spaziale, come nella Fortezza dei cosmonauti, quello ipertecnologico del “postumanesimo” (anche se il nostro romanziere rimane vigile e cauto sui pericoli della tecnica, soprattutto per quanto riguarda la cibernetica del futuro) e infine quello politico. Anarchismo, trotzskysmo, libertarismo tornano ripetutamente nei suoi libri, e non è un caso che il titolo di questo romanzo faccia riferimento ai “cosmonauti”, la dizione russa per astronauti. Il motivo lo scoprirete, o l’avete appena scoperto, leggendo.

G.L.  

Il blog ufficiale di MacLeod è The Early Days of a Better Nation.
La sua bibliografia italiana completa è disponibile sul Catalogo della SF, Fantasy e Horror a cura di Ernesto Vegetti.
Nella foto: particolare di uno scatto di Cowfish.

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“La più altruistica delle missioni”: Daniel F. Galouye

novembre 21st, 2008

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Una presentazione di questo grande autore della fantascienza, anticipatore di panorami virtuali e interprete dell’angoscia esistenziale contemporanea, a firma del nostro curatore Giuseppe Lippi.

Se c’è un autore che quest’anno “Urania” ha trattato con i guanti bianchi, questi è Daniel F. Galouye.  Dopo una lunga assenza dalle nostre edizioni, in pochi mesi abbiamo riproposto il celebre dittico di Stanotte il cielo cadrà (“Urania collezione”, agosto) e ora, nel “Millemondi” invernale, ripubblichiamo quasi tutto quanto c’era ancora da ripubblicare tra le opere già tradotte in italiano. Per gli inediti, ci stiamo organizzando.

Né siamo i soli, ad aver voglia di ritrovare questo narratore mai troppo famoso, mai esaltato alle cerimonie ma caro a tutti quanti (autori e lettori) amino la buona fantascienza ricca d’invenzioni. Nel 2007 Galouye è stato scelto per un premio postumo che già nel nome la dice lunga: il Cordwainer Smith Rediscovery Award, patrocinato dalla famiglia di un altro grande della sf e dedicato alle riscoperte doverose nel campo. Scrive sul sito Rosana Hart, figlia di Smith: “Cosa possiamo dire di Daniel F. Galouye? Nato nel 1920, era di poco più giovane di mio padre. Come lui, è morto dopo aver toccato la cinquantina (1976). Durante la Seconda guerra mondiale era stato pilota e aveva riportato ferite alla testa che alla lunga anticiparono la sua fine. Galouye viveva a New Orleans, dove è stato redattore del ‘New Orleans States-Item’. All’attività di giornalista, negli anni Cinquanta e Sessanta  ha affiancato quella di scrittore di fantascienza per riviste come ‘Galaxy’ e ‘Fantasy & Science Fiction’. Tra i suoi romanzi più famosi ricordiamo Universo senza luce (noto anche come Percezione infinita, 1961) e Simulacron 3 del 1964. Universo senza luce fu candidato al premio Hugo 1962 ma perse a favore di Straniero in terra straniera di Robert A. Heinlein. Oltre ad aver ispirato un film e una serie televisiva, Simulacron 3 ha avuto un certo influsso su Matrix”.

La serie televisiva, in realtà un film di 205 minuti diviso in due parti, s’intitolava Il mondo sul filo (Welt am Draht, 1973) ed era diretta nientemeno che da Rainer W. Fassbinder.  Il film Il tredicesimo piano (Abwärts in die Zukunft, 1999) è altrettanto tedesco ed è interpretato fra gli altri da Vincent D’Onofrio.

Tornando per un momento al Cordwainer Smith Rediscovery Award, notiamo che negli anni precedenti il premio era stato vinto da Olaf Stapledon (2001),  R. A. Lafferty (2002), Edgar Pangborn (2003), Henry Kuttner & C. L. Moore (2004), Leigh Brackett (2005), William Hope Hodgson (2006). Quest’anno (2008) è andato a Stanley G. Weinbaum. Insomma, alcuni tra gli autori più amati ― spesso segretamente amati ― della fantascienza angloamericana di tutti tempi. A quando la loro raccolta in una maxiantologia dedicata a quello che veramente conta, gli autori del cuore? Ci fermiamo qui o saremo accusati di deamicisismo, ma promettiamo che “Urania” ci penserà per un “Millemondi” futuro o un volume di Natale.

Ancora qualche parola per completare il quadro biografico. Non è vero che Galouye abbia scritto solo per riviste di prestigio come “F&SF” oppure “Galaxy”, anzi a volte il suo nome spiccava su testate minori (il che non vuol dire meno interessanti) come “Imagination”, dove è stato pubblicato Stanotte il cielo cadrà, oppure “If”, tutt’altro che minore e valida consorella di “Galaxy”. Non è stato un autore importante solo per il pubblico affamato di nuove idee (e quelle di Galouye lo erano sempre: la realtà autentica dell’universo, quella virtuale, un mondo al buio eccetera), ma anche per i colleghi scrittori. E per gl’intellettuali, se è vero che l’eminente biologo Richard Dawkins, autore del Gene egoista, considera Universo senza luce uno dei suoi libri preferiti insieme a La nuvola nera di Fred Hoyle.

Nel presente volume abbiamo unito il celebre Simulacron 3 (noto anche come Counterfeit World) a un romanzo relativamente dimenticato ma degno di un’immediata riscoperta, Psychon (Lord of the Psychon) e a un romanzo breve che molti fra i lettori più maturi ricorderanno con piacere, Il tempio di Satana (Satan’s Shrine, 1954, che ci riporta alla prima fase della carriera galouyana). In più, abbiamo deciso di ripubblicare la raccolta Partenza domenica e altri racconti (The Last Leap and Other Stories of the Supermind, 1964) che offre una parte della non grandissima produzione breve di Daniel F. Galouye.

Cominciamo dal testo più antico. Uscito su “Galaxy” ― la rivista leader nel genere sociologico degli anni Cinquanta ― rimane un racconto lucido ed esemplare grazie al ritmo serrato dell’azione. Ma c’è di più, e il contenuto è riassunto al meglio nella prefazione di Carlo Fruttero e Franco Lucentini all’omnibus L’ombra del 2000: “Per un ‘pessimista’ come Pohl… si trova sempre un ‘ottimista’ come Daniel F. Galouye, che nel suo Tempio di Satana trasforma la tirannia nella più altruistica delle missioni”.

Psychon è una storia dell’orrore. Ma un orrore programmatico, scientifico, aggiornato che più di così non si potrebbe. Niente ectoplasmi, niente maledizioni qui; al contrario, “le città della forza: enormi prismi, obelischi, cubi, cilindri, romboidi, cupole, piramidi, dai colori abbacinanti e corruschi… dove s’annidano i Padroni del Psychon! E ‘il giorno dell’orrore’ s’avvicina di nuovo. Una data ormai ricorrente sulla Terra, in cui una sinistra rete luminescente s’accampa contro il cielo, e l’umanità superstite si contorce in preda a tormenti senza nome. Ogni anno la Rete dell’Orrore si stringe di più. E un piccolo gruppo di uomini dalle uniformi stracciate, miseri resti dell’Esercito e della Marina degli Stati Uniti, è tutto ciò che rimane per salvare la Terra dalla caduta finale nel mostruoso universo dei Padroni del Psychon”. (La prosa iperuranica, naturalmente, è di Carlo Fruttero.)

Simulacron 3 parte, in modo molto originale, dal vecchio problema del “vero. Falso. Simulato. Sono queste le categorie che sfidano oggi  la capacità di osservare e capire la realtà. Ma la fantascienza [e la filosofia, aggiungiamo noi] l’avevano già capito. Ad esempio con questo singolare romanzo finalmente ripresentato al pubblico italiano. Fuller ha messo a punto un simulatore in grado di creare un mondo virtuale popolato di personalità fittizie, programmato per riprodurre specifici aspetti della società e sperimentare nuovi prodotti da lanciare sul mercato. Quando Fuller muore in un incidente, Douglas Hall assume la direzione del progetto. Ma c’è un problema: uomini e oggetti cominciano a sparire in misteriose circostanze e, stranamente, Hall sembra il solo a rendersene conto. Si proietta quindi nel mondo del Simulacron per indagare, e qui incontra Morton, l’unico abitante del mondo virtuale che sia consapevole di vivere in una creazione artificiale… Se ogni certezza svanisce in una vertigine di mondi fittizi, dove cercare a questo punto la realtà?” E’ una bella domanda, non c’è che dire. Tonda e opportunamente riportata in fondo alla quarta di copertina della riedizione Nord (1998).

In Partenza domenica, infine, “lasciamo al lettore di vedere con quanta originalità si combinino il tema classico dell’invasione, quello della telepatia, e quello della telecinesi. Nel secondo racconto non ci sono extraterrestri, ma c’è, ignorata fino all’ultimo, qualcosa che non è la Terra…; gli aliens ricompaiono nel terzo, sotto forma di pseudo-scimmie, e nel quarto sotto forma del figlio di un diplomatico interplanetario; in entrambi i casi, comunque, la molla dell’azione resta quella dei ‘poteri della mente’. ‘Gli occhi del cane’, quinto e ultimo racconto, conclude con una trovata straordinaria questa antologia del ‘super-normale’” (C.F. & F.L.).

Dopo quest’antologia di giudizi, non ci resta che augurarvi buona lettura. G.L.

[Immagini: in alto, particolare della copertina del volume dei Classici di Urania n. 193. In basso, la copertina di Simulacron 3 nell’edizione della Nord.]

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Sandro Sandrelli

novembre 21st, 2008

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Il lungo testo che segue costituisce un capitolo del saggio Le frontiere dell’ignoto. Pubblicato nel 1978 dall’Editrice Nord, rappresentava un ampliamento della tesi di laurea di Vittorio Curtoni sulla fantascienza italiana negli anni Sessanta. Trattandosi di un documento di grande interesse, abbiamo deciso di offrirne i primi due capitoli in anteprima ai lettori di Urania Blog. Il testo integrale è incluso nel volume Caino dello spazio, attualmente in edicola.

1. Caratteristiche generali

Dal 1949 (anno in cui appare il suo primo racconto, Le ultime trentasei ore di Charlie Malgol) al 1963 (quando esce il secondo volume della serie «Interplanet»), Sandro Sandrelli ci ha dato una serie di racconti e romanzi che hanno come base comune il gusto della situazione avventurosa, continuamente riproposta in forme di grande vivacità. Con «Interplanet 3» la sua vena tende ad interiorizzarsi, a creare vicende in cui la trama è ridotta al minimo e generalmente ancorata ad una precisa realtà storica. Quest’ultimo periodo, sfortunatamente, è anche il piú breve della sua carriera letteraria: nel 1965 esce l’ultimo volume di «Interplanet» e da allora Sandrelli ha smesso di scrivere, fatta eccezione per qualche episodio (d’altronde di scarso rilievo) su «Oltre il Cielo».

Dovendo affrontare il discorso critico sul vasto materiale che Sandrelli ha prodotto dal 1949 al 1965, occorrerà subito premettere che il suo interesse principale va al divertimento del lettore: di qui, appunto, nasce quel gusto per l’avventura che mi sembra l’elemento piú tipico della sua produzione. Il paesaggio extraterrestre, la pazzesca invenzione scientifica, l’avvenimento paradossale, temi che si ritrovano con puntualità nei suoi lavori, diventano occasione per procedere secondo moduli narrativi di carattere sostanzialmente ludico. Il che non impedisce di poter leggere sotto le righe un preciso discorso sulla realtà dell’uomo e dei suoi tempi, ma è un discorso che si sviluppa in modo indiretto, senza interventi attivi da parte dell’autore. In altre parole: Sandrelli rifiuta costantemente di esporre al lettore, bell’e pronte, le sue consideraziomi etico-ideologiche, preferendo lasciarle nascere quasi di soppiatto, come inevitabile conseguenza degli avvenimenti narrati. Le opere di Sandrelli soddisfano pienamente il pubblico in cerca di divertimento e gli forniscono l’occasione di riflettere sommessamente, senza fanfare altisonanti, sui  motivi dell’esistenza umana. Leggi tutto »

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Donato Altomare

novembre 18th, 2008

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Torna su “Urania” il bravo autore di Mater Maxima, già laureato al nostro premio nel 2000.

Donato Altomare (nato nel 1951) è uno dei più prolifici autori italiani di fantascienza e fantasy. Con Mater Maxima, pubblicato nel n. 1426, ha ottenuto un buon successo di pubblico che spera di riconfermare con il testo vincitore di quest’ultima edizione, Il dono di Svet. Nel seguito l’autore ce ne racconta la genesi in rapida sintesi, ma vi ricordiamo che l’intervista completa può essere letta sempre su Urania Blog cliccando qui.

“Circa tre anni fa un amico che si interessa della realizzazione di fumetti mi chiese di creare un nuovo personaggio e aggiunse che, secondo le previsioni, nei prossimi anni sarebbero state richieste storie giallo-fantascientifiche. La risposta non è stata facile. Nei fumetti antichi c’era sempre un eroe (più o meno super) che dopo alcuni numeri veniva affiancato da una eroina (più o meno super). L’altra metà del mondo non poteva mancare. Allora ho pensato di partire dall’inverso, creare un personaggio femminile da affiancare, in seguito, a uno maschile. Così è nata Svetlava Tereskova, per gli amici Svet. E l’ho messa a capo della Polizia Metropolitana di NY. Un anno dopo questo primo abbozzo d’idea mi sono trovato tra le mani un personaggio molto ben delineato, un mondo altrettanto ben immaginato e una bella storia di fantascienza. La voglia di farne un romanzo era grande, ma avevo creato un personaggio per i fumetti. Bisognava lavorarci sopra per trasformare poco più che sceneggiature in un vero romanzo. Ci ho lavorato, e parecchio, così è finalmente nato Il dono di Svet”.

Il dono di Svet è in tutte le edicole fino a tutto novembre. L’autore invece è raggiungibile sul suo sito web.

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