Fantascienza

Non-A, ovvero L’utopia del ragionare corretto

aprile 16th, 2010

Tags: , , , , , , , , , ,

Pubblichiamo un intervento del traduttore e critico Riccardo Valla sul Non-A e i meccanismi narrativi adottati da A.E. van Vogt nei suoi romanzi. 

Più che nella fantascienza, Non-A andrebbe collocato tra i romanzi utopici, dato che è una delle ultime utopie scritte nel Ventesimo secolo (epoca in cui si sono scritte soprattutto anti-utopie).

Naturalmente, come per le altre utopie, la sua forma segue quella del romanzo della sua epoca, e infatti Non-A non è privo di componenti avventurose e di spunti fantascientifici come gli imperi galattici, le macchine pensanti e i viaggi tra i pianeti. ovvero, per dirla con alcune parole dello stesso van Vogt, è uno di quei “romanzi aristotelici in cui vince sempre l’eroe” (cap. 4). Ma anche Il mondo nuovo era più vicino al romanzo dei suoi tempi – nel suo caso abbiamo il romanzo dello sviluppo della personalità del Selvaggio – che ai lunghi fervorini delle utopie del Settecento, le quali, da parte loro, appartenendo a un’epoca in cui gli scrittori filosofeggiavano a ogni pie’ sospinto, sono diverse dai racconti di viaggio che costituivano la forma delle prime utopie. Quindi non c’è da stupirsi di trovare un’utopia nella forma del romanzo fantascientifico anni Quaranta, con tutte le componenti “pulp” o “space opera” ereditate dal quindicennio precedente. Del resto, il patrimonio di immagini sviluppato dalla fantascienza fino a quel momento – astronavi, pianeti alieni abitati, nuove scienze dell’elettrone e dell’atomo, intelligenze artificiali, mutanti, androidi – è ancora valido oggi, dopo settant’anni, come dimostra il successo di Guerre stellari.

A detta dell’autore, Non-A è il suo libro di maggiore successo. Nella introduzione all’edizione riveduta del 1970, van Vogt scriveva: 

Dopo la seconda guerra mondiale, è stato il primo romanzo di fantascienza scelto da uno dei più importanti editori americani per essere pubblicato in volume.

Ha vinto il premio del Manuscripters Club.

L’Associazione delle Biblioteche di New York l’ha incluso tra i migliori romanzi del 1948.

In Francia, Jacques Sadoul afferma che il romanzo, quando ne comparve la prima edizione, creò virtualmente da solo il mercato francese della fantascienza. Quella prima edizione vendette più di 25.000 copie.

La pubblicazione del romanzo ha richiamato un forte interesse sulla Semantica generale. Numerosi studenti, per merito suo, sono affluiti all’Istituto di Semantica generale di Lakeville, nel Connecticut, per studiare con il conte Alfred Korzybski; lo stesso Korzybski si è fatto fotografare mentre legge il romanzo.

È stato tradotto in nove lingue.

E in realtà, con la sua scusa di ritrarre un futuro mondo basato sulla Semantica generale – un’utopia, dunque – il romanzo è davvero un’efficace presentazione di quella scuola. Leggi tutto »

Posted in Fantascienza, Profili | commenti 3 Comments »

Errico Passaro

aprile 15th, 2010

Tags: , ,

Esordisce nella nostra collana l’autore del Regno Nascosto. Con un’idea originalissima… 

Nato a Roma nel 1966, ha collaborato con moltissimi interventi a periodici come “L’Eternauta”, “Roma”, “Area”, “Secolo d’Italia”, ad antologie (Il sonno della ragione non genera mostri, Pantheon), e libri di diverso tenore. A lui si devono saggi (Paganesimo e cristianesimo in Tolkien, Il Minotauro, con M. Respinti), prefazioni a romanzi (Il palazzo di C.Q. Yarbro, Gargoyle), introduzioni a fumetti (Servizi Segreti Italiani di D. Tognetto, Cagliostro). Come narratore, ha conquistato la piazza d’onore al Premio Tolkien 1986, al Premio Urania 1989 e al Premio Italia 2000. E’ autore dei romanzi Il delirio (Solfanelli, 1988), Nel solstizio del tempo (Keltia, 1992, con R. Genovesi), Gli anni dell’Aquila (Settimo Sigillo, 1996), Le maschere del potere (Nord, 1999), Inferni (Secolo d’Italia, 2001, a puntate) e Il Regno Nascosto (Dario Flaccovio, con G. Marconi, 2008), oltre a un centinaio di racconti su vari periodici

Voci e schermi (di carta). Passaro about himself:

“Per me il colpo di fulmine con la fantascienza è avvenuto grazie alla lettura della trilogia della Fondazione di Isaac Asimov. Mi sono innamorato subito degli smisurati spazi storici e cosmici, dove il “senso del meraviglioso” si fonde con l’estrapolazione scientifica e la riflessione sociale.

Come scrittore cerco di ottenere soprattutto l’eleganza della frase, che naturalmente va inserita nel ritmo della narrazione; in secondo luogo l’evocatività delle ambientazioni, e, quando lo spunto narrativo lo consente, cerco di trasmettere un mio  ‘messaggio’ sociale o semplicemente etico.

“L’idea di Zodiac mi è nata osservando il sorprendente numero di persone che quotidianamente non possono fare a meno di consultare l’oroscopo. Mi sono chiesto: cosa succederebbe se questa pratica, anziché volontaria, fosse frutto di una coercizione legale? Da lì mi sono spinto ad immaginare un futuro dove il determinismo insito nella dottrina astrologica  si eleva a regola politica e sociale”.  

(a cura di G.L.)

Posted in Profili | commenti 1 Comment »

Claudio Asciuti

aprile 15th, 2010

Tags: , , ,

Torna il vincitore del Premio Urania con un romanzo tanto fantascientifico quanto autobiografico. E non è un paradosso!

Genovese, è nato nel 1956.  Ha pubblicato nel 1988 il romanzo Il Signore della morte, mentre nel 1999 ha vinto il Premio Urania con La notte dei pitagorici. Del 2006 è I semi di Marizai. Collabora con le riviste “Pulp”, “If” e il quotidiano “Rinascita”.

Voci e schermi (di computer).

Claudio dice di sé:

“Dopo un certo apprendistato a base di Salgari, Verne e de La Hire, mi sono trovato, come tanti, a una di quelle biforcazioni preadolescenziali che rendono la vita insopportabile. Leggere romanzi e libri per storpiarne senso e significato come facevano tutti, o al contrario farsi sedurre dall’immagine del nuovo, dell’inesplicato, del futuro che ci appariva invariabilmente inquieto, ma nello stesso tempo pieno di rivoluzionarie prospettive? Parafrasando d’Annunzio, la donna è una fantascienza, non un piacere. E di tutte le Muse e le Camène scelsi Altaira, Andromeda, la sposa meccanica, l’eterna Eva, Olympia. Dopo una fedeltà quarantennale, credo con reciproca soddisfazione.

“Ma il neofita colto da sacro entusiasmo lavora per  pubblicare, e il suo testo d’esordio già gli sembra fondamentale e incompreso. Ci siamo passati tutti, prima o poi… Dopo un po’ capisce che, come diceva John Gardner, scrivere è una forma di yoga, di via, di alternativa alla normale vita-nel-mondo; e lo yoga ha valore solo per chi lo pratica. Allora diventa un dilettante di livello: sprofonda nel suo incubo privato, costruisce universi (che magari non cadano a pezzi in due giorni), si addormenta pensando alla sua storia e quando ha terminato un velo di tristezza l’opprime per ciò che ha creato e abbandona. Spera che un improbabile lettore si diverta, leggendola, almeno quanto lui a scriverla: se il suo yoga potrà essere condiviso da qualche altro vagabondo del Dharma, indicando così la via per Eleusi, ancora meglio.

“Poi c’è il professionista, che scrive pensando ai lettori (a volte senza rinunciare allo yoga); ma sulle esperienze di un professionista risponderò oramai nella prossima esistenza…

Vento eclissale  nasce da una mia (irrazionale) convinzione sulle inaccessibili valli di Shangrilah o Brigadoon, surrogate però da luoghi di vacanza, solitari e montani, dove far perdere le tracce con i propri libri e un attrezzo per scrivere. Una volta soggiornai in un luogo così selvatico e antico da illudermi, mentre guidavo un gregge di capre dal pascolo, di aver trovato l’accesso… poi ci furono l’eclissi del 1999, altri luoghi di fuga, la (tardiva) scoperta di non essere un Kallikanzaros, la consapevolezza dell’eterno errore, il proposito di persistere in esso, riflessioni sulla fantascienza quando il mondo era ancora intriso di magia, sul tempo dovuto e la “mistica sorella” che mai si incontra. Che potevo fare? Scrivere un romanzo di fantascienza. Esistono altri esorcismi all’angoscia esistenziale?”

(a cura di G.L.)

Posted in Profili | commenti 1 Comment »

20 years & beyond: intervista a un curatore stellare

marzo 16th, 2010

Tags: , , , , , , , , , , , ,

Lo scorso febbraio il nostro Curatore ha compiuto venti anni alla guida di “Urania”: in attesa di più adeguate celebrazioni, festeggiamo l’anniversario con una chiacchierata che ci svela retroscena della storia e anticipazioni sul futuro di “Urania” e delle sue sorelle. 

Giuseppe Lippi (Stella Cilento, 1953) non ha certo bisogno di presentazioni su queste pagine. Traduttore, saggista, autore di racconti, esperto di letteratura fantastica in tutte le sue molteplici declinazioni, oltre che di cinema (è autore, tra le altre cose, della guida definitiva al capolavoro di Stanley Kubrick: 2001 Odissea nello spazio: dizionario ragionato, pubblicato nel 2008 dalla casa editrice Le Mani). È stato curatore per la Mondadori delle collane Oscar Fantascienza, Fantasy e Horror, ha curato l’opera completa in volume di H.P. Lovecraft ed è recentemente tornato in libreria con l’antologia Racconti fantastici del ‘900 (Mondadori, 2009). Da vent’anni è al timone di “Urania”, come l’ha definita un grande amico scomparso da poco: “la corazzata della fantascienza italiana”.

Vent’anni sul ponte di comando di “Urania”. Domanda interlocutoria al Capitano Lippi, alias P. Kettridge Jr.: cosa si prova a essere stato per tutto questo tempo il punto di riferimento della fantascienza in Italia?

GL: Si prova un giramento di testa, e infatti la mia non è più tanto giusta, da allora. E si pensa: sono vent’anni che mi trovo qui, poco meno del tempo che è trascorso da quando ho aperto la mia prima copia di “Urania” e quando ne sono diventato curatore. Tutta la vita racchiusa nelle sue pagine!

Secondo la “Storia tecnica” della corazzata della SF redatta da Ernesto Vegetti (apparsa in tre puntate sui numeri 1526, 1530 e 1532 di “Urania”, in occasione del suo 55simo anniversario nel 2007), hai assunto ufficialmente la guida della collana con il numero 1121, ma già da un anno ti apprestavi a prenderne la curatela. Cosa puoi raccontarci di quel periodo e dell’eredità lasciata dal tuo predecessore, Gianni Montanari?

GL: Oltre all’incarico di dirigere “Urania”, di quel periodo ricordo volentieri la chemioterapia che mi ha salvato da un linfoma di Hodgkin. Essendo sopravvissuto, ho potuto dedicarmi al nostro lavoro con più fiducia e soprattutto slancio vitale. Gianni Montanari mi aveva lasciato una ricca eredità (un anno di produzione) e ho rispettato le sue scelte nel modo più assoluto, lasciando che uscissero per tutto l’89. Solo nel febbraio ’90 hanno cominciato ad apparire le mie. Prima di congedarmi da questa domanda vorrei ancora ricordare il calore e l’affettuosità con cui venni festeggiato – già allora, novello curatore – nella redazione dei libri di genere. In particolare da Gianfranco Orsi e Stefano Di Marino, che a quell’epoca era redattore di “Urania”, ma anche da tutti gli altri: il nostro caporedattore Marzio Tosello, i grafici Nicola Giacchetti e Maria Lina Pirovano e la dolcissima segretaria di redazione, Cinzia Monaco.

Sotto la tua direzione “Urania” ha festeggiato traguardi importanti. Il numero 1500 ti ha offerto l’occasione per approntare una rassegna dei curatori che ti avevano preceduto in questo ruolo. Com’è evoluta “Urania” dalla sua fondazione, nel 1952?

GL: Negli anni Cinquanta “Urania” è stata una collana pionieristica, avrei detto “eroica” se non fosse già esistita una testata con quel nome. Nei Sessanta diventa una creatura sofisticata, nei Settanta rappresenta un po’ il supermarket del fantastico o l’Antigravitazione per tutti. Negli anni Ottanta scopre nuovi orizzonti, mentre a metà dei Novanta tenta la via della libreria, trasformandosi in un’elegante serie pocket. Un certo nocchiero che non starò a nominare l’ha traghettata allegramente nel XXI secolo e speriamo di vederne ancora nelle belle. Oh, a proposito: per “Urania” il 2012 sarà l’anno del sessantesimo compleanno, non certo quello delle profezie maya.

Una critica che viene talvolta mossa alla collana è di aver dato troppo spazio alle mode del momento. Personalmente ho invece l’impressione che nel corso della sua esistenza “Urania” abbia saputo mantenere una sua identità, dando sempre spazio sia alle novità che al gusto consolidato dei suoi lettori. In definitiva, non sono mai mancate le dimostrazioni di carattere. Come ti sembra che sia cambiata la fantascienza nel corso di queste due decadi, nella sostanza e nella percezione del pubblico?

GL: Il genere in sé ha subito varie trasformazioni, trionfando al cinema e rinnovandosi anche nella sua forma letteraria: vedi il fenomeno cyberpunk, il cosiddetto cyber-noir e l’imprevista rinascita della space opera, soprattutto grazie ai bravi autori inglesi. Con gli anni il pubblico degli appassionati è diminuito ma lo zoccolo duro è rimasto vigile, fedele e interessato. L’attenzione dei media verso la fantascienza letteraria, invece, è venuta a mancare, almeno in Italia. All’estero è diverso, “Le Monde” ed “El Pais” dedicano sempre una pagina al genere, mentre il critico del “Guardian” è nientemeno che John Clute, il compilatore dell’Encyclopedia of Science Fiction. In Italia, a parte alcune testate come “Il manifesto”, siamo più pressappochisti: ci piacciono i film con gli effetti speciali e scriviamo di quelli, mentre sui quotidiani e le riviste che contano la critica letteraria è di stretta osservanza e pratica l’apartheid, lasciando fuori la narrativa d’immaginazione.

Estrapolando dai dati della summenzionata “storia tecnica” estesa da Vegetti, sei ormai sulla strada per festeggiare i 500 numeri di “Urania”. A bruciapelo: potendo tornare indietro, quale scelta non ripeteresti?

GL: Oh my God, non ripubblicherei la serie di Paul Preuss Nome in codice: Sparta. Né la novelization di Alien: dentro l’alveare, anche se fosse firmata Sheckley. E neppure Ithaqua, il mostro di Brian Lumley, così isolato dal suo contesto come uscì negli anni Novanta. Quel ciclo andrebbe rifatto integralmente su “Epix”, anche se si tratta di robina divertente più che edificante. Per il resto, come diceva Michael Moorcock: bisogna difendere a spada tratta tutti i nostri libri. Dietro ognuno, anche il più traballante, c’è una scommessa, una scelta, un desiderio.

Le tue scelte sono state fondamentali per far conoscere ai lettori italiani scrittori del calibro di Joe R. Lansdale, Michael Swanwick, M. John Harrison, Valerio Evangelisti. Di quale titolo o iniziativa vai più orgoglioso?

GL: Vado fiero di tutti gli autori che hai citato, e fra i più recenti aggiungerei Greg Egan, Peter F. Hamilton e Alastair Reynolds. Ma il mio senso dell’orgoglio – se tale può essere definito quello di un mero tramite com’è un direttore di collana – si scioglie al burro su un’autrice in particolare: Amanda Prantera. Amanda è inglese, vive in Italia, scrive romanzi bellissimi e complessi e considero i suoi Il cabalista e Cerchio segreto tra i più bei titoli usciti su “Urania” nel campo del fantastico moderno. Senza dimenticare il fantasy La regina dei Fani, apparso in una collana da libreria ma ultra-meritevole di un’epix-fanìa.

Quale risultato o iniziativa ti ha maggiormente gratificato?

GL: Vent’anni di premio Urania hanno visto l’affermazione di autori come Vittorio Catani, Valerio Evangelisti, Luca Masali, Nicoletta Vallorani: mica male, come scuderia. Altri autori hanno lasciato il segno sulle loro orme, fino ai recenti Paolo Aresi, Dario Tonani e Giovanni De Matteo. A parte il premio, che mi ha indotto a occuparmi di fs italiana pur non essendone un partigiano sfegatato, direi che i miei ricordi più belli siano legati ai numeri off-beat, strani, spesso usciti per festeggiare ricorrenze particolari. E quasi sempre antologici. Ricordo qui il volume del quarantennale (Metà P metà S, 1992), quello del quarantacinquesimo (Tutti i denti del mostro sono perfetti a cura di Valerio Evangelisti, 1997), il libro d’oro del mezzo secolo (Cinquant’anni di futuro, 2002) e il n. 1500 (Tutta un’altra cosa, 2005). Ma anche l’antologia di fantascienza auto-referenziale Fantashow (uscita per il Natale 1995) e quella dedicata ad Halloween da Robert Bloch (Le escrescenze della luna, 2000). Nei vecchi “Classici Urania” la mia serie preferita è quella dedicata ai Grandi Maestri della sf, cioè i vincitori del Grand Master Award, mentre nel “Millemondi” mi ha dato grande soddisfazione la serie in due volumi Avventure nell’ignoto e Nuove avventure nell’ignoto (The Fantasy Hall of Fame a cura di Robert Silverberg). Anche la ristampa dei racconti di Richard Matheson, Shock, è stata una bell’occasione per il “Millemondi”. Ricorderei ancora i due volumi de La fantascienza di Playboy (in “Urania” nn. 1368 e 1373; 1999) e la prima antologia della sf cinese apparsa in Italia, L’onda misteriosa (n. 1511 del 2006). A proposito, una seconda antologia cinese uscirà nel 2010.

Un romanzo o un autore che avresti voluto pubblicare?

GL: Guarda, non è per dire ma noi abbiamo pubblicato tutti i maggiori talenti: da William Gibson a Bruce Sterling, da Lucius Shepard a Octavia Butler, e questo nei vari periodi della storia della collana. Se vuoi una confessione, mi sarebbe piaciuto “scoprire” Iain Banks che invece è stato fatto conoscere dall’amico Piergiorgio Nicolazzini per la Nord. O Paul Di Filippo, che abbiamo recuperato in seguito. Tra i classici mi piacerebbe fare una nuova traduzione di Clark Ashton Smith, il più misconosciuto del circolo Lovecraft. Magari negli “Oscar” e poi su “Epix”, o viceversa.

La tua attività non è cominciata con “Urania”. Chi e cosa ricordi più volentieri delle esperienze precedenti?

GL: La mia storia professionale comincia nel 1977 con “Robot”, la rivista edita da Armenia di cui sono stato redattore per due anni; all’epoca il mio mallevadore e amico fraterno è stato Vittorio Curtoni. All’inizio dell’esperienza in Mondadori ho avuto la fortuna di lavorare con editor di grande finezza e cultura come Glauco Arneri (dal 1980 al 1984) e Ferruccio Parazzoli (dal 1985 al ’95), direttori per lunghi anni dei libri economici. Qui ho messo in piedi un catalogo di fantascienza, fantasy e horror che per quei tempi era particolarmente ricco e agguerrito. In seguito, ho collaborato con gli “Oscar” di Massimo Turchetta e Antonio Riccardi, che oggi sono tra i massimi dirigenti dell’azienda, e ancora con Luigi Sponzilli e Fabio Di Pietro. Nel caso di “Urania”, il primo della lunga serie di editor è stato Leone Buonanno, che saluto qui cordialmente: un ligure che riuniva in sé le capacità di ottimo amministratore e la sensibilità di un lettore avveduto, mai schizzinoso e anzi amante di molti generi artistici. A lui sono seguiti Gianfranco Orsi, direttore-chiave del “Giallo Mondadori” ma anche di “Segretissimo” e “Urania”; Franco Amoroso, un manager puro amante delle belle donne e delle macchine veloci; Stefano Magagnoli, dirigente di valore con il quale abbiamo vissuto tante avventure, in primis il passaggio delle collane al formato tascabile e lo sbarco in libreria del 1996. Annalisa Carena è stata l’unica signora del gruppo: con lei facevamo lunghissime riunioni a Segrate e giù al bar, nelle after hours, quando il tempo non bastava. Sandrone Dazieri è stato il primo romanziere ad arrivare al timone della divisione edicola: ricordo che mi porgeva i suggerimenti di un suo lettore di fiducia, un appassionato di fantascienza che veniva dalla militanza leoncavallina ed era soprannominato l’Elefante. Dopo di lui c’è stato Marco Fiocca, il più giovane della serie.

Torniamo al presente. E al futuro. Da qualche anno ti ritrovi a collaborare a stretto contatto con l’editor Sergio Altieri, attuale direttore del mass market Mondadori. Insieme avete riaperto agli italiani al di fuori delle maglie del premio Urania e avete varato la nuova collana dedicata al fantastico, all’horror e alla weird fiction: “Epix”. Cosa avete ancora in serbo per i lettori?

GL: Molte cose. Per esempio, prevedo di allargare la mia area di consulenza allo spionaggio (una mia vecchia passione: vedi il recente volume dedicato a Jean Bruce, OSS 117: Romanza della morte, apparso come supplemento a “Segretissimo”) e al giallo d’autore. In questo campo ho progettato un volume con tutti i racconti di Ed McBain dedicati al personaggio di Matt Cordell e usciti negli anni Cinquanta su “Manhunt”. Sarà un “companion” del romanzo A un passo dalla tomba, curato da Mauro Boncompagni e uscito lo scorso anno. Nel campo per noi più ortodosso del fantastico, ho varie idee allo studio: su “Epix” dovrebbe uscire un secondo volume dei Miti di Lovecraft, con altri importantri racconti, e poi una riproposta del miglior Machen (ad esempio Il gran dio Pan). In campo fantascientifico, seguo varie linee di pensiero contemporaneamente: un’”Urania-rivista”, per esempio, con racconti e romanzi ma anche articoli, forum, eccetera. E poi un programma di e-book, sia classici che contemporanei. Infine, sono già al lavoro su alcune ipotesi per il numero speciale del sessantennale. Posso anticipare che Sergio Altieri condividerà la realizzazione di tutti questi progetti. Una curiosità: noi due ci siamo conosciuti più di trent’anni fa, quando lui era uno scrittore agli esordi e io redattore di “Robot”.

Se non sbaglio, “Urania Collezione” era stata originariamente concepita per durare 100 numeri. Avvicinandosi al traguardo, puoi dirci cosa succederà dopo?

GL: Credo che durerà molto di più. E’ una collana (concepita da Sandrone Dazieri, fra parentesi) che ha dato molte soddisfazioni e altre ne darà. A farla brillare in edicola pensano le belle copertine di Franco Brambilla, ormai entrate a buon diritto nell’olimpo dei classici dell’illustrazione di sf. Oserei dire, i primi veri classici italiani dopo quelli di Kurt Caesar, Karel Thole e Giuseppe Festino.

Il restyling di “Epix” ha esplicitato il suo legame con la collana madre (o sorella maggiore). L’esperienza di “Epix” è forse emblematica delle insidie dell’edicola. Una questione sollevata ripetutamente dai lettori, anche attraverso i commenti a questo blog, riguarda il problema della distribuzione che troppo spesso segue logiche imperscrutabili ai comuni mortali. Come cambieranno adesso le cose?

GL: La distribuzione è sempre sotto controllo da parte della direzione libraria, ma procede per grandi blocchi e forti numeri. E’ possibile, quindi, che a volte si verifichino disguidi e alcuni punti vendita siano coperti troppo, mentre altri rimangano coperti poco o niente affatto. E’ un dilemma stringente, quando si hanno tirature inferiori alle trenta o quarantamila copie. Confidiamo che il restyling aiuti la fidelizzazione dei lettori e li invogli verso un genere di esperienza che “Urania” sente vivamente il bisogno di coprire.

Ti va di darci qualche anticipazione? Quali titoli vedremo nei prossimi mesi su “Urania Collezione” ed “Epix”?

GL: Su “Urania collezione” avremo – non necessariamente in quest’ordine – Non-A di A. E. van Vogt, Pianeta d’acqua di Jack Vance, Paradosso cosmico di Charles L. Harness, Stella doppia 61 Cygni di Hal Clement, Shadrach nella fornace di Robert Silverberg, Furia di Henry Kuttner, Il cieco del non-spazio di Bob Shaw e Addio, Babilonia di Pat Frank. Su “Epix” sono in arrivo Beowulf di autori vari, Carni estranee di Adriano Barone, il Wolfman di Nicholas Pekearo, The Iron Dragon’s Daughter di Michael Swanwick, La signora oscura di Giulio Leoni, La città vampira di Paul Féval ritradotto da Massimo Cavaglione e I racconti dell’orrore di Robert E. Howard in due parti. Più altre cose.

Che cosa ci riserva invece il futuro di “Urania”?

GL: Innanzi tutto una doppietta di autori italiani, Claudio Asciuti ed Errico Passaro, con i due romanzi brevi Vento eclissale e Zodiac, poi Birmingham, 35 miglia di un nuovo autore, James Braziel, quindi Nova Swing di Michael John Harrison. Nel “Millemondi” di maggio avremo il colossale romanzo di Peter F. Hamilton The Dreaming Void, primo di una trilogia ad amplissimo respiro. E ancora, su “Urania” normale, The Digital Plague di Jeff Somers, Incandescence di Greg Egan, il premio Hugo di Vernor Vinge Rainbow’s End, Rollback di Robert J. Sawyer e in novembre, se tutto andrà secondo i piani, una nuova antologia della sf cinese curata per noi da un esperto del campo, Lorenzo Andolfatto. Nei “Millemondi”, infine, avremo l’antologia annuale del Meglio della sf e una corposa raccolta invernale dedicata ai maestri della science fiction europea.

Prima di chiudere, una domanda sulla tua carriera di scrittore di fiction. Nel sopracitato numero 1500 di “Urania”, Tutta un’altra cosa, era compreso anche uno dei tuoi rari racconti. Si chiamava “Il lago d’inferno” ed era ambientato sulle sponde del Golfo, nella tua Napoli, in una città insidiata da minacce tanto oscure quanto letali. Alla fine, il protagonista decideva di prestarsi alla delicata partita a scacchi tra i No e gli umani sopravvissuti alla loro invasione. Ce n’era abbastanza per un romanzo intero, ma la storia s’interrompeva sulla soglia del mondo fantastico che si schiudeva al di là di una tela che era anche un manufatto psichico, e al lettore non venivano concessi molti indizi su ciò che sarebbe accaduto in seguito. Scopriremo mai chi erano davvero i No e cosa è successo a Bill Ford?

GL: Spero di sì, anche perché uno dei limiti del racconto è proprio quello di interrompersi su un “cliffhanger”. Nella mia mente, i No erano l’anti-umanità personificata, a cominciare dal nome. Potentissimi controllori del mondo, di probabile origine interstellare, ai quali non potevi neanche pensare senza che ti scoprissero. Una sorta di Grandi Fratelli all’ennesima potenza, ma dai quali ci si poteva isolare grazie alla protezione di alcuni manufatti artistici, o, come dici tu giustamente, psichici. Chi li avesse fabbricati resta un mistero (almeno per ora), ma un antiquario russo trasferitosi in Campania ne aveva scoperto un esemplare particolarmente potente sul lago d’Averno del titolo. Nella seconda metà della storia, ritengo si possa scoprire che il mondo al di là della tela sia un universo perfettamente normale, simile al nostro, senza i No e i loro servitori camorristi (i Cutolo, alias Cthulhu). L’agente Ford, che ha accettato di passare il varco, scoprirà che si tratta di una dimensione situata nel passato recente, prima dell’avvento dei controllori. In che modo riuscirà a svolgere la tela e a sabotare il potente nemico, è quanto si vedrà nella nuova avventura. Potrei pubblicarla su “Segretissimo”, tanto la trama mi appare nera e spiona…

Ti ringrazio per questa chiacchierata, Giuseppe, e lo faccio oltre che da blogmaster soprattutto da lettore di fantascienza e scrittore italiano. A te l’ultima parola…

GL: Innanzi tutto, sono io che ringrazio te e i lettori per avermi dedicato tanta attenzione. Per concludere, dirò che far marciare una macchina periodica complessa come quella di “Urania” non richiede soltanto conoscenze, gusto oppure “la testa”. Le schegge del puzzle sono tante e ognuna deve andare esattamente al suo posto. Occorrono molta accortezza e, soprattutto, molta pazienza. Una volta ho coniato il motto “pazienza e fantascienza”: mi sembra quanto mai attuale.

[Per l’illustazione di apertura, opera di Franco Brambilla, si ringraziano Giorgio Raffaelli (per la foto di base), Selene Verri e Luigi Milani. In basso: Giuseppe Lippi a Roma, nel 1998.]

Posted in Orizzonti, Profili | commenti 47 Comments »

Cordwainer Smith: uno scrittore per tempi difficili

marzo 15th, 2010

Tags: , , , , , , , , , , , ,

Dopo una luna assenza dal panorama editoriale italiano, torna grazie a “Urania Collezione” il poliedrico Cordwainer Smith, ideatore della Strumentalità dell’Uomo e precursore del recente filone postumanista.

La breve ma intensa vita di Cordwainer Smith (al secolo Paul Linebarger, 1913-1966) è degna di un romanzo di spionaggio: americano ma fin da piccolo far-traveled, con un eterno conto in sospeso con l’oriente, religioso fervente e più tardi coinvolto in attività governative – esperto di politica orientale, è stato consigliere militare nella guerra di Corea e in precedenza aveva collaborato al sostegno del regime cinese prerivoluzionario – , per un certo periodo si è interessato di tecniche del lavaggio del cervello e ha scritto addirittura un manuale sull’argomento (Psychological Warfare, 1948). Ha cominciato a scrivere giovanissimo, e quando nel 1950 uscì il suo primo racconto di fantascienza (“Scanners Live in Vain”) aveva già alle spalle tre romanzi d’altro genere. Ha sempre firmato la sua narrativa con pseudonimi, da vero uomo-ombra: prima come Felix C. Forrest, poi come Carmichael Smith e infine Cordwainer Smith. La sua principale ambizione letteraria è stata quella di trasfondere nella narrativa americana modi e atteggiamenti del racconto cinese e spesso le sue storie fantastiche sono plasmate, almeno stilisticamente, da questo sforzo.

Quasi tutta la fantascienza di Cordwainer Smith è legata da uno sfondo comune e si svolge in un futuro molto lontano dal nostro (oltre diecimila anni): in quest’epoca barocca, l’umanità si è estesa nella galassia e la domina sotto la ferrea ma benevola tirannide della Strumentalità, una casta ereditaria di signori che, grazie a una sostanza ricavata dalle gigantesche pecore ammalate del pianeta Norstrilia, possono vivere per secoli.

Se i signori della Strumentalità sono il vertice della gerarchia sociale, al gradino più basso si trovano gli underpeople (= sottopersone), animali modificati biologicamente in modo da poter somigliare agli esseri umani ed esprimersi come loro, ma privi in effetti di qualsiasi diritto civile. È un’estensione fiabesca della terribile idea di H.G. Wells, ma in alcuni racconti raggiunge un’originalità propria (“The Ballad of Lost G’mell”, 1962, “The Dead Lady of Clown Town”, 1964).

Smith ha scritto numerosi racconti e in Italia sono state pubblicate tre antologie separate: Quest of Three Worlds del 1966 (su “Galassia” come Sabbie, tempeste e pietre preziose), You Will Never Be the Same del 1963 (L’astronave d’oro, Fanucci) e Stardreamer del 1971 (Giù nei vecchi mondi, Fanucci). Sempre Fanucci ha pubblicato poi Il ciclo della strumentalità in due volumi, completo di tutti i racconti (1989). Ha scritto, invece, un solo romanzo, che all’epoca della prima pubblicazione americana è stato diviso in due separati volumi: The Planet Buyer, del 1964, e The Underpeople (1968). Le traduzioni sono, rispettivamente, L’uomo che comprò la Terra e L’uomo che regalò la Terra (entrambe su “Galassia”). Il manoscritto originale è stato ricomposto nel 1975 e pubblicato col titolo Norstrilia. La nostra edizione segue quella del ’75.

La narrativa di Cordwainer Smith rappresenta uno dei punti più interessanti della fantascienza a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, e se la morte prematura dell’autore ha impedito che il ciclo della Strumentalità venisse portato a termine, ciò non toglie che i racconti migliori possiedano un’originalità e soprattutto un “taglio” che li distingue nettamente dalla produzione contemporanea. Come si accennava all’inizio, questo taglio è ottenuto con il tentativo di ricalcare modelli narrativi tradizionali e orientali: il racconto fantascientifico viene trattato alla stregua di un’antica leggenda, come se chi lo narra rievocasse un tempo remoto, soffuso di una luce che non è più quella cronachistica delle narrazioni di genere, e a volte nasconde un’insospettata crudeltà. I personaggi, per la loro stessa ambiguità biologica, sono qualcosa di più e di diverso dai semplici esseri umani (si veda, ad esempio, la donna-gatto G’mell); si ha la sensazione che qualcosa di prodigioso sia accaduto, ma tolto alla sfera del soprannaturale e proiettato in un universo governato da forze arcaiche.

Tutto questo determina un arricchimento fantastico e una prospettiva inedita. Si può avere, in alcuni casi, la sensazione di muoversi in un mondo eccessivamente oscuro, ma a nostro avviso questo non toglie a Smith ciò che è di Smith, vale a dire l’aver concepito un futuro che non costituisce una mera estensione della nostra realtà, ma che arriva, attraverso una serie di espedienti narrativi e un graduale accumulo di materiali eterogenei, ad avere uno spessore per così dire “mitologico”. E all’interno della fantascienza che ha effettuato tentativi simili (pensiamo alle opere di Zelazny o di Farmer), la narrativa di Smith mantiene un’autonomia e una statura di tutto rispetto.

La fantascienza è ricca di personalità bizzarre, di gusti un po’ forti, ma crediamo che questo corrisponda alla sua intrinseca natura. Il romancero futurista che qui si presenta ne sarà la conferma per chi già lo conosce, e per tutti gli altri costituirà una gradita sorpresa.

Giuseppe Lippi

[La bibliografia italiana delle opere fantastiche di Smith è disponibile sul Catalogo SF, Fantasy e Horror, a cura di Ernesto Vegetti. Il sito ufficiale di Cordwainer Smith, curato da sua figlia, si trova all’indirizzo: http://www.cordwainer-smith.com/]

Posted in Fantascienza, Profili | commenti 11 Comments »

Robert Silverberg

febbraio 16th, 2010

Tags: , , , , , , , , , , , , , , , , ,

Il nostro curatore Giuseppe Lippi ci regala un profilo del maestro Robert Silverberg, ospitato questo mese in “Urania Collezione” con L’uomo stocastico.

Nato nel 1935 da genitori ebrei, Robert Silverberg rappresenta un caso unico nella letteratura USA di fantascienza: il caso, cioè, di uno scrittore che ha cominciato a pubblicare senza alcuna apparente ambizione negli anni Cinquanta (legandosi ai mercati più umili e tradizionali) e che ha ripreso a scrivere negli anni Sessanta trasformandosi, nel giro di un decennio, in un artista maturo e personale, nonché uno dei profondi innovatori del genere. Attivo ancora negli anni Ottanta e Novanta, anche se non più col ritmo febbrile dei decenni precedenti, si calcola che abbia pubblicato oltre cento libri di science fiction e una sessantina al di fuori della narrativa.

Si distinguono, perciò, tre fasi nella sua carriera. Il primo Silverberg esordisce con un racconto del 1954, “Gorgon Planet”, e con un romanzo del 1955, Revolt on Alpha C (in italiano La pattuglia dello spazio, AMZ Editrice, 1960). E’ uno scrittore di avventura come tanti, si destreggia fra space opera e storie d’azione o di mistero, nascondendosi volentieri dietro gli pseudonimi collettivi delle case editrici di pulp magazine, ma nel 1956 gli viene attribuito un tempestivo premio Hugo quale nuovo autore più promettente. Di quel periodo si ricordano i romanzi Master of Life and Death, 1957 (Padrone della vita, padrone della morte, tr. it. in “Galassia” n. 128, La Tribuna 1970), Aliens from Space firmato con lo pseudonimo di David Osborne (Stranieri dallo spazio, in “Galassia” n. 12, La Tribuna 1961), Invaders from Earth, 1958 (Invasori terrestri, Editrice Nord 1983) e Recalled to Life, 1962 (Anonima Resurrezioni, in “I romanzi del cosmo” n. 181, Ponzoni 1965). Su “Urania” appare Collision Course (1961) col fantasioso titolo de Il sogno del tecnarca.

Quando, verso la fine degli anni Cinquanta, il mercato dei pulp magazine scompare e quello delle altre riviste si ridimensiona, Silverberg ne approfitta per concedersi una pausa. Usciranno suoi libri anche nell’intervallo fra il 1959 e il 1966, ma si tratterà di rifacimenti di vecchi lavori. Nel frattempo, si dedica ad altri progetti e altri libri.

Torna alla fantascienza nel 1967, in grande stile, con Thorns (Brivido crudele, Editrice Nord 1972), storia di un astronauta “vivisezionato” e rimesso insieme da creature extraterrestri, e con Hawksbill Station, 1968 (Base  Hawksbill, Editrice Nord 1979), che racconta di un campo di prigionia per deportati politici nascosto nel remotissimo passato. I successivi romanzi confermano in Silverberg uno scrittore potente e originale, tanto da farlo acclamare come uno dei maestri della science fiction americana: The Masks of Time, 1968 (Le maschere del tempo, Fanucci 1977 e 1991), avventura di un misterioso visitatore giunto dall’anno 1999, The Man in the Maze, 1968 (la versione pubblicata su rivista è apparsa in italiano come La città labirinto in Urania n. 498, 1968; in seguito è stata tradotta anche la versione ampliata a volume: L’uomo nel labirinto, MEB Editrice, 1976); e ancora il ciclo di Nightwings, 1969 (Ali della notte, Editrice Nord 1973), una storia dai toni quasi fantasy ambientata nel lontano futuro, e una delle sue migliori prove stlistiche.

Up the Line, del 1969 (Il paradosso del passato, Editrice Nord 1978) descrive i molti problemi dei viaggi nel tempo, mentre Downward to the Earth, del 1970 (Mutazione, Editrice Nord 1979) è quasi una versione fantascientifica del conradiano Cuore di tenebra. Devoto di Conrad, Robert Silverberg ritenterà più esplicitamente l’operazione con un romanzo breve del 1988, The Secret Sharer, in cui anche il titolo è identico a quello del modello. In italiano la versione pubblicata su rivista è apparsa abbastanza tempestivamente, sia pure con un titolo che non permette di cogliere il rimando al capolavoro di Conrad: si tratta di Comunione segreta ed è apparso nel “Millemondi estate” 1988 (Mondadori).

Del 1971 sono A Time of Changes (Il tempo delle metamorfosi, Fanucci 1974 e Editrice Nord 1993), Son of Man (Il figlio dell’uomo) e The Book of Skulls (Il libro dei teschi o Vacanze nel deserto, quest’ultimo riedito da Fazi e attualmente in libreria).

Silverberg non si interessa soltanto al tema della civiltà nel futuro, ma anche al problema del singolo individuo – e dell’artista in modo particolare – nel nostro ambiente contemporaneo, che può risultare angoscioso e opprimente come quello di qualunque dystopia. Così Dying Inside, 1972 (Morire dentro, Fazi 2007) è la straziante odissea di un uomo che, dopo aver acquisito facoltà telepatiche, lentamente le perde. Per contro, The Stochastic Man del 1975 (versione su rivista tradotta come L’uomo stocastico in “Urania” n. 687 e qui ristampata), è la realistica e affascinante avventura di un uomo che impara non solo a prevedere il futuro con metodi statistici, ma a “vederlo”. In altre parole, a trasformarsi da tecnico scaltrito in veggente. La vicenda è rappresentativa di tutta la fantascienza e del modo in cui opera: prendendo una branca della tecnologia o della scienza più o meno ufficiale – e a volte solo un’abilità tecnica – passa a ricavarne neoscienze o facoltà super-scientifiche il cui portato è molto più vasto, e il cui scopo, come dice Silverberg in questo romanzo, consiste nell’indagare il possibile “significato” dell’universo (ciò che la scienza ufficiale, sappiamo bene, non farà mai né intende fare). In questo senso la fantascienza travalica l’esperienza scientifica per rifarsi a quella puramente speculativa, e nel caso dell’Uomo stocastico alla problematica del tempo, del destino e del libero arbitrio. L’universo ha un senso, conclude il protagonista di Silverberg: l’ex-uomo stocastico è approdato a una concezione filosofica del mondo.

Altri romanzi di questo formidabile “periodo di mezzo” sono To Live Again del 1968 (Vertice di immortali, Editrice Nord 1971), Tower of Glass del 1970 (Torre di cristallo, Editrice Nord 1973) e The Men Inside, 1971 (Monade 116, Delta Editrice 1974), che racconta le spaventose conseguenze della sovrappopolazione urbana. L’ultimo romanzo di questa seconda e straordinaria fase creativa è Shadrach in the Furnace del 1976 (Shadrach nella fornace, Editrice Nord 1978) che tratteggia la figura di un dittatore del futuro vista attraverso le esperienze del suo medico.

Si può ben dire, a questo punto, che l’opera di Silverberg avesse raccolto quanto di meglio la tradizione della fantascienza americana potesse offrire e avesse trasferito il suo ricco bagaglio di idee e invenzioni – ma anche un certo modo di porsi di fronte al tempo, quello che è stato giustamente definito “il senso del futuro” – sul piano di una personalissima qualità inventiva e stilistica. In tal modo la sua fantascienza risulta ben inserita nello spirito moderno (quello che i vecchi classici dell’Età d’Oro non potevano, ormai, più sperare di rappresentare) e, pur rimanendo perfettamente all’interno del genere, ne rappresenta un importante rinnovamento e non sfigura per nulla accanto ai romanzi mainstream dello stesso periodo. I temi che interessano Silverberg e l’abilità narrativa con cui sa affrontarli sono ormai quelli di uno scritore maturo: l’evoluzione della civiltà americana, il problema delle personalità riprodotte tecnicamente (molto ben affrontato in romanzi come Vertice di immortali e The Second Trip del 1972, apparso in Italia come Il secondo viaggio) e ancora il sesso e il tormento dell’uomo “diverso” nel mondo massificato contemporaneo. Egli è l’esempio più vistoso di come un genere letterario vitale possa arricchirsi e giungere a maturazione in alcune singole figure di autori la cui abilità trascende, ormai, la perizia dell’artigianato.

Ma non sempre il mercato premia l’inventiva e l’originalità senza compromessi, e quello della fantascienza americana andrà incontro, negli anni Ottanta, a profonde metamorfosi, anche involutive. Silverberg scrive spesso in una vena tragica: le sue vicende amare, dalla conclusione non di rado pessimistica, sembrano disorientare alcune frange di lettori; e ancora di più sconcertano gli editori certe “pretese” del grande Robert. Disgustato dalla politica letteraria delle case editrici di fantascienza (che non ristampano i suoi romanzi, che annegano nella pletora di novità senza curare il catalogo e che, in definitiva, lo trattano come uno sforna-salsicce, secondo l’espressione usata da Agatha Christie), Silverberg smette per la seconda volta di scrivere SF.

Questo abbandono dura quattro anni, dopodiché, nel 1980, lo scrittore torna a produrre regolarmente romanzi e racconti. Ma c’è stato un cambiamento di tono e di registro: Lord Valentine’s Castle (Il castello di Lord Valentine, libro che segna il suo ritorno sulla scena) è quasi un romanzo fantasy che non sembra aggiungere molto al bagaglio dell’autore, anche se in esso nasce il mondo di Majipoor che tornerà a fare da sfondo alla raccolta di racconti The Majipoor Chronicles, 1982 (Cronache di Majipoor, Editrice Nord 1983) e al successivo romanzo Valentine Pontifex, 1983 (Il pontifex Valentine, Editrice Nord 1984).

Seguono alcuni esperimenti con il romanzo storico (Silverberg ha scritto, fra l’altro, alcuni libri di storia antica e archeologia, ed è un appassionato di mitologia): Lord of Darkness nel 1983, Gilgamesh the King  nel 1984 e To the Land of the Living nell’89.

Nel 1986 esce il suo primo romanzo di fantascienza pura dopo dieci anni: si intitola Star of Gypsies (in italiano L’astro dei nomadi, Editrice Nord 1988) e poco dopo prende l’avvio una lunga saga ambientata nel lontano futuro dopo una nuova glaciazione. Il ciclo conta finora i seguenti titoli: At Winter’s End, 1988 (La fine dell’inverno, Mondadori 1989) e The New Springtime, 1989 (La nuova primavera, Mondadori 1990). Del 1991 è il romanzo The Face of the Waters (Il volto delle acque, Sonzogno 1992), storia di una colonia terrestre che sopravvive su un pianeta acquatico dopo la distruzione del nostro mondo.

Rassegnato alle richieste del mercato, Silverberg accetta di scrivere tre romanzi ricavati da altrettanti racconti di Asimov: Nightfall nel 1990 (Notturno, Bompiani, stesso anno), Child of Time nel 1991 (Il figlio del tempo, Bompiani, s. a.) e The Positronic Man nel 1992 (Robot NDR-113, Bompiani, s.a.). Il primo romanzo è tratto dal racconto omonimo, mentre il secondo e il terzo costituiscono rispettivamente l’espansione degli asimoviani “The Ugly Little Boy” e “The Bicentennial Man”. Il suo precedente romanzo di fantascienza, la space opera Starborne, 1996 (L’arca delle stelle, n. 1306) è stato il titolo di maggior successo su “Urania” nel 1997.

Attivissimo anche come antologista e saggista, Robert Silverberg rimane una figura-chiave della fantascienza contemporanea. Recentemente i suoi racconti brevi sono apparsi in una raccolta organica pubblicata tanto negli Stati Uniti che in Inghilterra. Silverberg è anche, sicuramente, uno degli autori più amati in Italia.

Giuseppe Lippi

[La bibliografia italiana di Robert Silverberg è reperibile sul Catalogo Generale di SF, Fantasy e Horror, a cura di Ernesto Vegetti. Foto via Midamericon.org.]

Posted in Profili | commenti 9 Comments »

Introduzione al Millemondi Inverno 2010: Un impero per l’inferno

febbraio 3rd, 2010

Tags: , , , , , , , , , , , , , , , ,

Pubblichiamo l’introduzione di Giuseppe Lippi al Millemondi n. 50, Un impero per l’inferno. 

La novità di quest’anno, per quanto riguarda le uscite del “Millemondi”, è che torneranno ad essere quattro anziché due, come le stagioni. Un appuntamento ogni tre mesi per ritrovare il piacere di corpose antologie di racconti o raccolte di più romanzi, secondo la formula che tanto favore ha riscosso tra i lettori. Inoltre, a partire dalla fine dell’anno vi accoglieremo (di tanto in tanto) singoli romanzi di eccezionale lunghezza che non potrebbero trovare spazio su “Urania”: dunque la collana si arricchirà di un terzo filone, questa volta non-antologico. Altro segno dei tempi, il volume inaugurale del 2010 costituisce la prima doppietta di romanzi italiani della collezione. L’onore è toccato a due finalisti del premio Urania 2006, quello che fu vinto da Sezione π2 di Giovanni De Matteo. Gli autori sono in realtà due coppie: Paolo Frusca e Italo Bonera per PhOxGen!, Alessandro Fambrini e Stefano Carducci nel caso dell’Ascensore per l’inferno.

Come reagiranno i nostri lettori a tanta italianità di proposte? Ci auguriamo bene, perché è solo continuando a pubblicare i nostri autori che il pubblico potrà fare le sue scelte, individuare i più bravi e arricchire il proprio carnet di letture. D’altra parte “Urania” non è e non sarà mai una collezione di esperimenti a vuoto, fini a se stessi: la nostra speranza è che ogni proposta venga accolta non come un sasso lanciato in orbita in un settore “di frontiera”, ma come una convincente novità editoriale in un campo che ha sempre bisogno di guardare avanti.

Quanto ai romanzi in sé, ci pare che il menu sia variato quanto basta: Ph0xGen! è un’ucronia ricca di spunti immaginativi ma anche di un certo gusto dell’azione che non guasta. All’epoca della prima lettura non ci era parsa del tutto convincente sul piano stilistico ma poi gli autori ci hanno lavorato, limandola a dovere. La sua presentazione vuole essere un tentativo di moltiplicare le occasioni offerte dal premio, cosa che era già avvenuta a suo tempo con i primi romanzi di Valerio Evangelisti, Nicoletta Vallorani e Luca Masali (tutti usciti negli anni Novanta). Più recentemente, Infect@ di Dario Tonani è stato recuperato anch’esso tra i finalisti del nostro concorso annuale.

L’altro romanzo ospitato nel volume è uno di quei libri non facilmente classificabili e che alcuni lettori considereranno “di rottura”, anche se a noi, francamente, sembra essenzialmente una commedia sui temi del tempo e dello spazio. In particolare, sul sottogenere degli infiniti universi possibili che ha fruttato tanti capolavori alla SF anglosassone. Se nell’universo di Ph0xGen! siamo di fronte a un dramma imperiale e a uno scenario che coinvolge tutta l’Europa, nell’Ascensore per l’inferno torniamo ai drammi, anzi ai melodrammi italici, dove le cose più serie hanno sempre un risvolto tragicomico. E’ un racconto di stampo surreale in cui, con l’espediente tecnico di un ascensore (ne avesse avuto uno Dante!), saliamo o scendiamo nei regni infernali e paradisiaci della speculazione pura. Lo scenario è costruito con attenzione e vari mondi si succedono nel carosello: quello dell’avventura, della politica e della TV lazzarona. Ragion per cui, come in tutti gli spettacoli che si rispettano, ne ripetiamo cast e artefici:

Alessandro Fambrini  è nato nel 1960. Docente di letteratura tedesca a Trento, si occupa di fantascienza nordeuropea ma anche italiana. Ha un ricco carnet di pubblicazioni come narratore e saggista; i suoi scritti sono apparsi, oltre che in volumi e pubblicazioni accademiche, nelle riviste “Studi nordici”, “Futuro Europa” e “Nova SF*”. Nel 2005 è uscita la raccolta personale Le strade che non esistono da Perseo Libri/Elara (Bologna). 

Stefano Carducci  è nato nel 1955 e lavora in un ospedale. Come saggista e traduttore è stato molto attivo nelle collane della Perseo Libri e ha collaborato più volte con Alessandro Fambrini. Quello che pubblichiamo è il loro primo romanzo.

Paolo Frusca e Italo Bonera sono due nuovi autori appassionati di fantascienza, storia e narrativa a intreccio.

G.L.

Posted in Profili | commenti 67 Comments »

David Oppegaard

febbraio 3rd, 2010

Tags: , , , ,

Giuseppe Lippi ci presenta un giovane scrittore americano, tanto pacioso nell’aspetto quanto “terribile” nei contenuti

Un autore piuttosto promettente nel campo della science fiction macabra (genere che acquista consensi sulla spinta del cinema, a quanto pare) è David Oppegaard, americano di St. Paul nel Minnesota. Prima di dedicarsi alla narrativa ha ottenuto una laurea breve in Letteratura inglese al St. Olaf College e un diploma in scrittura creativa alla Hamline University. Finalista all’Indiana Review Fiction Award e allo Iowa Fiction Award, Oppegaard ha fatto la proverbiale trafila di mestieri che tanto si addicono agli scrittori americani: ottico, impiegato all’Università del Minnesota, contadino, redattore, uomo delle pulizie, impiegato in una biblioteca circolante e intrattenitore dei bambini su una nave da crociera inglese.

Il suo primo romanzo, uscito da St. Martin’s Press nel 2008, è questo Suicide Collectors, che non abbiamo avuto paura di intitolare I predatori del suicidio (i lettori scaramantici faranno i debiti scongiuri ma poi, ne siamo sicuri, si tufferanno nella lettura lo stesso). Come storia è davvero emblematica: dopo un disastro di proporzioni planetarie che ha indotto la maggior parte del genere umano a suicidarsi, sulla Terra compaiono misteriosi individui che non solo fiutano la morte conclamata, collezionando i corpi dei suicidi come suggerisce il titolo originale, ma la precorrono. Ecco delinearsi sul fosco orizzonte gli anticipatori di cadaveri, quelli che magari “agevolerebbero” il trapasso di chi non ha ancora ceduto all’epidemia. Cosa si nasconde dietro tutto questo festar di corvi? Qual è l’enigma dei predatori? Non c’è da meravigliarsi che The Suicide Collectors sia stato finalista al premio Bram Stoker, uno dei massimi riconoscimenti della narrativa popolare angloamericana.

Il secondo romanzo di Oppegaard è apparso alla fine del 2009 con il titolo Wormwood, Nevada. Il sito dell’autore, da cui potete anche scrivergli, si trova all’indirizzo http://www.davidoppegaard.com/

G.L. 

Posted in Profili | commenti 1 Comment »

Il cantore perduto

gennaio 9th, 2010

Tags: , , , , , , , ,

Pubblichiamo un intervento di Gianni Montanari su Walter M. Miller, Jr e sul suo capolavoro, Un cantico per Leibowitz.

Per buone e valide ragioni personali, Walter Miller jr. si è ritirato come scrittore.” Con queste parole, incluse nel breve cappello introduttivo a un racconto di Miller ristampato nell’antologia A Wilderness of Stars pubblicata nel 1971, si sanciva la scomparsa dal campo della fantascienza (e della letteratura) di uno dei suoi talenti più ricchi e singolari. A dire il vero, più che di una sanzione si trattava di una tardiva spiegazione, poiché la “scomparsa” era avvenuta qualcosa come undici anni prima, nel 1960, in coincidenza con la pubblicazione del capolavoro indiscusso di Miller, Un cantico per Leibowitz. Autore di quelle brevi righe era il curatore dell’antologia, William F. Nolan, che probabilmente sapeva in proposito più di quanto volesse scrivere, ma i lettori dovettero accontentarsi: Walter Miller aveva deciso di sparire dal mondo della fantascienza e nessuno poteva convincerlo a ripensarci.

Quali potevano essere i suoi motivi? Perfino David N. Samuelson, autore del più esauriente saggio critico su questo autore, The Lost Canticles of Walter M. Miller, Jr., apparso su Science-Fiction Studies n. 8 (marzo 1976), si limita ad accennare a motivi di ordine letterario: forse il suo romanzo lo ossessionava, prosciugandolo di ogni attività creativa; forse gli imponeva un termine di paragone il cui livello era troppo difficile mantenere; o ancora, forse il romanzo esprimeva così bene i temi cari a Miller che il suo completamento lo lasciava senza altro da dire. Ma si tratta sempre e soltanto di forse. L’unica cosa certa, ancora oggi, è che Un cantico per Leibowitz rimane un’opera difficilmente eguagliabile, e che nella produzione di Miller non costituisce un’eccezione fortunata ma il risultato finale di una continua ricerca durata quasi un decennio.

Nato il 23 gennaio 1923 in Florida, da genitori cattolici, Walter Michael Miller jr. interrompe agli inizi della Seconda guerra mondiale gli studi di ingegneria per arruolarsi in aviazione; partecipa così a più di cinquanta missioni di volo sui Balcani e sull’Italia, e assiste alla distruzione dell’abbazia di Montecassino. Finita la guerra, si laurea all’Università del Texas e inizia a scrivere durante un periodo di convalescenza provocato da un incidente automobilistico. Il suo esordio avviene con il racconto “Secret of the Death Dome” sulle pagine di “Amazing Stories” nel gennaio 1951, e nei sette anni seguenti la sua intera produzione viene ospitata da riviste come “Astounding”, “Fantastic Stories”, “Galaxy”. Sono anni in cui l’America, emersa poco prima vittoriosa dalla guerra, incomincia a perdere la sua sicurezza e il suo ottimismo euforico alle prese con la guerra di Corea e con il maccartismo, e sono gli anni in cui la fantascienza americana sembra finalmente voler abbandonare tanti stereotipi avventurosi per prestare un po’ di attenzione anche allo sviluppo dei personaggi e al loro contesto ambientale. Le storie di Miller cominciano subito a lasciare il segno, con il loro piglio estremamente sicuro fin dall’inizio e la loro capacità di mettere in scena, oltre a personaggi dotati di un insolito spessore psicologico, temi che di lì a poco sarebbero diventati di bruciante attualità: il relativismo culturale di razze diverse, la solitudine urbana, il controllo delle nascite, l’alienazione tecnologica, per citarne alcuni.

In tutto, Miller pubblica quarantuno fra racconti e romanzi brevi, in un arco di tempo compreso tra il 1951 e il 1957. Una di queste, The Darfsteller (“Il mattatore”), gli fa conquistare un premio Hugo nel 1956: è il magistrale ritratto di un attore del futuro che sabotando un “collega” elettronico riesce a tornare un’ultima volta sulle scene. Ma ci sono altri tre romanzi brevi, apparsi fra il 1955 ed il 1957 su “The Magazine of Fantasy & SF” (A Canticle for Leibowitz, And the Light is Risen e The Last Canticle), che sembrano assorbire Miller in un infaticabile lavoro di revisione e di ampliamento. Sono le tre storie che nel 1960 appaiono finalmente in volume come Un cantico per Leibowitz, meritando a Miller un premio Hugo per il miglior romanzo dell’anno.

In quest’opera, concedendo finalmente spazio a un interesse in precedenza solo sfiorato in alcuni racconti, Miller ha modo di affrontare in modo diretto e globale un tema che gli sta a cuore: Ia religione. Per la precisione, quella cattolico romana. E nel dipingere le tre pale del suo romanzo imperniato attorno all’abbazia del Beato Leibowitz, dove i monaci dell’ordine omonimo custodiscono (seicento anni dopo la terza guerra mondiale) documenti e progetti scientifici del passato come memorabilia, senza minimamente comprenderne il significato, Miller si mantiene al largo da qualsiasi tono apologetico. Le sue figure minuziosamente connotate servono anche a intavolare discussioni sulla legittimità di certi usi del progresso scientifico, sulla validità delle vocazioni e su altri temi religiosi, ma l’occhio che le osserva crescere mantiene un garbato tono ironico, conscio del fatto che sotto un saio o sotto gli stracci di un mutante si trovano gli stessi uomini. Uomini che cercano di conservare al genere umano la stessa dignità che può valere per un credente o un brigante di strada, anche sotto gli occhi delle poiane che ormai formano un’inamovibile eredità del passato atomico.

Gianni Montanari

Posted in Fantascienza, Profili, Urania Collezione | commenti 2 Comments »

Un capolavoro ritrovato

gennaio 9th, 2010

Tags: , , , , , , , , ,

Giuseppe Lippi ci parla della riedizione di questo classico immortale di Walter M. Miller, Jr, in uscita tra qualche giorno in tutta Italia con il numero 84 di “Urania Collezione”.

Un cantico per Leibowitz costituisce uno dei migliori esempi della fantascienza americana moderna, aggettivo che usiamo volentieri perché da allora (1960) non ha perduto un grammo della sua potenza e originalità. È anche uno dei pochi romanzi di SF che si farebbero leggere a chiunque, per il suo intrinseco piacere letterario: non un’opera di genere ma trans-genere, come tutti i capolavori cui calzi la definizione. Averlo ritrovato non è un merito, vista la sua fama da cinque decenni: il merito, semmai, consisterebbe nel conservarlo, dandogli di nuovo la dignità di un’edizione libraria come all’epoca della prima apparizione nello Science Fiction Book Club. Leggendolo si assiste alla nascita di una nuova forma d’espressione che fiorisce sì nelle riviste di settore (in questo caso, “Fantasy and Science Fiction” diretta da Anthony Boucher) ma va ben al di là dello scopo di queste ultime: è la speculative fiction americana che, a partire dagli anni Sessanta, comincia a produrre capolavori maturi come da sempre accadeva in quella inglese, dai tempi di H.G. Wells ad Aldous Huxley, da Olaf Stapledon a George Orwell. È allora, quando il genere cessa di essere semplicemente “un genere” e l’immaginazione si allea alla capacità di scrittura e all’originalità del pensiero, che il risultato può essere un quadro del mondo come quello contenuto nel Leibowitz, apocalittico ma non desolato, avveniristico ma mai scontato. E nel futuro di cui parla Miller si avvertono gli echi di un passato nient’affatto sepolto, un passato come quello custodito nell’abbazia di Montecassino che, bombardata dagli alleati alla fine della Seconda guerra mondiale, resiste persino alle esplosioni aeree, alla furia della guerra tecnologica, preservando il suo alone di simbolica sapienza. Walter Miller partecipò al bombardamento, vi assisté: e l’operazione destruens gliene ispirò una construens, Un cantico per Leibowitz appunto. L’opera di una vita, cui stava per dare un seguito quando morì nel 1996. Poco dopo un altro romanziere, Terry Bisson, avrebbe dato alle stampe una propria versione del romanzo che Miller non era riuscito a completare, ma che aveva già abbozzato e a cui mancava la parte finale: si tratta di Saint Leibowitz and the Wild Horse Woman, lunghissimo seguito del capolavoro originale. In Italia, vista la sua mole debordante e la natura sempre un po’ spuria di certe operazioni editoriali, è parso impubblicabile; ma il lettore può consolarsi andando a leggere i racconti del nostro geniale autore, una selezione dei quali è apparsa nel n. 150 dei “Classici Urania” con il titolo Visioni dal futuro.

G.L.

[L’illustrazione che accompagna questa scheda è di John Picacio, pluripremiato artista americano che ha realizzato questa copertina per l’edizione HarperCollins di A canticle for Leibowitz. La bibliografia italiana di Walter M. Miller, Jr è reperibile sul Catalogo SF, Fantasy e Horror a cura di Ernesto Vegetti.]

Posted in Fantascienza, Profili | commenti No Comments »

« Previous Entries Next Entries »