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Robert J. Sawyer

ottobre 11th, 2010

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Ritorna l’autore del Neanderthal Parallax con un romanzo decisamente umano e sorprendente

Robert J. Sawyer, canadese nato a Ottawa nel 1960, è considerato uno degli autori di punta della nuova SF tecnologica. Di lui “Urania” ha pubblicato numerosi romanzi, tra cui Apocalisse su Argo (Golden Fleece, 1990), Starplex (id. 1996, giunto in finale al Premio Nebula), Mutazione pericolosa (Frameshift, 1997), I transumani (Factoring Humanity, 1998), Mindscan (2005).

Apocalisse su Argo, il suo primo libro, è stato proclamato da Orson Scott Card “miglior romanzo del 1990″ (su “Fantasy and Science Fiction”). Sawyer è l’unico scrittore canadese di SF a tempo pieno e vive a Tornhill, nell’Ontario, con la moglie Carolyne. Starplex è giunto in finale al Premio Nebula. Anche Mutazione pericolosa ha vinto un premio, questa volta in Spagna. Tra i suoi romanzi segnaliamo ancora Illegal Alien (1997), Far Seer (1992), Fossil Hunter (1993), Foreigner (1994), End of an Era (1994). Sono in opzione i diritti cinematografici di Illegal Alien e The Terminal Experiment, che, come anche Golden Fleece, sono una mescolanza di giallo e fantascienza. Far-Seer, Fossil Hunter e Foreigner compongono la cosiddetta Quintaglio Ascension Trilogy e raccontano rispettivamente le storie degli equivalenti extraterrestri di Galileo, Darwin e Freud. Dal romanzo Flashforward (Avanti nel tempo) è stata tratta l’omonima serie televisiva. Il brillante ciclo del Neanderthal Parallax, una delle opere più acclamate della produzione di Sawyer, è uscito su “Urania”in tre volumi: La genesi della specie (Hominids, 2002, premio Hugo 2003; Urania n. 1536), Fuga dal pianeta degli umani (Humans, 2003; Urania n. 1542) e Origine dell’Ibrido (Hybrids, 2004; Urania n. 1547). Rollback, il suo romanzo più recente, è uscito in America nel 2007.

Il “New York Times” ha detto di lui: “Robert J. Sawyer è uno scrittore di grande fiducia nei propri mezzi e un abile estrapolatore scientifico”. “Mystery News” aggiunge: “Al pari di giganti come Asimov ed Heinlein, Robert J. Sawyer ha capito, forse più di qualunque scrittore contemporaneo, che la fantascienza è letteratura di idee”.

Il suo sito online è all’indirizzo http://sfwriter.com/ 
La sua bibliografia italiana è sul Catalogo della fantascienza, fantasy e horror.

(a cura di G.L.)

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Henry Kuttner, l’anarchico della fantascienza

settembre 6th, 2010

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Riccardo Valla ci porta a scoprire i risvolti della fantascienza di Henry Kuttner e della sua singolare collaborazione con la moglie C.L. Moore.

Gallegher balzò in piedi. — Protesto, signor Giudice! Questo giuramento non è valido.
Il giudice era pensieroso. — Vuole spiegarsi, signor Gallegher? Perché questo robot non dovrebbe poter prestare giuramento?
— Perché un simile giuramento si adatta solo agli esseri umani.
— E perché?
— Perché presuppone l’esistenza dell’anima. O, per lo meno, implica una religione personale. Come può giurare un robot?
Il giudice guardò Joe. — Questione interessante, senza dubbio. Ehm… Joe, senti. Tu credi in una divinità personale?
— Sì.
Il Pubblico Ministero era raggiante. — Allora possiamo procedere.
— Aspetti un minuto — disse Murdoch Mackenzie, alzandosi in piedi. — Posso formulare una domanda, signor Giudice?
— Si accomodi.
Mackenzie fissò il robot. — Bene, allora. Puoi dirmi com’è la tua divinità personale?
— Certamente — disse Joe. — Assomiglia tutta a me.

Henry Kuttner, Ex machina

Nella fantascienza degli anni Quaranta, Henry Kuttner era uno degli autori più amati soprattutto per la forza dei personaggi, la vivacità dei dialoghi, la facilità con cui riusciva a passare da un genere di racconto all’altro. Se da un lato i lettori apprezzavano un certo tipo di storie kuttneriane brillanti e vagamente ispirate alla logica dell’assurdo, come quelle del super-inventore Gallegher riunite nel volume I robot non hanno la coda, dall’altro ammiravano i racconti scritti in una particolare vena di nostalgia del futuro, ad esempio “La grande vendemmia” in cui i visitatori desiderosi di forti emozioni, venuti dai prossimi secoli per assistere a qualche grande catastrofe, si aggirano tra noi con il loro suggerimento di conoscenze superiori alle nostre e tuttavia inaccessibili. E non bisogna dimenticare i romanzi avventurosi come Furia, con la loro atmosfera decadente e bizantina, né i suoi classici racconti del “mistero sovrannaturale” nella tradizione dei grandi autori del genere: Poe, Hawthorne, Mark Twain, Bierce, Henry James.

Per un certo periodo, tutti i giovani scrittori sembravano ispirarsi a Kuttner, anche talenti tra loro diversissimi come Bradbury e Vance. Anzi, si potrebbe perfino dire che per alcuni anni – da quando John Campbell si ritirò come scrittore a quando si affermò un nuovo tipo di fantascienza di più ampio respiro, rappresentato da Asimov con le sue saghe della Fondazione e dei robot, e da Heinlein con la “Storia del futuro” – Kuttner fu il più importante autore americano.

Dopo il 1950, però, venne progressivamente dimenticato, a mano a mano che la sua firma sulle riviste si diradava. Anche se la produzione di Kuttner era molto vasta, finì che i lettori degli anni Sessanta ne conoscevano soltanto qualche racconto ristampato nelle antologie più diffuse (come Il ritorno del cacciatore), ma sempre col dubbio che non fosse suo, perché si sapeva che parte di quelle storie era stata scritta dalla moglie C.L. Moore. Quanto alla produzione del genere heroic fantasy e horror, essa venne del tutto dimenticata. Leggi tutto »

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Greg Egan

settembre 1st, 2010

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Un profilo dello scrittore di questo mese di “Urania”, tracciato da Anna Feruglio Dal Dan e Emiliano Farinella.

“Se c’è qualcosa di cui sono certo, è che comprendere com’è fatto il mondo reale, come funziona il cervello umano, da cosa sorgono la morale, le emozioni, le decisioni, è essenziale per poter prendere qualunque tipo di posizione che, nel lungo periodo, abbia senso. E se questo vuol dire essere chiamato ‘meccanicista’, pazienza”.

Può sembrare strano aprire il profilo di quello che è riconosciuto come il migliore scrittore vivente di fantascienza hard con una citazione che parla di morale ed emozioni. Ma non c’è contraddizione, e in effetti la grandezza di Egan sta proprio nel fatto che nella sua opera scienza e coscienza sono indistinguibili, dipendenti l’una dall’altra. La speculazione scientifica è una facoltà umana e come tale coinvolge sentimenti, vita vissuta, morale e politica.

Personaggio schivo, Greg Egan non è affatto timido nel parlare di ciò che gli sta a cuore. Di lui si conoscono i dettagli biografici essenziali: è nato a Perth, in Australia, nel 1961 e si è laureato in matematica, ma non ha accettato di sottoporsi al modesto culto della personalità che circonda gli scrittori, anche gli scrittori di fantascienza. Non è mai stato visto ad una convention e non coltiva il fandom. La maggior parte dei suoi colleghi non sa nemmeno che faccia abbia. Ma nel prendere posizione non è né timido né schivo, e ha quel particolare tipo di intransigenza che viene dall’avere le idee chiare e nel non curarsi troppo se le sue opinioni non sono ben accette a tutti. La sua novella “Oceanic”, per esempio, gli è valsa il premio Hugo, ma ha anche irritato una grossa fetta di lettori perché postula, audacemente, che il sentimento religioso abbia un’origine biologica. Il suo romanzo Teranesia (1999, Fanucci) contiene, oltre a una trama estremamente coesa e personaggi ben caratterizzati, anche un attacco spietato alla corrente culturale del postmodernismo, che gli ha senz’altro procurato dei nemici.

Ma diamo uno sguardo complessivo alla produzione di Greg Egan, cominciata anni fa sulle pagine di “Interzone”, la piccola rivista inglese di qualità su cui il nostro ha pubblicato buona parte della sua prima (ed eccellente) produzione di racconti. Nel 1992 esce il primo romanzo, Quarantine (La Terra Moltiplicata, Nord): è un esempio impressionante di come la pura speculazione fisica possa diventare il centro della trama di un romanzo. Ancora più impressionante è il fatto che un libro incentrato sulle proprietà della meccanica quantistica rimanga accessibile anche al lettore più digiuno. Nel 1994 segue Permutation City (id., edizioni Shake), nel quale sono esplorati nei dettagli i concetti di intelligenza artificiale, con la creazione e il funzionamento (a volte sorprendente) di “Copie”, trascrizioni di coscienze umane in termini di software. Nel 1995 appare la sua prima raccolta di racconti, Axiomatic  (id., in “Urania” n. 1470), che comprende la maggior parte della produzione breve degli anni precedenti. È probabilmente una delle raccolte più belle mai pubblicate da un singolo autore ed esplora in modo acuto e sorprendente idee e implicazioni della fisica, della matematica e della biologia. Tutto ciò che di meglio la fantascienza ha da offrire – riflessione, sense of wonder, sovvertimento delle categorie mentali tradizionali – è presente in questa collezione al massimo grado. Nel 1995 esce anche Distress (id., in “Urania” n. 1437), romanzo imperniato su un evento di proporzioni stapledoniane – l’enunciazione di una Teoria del Tutto che trasforma radicalmente l’universo – e che tuttavia affronta con passione il desiderio umano di evadere dal controllo: dello Stato (l’azione si svolge su un’isola artificiale di corallo abitata da anarchici), della nazionalità, del sesso, dalle determinazioni della biologia e della tradizione. Ci sono nuove forme di sessualità, Autisti Volontari, Antrocosmologia, bioingegneria, Culti dell’Ignoranza, la rivendicazione appassionata delle possibilità di liberazione sociale e politica della scienza, l’esperienza mistica del diventare atei e una storia d’amore con un essere che ha rinunciato alla sessualità. In breve, abbastanza materiale, nelle mani di un autore meno grande, per almeno una dozzina di romanzi. Nel 1997 è la volta di Diaspora (id., in “Urania” n. 1460), un romanzo affascinante ma nel quale il livello di astrazione è molto più alto, e di lettura piuttosto ardua per chi non possegga buone conoscenze di fisica, che parte dalla distruzione della vita organica sulla Terra e prosegue verso cose molto più grandi.

Luminous (1998, con l’identico titolo in “Urania” n. 1412) è la seconda antologia personale di Egan dopo Axiomatic. Comprende alcuni dei migliori racconti brevi di uno degli scrittori di racconti più celebrati della fantascienza, in grado di gettare uno sguardo lucido, ma non per questo meno appassionato e a volte furente, su quello che fa di noi esseri umani nel terzo millennio: l’incrocio e talora lo scontro tra natura e coscienza. La fantascienza hard, che tanto spesso è gelido gioco intellettuale, qui viene restituita a quello che fa della SF un luogo privilegiato: la possibilità di riflettere sulla scienza da esseri umani, senza nascondersi dietro il catastrofismo pessimista, né illudersi con ingenuo ottimismo. Egan non è né apocalittico né integrato: non viene a dirci che viviamo in un inferno, ma nemmeno nel migliore dei mondi possibili. Viene a dirci che viviamo in un mondo che dobbiamo capire, se vogliamo dargli un senso: perché gli unici che possano dargli un senso siamo noi. Per dirla con l’autorevole rivista di divulgazione inglese “New Scientist”: “L’universo può essere più strano di quanto ce lo immaginiamo, ma sarà difficile che riesca ad essere più strano di quanto se lo immagina Egan”.

Tra gli altri romanzi notevoli ricordiamo La scala di Schild (Schild’s Ladder, 2002, in “Urania” n. 1490) e questo Incandescence (2008), a tutt’oggi il suo libro più recente. È difficile immaginare un autore più “hard” di Egan, e da diversi punti di vista. Matematico per formazione, programmatore di computer per professione e passione, ha lavorato a lungo per un istituto di ricerche mediche, da cui ha assorbito la sua non comune conoscenza della biologia. Ma solo chi non conosce bene gli scienziati può meravigliarsi di come la sua opera esprima un profondo, appassionato umanesimo. La cosa straordinaria non solo dei racconti, ma anche dei notevoli romanzi eganiani è che si trovano al punto d’incrocio in cui una precisa conoscenza dello stato dell’arte in campo scientifico s’incrocia con la riflessione filosofica o etica. Perché per Egan l’essere umani vuole dire stare in un universo da comprendere, a cui dare valore, a cui conferire bellezza: “La mia idea di bellezza non ha nulla a che fare con la sopravvivenza: di tutte le cose che l’evoluzione ha creato, quelle che mi sono più care sono quelle che più facilmente potrebbe schiacciare e spazzar via la prossima volta che si rigira nel sonno. Se vedo in natura qualcosa che ammiro, il mio istinto è di afferrarlo e scappare via: copiarlo, migliorarlo, farlo mio. Perché sono io a dargli valore per ciò che è. Alla natura non importa un accidente”.

Sono parole tratte da Teranesia, romanzo che in un certo senso rappresenta una svolta: mentre finora la critica gli aveva rimproverato, a torto o a ragione, una certa mancanza di spessore umano nei personaggi, Teranesia riesce meglio dei precendenti a fondere in una sintesi convincente speculazione metafisica e biologica con la storia personale, le emozioni e le ragioni del protagonista, Prabir Suresh. La sua vicenda, le sue convinzioni, la morte tragica dei genitori, la lotta per salvare e crescere la sorella, diventano parte inseparabile della soluzione dell’enigma biologico che ha il centro nell’isola del titolo.

Su Internet è disponibile molto materiale su Egan. La pagina web personale è incredibilmente generosa di materiale (racconti, interviste, saggi, e merita una visita anche solo per ammirare la galleria di applet Java  che contiene, piccoli programmi grafici che illustrano con rara forza comunicativa insoliti fenomeni fisici, proprietà matematiche o le teorie che fanno da sfondo alle sue opere narrative).

In italiano il punto di riferimento sono due importanti riviste elettroniche: Intercom e Delos.

Anna F. Dal Dan e Emiliano Farinella

[La bibliografia italiana è sul Catalogo SF, Fantasy e Horror a cura di Ernesto Vegetti.]

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La bomba oltre la siepe

agosto 3rd, 2010

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Ovvero, come ce la cavammo dopo la fine del mondo… un intervento su Pat Frank a cura di Valentina Paggi e Giuseppe Lippi.

Quello che ai lettori piace di più, nei romanzi catastrofici, sono ovviamente le scene di catastrofe: quando l’uragano arriva, il finimondo è bello fresco e case e persone vanno a pezzi. Ma quanto dura? C’è un romanzo di Philip K. Dick, in italiano Cronache del dopobomba, in cui dopo un preavviso di una decina d’anni si scatena l’apocalisse e una pioggia di bombe H cade sulla California settentrionale. Dopo le prime scene veramente forti, in cui una villetta crolla in testa alla proprietaria (che però poi esce e va a fare l’amore col primo che capita) e un negozio cade intorno a un tecnico focomelico (che sopravvive a differenza del titolare, tranciato in due sulle scale), si instaura una sequela di situazioni normali o para-normali, in cui we get along nonostante il fallout. Dick è molto bravo a descrivere personaggi credibili e normali in situazioni tese, e Cronache del dopobomba potrebbe essere uno dei suoi bei romanzi realistici della California, da Confessioni di un artista di merda a Voci dalla strada; invece l’anno è il 1981, che per l’epoca era il futuro, e varie situazioni weird ci assicurano che siamo dalle parti della fantascienza. Il focomelico, per esempio, ha poteri paranormali ed è un genio della meccanica in grado di costruirsi una macchina che lo trasporti e faccia per lui il lavoro delle braccia e delle gambe. Una bambina di sette anni, Edie, ha un gemello sapiente accovacciato nel suo fianco e solo un ex-psichiatra, Stockstill, sa che le sue non sono fantasie. Un astronauta lanciato proprio il giorno della bomba continua a orbitare intorno alla Terra, esausto, senza che nessuno possa recuperarlo. Un ragazzo nero dimostra un talento geniale per gli affari eccetera, sicché, man mano che gli anni Ottanta scivolano via, la vita riprende come se niente fosse (o quasi). L’unico a rodersi il fegato come prima è il dottor Bluthgeld, che vorrebbe dire “Soldisporchi” come Strangelove voleva dire Stranamore. Bluthgeld è il fisico atomico, nato a Bucarest, che ha fatto esplodere per errore un fascio di bombe negli strati alti l’atmosfera, e questo una decina d’anni prima della guerra vera e propria. Dire che il rimorso lo perseguiti sarebbe un eufemismo: lui ha paura di essere riconosciuto e ammazzato, per cui emigra nella bucolica contea di Marin, si mette ad allevare pecore e spera di nascondersi sotto il nome di Jack Tree. I fisici atomici non saranno popolari, dopo la terza guerra mondiale, ma per il resto si cercherà di tirare avanti. Ecco, è a questo punto che il lettore di fantascienza catastrofica può sentirsi defraudato: va bene il mondo dipinto a colori smorti, va bene il sapiente realismo, mais où sont les bombes d’antan? Il macello, ov’è mai più?

Attenzione, verrebbe da dirgli, non essere precipitoso. Il caos, la deflagrazione, lo scoppio che si ripercuote senza fine, a ben guardare c’è. Solo che non provoca calcinacci e lingue di fuoco come nelle prime, bibliche pagine, ma terremoti, conflitti ciechi e orrori della mente. La vita dopo la bomba è come la vita nei cimiteri, si dice a un certo punto nel libro di Dick. Il terrore, la nausea, il rimpianto non sono tormenti inferiori a quelli somministrati dai diavoli dell’inferno, sebbene i personaggi più vitali sentano che nonostante tutto si può andare avanti. Lo stesso principio vale nel caso di un romanzo meno frequentemente ricordato di quelli dickiani, ma molto famoso all’epoca in cui apparve e ancora oggi circondato da un discreto culto internazionale: Addio, Babilonia di Pat Frank. Il libro, del 1959, potrebbe aver ispirato non solo qualche episodio del Dopobomba (che invece è del 1965), ma la stessa concezione del romanzo successivo. Lo dimostra il giudizio che ne dà in quarta di copertina Gianni Montanari, in occasione di una ristampa – vedi coincidenza – del 1981:

Addio, Babilonia elabora l’agghiacciante ritratto di un frammento di provincia americana alle prese con gli orrori del dopobomba, orrori che consentono all’autore una critica spesso impietosa di uno spaccato ideale del ceto medio del suo paese. A differenza di molte opere simili, infatti, questa aggredisce con coraggio la difficile indagine sotto un profilo precipuamente sociale e politico, connotando con tocchi sapienti un piccolo campionario di umanità capace di imprimersi indelebilmente nella mente dei lettori, e di rammentare loro che certe catastrofi sono sempre in agguato… anche se le armi finali mutano forma e nome”.

Il libro è l’opera di Harry Hart Frank, in arte Pat, giornalista e scrittore che fu anche consigliere del governo (come più tardi Paul Linebarger alias Cordwainer Smith e Alice Sheldon alias James Tiptree, jr.). Nacque a Chicago il 5 maggio 1908, visse a Washington e a New York e durante la Seconda guerra mondiale lavorò per i servizi d’informazione della Difesa, trasferendosi all’estero. Nel 1960 fu membro del Comitato nazionale del Partito Democratico, nel ’61 diventò consigliere del National Aeronautics and Space Council. Sempre nel 1961 ricevette un importante premio letterario, l’American Heritage Foundation Award. Morì a soli cinquantasette anni a Jacksonville, Florida, di pancreatite acuta. Ha pubblicato i romanzi Mister Adam (Mr. Adam, 1946), storia di una grave forma di sterilità che colpisce tutti i maschi e che in Italia uscì nella “Medusa”; An Affair of State (1948); Hold Back the Night (1952); Forbidden Area (1956), storia di un proditorio attacco sovietico all’America portata sugli schermi TV con Tab Hunter (nota anche con il titolo Seven Days to Never); e Addio, Babilonia (Alas, Babylon 1959). Nel 1962 Frank fece uscire il saggio How to Survive the H Bomb and Why (Come sopravvivere alla bomba all’idrogeno e perché), che potrebbe essere letto in un corso propedeutico ad Addio, Babilonia. (Tuttavia il romanzo sembra mettere in scena il consiglio opposto: come non è bene sopravvivere all’olocausto. Ma questo fa parte del dramma…). The Long Way Round (1953) è un libro di viaggi e memorie, mentre è uscito postumo (1967) un libro sulla guerra nel Pacifico intitolato Rendezvous at Midway – USS Yorktown and the Japanese Carrier Fleet, firmato da Frank con Joseph D. Harrington.

Benché il primo romanzo, Mister Adam, sia frequentemente citato a causa del tema genetico, il suo capolavoro resta Addio, Babilonia, un’opera che ha il respiro profondo del “novel” moderno ed è l’antitesi del racconto sensazionale. L’azione si svolge a Fort Repose, in Florida, una cittadina immaginaria ma basata su quella reale di Mount Dora. I personaggi sono molti, sfaccettati e credibili: Randy Bragg, leguleio senza uno scopo; il colonnello Mark Bragg, suo fratello, che gli dà l’avvisaglia del disastro; Helen, la moglie di Mark; Elizabeth Lib McGovern, l’attuale donna di Randy; il banchiere Quisenbery, il politico Logan, il medico Dan Gunn, l’ex-amiraglio Sam Hazzard, fino al presidente USA Josephine Vanbruuker-Brown, la prima donna eletta alla Casa Bianca come effetto dell’emergenza. Il bombardamento atomico della Florida è una delle catastrofi centrali del romanzo, ma gli Stati Uniti riescono nonostante tutto a vincere la guerra. Il prezzo è altissimo: i morti non si contano e il paese è ridotto a una potenza di trascurabile importanza, ricattata da nazioni dell’ex-Terzo mondo come il Venezuela e il Brasile. Alla conclusione del romanzo, Fort Repose sembra essere la sola città rimasta in piedi in Florida, costretta ad affrontare il futuro in una solitudine senza precedenti.

Come molti libri letti nella giovinezza, Addio, Babilonia (la frase deriva dalla Bibbia di re Giacomo, al capitolo 18:10 dell’Apocalisse: “Guai, guai immensa Babilonia, possente città: in un’ora sola è giunta la tua condanna!”), lascia nel lettore un’impressione indelebile che la rilettura adulta giustifica, per fortuna, ampiamente. È un libro degli anni Sessanta che si inserisce non tanto nella scia di Red Alert (1958), il romanzo di Peter George da cui sarà tratto Il dottor Stranamore, ma dell’Ultima spiaggia (On the Beach di Nevil Shute, 1957, che tuttavia parla dell’Australia) e annuncia Il buio oltre la siepe di Harper Lee (To Kill a Mockingbird, 1960), di cui condivide i toni psicologici e l’allarme politico. La metafora del buio al di là del giardino, e cioè la casa del vicino sconosciuto, è quella intorno a cui ruota il libro di Lee, impregnato dell’analisi di una comunità violenta e del tema del razzismo; il romanzo di Pat Frank, che pure è basato sull’esame di una cittadinanza, allude a un peccato più grave, più irreparabile che non “uccidere un mockingbird, cioè un mimo o un usignolo. Qui la vittima non è un uccello innocuo e canterino, non è la città di Babilonia ma l’umanità intera, suicida in un gesto di proporzioni bibliche. Non senza una nota di speranza, in fondo: se nel Buio oltre la siepe i tempi non sono ancora maturi per evitare la morte del pur innocente uomo di colore, in Addio Babilonia la Bomba è ’a livella. Ricchi e poveri, bianchi e neri non solo possono, ma devono convivere fianco a fianco per la sopravvivenza della comunità, e quando nel parco pubblico le due fontanelle con la scritta “solo bianchi” e “solo gente di colore” smettono entrambe di funzionare, l’antica differenza perderà di significato, e giovani studenti bianchi e neri sederanno vicini sui banchi di scuola (con ben cinque anni di anticipo sul Civil Rights Act del 1964).

C’è grande spazio infatti per i giovani, nella civiltà postatomica. I ragazzini, figli della Guerra Fredda e della paura della Bomba, sono quelli che accettano prima e meglio la nuova era, e i primi a gestire la situazione d’emergenza, mentre gli adulti ben inseriti nella società saranno le prime vittime del nuovo status quo: il banchiere si rifiuterà di accettare l’idea di un mondo in cui il denaro equivale a carta straccia, gli anziani di abbandonare l’albergo privo di risorse di sopravvivenza, e gli avidi di separarsi dai gioielli contaminati che pur costituiscono un pericolo mortale. Del resto un’impietosa selezione naturale fa sì che anche i malati e i più deboli siano i primi a soccombere in un mondo che non si può più prendere cura di loro, ma che nonostante tutto continua ad andare avanti. 

E dunque, lungi dai facili finali moraleggianti, la verità, paradossale, sarà questa: in una civiltà resa più “dura” e “pulita” dalla scopa manzoniana dell’atomica si prospetta un futuro – anche se remoto – che potrà reggersi soltanto sull’energia nucleare. Non c’è un’accusa della tecnologia tout court, semplicemente dell’uso improprio che può farne l’uomo.

Quel che convince di più è che il romanzo non si riduce, banalmente, al ritratto di “una catastrofe” o del “mondo dopo l’olocausto”: libri come questo sono in realtà esercizi di stile sulla vita di un campione di gente qualsiasi. La guerra atomica è il catalizzatore, ma le storie che seguono provengono dall’ambiente di tutti i giorni, da angosce che rodono l’anima, sensi di colpa sfibranti e la pace che non c’è più (se mai c’era stata).

Valentina Paggi e Giuseppe Lippi

Bibliografia Italiana di Pat FRANK (ps. di Harry Hart FRANK)

A cura di Andrea Vaccaro

(I titoli dei racconti sono in tondo, fra virgolette, quelli dei romanzi in corsivo. Le opere sono indicate in ordine alfabetico di titolo italiano, senza tener conto dell’articolo)

Addio, Babilonia (Alas, Babylon, J.B. Lippincott, Philadelphia, 1959)
La Bussola n. 3 [SFBC 17], Casa Editrice La Tribuna, 30 giu. 1965
Biblioteca Universale Rizzoli L L337, Rizzoli, lug. 1981

“L’isola della morte”(non indicato)
         Supergiallo. Settimanale di Racconti Polizieschi n. 19, Tip. Novissima, 24 ago. 1946

Mister Adam (Mr. Adam,  J.B. Lippincott, Philadelphia, 1946)
         Medusa CCXXXVII, Mondadori, set. 1949

Altre opere, non tradotte in Italia (dei romanzi viene indicato il genere all’interno di parentesi quadre)

An Affair of State, J.B. Lippincott, Philadelphia, 1948 [fantapolitica]
“The Bomb”, Colliers, Jul 8 1939
“Burden on the Family”, The Saturday Evening Post, Apr. 29 1950
“Capital Gains”, Cosmopolitan, Dec. 1955
“The Christmas Bogey”, This Week Literary Cavalcade, Dec. 1955
“Complete Protection”, Colliers, Jul. 15 1939
“Danger in the Stars”, Redbook, Feb. 1955
“A Date in Bethesda”, Colliers, Apr. 1 1944
“Deciding Score”, Colliers, Jun. 4 1949
“The Empty Desert”, The Saturday Evening Post, Mar. 17 1962
Forbidden Area, J.B. Lippincott, Philadelphia, 1956 [fantapolitica]
“The Ghosts of Montfaucon”, Liberty, Jan. 10 1942
Hold Back the Night, J.B. Lippincott, Philadelphia, 1952 [guerra]
How To Survive the H Bomb And Why, J.B. Lippincott, Philadelphia, 1962 [saggio]
“Ill Wind”, Colliers, Sep. 14 1946
“In Enemy Hands”, The Saturday Evening Post, Dec. 6 1958
“The Last Man on Puang”, Colliers, Aug. 5 1939
The Long Way Round, J.B. Lippincott, Philadelphia, 1952 [diario di viaggio]
“The Loneliest Island”, Colliers, Apr. 20 1946
“The Madman”, Argosy, Sep. 1947
“The Man Who Told the Truth”, Bluebook for Men, Feb. 1961
“Midget’s Moon”, The Saturday Evening Post, Mar. 7 1959
“The Nightmare”, Playboy, Feb. 1964
“On Edge”, Colliers, Jul 22 1950; EQMM, Aug. 1954
“Only the Brave”, Woman’s Home Companion, Dec. 1939
“The Pentagon Spy”, The Saturday Evening Post, Feb. 23 1957
“Prexy Was a Pin-Up”, The Saturday Evening Post, Oct. 23 1954
“Russian Agent”, The Saturday Evening Post, Mar. 17 1951
“The Skipper Couldn’t Take It”, Colliers, Mar. 14 1942; Argosy (UK), Jul. 1942
“Stranger in the Sky”, The Saturday Evening Post, Dec. 7 1957
“Target: Treason”, Colliers, Jun. 22 1946
“This One Is on the House”, Playboy, May 1958
“Victory”, Country Home Magazine, Sep. 1939

La bibliografia italiana completa è sul Catalogo SF, Fantasy e Horror 
La bibliografia in lingua inglese è alla pagina dell’Internet Speculative Fiction DB.

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Ancora un premio Hugo per Vernor Vinge

agosto 3rd, 2010

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Il popolare romanziere americano ai vertici del gradimento con un romanzo che ha vinto i premi più importanti del 2007

Scrittore amato e coccolato dagli appassionati – soprattutto quelli che amano la science fiction fondata su solide basi scientifiche – Vernor Vinge è nato nel 1944 a Waukesha, nel Wisconsin, e fino al 2002 ha insegnato matematica alla San Diego State University. I suoi romanzi sono Il mondo di Grimm (Grimm’s World, 1969), Naufragio su Giri (The Witling, 1976), Quando scoppiò la pace (The Peace War, 1984) e I naufraghi del tempo (Marooned in Realtime, 1986), tutti pubblicati da “Urania”. Inoltre Universo incostante (A Fire Upon the Deep, 1992; premio Hugo 1993) e Quando la luce tornerà (A Deepness in the Sky, 1999; premio Hugo 2000).

Rainbow’s End (2006; premio Hugo 2007) costituisce un tentativo in una nuova direzione: descrivere il mondo del prossimo futuro come in un documentario scientifico, con una tecnica distaccata che potremmo quasi definire kubrickiana. Il romanzo non è di genere spaziale ma terrestre, informatico per la precisione: è la cibernetica che plasma la vita del 2025, come non è difficile immaginare dalla prospettiva del 2006. Ma le trasformazioni sono state radicali e i vecchi computer non esistono  più: il loro posto è stato preso da intricatissime connessioni individuali rese possibili da un balzo tecnologico che per ora possiamo soltanto immaginare. Rainbow’s End non si è limitato a vincere lo Hugo ma anche il premio Locus, ed è stato candidato al John W. Campbell Award. Per il momento è l’ultimo romanzo da lui pubblicato. Vinge è anche autore di importanti racconti brevi, raccolti nel volume personale The Collected Stories of Vernor Vinge (Orb Books 2002).

(a cura di G.L.) 

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Un mondo e i suoi racconti – Intervista a Mina Argento

giugno 29th, 2010

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Finalmente siamo riusciti a intervistare l’autrice del racconto di giugno, Mina Argento. Naturalmente non ha voluto incontrarci e abbiamo dovuto accontentarci dell’email, nonché di vaghe promesse: “Non mancherà l’occasione…”. Ve la offriamo insieme all’unica immagine che siamo riusciti a reperire e che la stessa signora Argento ha accluso all’intervista. Prendetela come una testimonianza a proposito del fantastico e, più in generale, del mondo che lo produce.

Domanda: Mina, lei ha il nome di una famosa cantante italiana e un personaggio di Bram Stoker: avrebbe dunque un’anima canterina insidiata da oscure concupiscenze. Che ne dice, corrisponde al suo tipo?

Risposta: Preferisco Il castello d’Otranto a Dracula di Bram Stoker, perché è più antico e nel suo genere rappresenta un’opera prima. Inoltre è ambientato in Italia e non vi compare nessun personaggio col mio nome. Uno non può scegliere il proprio nome: lo fanno i genitori, ma il nome influisce senz’altro sulla persona che lo porta. Io per esempio non amo le canzoni di Mina e il personaggio di Stoker mi sembra, anche se femminista, troppo lineare e semplice.

D.:E il cognome, Argento: quello di un regista del brivido, ma c’è anche qualcosa di tintinnante, come in”argentino”, che fa pensare a tutt’altro. Per esempio, alla sterlina inglese. Ma sono sicuro che lei non è il tipo venale…

R.: Di vero c’è che mio marito, il signor Argento, non è un bancario. Non avrei dovuto assumere il suo cognome, anzi come femminista non avrei dovuto nemmeno sposarlo. Ma il suo ha un suono molto più letterario del mio, che è troppo banale. Quindi lo uso quando scrivo, ma non è il nome che uso su Facebook. A Dario Argento preferisco sua figlia: il tipo di regista che piace soprattutto agli stranieri, che dall’Italia si aspettano gli stereotipi. Lui non è davvero capace di rappresentare il terrore autentico insito nella vita italiana. Perché dobbiamo per forza imitare Hitchcock, non abbiamo forse argomenti autentici e di casa nostra davvero strepitosi? Secondo me Mamma Roma è un film più horror di tutti quelli di Dario Argento messi assieme, come d’altronde anche altri del neorealismo o di Pasolini. Non voglio dire che Argento e famiglia non abbiano talento, ma insomma io vado in tutt’altra direzione.

D.: Come le è venuto in mente, lei così impegnata e attiva politicamente,di scrivere un racconto fantastico e mandarlo a “Urania”?

R.: La politica italiana moderna è di gran lunga più fantastica di qualunque racconto possa pubblicare “Urania”. Le pare forse che la crisi finanziaria che stiamo vivendo abbia qualcosa a che fare con la realtà? I nostri politici vivono in un paese delle meraviglie, lo sanno tutti. Questo racconto è un tentativo di capovolgere la scena… Ci sono giorni che mi sento come Bulgakov quando scriveva Il Maestro e Margherita in Unione Sovietica. Perché Kafka e Calvino hanno scritto racconti di fantasia? Non perché non sapessero ciò che accadeva in politica, ma proprio per esprimerlo concisamente e negli aspetti più bizzarri. Questi tempi richiederebbero un nuovo torinese brillante come Einaudi, capace di tirar fuori dalla sabbia la testa dei lettori.

D.: A me sembra che il suo racconto sia molto sottile, addirittura recursive (in italiano, auto-referenziale): narrativa che parla dei problemi della narrativa. E’ così?

R.: Calvino è uno dei miei autori preferiti, e non a caso. Chi ha letto Se una notte d’inverno un viaggiatore… sa che questo è il massimo punto d’approdo, il capolavoro di questo genere di letteratura.

D.: Contiene un messaggio anche per i nostri lettori di fantascienza?

R.: Io sono una lettrice di fantascienza, se proprio voglio mandare un messaggio mando una e-mail.

D.: Il personaggio di Sheherazade l’affascina in modo particolare?

R.: Sì, perché provo un senso di solidarietà con tutte le donne del mondo che osano alzare la voce; se poi riescono anche a zittire le voci nocive, è anche meglio: il mio racconto è una storia plausibile, non scritta, fuori della tradizione patriarcale.

D.: So che lei va spesso in Serbia. Fa ricerche per un libro?

R.: I Balcani, come la Svizzera, sono versioni estreme dell’Italia: la terra del sangue e la terra dell’oro.

D.: La sua regione è il Piemonte. Vuole dirci, in breve, se le sembra una terra ancorata al passato o invece al futuro?

R.: Soprattutto al futuro. Della nostra lotta di sopravvivenza, intendo. E’ vero che passo molto tempo negli archivi, ma tutto questo ha uno scopo ben preciso. Purtroppo non c’è una parola, non un’azione che possiamo compiere per aiutare la gente del passato, perché è morta. Un giorno anch’io farò parte dei morti, ma per ora faccio quello che può fare una donna viva.

D.: Può parlarci dei suoi libri e di quelli che prepara?

R.: Credo che scriverò tanti racconti per esplorare il tema del mio primo libro. Ho scritto dei libri quando ero una teenager, ma non erano pubblicabili… Non buoni, devo ammetterlo. Adesso credo di avere trovato una mia voce adulta con qualcosa da dire, ma ci devo lavorare, e per di più devo studiare biochimica.

D.: E’ vero che esce preferibilmente di notte?

R.: Non so perché sia nato questo pettegolezzo e come le sia giunto. Probabilmente perché non vado troppo spesso ai festival di fantascienza, o forse perché, quando sono stata a Trieste, al festival di Science + Fiction, guardavo i film notte e giorno e non mai ho visto il sole. Ma devo anche scrivere di notte, sa, dopo che si addormentano mio marito e mio figlio. Forse è vero che sono una creatura letteraria notturna. E’ la condizione della donna a rendermi così.

D.: Ed è vero che non ha pazienza con gli scrittori della domenica, i dilettanti insomma?

R.: Passo un sacco di tempo online con i blogger e la gente dei social network. M’imbatto così in un sacco di scritture dilettantesche e cattive. Per di più, l’ego degli scrittori, soprattutto maschi, mi fa desiderare di diventare invisibile per l’imbarazzo che provo per loro. La vita è troppo breve per scrivere male e farne una carriera vanitosa. Preferisco piuttosto tornare alla mia vita di acque inquinate, scrivere relazioni ufficiali al governo.

D.: Di lei si sa abbastanza poco, ma qualcuno l’ha descritta come un tipo passionale, nonché “una scrittrice femminista”. Conferma o smentisce?

R.: Essere passionali è un luogo comune per le donne italiane, ma le torinesi sono in realtà le donne meno passionali al mondo. Per quanto riguarda il femminismo, io ne sono figlia, è come un codice genetico. Non potrei definirmi una femminista passionale, ma quando vedo le veline con le labbra e le tette di silicone mi fa venire voglia di prendere un fucile e formare una banda di briganti femministe.

D.: Vuole citare alcuni dei suoi autori e autrici preferiti?

R.: Dovreste venire a Torino durante il Festival della Luce e vedere le citazioni di Calvino, che fanno letteralmente luce alle strade… Oppure le mie frasi preferite di Hannah Arendt a proposito di Karen Blixen: “Non esistono pensieri pericolosi, il pensare stesso è pericoloso”; “La saggezza è la virtù dell’età matura, ma la raggiungono solo quelli che non erano né prudenti, né saggi in gioventù”.

(A cura di G.L.)

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Hal Clement: Costruttore di pianeti

giugno 7th, 2010

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Riccardo Valla ci parla di Hal Clement, propugnatore come Simak di un’idea dell’alieno basata sull’empatia e sull’intrinseca somiglianza con l’uomo.

Come il giallo, anche la fantascienza ha la sua scuola dei “duri”, i fautori della hard-science fiction, ovvero fantascienza delle “scienze dure”: fisica, meccanica, astronomia. È una tradizione illustre, che ha origine da quell’inventore di macchine prodigiose che era Jules Verne; e che poi è stata ripresa dalle due più diffuse riviste di fantascienza americane del periodo tra le due guerre mondiali, “Amazing” e “Astounding”. La sua forza sono i concetti scientifici da cui parte, e il risultato è spesso quel “senso del meraviglioso” di cui parlano i vecchi lettori di fantascienza: dalla lettura si esce con una nuova visione dell’universo, della vita, dell’intelligenza. Molti dei “classici” della fantascienza appartengono a questo genere, con autori come Leinster, Williamson, Campbell, Heinlein, Blish e soprattutto Asimov e Clarke.

Per trovare i migliori esempi di queste storie “scientifiche” nel passato, bisogna ritornare alla produzione degli anni Cinquanta e in particolare a quella apparsa sulla rivista “Astounding”, dove sono stati pubblicati in quegli anni molti racconti di un tipo di fantascienza che noi diremmo “ecologico”, e che intendeva descrivere meticolosamente le condizioni ambientali di pianeti alieni. A quell’epoca l’autore più rigoroso nel creare gli habitat extraterrestri era Hal Clement, che per primo, con Stella doppia 61 Cygni, aveva presentato un pianeta dove le condizioni fisiche erano estremamente diverse da quelle della Terra. Leggi tutto »

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Michael John Harrison

giugno 3rd, 2010

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Dopo il successo di Luce dell’universo, torna su “Urania” il maestro dell SF britannica

Michael John Harrison è nato il 26 luglio 1945. Ha pubblicato il primo romanzo, The Pastel City, nel 1971: “Urania” lo ha tradotto nel n. 809 con il titolo La città del lontanissimo futuro. Nel 1982 il successivo romanzo In Viriconium ha vinto un premio indetto dal quotidiano “Guardian”. Dopo due raccolte di racconti, The Ice Monkey e Viriconium Nights, sono usciti Climbers (1989) e il graphic novel The Luck in the Head in collaborazione con Ian Miller. Del 1992 è il nuovo romanzo The Course of the Heart, e del 1997 Signs of Life; nel 2000 è la volta della raccolta di racconti Travel Arrangements.

Light (2002, tradotto con il titolo Luce dell’universo nel supplemento n. 26 di “Urania” del febbraio 2006) ha vinto il premio James Tiptree 2003. Harrison vive nella zona occidentale di Londra e scrive critica per il “Times Literary Supplement”. Il suo sito internet è qui: http://www.mjohnharrison.com/index.htm

Se Light era il più bel libro di sf che ci fosse capitato di leggere quell’anno, e degno di un “Urania” speciale, questo secondo romanzo, che non è un seguito ma si svolge nello stesso universo, è altrettanto intelligente e maturo. Bello per il fascino delle ipotesi e del paesaggio cosmico da cui trae la propria forza, per l’ingegnosità con cui è narrato e la creatività dello stile. In breve: un classico moderno della fantascienza inglese.Qualche lettore si sarà accorto del nostro continuo interesse nei confronti degli scrittori briannici: da Peter F. Hamilton ad Alastair Reynolds, da Kim Newman a M. John Harrison, ci sembra siano questi i più caratteristici innovatori di un genere del romanzo che è sempre più difficile distinguere dalla sua controparte letteraria o mainstream

 G.L.

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Peter F. Hamilton

maggio 5th, 2010

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Un profilo bibliografico di Peter F. Hamilton, a cura di Giuseppe Lippi. 

La SF britannica continua a sorprenderci con una fioritura straordinaria di ottimi autori e grandi testi: grandi in tutti i sensi, come avviene nelle colossali avventure spaziali di Peter F. Hamilton. Autori di indiscutibile qualità letteraria hanno scritto cose eccellenti: Iain Banks ne è in qualche modo il capostipite, ma dopo Banks e le sue vaste “space opera” a sfondo culturale sono apparsi gli ottimi romanzi di Stephen Baxter (tanto consapevole della tradizione letteraria britannica da imporsi con un seguito della Macchina del tempo di H. G. Wells) e Ian McDonald, Paul McAuleyKen MacLeod, ormai diventati autori di punta; mentre altri hanno continuato ad affacciarsi sulla scena senza soluzione di continuità. Hamilton, che rappresenta il rinnovamento della space opera, condivide quest’onore con Alastair Reynolds, appena tradotto anche lui nelle nostre collane.

Peter F. Hamilton, nato il 2 maggio 1960 a Rutland, in Inghilterra, ha esordito con un racconto pubblicato sulla rivista “Fear” nel 1989 e all’inizio del decennio successivo ha scritto i tre romanzi del ciclo di Greg Mandel: Mindstar Rising (1993), A Quantum Murder (1994) e The Nano Flower (1995). La sua fama è stata tuttavia decretata dal successivo romanzo, il massiccio The Reality Dysfunction del 1996 che, insieme a The Neutronium Alchemist (1997), The Naked God (2000) e al romanzo breve “Escape Route” (1997), forma uno dei più grandi cicli avventurosi della storia della fantascienza, la “Night Dawn Trilogy” (l’Alba della Notte). Lo sfondo è noto: nel XXVII secolo la razza umana si è diffusa tra le stelle e vive accanto a varie razze extraterrestri, cercando di evitare che i conflitti presenti nei sistemi solari minori dilaghino a macchia d’olio in tutta la galassia. Su questo scenario, dominato da grandi centrali di potere che cercano di sottomettere e sfruttare interi mondi per il loro profitto, è in corso una prolungata indagine su una civiltà misteriosamente spazzata dalla faccia del cosmo duemila anni prima. Tutto sembra indicare che a quell’epoca qualcuno o qualcosa avesse messo in moto un esperimento di immensa portata, il cui fallimento (o il cui scopo, secondo i punti di vista) avrebbe portato all’aprirsi di una “crepa”, un guasto nel continuum dello spazio-tempo. La crisi che ne segue è una vera e propria Crisi nella Realtà le cui conseguenze, portate agli estremi da una guerra micidiale, rischiano di inghiottire le civiltà della galassia. Da queste premesse familiari per il lettore di fantascienza, pur sapientemente aggiornate, Hamilton sviluppa una delle più veloci, emozionanti macchine narrative degli ultimi anni, il cui interrogativo fondamentale (non è poco, nemmeno per una space opera colossale) si può riassumere in questi termini: si possono sovvertire le leggi fondamentali dell’universo?

La carriera dell’instancabile Peter è continuata con la Web Series per ragazzi inaugurata da Lightstorm (1998); i racconti di A Second Chance at Eden (1999), i romanzi Fallen Dragon (2003) e la “commedia” del prossimo futuro Misspent Youth (2002), ambientata nell’Inghilterra del 2040. Sono quindi seguiti i due romanzi Pandora’s Star (2004) e Judas Unchained (2005), che formano il dittico del Commonwealth e sono collocati nell’universo in cui già si svolgeva Misspent Youth. Nello stesso scenario saranno ambientati i tre romanzi della trilogia del Vuoto: The Dreaming Void (2007), The Temporal Void (2008) e un terzo romanzo che uscirà tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, The Evolutionary Void. A parte è uscito nel 2000 il fanta-saggio The Confederation Handbook, un vero e proprio vademecum dedicato alle culture, ai popoli e agli ambienti della trilogia l’Alba della Notte. 

G.L. 

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James Braziel

maggio 3rd, 2010

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Un nuovo scrittore per un tema fondamentale dei nostri giorni: cosa ci aspetta dopo la storia. E se fosse la scoperta di una nuova letteratura?

Il tema del dopo-olocausto, o semplicemente del dopo-civiltà, è uno dei cardini della fantascienza, ma in questo romanzo di James Braziel è suonato con dita da arpista. Dita particolarmente sensibili al dettaglio, al particolare descrittivo, come alle figure dei personaggi: Braziel ha l’esperienza dello scrittore maturo – anche se giovane – e non solo del narratore efficace. Come lo abbiamo scoperto? Ebbene, capita a volte che i nostri colleghi degli Oscar Mondadori, o addirittura della narrativa rilegata, ci passino dei romanzi che gli editori originari hanno sottoposto loro, ma che per vari motivi non possono pubblicare. Chiedono allora: interessa a voi di “Urania” (o del “Giallo”, di “Segretissimo”)? Noi li esaminiamo con occhio spassionato, perché si sa che se non è facile creare un capolavoro della narrativa in genere, non è nemmeno probabile che uno scrittore del mainstream abbia l’ingegnosità di imbastire un’ottima storia di fantascienza, gialla o di spionaggio. Questione di DNA, non certo di etichette… Ma ogni tanto il colpo riesce e noi portiamo a casa un buon romanzo di fantascienza – o giallo, o di spionaggio – che è semplicemente un  buon romanzo tout-court, come questo Birmingham: 35 Miles. La visione dolente (come si compiacevano di scrivere i critici di una volta) di un futuro arido e desolato e delle difficoltà insite nella mera sopravvivenza, potrebbero sembrare la metafora di qualcosa – di qualunque cosa. In realtà, in Birmingham costituiscono un ottimo racconto di lotta e di fuga, di sentimenti e scommesse sul futuro, di resistenza e tenacia.

Braziel, che è qui al suo primo romanzo ma ne ha già scritto un secondo, Snakeskin Road (2009), è nato nel 1967 negli Stati Uniti. Insegna scrittura creativa all’Università di Cincinnati ed è anche poeta. In questa veste è stato finalista al premio Pushcart e ha ricevuto fondi destinati dallo stato della Georgia all’incoraggiamento dei nuovi talenti. La sua poesia è stata pubblicata su riviste come “Chattahoochee Review”, “Clackamas Literary Review” e “Berkley Fiction Review”.  Il suo secondo romanzo, Snakeskin Road, riprende gli scenari disseccati del sud degli Stati Uniti, che gli sconvolgimenti climatici hanno trasformato in un inferno apparentemente senza redenzione, per raccontare le avventure di una donna. Il destino di Jennifer Harrison la vorrebbe schiava di una manifattura o di un bordello, ma lei tenta una via di fuga attraverso un labirinto di autostrade dimenticate: il Sentiero dei serpenti, appunto. La nuova narrativa americana trae sempre maggior spunto da immagini e situazioni apocalittiche, e, aggiungeremmo noi, fantascientifiche: non di rado con eccellenti risultati, come si può vedere in Braziel e in pochi altri giovani dotati di un simile talento.

(a cura di G.L.)

Il sito internet di James Braziel è qui: http://www.jamesbraziel.com/

La sua pagina Facebook: http://www.facebook.com/james.braziel

La pagina dedicatagli dall’editore Random House: http://www.randomhouse.com/author/results.pperl?authorid=77893

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