Profili

Larry Niven e Edward M. Lerner

luglio 7th, 2009

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Celebre invenzione della fantascienza tecnologica, l’universo dello Spazio Conosciuto torna in questo romanzo inedito. 

Nato in California nel 1938, Laurence van Cott Niven ha esordito come scrittore di fantascienza nel 1964, con il racconto “The Coldest Place”. Nel 1966 è seguito il romanzo World of Ptavvs e quindi è stata la volta, nel 1968, di A Gift from Earth (Un dono dalla Terra). Divenuto famoso per la cosiddetta sequenza dello “Spazio Conosciuto” (una sorta di storia futura ambientata su molti mondi e in epoche diverse, ma coerentemente sviluppata lungo un asse cronologico preciso), Niven è stato definito il maestro della fantascienza tecnologica degli anni Settanta e Ottanta. Il suo esempio ha contribuito non poco al successivo sviluppo di una “scuola” avventuroso-scientifica che ha avuto i migliori rappresentanti in Gregory Benford, Greg Bear, Roger McBride Allen, Charles Sheffield e Allen Steele.

Tra i romanzi di maggior spicco: Ringworld (I Burattinai, 1970), Protector (Il Difensore, 1973), The Ringworld Engineers (I costruttori di Ringworld, 1979), Il trono di Ringworld (The Ringworld Throne, 1996, uscito su “Urania” n. 1389) e I figli di Ringworld (Ringworld’s Children, 2004, uscito su “Urania” n. 1535). Numerosi anche i romanzi scritti in collaborazione con altri autori, innanzi tutto Jerry Pournelle: The Mote in God’s Eye (La strada delle stelle, 1974), Inferno (Questo è l’inferno, 1975) e Lucifer’s Hammer (1977). Con Pournelle e Steven Barnes ha scritto la saga del pianeta Avalon, da noi proposta su “Urania” con i titoli L’incognita dei Grendel (The Legacy of Heorot, 1995, n. 1304) e I figli di Beowulf (Beowulf’s Children, 1995, n. 1350). Con David Gerrold ha scritto The Flying Sorcerers (1971). Su “Urania”, inoltre, sono state pubblicate le antologie Neutron Star (Reliquia dell’impero, 1968, n. 642) e The Long ARM of Giles Hamilton (La terza mano, 1976, n. 1054). Niven si è spesso divertito a scrivere opere di pura fantasy che contrastano piacevolmente con le sue fantasie scientifiche (The Magic Goes Away, 1977, etc.). E’ ritornato al personaggio di Svetz e al suo ciclo di avventure temporali con Marte, un mondo perduto (Rainbow Mars, 1999), un romanzo che abbiamo pubblicato nel n. 1418 di “Urania”, insieme ai racconti che l’avevano preceduto.

Edward M. Lerner, nato nel 1949, è stato tenuto a battesimo in Italia dalle nostre collane. Infatti nel “Millemondi” n. 40 (Scorciatoie nello spaziotempo, apparso nel 2002), ha pubblicato un racconto ricco d’interesse come “Distruzione creativa”. In seguito ha pubblicato due romanzi in collaborazione con Niven, di cui il presente Fleet of Worlds (2007) è il primo. Ingegnere e scrittore, esperto di computer, Lerner ha una speciale vocazione per la fantascienza con solide basi tecnologiche e ha deciso di dare man forte al collega per continuare la serie di romanzi ambientati nello Spazio conosciuto. La sua autobiografia è disponibile in rete all’indirizzo http://www.sfwa.org/members/lerner/aboutme.html

Su Larry Niven, invece, è possibile consultare almeno due siti importanti: quello personale (http://www.larryniven.org/) e l’articolo in italiano di Wikipedia. Più ampio l’articolo in inglese.

Per l’esigua bibliografia italiana di Lerner si consulti il Catalogo SF, Fantasy e Horror a cura di Ernesto Vegetti. Qui invece la voce dedicata a Larry Niven.

G.L.

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Mauro Antonio Miglieruolo

giugno 18th, 2009

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Giuseppe Lippi traccia un dettagliato profilo dell’autore italiano di questo mese: Mauro Antonio Miglieruolo.

“Se il padrone sapesse in quale ora della notte viene il ladro…” (Vangelo secondo Matteo, 24, 43)

“Voi stessi infatti sapete benissimo che il giorno del Signore verrà come ladro di notte” (Prima lettera ai tessalonicesi, 5, 2)

“Il futuro viene come un ladro nella notte” (Quarta di copertina, Il dio del 36° piano)

Quando si parla della fantascienza italiana, di solito, lo si fa con un misto di fierezza e timore, di orgoglio e paura della concorrenza, ovviamente quella straniera. E si finisce, il più delle volte, per fare di tutt’erba un fascio. Sarebbe il caso, invece, di parlare meno del genere e più spesso di autori, i singoli scrittori che l’hanno arricchita e che non hanno nulla da invidiare ai più famosi colleghi anglofoni o europei. E’ con questo spirito che abbiamo cominciato a pubblicarli in “Urania collezione”: Mauro Antonio Miglieruolo è il quarto dei classici italiani che ripresentiamo qui, dopo Lino Aldani, Roberta Rambelli e Sandro Sandrelli. Altri seguiranno, ci auguriamo, per documentare il percorso della buona e ottima fantascienza scritta in Italia, ma nel caso di Miglieruolo un chiarimento è necessario: questa terza edizione di Come ladro di notte (concepito nel 1966; pubblicato nel 1972 e riproposto nel 1984) non nasce esclusivamente da intenti storici e tantomeno celebrativi. Benché esca in una collana di classici, il romanzo è così originale da fare l’effetto di un testo nuovo e fresco di concezione. Non è così per l’autore, beninteso, il quale sostiene che molta acqua è passata sotto i ponti e che lui stesso non è più l’uomo di allora; ma per il lettore, soprattutto per chi abbia il piacere di affrontarlo la prima volta, ha l’effetto di una scoperta liberatrice. Di un insegnamento, aggiungiamo a costo di sembrare pedanti, ai molti che ancora oggi vanno cercando una “via” nazionale alla fantascienza.

Questa via Miglieruolo l’aveva già trovata allora, grazie ad alcuni elementi classici del genere (gli “stati e imperi” tra le stelle) uniti a un’analisi impietosa del potere politico e, soprattutto, a un geniale collegamento con il mito. Ma neanche questo esaurisce la carica vitale del romanzo, perché a sua volta il mito cristiano della parusìa, il secondo avvento di Cristo e la fine dei giorni, è abilmente giocato in maniera ironica. Non soltanto ironica, ci affrettiamo ad aggiungere, ma una delle caratteristiche essenziali del libro è la sua leggerezza, l’assoluta mancanza di prosopopea. Che in duecentocinquanta pagine si possa descrivere la preparazione e attuazione dell’Armageddon, completa di cause, concause, istruzioni per l’uso e tribolazioni di una folla di personaggi-chiave, è la dimostrazione che Miglieruolo vanta un’immaginazione di prim’ordine, l’ingrediente base di tutta la fantascienza. In virtù della quale ci offre una sorta di Stranamore cosmico, un’odissea che ha la forza dei più originali racconti di pensiero, perché non può darsi romanzo o narrazione veramente viva senza una robusta impalcatura ideale.

In Miglieruolo l’impalcatura è tanto matura da risultare in una sintesi mitica dove il potere delle immagini e del linguaggio delineano un quadro lucido, e allo stesso tempo visionario, delle forze in gioco dentro e fuori di noi. Le due principali nemiche sullo scacchiere di Come ladro di notte sono la voluttà ― principio onesto del mondo ― e l’ipocrisia, grande forza imbrigliatrice delle energie. Lo scontro si svolge a questi livelli e adopera, come pedine, i classici oggetti della fantascienza barocca: astronavi a milioni e pianeti colossali, velocità fantastiche e pugni di stelle, moltiplicandone il gigantismo e l’indole eccessiva senza che questo turbi minimamente l’ossatura ideale e il piacere ludico dell’insieme. Ed eccone le premesse narrative (attenzione, perché contiene spoiler!). In un futuro molto lontano e che forse potremmo collocare intorno al LXX secolo, l’umanità si è diffusa nell’universo, popolandolo di repubbliche, regni e satrapie che vivono all’insegna dell’odio reciproco, dell’intrigo e dello sfruttamento. Ma il ricordo di un antico insegnamento perdura, sia pur modificato dal tempo e dai costumi: quello del Secondo avvento, la parusìa del Signore, alla quale seguirà il Giudizio Universale. Anziché derivare direttamente dalle parole di Cristo come le riferisce il Vangelo di Matteo (24, 25) o dalla loro ripresa in San Paolo (prima e seconda Lettera ai tessalonicesi), la dottrina della parusìa è ora riferita alle parole del filosofo Calogero, che con essa intende significare la fine dell’uomo, la necessità di cancellare l’intelligenza dall’universo. Solo in questo modo, infatti, potrà tornare la purezza negli elementi, fin qui turbati dalla nostra presenza. Il compito di realizzare l’immane obbiettivo, che comporta la distruzione fisica di tutti i popoli, è affidato alla Congrega degli Inumani, una potenza politica votata al culto della morte e organizzata come una sorta di clero. Fondatore dell’organizzazione è il profeta Còttero, ormai defunto anche lui; oggigiorno gli Inumani sono retti dal Discepolo Pàngolo, che di fatto ha rinunciato a perseguire lo scopo dei suoi predecessori. La parusìa è irrealizzabile, egli ritiene, mentre si possono perseguire più ordinari scopi di conquista e assoggettamento delle potenze galattiche rivali.

In questo quadro si inseriscono ― come lampi e improvvisazioni, cioè senza il tedio del romanzesco convenzionale ― le disavventure di una folla di personaggi, primo tra i quali il coordinatore Zanzotto. Gli eventi precipitano e precipitano anch’essi, donne e uomini, verso la calamità singolare. Da notare che nessun tassello della trama è superfluo, nessuna azione puramente decorativa. La tortura fa male, in questo libro; il desiderio sessuale è palpabile ed eccita anche noi; gli intrighi non ci divertono come se fossimo ragazzi che giocano al Monopoli, ma ci sorprendono nella loro brutalità. E’ probabile che Miglieruolo abbia tenuto presente lo schema di saghe preesistenti come quella di Isaac Asimov, ma è altrettanto sicuro che vi abbia iniettato una dose di verità sconosciuta a gran parte della science fiction americana e di quella italiana. Solo nelle opere dei fantasiarchi inglesi (H.G. Wells e Olaf Stapledon) si coglie una vastità nel disegno paragonabile a quella del Ladro di notte; e il tema è la sorte dell’universo umano.

Durante un’esercitazione condotta dal coordinatore Zanzotto, dunque, quest’ultimo si rende conto che non sarà possibile portare a termine il disegno del filosofo Calogero: i numeri non ci sono, le “astronavi da battaglia” necessarie a cancellare tutte le razze dalla faccia del creato dovrebbero essere infinitamente superiori alle scorte presenti e future, che pure si contano a miliardi. Conclusione, la Congrega degli Inumani deve avere altri scopi che non la semplice estinzione dell’umanità. Bruciante di fuoco iniziatico, Zanzotto (che li ignora) mette nero su bianco le sue scoperte e le affida a un rapporto esplosivo consegnato al generale Cossa, comandante dell’immensa sfera Caligola, una struttura grande quanto un pianeta. Ma Cossa è imbarazzato e consiglia Zanzotto di ritirare il suo rapporto. La satira degli ambienti e del linguaggio burocratico è splendida: Miglieruolo, che all’epoca era un “mezzemaniche” lui stesso, conosce tanto bene la lingua farisaica da farne un più che arguto calco narrativo. Burocrazia è uguale a ipocrisia per uno scopo ben chiaro: la conservazione del potere.

Nel frattempo, un attentato dinamitardo sconvolge alcuni livelli di Caligola: il responsabile è Seele, dignitario dell’Ascensione Retta. L’Ascensione è una delle numerose potenze ostili fra loro e sempre pronte a scatenare flotte per divorarsi a vicenda. Dopo aver organizzato l’attentato, Seele viene catturato e torturato; quindi i suoi aguzzini gli rivelano che sua moglie Lilla si è concessa al giudice Raffaele Senese (alias Rudy), un vizioso seduttore. Umiliato e rimandato al mondo d’origine, Seele finirà per strangolare la moglie, ma essendo Lilla figlia di Lillo, Gran conferenziere della Lega austrina, il gesto avrà per conseguenza la guerra fra Lega e Ascensione, con ripercussioni in tutta la galassia. I fermenti voluti dalla Congrega si moltiplicano: ci si avvia al conflitto finale. Vi è un’ironia, in queste vicende, che di solito la fantascienza ignora; e al tempo stesso vi è una necessità che sentiamo di non poter trascurare. Necessità dettata dagli intrighi della Congrega, ma che nasce altresì dai “moti del cuore”, come si chiamavano una volta: l’episodio di Seele, questo Otello del futuro, non è che un tassello nel mosaico, ma vibra di una violenza e un divertimento tutti propri.

La libidine repressa e il suo complementare, la libidine mercificata, costituiscono un altro tema importante del libro: Zanzotto, che in quanto affiliato alla Congrega degli Inumani è rigidamente condizionato contro le tentazioni carnali, in un momento di libertà dal controllo possiede Silvena, che ritiene in buona fede una sua dipendente. Ma la donna è una spia al soldo della Sublime Coalizione, un’ennesima potenza rivale, e oltre a tramare tresche e trappole erotiche pianifica il sabotaggio della stella Canadis, il quartier generale affiliato. Zanzotto, che ne è all’oscuro, si sente fortificato dall’incontro con Silvena e continua a servire con zelo la Congrega, partecipando a varie azioni di guerra. In particolare, darà man forte alla repressione del movimento profetico di Elio nel sistema dell’Etologia e chiederà la condanna a morte del ribelle. Elio è una figura cristologica che durante il processo passa per le mani del Pilato di turno, ma il suo vero accusatore rimane Zanzotto. E così colui che alla fine del romanzo sarà chiamato come Gesù, qui riveste i panni del persecutore. Nella dialettica della notte che si addensa, niente è ciò che sembra. Il linguaggio dell’episodio è evidentemente biblico, con l’uso di metafore e fraseggi che sono ricalcati su quelli dei vangeli.

Il problema di Zanzotto è che desidera più che mai diffondere il proprio rapporto, divulgando la verità sulla parusìa. Sospettato di sedizione cadrà in disgrazia e verrà lui stesso torturato, come Elio nell’episodio precedente. La riabilitazione gli sarà concessa, ma solo un attimo prima di perdere la ragione. Passato dal ruolo di Caifa a quello dell’accusato innocente, Zanzotto si interrogherà a lungo sul proprio ruolo, in alcune delle pagine più belle del libro. La sua disillusione è totale, l’impossibilità di inoltrare il rapporto è quanto di più frustrante. E benché, a un certo punto, uno spiraglio sembri aprirsi, quando gli viene concesso di tornare nel consesso civile non è più l’uomo di prima.

Poco dopo, un colpo di stato scuote la Congrega. Pàngolo reagisce in tempo e ribalta la situazione: la vendetta contro gli avversari sarà feroce. Intanto su Canadis, la stella centrale degli Inumani, la missione di Silvena e del suo agente arriva al culmine, ma la macchina bellica messa in moto dalla Congrega è davvero inarrestabile. Zanzotto, il cui amore per la verità lo ha reso sospetto e inviso a tutti, si vede accusare nuovamente di tradimento; tenta la fuga ma capisce che è tutto inutile, il futuro non appartiene più ai retti. Ancora una volta la voluttà dei puri sarà repressa e al posto della parusìa trionferanno interessi e sopraffazione. Mentre il coordinatore offre i polsi ai carcerieri come aveva fatto Gesù, la Congrega degli Inumani si prepara a scatenare l’attacco definitivo contro tutti gli stati della galassia, “per mangiarseli in un sol boccone”.

Da un punto di vista ideologico, questa conclusione è molto legata ai tempi in cui il romanzo fu scritto: l’ultima riga, in particolare, sembra una resa dopo tanta ironia, lucidità e combattività. Ma a ben guardare l’intera costruzione del romanzo è pessimistica e centrata intorno all’idea, per dirla alla Pavese o alla Calogero, che “la morte si sconta vivendo”. E’ anche un’idea molto cristiana, per cui la vita è ingiusta e la morte giusta, il mondo è tentazione mentre l’altro mondo riequilibra i pesi. Più volte Miglieruolo ha dichiarato che il finale del libro gli sembrò superato appena finito di scriverlo, superato dagli avvenimenti della vita e dalla sua evoluzione personale. Tuttavia, nel suo notevole fatalismo contiene qualcosa che va al di là di un finale da romanzo. Perché questo, ricordiamolo, non è soltanto un racconto ma un mito e la sua verità riverbera nel profondo, là dove ognuno di noi è prigioniero e ammanettato, soverchiato da forze schiaccianti.La ricchezza del libro è stata notata fin dalla prima edizione, anzi fin dalla prima lettura (fulminante, in una sola notte) da parte di Lino Aldani. Vittorio Curtoni e Gianni Montanari gli dedicarono una scheda memorabile che abbiamo riproposto qui; e la rivista “Pulp” pensò di ristamparlo in un anno chiave come il 1984. Da parte nostra ci sentiamo ancora di sottolineare che la forza del romanzo si deve, oltre che all’originale accumulo di materiali, alla concezione ellittica e libera dai tradizionali schematismi della narrativa a intreccio; a una sintassi rapida e allusiva; infine alla lingua, o meglio ai linguaggi letterari usati. Che sono retti da una fine alternanza di semplicità e passi altisonanti, di umiltà e toni ieratici, questi ultimi regolarmente capovolti da un’invidiabile freschezza terra-terra nel contrappunto. Una scelta stilistica a suo modo rivoluzionaria che mette alla berlina l’oppressore, inficiandone la violenza con una sintassi gentile. La provenienza dei vari modelli è evidente: linguaggio biblico e piccole parabole; lingua oscura delle profezie e gergo burocratese dei documenti; lazzi triviali e pomposa ufficialità (anche l’ufficialità letteraria, beninteso). E poi i dialoghi trasversali, provocatori e ironici.

Dire che la fantascienza italiana non avesse mai espresso qualcosa di simile non è azzardato: spesso non ci è riuscita neanche la narrativa tout-court. I pochi autori che si siano cimentati con sfondi così vasti e con un mito della nostra cultura si sono fermati, in genere, all’ABC del visionario. Miglieruolo, invece, scende nella sua materia, l’allarga e la rende necessaria. E benché oggi siamo nel 2009 e non nel 1966 o ’68, ne rimaniamo colpiti ugualmente perché il romanzo parla una spontanea lingua underground, o forse above the ground di parecchie spanne: come il suono delle trombe annuncerà il gran Giorno, così la pagina “rapisce gli uomini, portandoli nell’aria”.

E’ evidente come Mauro Antonio Miglieruolo sia un narratore del pensiero che affronta scenari immensi con l’umiltà di certi naturalisti all’alba dell’età moderna, i quali studiavano piante e animali dell’orto di casa per trarne conclusioni che richiedevano insieme rigore e immaginazione. Oggi che il savant è stato riassorbito dalla sistemistica e dall’organizzazione, non gli resta ― per guardare oltre il velo dell’ordinarietà ― che abbandonarsi a ipotesi da fantascienza. O fantafilosofia, per chi ci è portato. La cosa va sottolineata in un momento come l’attuale, in cui troppi nuovi autori di SF rinunciano al pensiero e puntano agli effetti, o subordinano il pensiero a formule d’effetto anche quelle. In Miglieruolo no, il pensiero è sbrigliato ma riconoscibile, le fonti sono varie ma agevolmente rintracciabili: siamo di fronte a uno scrittore che non si vergogna di essere un ragionatore e un uomo socialmente consapevole.

La sua avventura personale comincia in Calabria come quella di Tommaso Campanella, l’autore della più drastica utopia italiana: La città del sole. Miglieruolo nasce infatti a Grotteria, in provincia di Reggio, il 6 aprile 1942. All’anagrafe il suo cognome viene trascritto anche come “Migliaruolo”, dando origine a numerose traversie. Spiega lui stesso: “Sia la versione Miglieruolo che la versione Migliaruolo sono autentiche. Sull’estratto dell’atto di nascita risultano ambedue, insieme ad altre possibili soluzioni che leggendo tra le cancellature effettuate (e a rigore proibitissime) la fantasia può inventare. Non faccio alcun commento sul responsabile di quell’obbrobio: per anni mi ha tormentato mandando certificati ora con la ‘a’ ora con la ‘e’ (versioni che i suoi successori tra l’altro contestano), tant’è che per salvarmi dalla burocrazia andavo in giro con la carta d’identità accompagnato da una dichiarazione del comune in cui si affermava essere Miglieruolo Mauro Antonio e Migliaruolo Mauro Antonio la sola e medesima persona, il cui nome veniva però attestato ora in un modo e ora nell’altro, a capriccio dell’estensore. La trappola nella trappola.

“Per dare una soluzione al problema ho cercato di informarmi: sembra che nel comune di nascita mio padre risulti Miglieruolo, mentre al momento di sposarmi colui che ha compilato il certificato ha deciso che facevo Migliaruolo. Per non dover rimandare il matrimonio mi sono rassegnato a utilizzare il cognome Migliaruolo, con cui sono stato assunto all’INPS,  lasciando inalterato il nome di penna ‘Miglieruolo’. Tornare a Migliaruolo anche come scrittore? Si tratta di un’ipotesi affascinante. Potrei essere d’accordo. Bisognerà vedere se il segretario comunale se ne vorrà contentare…”

Problemi di grafia a parte, all’età di dieci anni Mauro Antonio si trasferisce a Roma, in tempo per veder nascere la fantascienza sui periodici specializzati: “Scienza fantastica” e “I romanzi di Urania”. Nella capitale vivrà da allora in poi, tranne una parentesi bellunese dopo aver vinto un concorso statale. Nel 1964 comincia a pubblicare racconti e nel ’66 crea il suo primo, originalissimo romanzo, Come ladro di notte che verrà pubblicato nel 1972 su “Galassia” (la stessa collezione che aveva tenuto a battesimo il suo racconto d’esordio, “Colpo di tacco”). Tra il 1967 e il 1974 si occupa attivamente di politica nelle file della nuova sinistra e poi, fino al 1980, nel  sindacato Cgil-Inps. Pubblica racconti su diverse testate (“Galassia”, “Oltre il cielo”) ed è presente nelle antologie italiane Amore a quattro dimensioni (1971) e Fanta-Italia: sedici mappe del nostro futuro (1972) con celebri racconti come “Ideale” e “Gli arpionatori”. Nel 1975 esce su “Nova sf*” n. 33 il romanzo breve “L’automazione a Detroit” e l’anno successivo, su “Robot” n. 3, il celebre racconto erotico “Circe”. Su “Nova sf* speciale” n. 1 (1976) esce un altro importante romanzo breve, “Oniricon”, mentre dopo la ripresa delle pubblicazioni di “Futuro”, la rivista diretta da Lino Aldani e ora ribattezzata “Futuro Europa”, numerosi racconti e interventi di Miglieruolo vedranno la luce qui: “Golpe 2000”, “Metamorfosi”, “Otto marzo”, “I nostri ideali”, “Libero mercato”, “Conflitto d’interesse”, “Scienza e conoscenza”, “Dio e la scienza”, “L’uccisore di robot”. Attualmente la sua narrativa è sistemata in due raccolte: Assurdo virtuale edito dalla Elara di Bologna e La bottega dell’inquietudine apparso presso le Edizioni della Vigna di Arese (Milano). Esiste un romanzo tuttora inedito cui Miglieruolo tiene in modo particolare: Memorie di massima sicurezza.

Giuseppe Lippi

[Per la bibliografia completa di Mauro Antonio Miglieruolo si rimanda al Catalogo della SF, Fantasy e Horror a cura di Ernesto Vegetti.]

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Joe Haldeman

maggio 11th, 2009

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Il ritorno di Joe Haldeman sulle pagine di “Urania Collezione” ci offre l’opportunità di aggiornare il suo profilo, attraverso questo nuovo intervento a cura di Giuseppe Lippi.

Americano, nato nel 1943, Joseph William Haldeman si è diplomato in fisica e astronomia e ha combattuto in Vietnam tra il 1967 e il 1969 come geniere, rimanendo gravemente ferito. Da questa esperienza ha ricavato un’onorificenza (il Purple Heart) e un primo romanzo, uscito nel 1972, che parla di quella guerra (War Year). Il suo primo libro di fantascienza è The Forever War (Guerra eterna, 1974) che vinse i premi Hugo e Nebula. Questo celebre testo – costituito dalla fusione di più racconti apparsi in precedenza sulla rivista “Analog” – rappresenta una trasposizione in chiave fantascientifica della guerra, esperienza umana e letteraria che per Haldeman parve concludersi nel 1975 con un altro testo breve, “You Can Never Go Back”.

Se il più famoso romanzo di fantascienza militare era stato, fino a quei tempi, Starship Troopers (Fanteria dello spazio, 1959) di Robert A. Heinlein, Guerra eterna si presentò fin dall’inizio come un anti-Fanteria, permeato da una visione decisamente più disincantata e dolorosa del conflitto, e interessante proprio come resoconto traslato delle esperienze dell’autore nel Sud-est asiatico. Negli anni seguenti Haldeman si è riconfermato autore di un’interessante serie di romanzi e racconti, perlopiù di genere tecnologico: Ponte mentale (Mindbridge, 1976), Al servizio del TB II (All My Sins Remembered, 1977), l’avventura di Star Trek Il pianeta del giudizio (Planet of Judgement, 1977), Mondo senza fine (World Without End, 1979), Scuola di sopravvivenza (There Is No Darkness, 1983), Fondazione Stileman (Buying Time, 1989), Il paradosso Hemingway (The Hemingway Hoax, 1992) e l’ambizioso 1968.

Per molti anni Haldeman ha giurato che non avrebbe mai scritto un seguito di The Forever War. La decisione di pubblicare un nuovo, ampio romanzo che si ricollegasse idealmente al suo capolavoro è venuta molti anni dopo e non è stata di Haldeman – come egli stesso ha dichiarato – ma degli editori: “A un certo punto, delle varie proposte che avevo presentato è parso che un romanzo intitolato The Forever Peace fosse la più desiderabile e quindi mi sono messo all’opera. Ma non è assolutamente un seguito di Guerra eterna, anche se il libro è imperniato sul problema della violenza e del conflitto. È una riflessione molto personale su una serie di temi che mi stavano a cuore, e che certo si possono riscontrare in altre mie opere.” Dunque, The Forever Peace (1997) era solo un segno premonitore. (“Urania” lo ha pubblicato come Pace eterna nel n. 1336).  A Pace eterna seguirà, nel 1999, l’autentica seconda parte di The Forever War, che Haldeman accetterà di scrivere nel giro di poco più di due anni e intitolata Forever Free (Missione eterna, prima edizione in “Urania” n. 1413). Qui non solo i temi di fondo sono quelli del famoso romanzo originale, ma vi compaiono, impensabilmente trasformati, anche i personaggi di The Forever War: in particolare il veterano Mandella.

Che Haldeman abbia voluto tornare sui propri passi, dopo aver più volte assicurato che un seguito di Guerra eterna non ci sarebbe stato affatto, potrebbe sembrare ambiguo. Lo stesso autore ha ritenuto di dover raccontare come sia arrivato alla decisione per “giustificare” in qualche modo la sua scelta:

“So che qualunque cosa dirò questa ‘contraddizione’ mi perseguiterà per il resto dei miei giorni, ma lasciatemi fare almeno il tentativo. Ho sempre affermato che non avrei mai scritto il seguito di Guerra eterna, pur avendo ricevuto offerte allettanti da parecchi editori: il racconto era completo in sé, dicevo. Quindi, venti anni dopo, ho scritto Pace eterna, spiegando a chiunque interessasse che NON si trattava di un seguito ma di un libro autonomo in cui l’autore, a distanza di un ventennio, prendeva nuovamente in considerazioni una parte di quei problemi.

“A questo punto arriva Robert Silverberg. Bob stava compilando un’antologia, Far Futures, in cui alcuni autori di ‘classici moderni’ della sf avrebbero pubblicato un racconto lungo o romanzo breve ambientato nello stesso universo del loro capolavoro. Siccome il compenso offerto era superiore a quello che, all’epoca, avevo ricavato per Guerra eterna, accettai la proposta. Ero arrivato a un terzo circa del mio romanzo breve quando mi resi conto che si trattava indiscutibilmente dell’inizio di un romanzo vero e proprio; un seguito di Guerra eterna ma ‘sui generis’, dato che fra le due vicende erano passati vent’anni e i personaggi principali erano diventati genitori di due ragazzini, una situazione molto lontana dal loro violento passato… almeno apparentemente. Per di più li avevo intrappolati su Middle Finger, Dito medio, un pianeta che è soltanto un luogo di riproduzione per Uomo, l’inumano successore dell’umanità. Bisognava in qualche modo reagire alla situazione e i miei personaggi reagivano.

“Scrissi a Bob e gli chiesi se avesse nulla in contrario a che il mio romanzo breve venisse utilizzato, in seguito, come primo capitolo di un romanzo vero e proprio, e lui rispose: nessun problema, ma dovrai aspettare tre anni per pubbicare il romanzo (due anni dall’uscita dell’antologia).

“Per questa ragione decisi di consegnare a Bob un altro racconto (“A Separate War”, tradotto in “Urania” n. 1543 come “Una guerra personale”) e di continuare l’altro come romanzo autonomo, intitolandolo Missione eterna (Forever Free). Naturalmente l’aggettivo ‘eterna’ non poteva mancare, e la gente – compresa mia moglie – lo confonde già con gli altri due, Guerra eterna e Pace eterna. Credo di essermi fabbricato il letto di spine da solo, per cui è meglio che mi ci sdrai. La mia nuova missone nella vita è cercare il giusto sostantivo da accoppiare con ‘eterna’”.

In effetti, aggiungiamo noi, Missione eterna è un racconto così caratterizzato e così autonomo nello spirito rispetto all’originale, che può stare benissimo in piedi da solo, giustificando ampiamente gli oltre venticinque anni trascorsi dal romanzo-capostipite. Mandella stesso è diventato un altro uomo, un pater familias, e la sua ex-ragazza (ora moglie regolamentare) non è da meno. Lo spirito epico del romanzo, che non manca, è legato al desiderio di tornare all’avventura, di fuggire dalla morta gora biologica del pianeta Middle Finger (Dito Medio, e pensate all funzione di quel dito nel proverbiale gesto americano); ma per farlo occorre tornare nello spazio, anzi nel tempo, e allontanarsi di almeno quarantamila anni-luce dal pianeta, salvo riatterrarvi quando saranno passate duemila generazioni o giù di lì.

Dunque, se apparentemente Haldeman ha mancato di parola, decidendosi finalmente a scrivere il secondo capitolo di Guerra eterna, pensiamo che l’abbia fatto nello spirito giusto. Anzi, a più d’un lettore questo M.A.S.H. del futuro remoto con annesse questioni spazio-temporali sarà sembrato l’unico concepibile “seguito”, dopo un quarto di secolo, delle avventure di quei due storici commilitoni, sbalzati in un’epoca che sarà un’incognita per tutti.

Con i suoi racconti e romanzi tecnologici Joe Haldeman rimane un solido punto di riferimento della fantascienza americana nell’ultimo quarto di secolo.

a cura di Giuseppe Lippi

[Per la bibliografia completa di Joe Haldeman si rimanda al Catalogo della SF, Fantasy e Horror a cura di Ernesto Vegetti. Il sito dell’autore è invece a questo indirizzo.]

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Jack McDevitt

maggio 7th, 2009

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Torna l’autore del Sonno degli dei con una nuova avventura ai confini dello spazio e del tempo. Ce lo introduce il nostro Curatore, Giuseppe Lippi.

Nato nel 1935, McDevitt è uno dei più quotati scrittori americani. Prima di affermarsi come romanziere ha svolto una lunga serie di attività, dall’ufficiale di marina al tassista passando per l’insegnamento dell’inglese. I suoi romanzi e racconti sono stati candidati quattordici volte al premio Nebula, che ha vinto nel 2006 con Seeker (il romanzo pubblicato questo mese). Su “Urania” ha già pubblicato Il sonno degli dei (n. 1340), testo che è all’origine della sua specializzazione in “archeologia spaziale”. Ha vinto il premio Philip K. Dick con il primo romanzo, The Hercules Text del 1986, cui sono seguiti A Talent for War (1989), The Engines of God (Il sonno degli dei, 1994) e numerosi altri, fino ai più recenti Infinity Beach (2000), Deepsix (2001), Chindi (2002), Omega (2003), Polaris (2004) e Seeker, molti dei quali troppo lunghi per una traduzione italiana in formato tascabile.

A proposito di Seeker gli piace citare una frase di Marik Kloestner: “L’uomo ritiene di essere il picco più alto della creazione, la parte pensante del cosmo, lo scopo di tutto. E’ gratificante crederlo, ma l’universo potrebbe avere un’opinione diversa”. Credibile e quasi documentaria, la fantascienza di McDevitt non è mai barocca. Uno stile asciutto e realistico imprime un tocco di realismo anche alle vicende ambientate nel più lontano futuro e la scienza non è mai puramente immaginaria. La sua passione per i misteri di antiche e remote civiltà aggiunge un tocco di suggestione a vicende ben articolate e caratterizzate.

Il sito dell’autore è all’indirizzo http://jackmcdevitt.com/default.aspx mentre la bibliografia italiana è consultabile sul Catalogo SF, Fantasy e Horror

(a cura di G.L.)

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J.G. Ballard

aprile 21st, 2009

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Il grande J.G. Ballard, cantore dell’apocalisse postmoderna e delle nuove frontiere dell’immaginario, nel ricordo di Giuseppe Lippi. Con in appendice una sezione F.A.Q. per chi volesse saperne di più sull’autore e sulla sua opera.

La scomparsa di J.G. Ballard dispiace per tanti motivi, tra cui la perdita dell’uomo che ha spazzato via la vecchia fantascienza e all’inizio degli anni Sessanta ne ha creata una personalissima, al limite irriducibile. Ma fra le ragioni del rimpianto vi è sicuramente il maltrattamento del Ballard gagliardo e vulcanico degli esordi a favore della figura più pacata (e più paludata, verrebbe da dire) che è emersa dal 1984 in poi, con L’Impero del Sole e titoli successivi. Dall’Impero, come tutti sanno, è stato tratto un film di Steven Spielberg e da allora si è fatto ogni sforzo per dimenticare, almeno in Italia, buona parte del Ballard visionario; tanto che l’editoria nostrana si è spaccata tra le edizioni ufficiali dei suoi romanzi mainstream (curati soprattutto da Feltrinelli, che ne detiene i diritti) e i sacrosanti ripescaggi delle opere estreme o saggistiche, come l’ottima raccolta Visioni riproposta da Shake. In mezzo, e cioè al cuore della fantascienza ballardiana, stanno soltanto i tre volumi con Tutti i racconti tradotti ecomiabilmente da Fanucci ― ma non più immediatamente disponibili e forse in via di esaurimento ― e a malapena due romanzi: Foresta di cristallo (un’occasione “remainder” da Baldini Castoldi Dalai) e Il mondo sommerso nell’Universale economica Feltrinelli. Chi vuol leggere i capolavori Il vento dal nulla e Terra bruciata deve, da anni, pazientare o procurarsi l’edizione inglese; mentre, se i formidabili racconti dovessero uscire di scena (un’ipotesi catastrofica che respingiamo con scongiuri), il pubblico sarebbe privato di un tesoro dell’immaginario. A dirla francamente, i romanzi mainstream del Ballard acclamato non sempre ci ispirano: e quando abbiamo provato a leggerne alcuni, da Super Cannes a Un gioco da bambini, ci è sembrato che fossero versioni addolcite dei grandi romanzi fantastici. Lo stesso Condominio, che Feltrinelli ha da tempo nel catalogo dell’Universale, è un buon romanzo ma nulla più e non sta alla pari del Vento dal nulla o del Mondo sommerso.
J.G., non ce ne volere: è che ci avevi abituati troppo bene. Tu sei un gran distruttore, un Icaro-Montgolfier-Wright junghiano, un annegatore di mondi con annesso brevetto di devolutore. Hai scolpito le nuvole a Vermilion Sands e a Coral-B, e quando uno scolpisce il cielo, non può più atterrare impunemente.

J.G. Ballard FAQ

In che modo Ballard ha rivoluzionato la sf?

Nei primi anni Sessanta c’è stato un forte movimento innovatore delle arti, in Europa ed anche in America. Era il frutto di alcune tendenze radicali del decennio precedente, la narrativa americana beat e quella francese del nouveau roman, un po’ surreale. Non si poteva più guardare il mondo nello stesso modo e la cosa diede risultati importanti anche al cinema, da Fellini alla Nouvelle vague. Ballard è stato un po’ il Fellini della fantascienza, e negli stessi anni in cui il maestro riminese dirigeva La dolce vita e Giulietta degli spiriti, Ballard ne concepiva la versione apocalittica: Il vento dal nulla, Deserto d’acqua (noto pure come Il mondo sommerso), Terra bruciata e Foresta di cristallo. Storie, ma meglio sarebbe dire ampie visioni, in cui non conta solamente quello che avviene ma in che modo avviene, e perché. Romanzi e racconti che sono soprattutto il ritratto di un mondo mutato, o, visto che molto spesso somigliano a sogni, di un mondo interiore.

Lo “spazio interno” teorizzato da Ballard, che cos’è?

E’ proprio questo, una dimensione interiore che tuttavia non coincide soltanto con le profondità dell’anima individuale, ma collettiva. Il romanzo realista si occupa, di solito, della psiche del singolo, mentre Ballard ― e in questo sta la natura fantascientifica dell’operazione ― si riconnette al serbatoio inconscio dell’intera umanità. E di quello che è venuto prima…

Lo spazio interno spodesterà quello esterno?

No, perché in fondo sono due facce della stessa medaglia. Lo spazio interno è il microcosmo della specie, l’anima ancestrale del mondo; quello esterno, per quanto rispettabile e maestoso, sovente si modella ai nostri occhi come una proiezione dell’altro, viene popolato dai contenuti dell’altro (almeno per noi esseri pensanti). Potremmo concludere che lo spazio interno non sia altro che il pensiero del grande universo. E il suo inconscio.

In che modo Ballard lo scoprì?

Non è che Ballard abbia scoperto lo spazio interno, come Fellini non ha scoperto la memoria. Ognuno a suo modo, i due artisti hanno sommato alcune esperienze precedenti e ne hanno fatto qualcosa di originale, un mondo narrativo. Ballard ha fatto finta, un po’ come Bradbury ma con maggior rigore, che si possa ricordare il futuro come normalmente si ricorda il passato. Il risultato è che il tempo e il mondo in cui viviamo diventano improvvisamente strani, popolati da inquietanti figure che hanno un valore misterioso, quasi sacrale. Feticci e reliquie dell’immaginazione come le rampe di lancio a Cape Canaveral, gli attentati politici visti alla televisione, o semplicemente il vecchio mondo sconvolto da catastrofi che non sono soltanto naturali, ma psichiche. Ballard è stato un maestro nel descrivere tutto questo, schegge di un altro tempo e un altro spazio impastate drammaticamente con il nostro.

Come sono le traduzioni italiane?

Quelle degli anni Sessanta sono irrimediabilmente superate ed anche parziali. Purtroppo non abbiamo ancora traduzioni aggiornate del Vento dal nulla e Terra bruciata, mentre del Mondo sommerso c’è una versione più recente. Tradurre Ballard non è facile: il periodare è lungo, le ellissi frequenti, le allusioni molteplici. Ci vuole un narratore sensibile alla materia, capace di inventare quando c’è da inventare.

Sono migliori i romanzi o i racconti?

I racconti sono stupendi, mentre i romanzi vanno divisi in due categorie: pre-Impero del sole (1984) e successivi. I successivi hanno ricevuto larghi consensi in tutto il mondo, ma sembrano spostarsi verso un’altra sensibilità: non più il futuro che assedia il presente, non le memorie di domani ma gli scandali, i delitti, le atrocità d’oggi. Questi temi già si affacciavano in opere come Crash e appunto La mostra delle atrocità. A tutto ciò si è unita, dagli anni Ottanta in poi, una vena autobiografica che nell’autore sembra avere un’importanza notevole, come l’ha avuta in Fellini.

Ma in fondo, cosa vuole questo Ballard?

Proviamo a farcelo dire da una vecchia quarta di copertina di Urania, il n. 976 Mitologie del futuro prossimo: «Con le sue allucinate e allucinanti narrazioni Ballard non finisce mai di sorprenderci, emozionarci, entusiasmarci, ma anche, diciamolo pure, di irritarci. Che cosa vuole significare? Con chi ce l’ha? Da che parte sta? Che senso hanno in definitiva le sue torbide atmosfere e le sue mortali angosce, i suoi incubi eternamente ricorrenti? Questa antologia dei suoi ultimi racconti, proprio perché spinge l’ambiguità oltre ogni limite, ci fornisce probabilmente una chiave di interpretazione. Gli incubi più neri di Ballard assolvono paradossalmente una funzione liberatoria: sono altrettanti “viaggi al termine della notte” che finiscono per riportare letteralmente (come nella storia che dà il titolo alla raccolta) “verso il sole”. Mentre è in situazioni apparentemente “rosa” (come nei “Saluti da Las Palmas”, nel “Sorriso” o nell’atroce “Riunione di famiglia”) che Ballard si riafferma come il più lucido, impassibile e spietato tra i moderni profeti di orrori».

G.L.

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L. Ron Hubbard

aprile 9th, 2009

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Un profilo bio-bibliografico dell’autore del mese di “Urania Collezione”, tracciato da Giuseppe Lippi.

Nel celebrato finale di Via col vento (1939) Rossella O’Hara si consolava al pensiero che “Domani è un altro giorno”. Avesse potuto viaggiare nel futuro e leggere To the Stars (Ritorno al domani, 1950–54) di L. Ron Hubbard, avrebbe dovuto ricredersi. Domani, infatti, potrebbe essere non soltanto un giorno nuovo ma un decennio, un secolo, addirittura un millennio inesplorato. Specialmente per chi si muove a velocità relativistiche, cioè prossime a quella della luce. E’ la conseguenza del famoso paradosso degli orologi, postulato dalla fisica einsteniana e dimostrato nel dopoguerra: se mettiamo a confronto due orologi identici e sincronizzati, uno dei quali è stato fatto viaggiare su un aereo supersonico, vedremo che quello rimasto a terra è andato avanti di alcune frazioni di secondo. Questo equivale a dire che con l’aumentare della velocità il tempo si contrae (“rallenta”). Di conseguenza, se qualcuno potesse viaggiare a velocità elevatissime e del tutto teoriche, come quelle prossime a c (pari a circa 300.000 km al secondo), scoprirebbe che un mese vissuto a quel ritmo folle corrisponde a un tempo sensibilmente più lungo quaggiù. Dunque, immagina Hubbard nel suo racconto intitolato To the Stars (1950, poi ampliato e uscito nel 1954 come Return to Tomorrow e infine ristampato con il primo titolo), un astronauta che viaggiasse su una nave interstellare, oltre a varie altre conseguenze di minor conto come l’enorme dilatazione della propria massa, tornato alla base scoprirebbe che per gli altri sono passati decenni. Di qui la poetica evocazione di un destino errante e senza radici, come si legge nella quarta di copertina di una precedente ristampa di questo romanzo, e che si deve all’immaginazione di  Carlo Fruttero e Franco Lucentini:

“…Quando gli uomini dell’equipaggio tornano a casa, le fidanzate hanno i capelli bianchi, gli amici sono morti di vecchiaia, le città sono irriconoscibili, i regimi politici sono cambiati. Chi s’imbarca accetta dunque – con le buone o con le cattive – una vita senza passato, un’avventura che non ha ritorni. Pure, i disperati, i fuorilegge, i paria che percorrono la galassia sulle navi del « lungo viaggio », assolvono senza saperlo la più alta missione per la sopravvivenza della specie umana”.

La tragica sorte di questi ulissidi del futuro è stata, per due generazioni di lettori di fantascienza, il viatico per familiarizzarsi con quel senso di fragilità, di malinconia e ineluttabile consumarsi dell’esistenza che avrebbero ritrovato, più adulti, nel Tempo perduto di Proust o nelle pagine di Henri Bergson. Non che Ron Hubbard (1911–1986) di Tilden, Nebraska, si prefiggesse intenti teorici particolarmente sofisticati, ma nel caso di To the Stars lo sfondo dell’avventura permette d’intravvedere un panorama metafisico. E’ il romanzo postbellico sulle beffe del tempo, e il suo solido, tradizionale impianto fantastico non sminuisce la qualità della visione. Per un autore che aveva cominciato a scrivere sui pulp negli anni Trenta e che raramente si era cimentatro con i paradossi dello spaziotempo, To the Stars rappresenta un punto di arrivo. Del resto, il Ron Hubbard degli anni Cinquanta è un uomo impegnato in altre avventure del pensiero, in particolare la pubblicizzazione della dianetica (in inglese Dianetics), la disciplina di auto-miglioramento che si basa su una personale visione dell’igiene mentale. Nel 1952 la lezione della dianetica verrà ampliata da Hubbard in una vera e propria “filosofia religiosa applicata”, che diverrà nota con il nome di Scientology. La “scientologia” costituirà la base della chiesa hubbardiana che tuttora ne diffonde il pensiero.

Parallelamente alla sua attività di guru psico–religioso, L. Ron Hubbard continua a scrivere. Come si è detto, la sua carriera di autore avventuroso era cominciata negli anni Trenta ed aveva spaziato in molti generi: il western, il poliziesco, la storia di pirati e così via. Di questa vasta produzione escapista, la casa editrice che ne diffonde le opere ha intrapreso da anni un sistematico progetto di ripubblicazione integrale: e dopo le edizioni di lusso rilegate in pelle o comunque definitive, ha avviato un ambizioso progetto di ristampa di un centinaio di romanzi brevi che dovrebbero vedere la luce anche in italiano. Chi scrive ne ha personalmente tradotti diversi, a cominciare da Il marchio del bandito (un western) e un fantasy orientale, una delle specialità hubbardiane.

Dopo questa prolifica fase iniziale, Hubbard arriva alla fantascienza e alla fantasy. La transizione avviene sotto l’egida di John W. Campbell jr., il direttore di “Astounding sf” e “Unknown Worlds”: siamo intorno al 1940 e il sodalizio continuerà per un quindicennio. A questa fase appartengono gli ingegnosi racconti fantasy Schiavi del sonno (Slaves of Sleep, 1939), L’uomo che non poteva morire (Death’s Deputy, 1940), La trama fra le nubi (Typewriter in the Sky, 1940), e soprattutto Le quattro ore di Satana (Fear, 1940); poco più tardi arrivano i romanzi di fantascienza L’ultimo vessillo (Final Blackout, 1939-48), noto anche come Il tenente e che qui riproponiamo, I guerrieri del tempo (The End Is Not Yet, 1947), L’impero dei mille soli (The Conquest of Space, 1951), I ribelli dell’universo (The Kilkenny Cats Series). Il tenente è una storia aspra ispirata dalla guerra mondiale, una visione apocalittica che non lascia tregua e che immagina un futuro talmente bieco da aver inorridito alcuni lettori, anche per le sue implicazioni ideologiche. Vi si mostra uno Hubbard “serio”, più preoccupato del solito dei destini del mondo, e in ogni caso efficace descrittore di gesta beliche. Potremmo sottotitolarlo l’ultimo racconto di guerra, e rappresenta un momento particolare nella poliedrica attività del romanziere.

Per alcuni anni John W. Campbell sarà affascinato dalle teorie dianetiche di Hubbard, ma verso la metà degli anni Cinquanta i due uomini prenderanno strade diverse. Dopo Ritorno al domani, uno dei suoi romanzi più noti, l’interesse di Hubbard si sposta gradualmente verso i suoi insegnamenti didattici e religiosi: nel corso degli anni ha pubblicato diversi bestseller legati alle proprie teorie. Negli anni Ottanta, dopo un lungo silenzio, è tornato alla fantascienza con la trilogia di Battaglia per la Terra (Battlefield Earth, da cui è stato tratto un film con John Travolta) e la decalogia di Missione Terra (Mission Earth). In questi volumi, a differenza che nella vorticosa produzione degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta, l’immaginazione appare subordinata all’intento didattico: ad esempio in Battaglia per la Terra Terl, il mostruoso e malvagio extraterrestre, è la raffigurazione grottesca di tutti i vizi dell’animo umano mentre l’eroe della saga corrisponde all’uomo liberato dai princìpi dell’igiene mentale. Terl sembrerebbe l’ultima incarnazione dei jinn e degli ifrit che popolavano la deliziosa produzione fantasy dello Hubbard anni Quaranta, ma alla lunga i corposi romanzi di cui è antagonista mostrano la corda e il tono narrativo cade.

Nella sua produzione migliore, tuttavia, L. Ron Hubbard resta un abile narratore di avventure, un capace ideatore di trame fantastiche e, come artista, uno scrittore dotato di notevole ironia. Oltre che un personaggio controverso sul piano della cultura di massa e dei movimenti spirituali sincretici, Hubbard ci appare oggi come un narratore pulp della scuola classica, nelle cui opere migliori brillano quelle doti di colore e rapidità d’azione, di inventiva e immaginazione che contraddistinguevano, per il passato, i romanzieri popolari americani. E’ scomparso il 24 gennaio 1986 nella contea di San Luis Obispo, California.

G.L.

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James E. Gunn: biografia di un fabbricante di felicità

marzo 13th, 2009

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Il ritorno di James Gunn su “Urania Collezione” ci offre l’occasione per passare in rassegna le sue opere attraverso l’interessante panoramica tracciata da Giuseppe Lippi.

James E. Gunn è nato nel 1923 a Kansas City, Missouri, ed è stato professore d’inglese all’Università del Kansas. Ha pubblicato romanzi notevoli come Questo mondo inespugnabile (1955), Si garantisce la felicità (1961), The Immortals (1962), Tempo di streghe (1970) e Progetto stelle (1972); insieme a Jack Williamson ha scritto Un ponte tra le stelle nel 1955. In seguito si è interessato attivamente alla diffusione della fantascienza in ambiente scolastico e universitario. Oltre ad essere autore di una notevole Storia illustrata della fantascienza (1975), la più ricca dal punto di vista iconografico, Gunn ha curato una serie in più volumi intitolata The Road to Science Fiction che costituisce una antologia della SF dalle origini ad oggi, inclusi tutti i precursori. Solo il primo volume della serie è stato tradotto in italiano, con il titolo Le vie della fantascienza.

La riproposta di The Joy Makers su “Urania collezione” restituisce al romanzo il suo titolo originale ― nella precedente versione italiana era stato ribattezzato Si garantisce la felicità ― e appare in una traduzione riveduta. Questo tipico romanzo degli anni Sessanta segue altri notevoli testi di Gunn che abbiamo ripresentato su “Urania” o in “Collezione” un paio d’anni fa: Gli immortali, offerto  in una nuova edizione accresciuta dall’autore, Un ponte tra le stelle scritto con Jack Williamson e Gli ascoltatori (Progetto stelle). Lo scopo è di rendere disponibili testi che ben rappresentano le qualità della fantascienza di ieri, e che per fortuna continuano ad influenzare quella scritta oggi.  G.L.[Per una bibliografia italiana completa di James Gunn si rimanda al Catalogo SF, Fantasy e Horror a cura di Ernesto Vegetti.]

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Dario Tonani, biografia dell’algoritmo bianco

marzo 9th, 2009

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Ritorna l’autore di Infect@ con due storie del nostro futuro prossimo, anzi immediato. Ecco il profilo di Tonani tracciato da Giuseppe Lippi.

Milanese, classe 1959, Dario Tonani si è laureato alla Bocconi in Economia Politica, ma ha scelto di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Tanto da intraprendere la carriera di giornalista professionista, che lo ha portato a lavorare nelle redazioni di importanti testate specialistiche come “Quattroruote” e “Ruoteclassiche”, dove attualmente è in forze. Grande appassionato di science fiction, fantasy, horror e thriller, è autore di Infect@, noir fantascientifico pubblicato nell’aprile del 2007 su Urania n. 1521 e giunto secondo all’edizione 2005 dell’omonimo premio. In quel romanzo ipotizza l’avvento di una nuova, devastante droga da assumersi per via retinica attraverso speciali cartoni animati “dopati” – i +toon – in grado di sovrapporsi alla realtà e di interagire con l’ambiente circostante. Nella stessa Milano del 2025 descritta nel romanzo, “cartoonizzata” e multietnica, è tornato con una serie di storie brevi, la prima delle quali – “Velvet Diluvio” – è apparsa su Urania nel numero di ottobre 2007. Oltre al ciclo dell’Agoverso, incentrato sul killer Gregorius Moffa e presentato appunto nel distico L’algoritmo bianco, ha pubblicato altri tre romanzi brevi e una cinquantina di racconti in antologie (per Mondadori, Stampa Alternativa, Addictions, Puntozero, Comic Art, Delos Books), riviste varie e quotidiani nazionali. Nelle edizioni Mondadori era già comparso due volte prima di Infect@: nel 1998 all’interno del Millemondi Strani giorni con il racconto “Garze”, poi pubblicato in Francia, e nel 2003 nello Speciale Horror In fondo al nero con “Necroware”. Con le sue storie ha vinto numerosi concorsi, tra i quali nel 1989 il Premio Tolkien, due volte il Premio Lovecraft (1994 e 1999) e tre il Premio Italia (1989, 1992 e 2000). Sposato, con un figlio di 14 anni, vive e lavora nella periferia del capoluogo lombardo, a due passi dagli stessi luoghi che descrive nei suoi romanzi. Attualmente alterna la scrittura del seguito di Infect@ con quella di racconti anche extra-sf, uno dei quali, intitolato “Il fuoco non perde mai”, uscirà a breve nel Giallo Mondadori.

[Per la sua bibliografia completa si rimanda al Catalogo della SF, Fantasy e Horror a cura di Ernesto Vegetti.]

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Segnali di humour

febbraio 23rd, 2009

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Un excursus sulle visioni di Jacques Spitz e il suo background socio-culturale, a firma di Laura Serra.

In Paradiso e potere, un saggio di qualche anno fa, Robert Kagan teorizzava che l’Europa, simboleggiata da Venere, si cullasse in un paradiso di mollezze decadenti quali il welfare, mentre l’America, simboleggiata da Marte, le toglieva le castagne dal fuoco provvedendo virilmente al warfare. La debolezza, per non dire l’impotenza, militare suggeriva al Vecchio Continente una politica di appeasement, mentre la forza dell’arsenale più grande del mondo spingeva gli Stati Uniti a perseguire i propri interessi e punire chiunque li contrastasse. Del resto, argomentava Kagan, qualunque paese, come avevano dimostrato Francia, Gran Bretagna e Germania nei secoli passati, avendone i mezzi tende ad aggredire e conquistare: il pacifismo prospera quando le armi non ci sono.

Che cosa succederebbe se Marte e Venere fossero davvero Marte e Venere dotati di tecnologie avveniristiche e la terra fosse come la vecchia Europa di Kagan, mollacciona e disarmata, pasticciona e viziata, incapace di rispondere al fuoco nemico? E’ l’interrogativo che si pone Jacques Spitz in Les signaux du soleil (1943) e che già H.G. Wells si era rivolto in La guerra dei mondi (1898). Coniugando il realismo bellico del biologo darwiniano e la fantasia distopica del sociologo fabiano, Wells aveva immaginato esseri superiori intenti a osservare gli uomini “con la stessa minuziosa cura con cui questi avrebbero potuto studiare al microscopio le effimere creature che sciamano e proliferano in una goccia d’acqua” e si era figurato che quegli intelletti freddi e calcolatori “guardassero alla terra con occhi invidiosi, elaborando piani per conquistarla”. Spitz lo aveva indubbiamente letto e anzi si può dire che Les signaux du soleil sia la sua Guerra dei mondi come l’Oeil du purgatoire (L’occhio del purgatorio) è la sua Macchina del tempo; ma il suo spirito teso e sintetico è assai diverso da quello analitico dello scrittore britannico. Leggi tutto »

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Jacques Spitz

febbraio 15th, 2009

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Un’appassionata bio-bibliografica del maestro francese, a cura di Pierre Versins. Riportiamo integralmente la prefazione a L’homme élastique (1974).

Verne, Rosny e Renard sono i tre grandi del romanzo francese d’anticipazione: da loro si passa a Barjavel e ai contemporanei. Gli anni coperti dall’attività di questi scrittori sono, approssimativamente: 1863-1905, 1887-1925, 1905-1930; quindi dal 1943 ai giorni nostri. Dobbiamo concluderne che l’uomo che funge da ponte e rappresenta il nostro quarto Grande, Jacques Spitz – attivo tra il 1935 e il 1947 – non abbia troppi fans e sia stato regolarmente sottovalutato, o addirittura ignorato fino ad anni ben più recenti? (Le mosche è stato ripubblicato da Marabout solo nel 1970 e L’occhio del Purgatorio e L’expérience du Docteur Mops da Laffont nel 1971, nella collezione “Ailleurs et Demain Classiques”. [L’occhio del Purgatorio è uscito anche in Italia nel n. 622 di “Urania” (1973) e da allora è stato ristampato quattro volte. (N.d.C.)])

Rispondere a questa domanda – ma non è nostra intenzione farlo qui – permetterebbe di spiegare meglio perché, negli anni Cinquanta, la fantascienza in lingua francese sia stata letteralmente travolta da quella anglosassone, al punto che un Sadoul ha potuto credere di fare opera di storico ignorando la prima (insieme a quella di tutti gli altri paesi) a vantaggio esclusivo della seconda. E tuttavia, il posto che Spitz occupa nel romanzo francese di speculazione razionale è unico e insostituibile: quello che Verne non avrebbe potuto essere, quello che Rosny non ha voluto essere e che Renard è stato solo in parte, Jacques Spitz è al massimo grado: l’ironista dell’anticipazione scientifica. Forse ciò che gli ha nuociuto è proprio la leggerezza dei suoi toni, per quanto tagliente. L’ironia, in contrapposizione all’umorismo che mette l’uomo a nudo, si applica a determinate situazioni e le “scortica”. In tal modo chi vuole può vedere cosa si nasconda sotto. Ora è un fatto nessuno ama rinunciare ai suoi miti, mentre d’altro canto, col passare degli anni, l’ironia rischia di appiattirsi. Ma le situazioni cambiano veramente? E’ qui che la cosa si complica. Perché nelle capanne in cui ci ritiriamo a leggere non sembriamo più renderci conto che se l’uomo non cambia più di tanto (e comunque non in modo da non essere più riconoscibile in quanto uomo), e se l’umorismo è ancora capace di togliergli i guanti, anche le situazioni si ripetono… pur se scoprirlo diventa molto più difficile. Senza ricorrere al mito dell’Eterno ritorno o ai cicli di Spengler, è fin troppo evidente come le situazioni siano dovute all’attività umana e abbiano la possibilità di esprimere la caratteriologia dell’uomo. Chiedete al teatro leggero o al cinema di Hollywood e vedrete quanto questo sia vero fino alla volgarità, fino al punto da rendere i temi intercambiabili.

E allora? Il punto è che Spitz, all’apparenza scrittore semplice, è di una spanna più complesso dei suoi famosi predecessori, e soprattutto ci chiede di accettare verità orribili: nella fattispecie, che siamo una massa di inguaribili idioti. La sua scrittura, il suo stile sono così limpidi (ha affilato le armi presso i veri stilisti degli anni Venti, i surrealisti) che non ci mettono nessuna voglia di guardare là sotto, e scoprire magari – come chiamarlo? – un sole nero…

Tanto per fissare alcune idee osserveremo che Jacques Spitz, nato nel 1896 e morto nel 1963, ha smesso di scrivere fantascienza nel momento in cui il contemporaneo B.R. Bruss incominciava a pubblicare, e solo quattro anni dopo il debutto di Barjavel. In dodici anni di attività speculativa (se si eccettuano il racconto “En l’an 3000” del 1950 e i due inediti Alpha du Centaure e Guerre mondiale n° 3), ha pubblicato nove testi di anticipazione nessuno dei quali è trascurabile e tre dei quali sono capolavori del genere: Le mosche (La guerre des mouches, 1938), L’uomo elastico (L’homme élastique, 1938) e L’occhio del purgatorio (L’oeil du Purgatoire, 1945). A livello tematico, è vero, solo L’occhio del Purgatorio è assolutamente originale, benché l’idea di base sia un’estrapolazione de L’expérience du docteur Mops, 1939, dello stesso autore: il che dimostra soltanto che l’idea è una cosa (importante certo, ma non predominante) e l’originalità di uno scrittore un’altra; l’originalità appare nel modo in cui un’idea viene trattata.

Ancora, Spitz può essere definito l’autore che ha saputo meglio utilizzare, portandole alle estreme conseguenze, le idee di partenza: la Terra si spacca in due? Una delle due parti si congiungerà alla Luna e l’altra sopravviverà (L’agonie du globe, 1935). Il sole non è più quello di prima? L’umanità si nasconderà sottoterra, anche all’equatore (Les évadés de l’an 4000, 1936). Le mosche diventano una specie intelligente? Ne segue la fine della civiltà umana (Le mosche, 1938). Un ammasso di cellule viene staccato dal corpo in determinate condizioni? Ebbene, condividerà l’evoluzione del corpo originario fino alla morte (La parcelle Z, 1942). Marte e Venere mancano di azoto o di ossigeno? I rispettivi abitanti li risucchieranno alla Terra (Les signaux du soleil, 1943). Nel caso in cui, come ne L’expérience du docteur Mops (1939), Spitz non va fino in fondo alla sua ipotesi (che riguarda la capacità di vedere il futuro) la riprenderà in seguito per portarla all’infinito (L’occhio del purgatorio, 1945).

Nell’Uomo elastico abbiamo un caso a parte dell’opera di Spitz. Il tema è immenso e sembra inglobare tutte le possibilità dell’uomo, ma proprio per questo era particolarmente rischioso. La letteratura è fatta di scelte, naturalmente, ma bisogna pure che queste scelte – fra tutti gli avvenimenti possibili in un determinato quadro – siano rappresentative della totalità. Quando il personaggio di un racconto beve, converrà sapere se lo fa perché ha sete o vuole ubriacarsi, o semplicemente perché deve incontrare qualcuno al caffè, luogo in cui normalmente si beve. (E se si trattasse dell’Uomo ristretto?)

Cosa avviene quando si scopre il metodo per rimpicciolire e ingrandire gli uomini a volontà? Ovviamente tutto: niente di più, è chiaro, niente di meno. Eccoci al dunque, perché questo è lo spunto dell’Uomo elastico.

Di solito, in fantascienza, si modifica un aspetto della realtà e si traggono le conseguenze di questa modificazione; più esattamente, si segue la traccia di quello che l’alterazione iniziale scatenerà in modo diretto, senza troppo curarsi degli effetti incresciosi o degli epifenomeni. E’ per questo che gran parte dei testi fantascientifici non sono romanzi, bensì racconti. Non è più difficile comporre un romanzo di un racconto, e non è detto che l’opera lunga debba essere necessariamente mediocre, ma richiede un punto di vista più largo, meno specializzato, un talento particolare che si trova solo negli autori geniali e in un imprecisato numero di cretini…

Dal punto di vista tematico, L’uomo elastico si presta ad essere analizzato sotto molte voci: guerre future, utopie, tecnologie, ecc. Ma il fatto fondamentale è che assistiamo alla creazione di una nuova umanità (e qui tornano in ballo le nostre rubriche: superuomini, semidei, dei…). In tal senso è una delle opere più interessanti e compiute che esistano, perché, meglio che in qualsiasi racconto basato su un tema analogo, e persino in romanzi famosi come Le guide del tramonto di Arthur C. Clarke, Slan di van Vogt e il capolavoro di Sturgeon Cristalli sognanti, ne L’uomo elastico si vede fino a che punto potrebbe allargarsi la frattura fra uomini vecchi e nuovi. Questo deriva dal fatto che il passaggio dell’umanità intera – o poco meno – a un nuovo stadio di esistenza, deriva matematicamente dalle premesse di Spitz (il quale ha fatto il politecnico, e si vede). Al contrario, in quasi tutti gli altri casi si limita a essere un dato di fatto, senza alcuna spiegazione né giustificazione che non sia il desiderio dell’autore di affrontare il suo tema a partire da un determinato cambiamento.

Con Spitz tutto comincia prima, quando il cambiamento non è ancora avvenuto: lo vediamo profilarsi all’orizzonte ma ci stupirà comunque, niente è deciso a priori e gli avvenimenti si legano – insieme alle modificazioni successive – come mai nell’utopia. Eccoci dunque a un’utopia poco utopica (e mi rifiuto di sottoscrivere l’assioma per cui utopia e stagnazione sarebbero sinonimi) la cui stessa natura cambia continuamente, e continuamente sorprende per la sua evoluzione. Tanto di cappello davanti a una tale finezza di spirito, che guida e sogna con ragione l’evoluzione dopo la rivoluzione…

Perché di una rivoluzione si tratta, a tal punto che il generale al quale il dottor Flohr propone un esercito di giganti s’indignerà: ma come, diventare più piccolo dei suoi uomini? Mai visto, dunque impossibile. Ma c’è un’altra soluzione: che il generale rimanga della sua statura e gli uomini rimpiccioliscano. E’ quello che avviene nel romanzo. Non si fa in tempo ad assimilare una trovata che la successiva l’insegue e la offusca. Ed è questo il punto a cui volevo arrivare.

A mio avviso uno dei più grandi motivi d’interesse della fantascienza, e ciò che mi spinge a considerarla se non simile almeno una parente prossima dell’utopia, dei viaggi straordinari e dei romanzi d’anticipazione dei nostri nonni, è che la fantascienza studia in vitro la resistenza del materiale umano davanti al nuovo, all’imprevisto e alle difficoltà, fino al cataclisma. Da questo punto di vista Spitz ci offre uno di quei cocktail frizzanti di cui soltanto lui conosce il segreto, e che ne faceva già il super(bar)man – scusate il gioco di parole – de L’agonie du globe. Personalmente, trovo meraviglioso che l’umanità reagisca alla spaccatura del suo pianeta lamentando che, ormai, i mappamondi dovranno fabbricarli emisferici! Nell’Uomo elastico l’equivalente saranno i negozi specializzati nelle confezioni per uomini di statura e proporzioni completamente diverse. Altri lettori godranno di ulteriori particolari, come il fatto che i batteri (i quali NON hanno cambiato dimensioni) non potranno più attaccare la carne rimpicciolita, rendendola d’ora in poi immarcescibile. Per quanto mi riguarda, amo il romanzo a tutti i livelli. Ho già detto che la nuova umanità non avrà più in comune l’aspetto fisico? Ho già fatto notare che ricorderà un poco i triangoli, di cui si sa che possono somigliarsi senza essere sovrapponibili (questione d’angoli, se non ricordo male)? Se non l’ho detto è perché, in fondo, preferisco lasciare la parola al romanzo.

Leggere L’uomo elastico significa comprendere, infine, che gli uomini sono simili ma nient’affatto uguali.

La bibliografia completa di Jacques Spitz è disponibile sul Catalogo della SF, Fantasy e Horror di Ernesto Vegetti.

Pierre Versins (1923-2001) è stato uno scrittore, critico e collezionista francese, figura peculiare nella fantascienza del suo paese. Nel 1976 fondò a Yverdon (in Svizzera, nei pressi di Losanna) la celebre Maison d’Ailleur, un museo storico della fantascienza divenuto fin da subito meta di appassionati da tutto il mondo.

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