Jacques Spitz, un profilo
La fantascienza ci ha abituato a ogni tipo di viaggio: nello spazio naturalmente, dalla vicina Luna alle più lontane galassie; nel tempo, quindi: dalle origini dell’universo al futuro più inimmaginabile; nelle dimensioni, poi: cioè nei mondi paralleli accanto al nostro in cui le cose, gli avvenimenti, la storia, i costumi sono poco o molto diversi da quelli che conosciamo; nel microcosmo e nel macrocosmo, infine: penetrando nel mondo dell’atomo rappresentato come un sistema solare in miniatura, oppure nel mondo dei microbi o solo nel corpo umano, viceversa evadendo in un mondo superiore di cui il nostro è una semplice particella.
Sembrerebbe che non ci siano altri viaggi da fare, eppure… Eppure ecco ora il viaggio nella causalità. La causalità è il rapporto che unisce la causa all’effetto; evadere da esso, trovare una “linea di fuga” che lo eviti, significherebbe veramente uscire dalla realtà ed effettuare una “escursione nella ‘cosa in sé” – il noumeno di Fichte, Schelling e Hegel che doveva essere superato e non diviso dal fenomeno secondo la filosofia kantiana -, come afferma Christian Dagerlöff dell’Istituto Pasteur di Parigi (“Medico?” “No. Inserviente di laboratorio”), il deus ex machina di questo sorprendente romanzo francese del 1945, L’oeil du Purgatoire.
Per effettuare il viaggio nella causalità, Dagerlöff alleva un “parabacillo” estratto dalla lepre siberiana sostenendo la tesi che uomini e animali non vivono lo stesso tempo: l’istinto di questi ultimi non è tale, ma soltanto una lieve anticipazione del tempo umano. La mosca, l’ape, la mucca, la lepre, vivendo un attimo prima dell’uomo riescono infatti ad anticiparne leggermente le intenzioni e le mosse. Il “parabacillo” anticipa dunque il tempo, un anticipo che cresce proporzionalmente di generazione in generazione: inserito nel nervo ottico di una persona esso permette di vedere non tanto il futuro ma “il presente invecchiato”, sempre più invecchiato man mano che il “parabacillo” prolifera, vale a dire “le cose nello stato in cui sarebbero diventate in seguito”. È, questa, “la prospettiva di una linea di fuga, sia materiale che ideale, che ci consente di sottrarci all’universo causale. Apriamo la porta della quarta dimensione! Il tempo è sconfitto!” scrive Dagerlöff all’inconsapevole cavia del suo esperimento, Jean Poldonski, uno dei tanti artisti bohémien di Montparnasse, pittore un po’ cinico e un po’ misantropo, che si arrabatta fra modelle e mercanti d’arte, senz’altro egocentrico, e che si ritrova alla fine a essere – malgré lui, e nonostante il desiderio di evasione da quel mondo che non gli dà le soddisfazioni di cui è in cerca – come un viaggiatore immobile nello scorrere della Causalità. Perché lo squattrinato pittore resta lì dov’è, nel suo studio, nella sua Parigi, non si muove in sostanza nello spazio e nel tempo, ma è invece tutto il resto intorno a lui che invecchia a velocità sempre più accelerata!
Pian piano ogni cosa diviene decrepita e muore agli occhi del protagonista, mentre nella realtà, quella toccata con mano o vista grazie a una fotografia, è a posto, normale, segue la regola della causa-effetto. Intorno al povero pittore oggetti, strumenti, automobili, case, divengono sempre più usurate, arrugginiscono, crollano, si riducono in polvere; i giorni e le stagioni accelerano; non parliamo poi degli esseri umani: l’anticipo del tempo prodotto nella sua vista dal “parabacillo di Dagerlöff” da minuti, ore, giorni, passa ad anni e decenni: prima vecchi decrepiti, poi “cadaveri ambulanti”, infine veri e propri zombie alla Romero, con la carne a brandelli, camminano per le strade, circolano nella ville lumière. Quando l’accelerazione del tempo aumenta di velocità, anche gli scheletri si sfaldano, il nulla si allarga come “un cancro divorante”, il “mondo affonda”, l’“universo reale” scompare dalla vista, appaiono le “forme” che non sono poi altro che i pensieri, i desideri, le ambizioni, che permangono anche dopo che l’uomo è materialmente scomparso. Poldonski sembra essere entrato nel “mondo delle idee” di platoniana memoria, o – se vogliamo – nella “realtà virtuale” che i computer riescono ormai a creare per noi con grande facilità. E’ stata finalmente raggiunta la “cosa in sé” – la forma essenziale delle cose, il noumeno – teorizzata da Kant e poi dai filosofi idealisti tedeschi.
Che cosa lo aspetta alla fine, che cosa troverà una volta che l’anticipo del tempo nei suoi occhi avrà superato i secoli, i millenni a tal punto che anche le stelle del cielo cominceranno a scomparire? Che cosa vedrà alla fine, una volta che si ritroverà steso nella sua camera d’affitto ormai impossibilitato a muoversi all’interno di quel Nulla che solo i suoi occhi vedono? Capirà allora il “senso supremo del mistero della morte”, per apprendere il quale Dagerlöff si è lanciato (e ha lanciato lui, Poldonski) in questa pazzesca avventura?
Costruire un intero romanzo su questo spunto, per originale e nuovo che sia, non era certo facile, dato che esso risulta essenzialmente “statico”. Il protagonista, così come il lettore, sono fermi: è tutto il resto che si muove intorno precipitando ineluttabilmente verso la fine del tempo: un po’ l’idea che sta nella parte centrale di un altro libro straordinario, The House on the Borderland di William Hope Hodgson (1907), in cui il protagonista, seduto al centro della sua casa, vive la visione del tempo accelerato, sino allo spegnersi del Sole e alla morte della Terra. La differenza con L’oeil du Purgatoire è non soltanto nello scenario (Parigi e la sua vita intensa), ma anche nello scopo: l’esperienza di Poldonski, infatti, si presta a innumerevoli considerazioni morali e di costume, cui l’autore non si sottrae affatto, anzi ne fa il fulcro della propria opera.
Vedendosi circondato da agonizzanti, da morti, da scheletri, da polvere ambulante, osservando se stesso, la sua amante, i suoi amici divenuti cadaveri, il nostro artista pensa: “Vedendo le cose come saranno dopo la mia morte, esse mi appaiono come normalmente non avrei mai dovuto vederle. Effettivamente, non avrei mai dovuto vedere il mio cadavere, e invece lo vedo! Ormai osservo il mondo con l’occhio del Purgatorio, per così dire”. La “grande evasione”, come la chiama Dagerlöff, la fuga definitiva dal mondo della Causalità, potrebbe permettere alte considerazioni filosofiche sulla caducità della vita, sul fatto che vedendo come sia tutto transeunte è possibile “riportare le cose nel loro giusto valore, giudicarle meglio”, considerarle per quel che sono: effimere, per usare un termine anni fa di gran moda nel lessico italiano. Ricordati che polvere sei e polvere ritornerai, come ci ricorda la Chiesa cattolica, ma prima di essa ci ammonivano i saggi dell’antichità classica.
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