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Jacques Spitz, un profilo

ottobre 9th, 2011

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La fantascienza ci ha abituato a ogni tipo di viaggio: nello spazio naturalmente, dalla vicina Luna alle più lontane galassie; nel tempo, quindi: dalle origini dell’universo al futuro più inimmaginabile; nelle dimensioni, poi: cioè nei mondi paralleli accanto al nostro in cui le cose, gli avvenimenti, la storia, i costumi sono poco o molto diversi da quelli che conosciamo; nel microcosmo e nel macrocosmo, infine: penetrando nel mondo dell’atomo rappresentato come un sistema solare in miniatura, oppure nel mondo dei microbi o solo nel corpo umano, viceversa evadendo in un mondo superiore di cui il nostro è una semplice particella.

Sembrerebbe che non ci siano altri viaggi da fare, eppure… Eppure ecco ora il viaggio nella causalità. La causalità è il rapporto che unisce la causa all’effetto; evadere da esso, trovare una “linea di fuga” che lo eviti, significherebbe veramente uscire dalla realtà ed effettuare una “escursione nella ‘cosa in sé” – il noumeno di Fichte, Schelling e Hegel che doveva essere superato e non diviso dal fenomeno secondo la filosofia kantiana -, come afferma Christian Dagerlöff dell’Istituto Pasteur di Parigi (“Medico?” “No. Inserviente di laboratorio”), il deus ex machina di questo sorprendente romanzo francese del 1945, L’oeil du Purgatoire.

Per effettuare il viaggio nella causalità, Dagerlöff alleva un “parabacillo” estratto dalla lepre siberiana sostenendo la tesi che uomini e animali non vivono lo stesso tempo: l’istinto di questi ultimi non è tale, ma soltanto una lieve anticipazione del tempo umano. La mosca, l’ape, la mucca, la lepre, vivendo un attimo prima dell’uomo riescono infatti ad anticiparne leggermente le intenzioni e le mosse. Il “parabacillo” anticipa dunque il tempo, un anticipo che cresce proporzionalmente di generazione in generazione: inserito nel nervo ottico di una persona esso permette di vedere non tanto il futuro ma “il presente invecchiato”, sempre più invecchiato man mano che il “parabacillo” prolifera, vale a dire “le cose nello stato in cui sarebbero diventate in seguito”. È, questa, “la prospettiva di una linea di fuga, sia materiale che ideale, che ci consente di sottrarci all’universo causale. Apriamo la porta della quarta dimensione! Il tempo è sconfitto!” scrive Dagerlöff all’inconsapevole cavia del suo esperimento, Jean Poldonski, uno dei tanti artisti bohémien di Montparnasse, pittore un po’ cinico e un po’ misantropo, che si arrabatta fra modelle e mercanti d’arte, senz’altro egocentrico, e che si ritrova alla fine a essere – malgré lui, e nonostante il desiderio di evasione da quel mondo che non gli dà le soddisfazioni di cui è in cerca – come un viaggiatore immobile nello scorrere della Causalità. Perché lo squattrinato pittore resta lì dov’è, nel suo studio, nella sua Parigi, non si muove in sostanza nello spazio e nel tempo, ma è invece tutto il resto intorno a lui che invecchia a velocità sempre più accelerata!

Pian piano ogni cosa diviene decrepita e muore agli occhi del protagonista, mentre nella realtà, quella toccata con mano o vista grazie a una fotografia, è a posto, normale, segue la regola della causa-effetto. Intorno al povero pittore oggetti, strumenti, automobili, case, divengono sempre più usurate, arrugginiscono, crollano, si riducono in polvere; i giorni e le stagioni accelerano; non parliamo poi degli esseri umani: l’anticipo del tempo prodotto nella sua vista dal “parabacillo di Dagerlöff” da minuti, ore, giorni, passa ad anni e decenni: prima vecchi decrepiti, poi “cadaveri ambulanti”, infine veri e propri zombie alla Romero, con la carne a brandelli, camminano per le strade, circolano nella ville lumière. Quando l’accelerazione del tempo aumenta di velocità, anche gli scheletri si sfaldano, il nulla si allarga come “un cancro divorante”, il “mondo affonda”, l’“universo reale” scompare dalla vista, appaiono le “forme” che non sono poi altro che i pensieri, i desideri, le ambizioni, che permangono anche dopo che l’uomo è materialmente scomparso. Poldonski sembra essere entrato nel “mondo delle idee” di platoniana memoria, o – se vogliamo – nella “realtà virtuale” che i computer riescono ormai a creare per noi con grande facilità.  E’ stata finalmente raggiunta la “cosa in  sé” – la forma essenziale delle cose, il noumeno – teorizzata da Kant e poi dai filosofi idealisti tedeschi.

Che cosa lo aspetta alla fine, che cosa troverà una volta che l’anticipo del tempo nei suoi occhi avrà superato i secoli, i millenni a tal punto che anche le stelle del cielo cominceranno a scomparire? Che cosa vedrà alla fine, una volta che si ritroverà steso nella sua camera d’affitto ormai impossibilitato a muoversi all’interno di quel Nulla che solo i suoi occhi vedono? Capirà allora il “senso supremo del mistero della morte”, per apprendere il quale Dagerlöff si è lanciato (e ha lanciato lui, Poldonski) in questa pazzesca avventura?

Costruire un intero romanzo su questo spunto, per originale e nuovo che sia, non era certo facile, dato che esso risulta essenzialmente “statico”. Il protagonista, così come il lettore, sono fermi: è tutto il resto che si muove intorno precipitando ineluttabilmente verso la fine del tempo: un po’ l’idea che sta nella parte centrale di un altro libro straordinario, The House on the Borderland di William Hope Hodgson (1907), in cui il protagonista, seduto al centro della sua casa, vive la visione del tempo accelerato, sino allo spegnersi del Sole e alla morte della Terra. La differenza con L’oeil du Purgatoire è non soltanto nello scenario (Parigi e la sua vita intensa), ma anche nello scopo: l’esperienza di Poldonski, infatti, si presta a innumerevoli considerazioni morali e di costume, cui l’autore non si sottrae affatto, anzi ne fa il fulcro della propria opera.

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Vedendosi circondato da agonizzanti, da morti, da scheletri, da polvere ambulante, osservando se stesso, la sua amante, i suoi amici divenuti cadaveri, il nostro artista pensa: “Vedendo le cose come saranno dopo la mia morte, esse mi appaiono come normalmente non avrei mai dovuto vederle. Effettivamente, non avrei mai dovuto vedere il mio cadavere, e invece lo vedo! Ormai osservo il mondo con l’occhio del Purgatorio, per così dire”. La “grande evasione”, come la chiama Dagerlöff, la fuga definitiva dal mondo della Causalità, potrebbe permettere alte considerazioni filosofiche sulla caducità della vita, sul fatto che vedendo come sia tutto transeunte è possibile “riportare le cose nel loro giusto valore, giudicarle meglio”, considerarle per quel che sono: effimere, per usare un termine anni fa di gran moda nel lessico italiano. Ricordati che polvere sei e polvere ritornerai, come ci ricorda la Chiesa cattolica, ma prima di essa ci ammonivano i saggi dell’antichità classica.

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Jacques Spitz nella narrativa francese

ottobre 9th, 2011

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Verne, Rosny e Renard sono i tre grandi del romanzo francese d’anticipazione: da loro si passa a Barjavel e ai contemporanei. Gli anni coperti dall’attività di questi scrittori sono, approssimativamente: 1863-1905, 1887-1925, 1905-1930; quindi dal 1943 ai giorni nostri. Dobbiamo concluderne che l’uomo che funge da ponte e rappresenta il nostro quarto Grande, Jacques Spitz – attivo tra il 1935 e il 1947 – non abbia troppi fans e sia stato regolarmente sottovalutato, o addirittura ignorato fino ad anni ben più recenti? (Le mosche è stato ripubblicato da Marabout solo nel 1970 e L’occhio del Purgatorio e L’expérience du Docteur Mops da Laffont nel 1971, nella collezione “Ailleurs et Demain Classiques”.)

Rispondere a questa domanda – ma non è nostra intenzione farlo qui – permetterebbe di spiegare meglio perché, negli anni Cinquanta, la fantascienza in lingua francese sia stata letteralmente travolta da quella anglosassone, al punto che un Sadoul ha potuto credere di fare opera di storico ignorando la prima (insieme a quella di tutti gli altri paesi) a vantaggio esclusivo della seconda. E tuttavia, il posto che Spitz occupa nel romanzo francese di speculazione razionale è unico e insostituibile: quello che Verne non avrebbe potuto essere, quello che Rosny non ha voluto essere e che Renard è stato solo in parte, Jacques Spitz è al massimo grado: l’ironista dell’anticipazione scientifica. Forse ciò che gli ha nuociuto è proprio la leggerezza dei suoi toni, per quanto tagliente. L’ironia, in contrapposizione all’umorismo che mette l’uomo a nudo, si applica a determinate situazioni e le “scortica”. In tal modo chi vuole può vedere cosa si nasconda sotto. Ora è un fatto nessuno ama rinunciare ai suoi miti, mentre d’altro canto, col passare degli anni, l’ironia rischia di appiattirsi. Ma le situazioni cambiano veramente? E’ qui che la cosa si complica. Perché nelle capanne in cui ci ritiriamo a leggere non sembriamo più renderci conto che se l’uomo non cambia più di tanto (e comunque non in modo da non essere più riconoscibile in quanto uomo), e se l’umorismo è ancora capace di togliergli i guanti, anche le situazioni si ripetono… pur se scoprirlo diventa molto più difficile. Senza ricorrere al mito dell’Eterno ritorno o ai cicli di Spengler, è fin troppo evidente come le situazioni siano dovute all’attività umana e abbiano la possibilità di esprimere la caratteriologia dell’uomo. Chiedete al teatro leggero o al cinema di Hollywood e vedrete quanto questo sia vero fino alla volgarità, fino al punto da rendere i temi intercambiabili.

E allora? Il punto è che Spitz, all’apparenza scrittore semplice, è di una spanna più complesso dei suoi famosi predecessori, e soprattutto ci chiede di accettare verità orribili: nella fattispecie, che siamo una massa di inguaribili idioti. La sua scrittura, il suo stile sono così limpidi (ha affilato le armi presso i veri stilisti degli anni Venti, i surrealisti) che non ci mettono nessuna voglia di guardare là sotto, e scoprire magari – come chiamarlo? – un sole nero…

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L’autore – Dario Tonani

settembre 16th, 2011

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Milanese, una laurea alla Bocconi, Dario Tonani si divide tra l’attività di giornalista professionista e la scrittura; ha pubblicato una settantina di racconti e alcuni romanzi, mentre il suo titolo più acclamato è uscito su Urania: Infect@, un noir fantascientifico giunto secondo all’edizione 2005 dell’omonimo premio e di cui sono stati opzionati i diritti cinematografici. A marzo 2009, ancora per Urania, è uscito  L’algoritmo bianco, mini ciclo dell’Agoverso composto da due romanzi brevi, incentrati su uno stesso personaggio: il killer Gregorius Moffa che si muove nella Milano del 2045. E’ anche autore di un ciclo steampunk, sviluppatosi su tre titoli – “Cardanica”, “Robredo” e “Chatarra” – il primo dei quali (pubblicato su Robot e poi informato digitale per 40k Books) è stato per diverse settimane nella “top ten” degli ebook più venduti in assoluto. A marzo di quest’anno, per la Delos Books, ha pubblicato in duplice formato – cartaceo e digitale – l’antologia Infected Files, che raccoglie il meglio della sua produzione breve di fantascienza e ospita diversi racconti ispirati al mondo di Infect@. Attualmente sta lavorando a un nuovo romanzo ai confini col noir e il thriller e alla quarta e conclusiva parte del suo ciclo steampunk legato alle avventure del vascello a ruote “Robredo”. L’originalità di Tonani, in definitiva, non sta nell’azione mozzafiato e neppure nella grigia e piovosa visione del futuro, ma nelle invenzioni fulminanti. Quella dei cartoon “infetti” che si assumono dagli occhi come droga resterà negli annali della sf italiana e non solo. Tonani è sposato, ha un figlio di 17 anni e vive – locus omen – in quel di Segrate.

Come si riallaccia Toxic@ a Infect@ e ai due romanzi brevi dell’Algoritmo bianco?

Dal punto di vista narrativo, Toxic@ e Infect@ sono separati da sette lunghi anni. Un lasso di tempo durante il quale, tecnicamente, l’assunzione retinica ha fatto passi da gigante, i +toon si sono affinati e i cartoni sono diventati una spina nel fianco anche dal punto di vista ambientale. Nella Milano del 2032 – complice l’enorme difficoltà di smaltire le scorie di una droga che interagisce con la realtà – il microclima è mutato radicalmente, così come l’ecosistema che regola la convivenza tra umani e cartoon. Trovate qualche riferimento con la stringente attualità? Un’occasione per lanciare un piccolo accorato messaggio ecologista contro ogni forma d’inquinamento: dell’ambiente, ma soprattutto delle coscienze, tema questo sviluppato – su uno scenario urbano abbastanza affine – anche ne L’algoritmo bianco. I miei cartoni incarnano e simboleggiano la mistificazione della realtà. Sono droga che si fa carne, menzogna che si fa verità a scapito di tutti…

Quale percorso hai voluto seguire nel nuovo romanzo?

Di Infect@ ho voluto rispettare il formato base: plot investigativo, montaggio cinematografico, azione che sviluppandosi su diversi punti di vista si dipana in poco più di ventiquattr’ore, da un’alba all’altraa. Con una difficoltà maggiore, quella di non poter più contare sull’impatto cartoon, la vera trovata di Infect@, capace da sola di sostenere tutta la storia o quasi. Da qui l’idea di un “rilancio” che desse ai lettori di Toxic@ quello che i +toon hanno dato a chi ha apprezzato Infect@. Come? Usando il sense of wonder di un ambiente totalmente nuovo, una Milano per certi versi irriconoscibile rispetto alla prima puntata, capace di prendersi sulle spalle una buona fetta di suggestione e di trama. E questo cercando di consentire una lettura “chiusa” e il più possibile indipendente da Infect@, senza tuttavia infarcire il romanzo di “ripassi” e ripetizioni del primo libro.

L’azione violenta è sempre molto importante, nei tuoi racconti. Più che nella media dei testi di fantascienza, a volte pare quasi di leggere un “Segretissimo”. Cosa rappresenta tutto questo per te?

La violenza? Toxic@ e Infect@ sono due noir declinati al futuro, dei Future Noir secondo l’etichetta coniata da Richard K. Morgan, normale che ne trasudino da tutti i pori. Non mi nascondo dietro un dito: adoro le storie d’azione traboccanti di bossoli e pallottole, mi riportano ai western coi quali sono cresciuto da ragazzino. Mettiamola così, un po’ semplicisticamente: i cartoon sono la mia personale elaborazione degli indiani o se vogliamo degli alieni cattivi. Il fatto è che siamo nel 2011/2032 e il mio “western futuribile” non era pensabile che mettesse tutti i buoni da un parte e i cattivi dall’altra, non sono così manicheo e nemmeno così assoluto. Quando dico “io sto con i cartoon” professo un credo che ha ispirato tutta la saga. Ma non me la sono sentita, alla prova dei fatti, di essere totalmente schierato. Ho scelto piuttosto di tenere un piede (o una zampa) in due scarpe. In fondo mi piace considerare il ciclo di Infect@ come un’opera – passatemi il termine – di fantascienza pop.

A parte il cinema, tua principale fonte di ispirazione, parliamo un po’ di letture. Chi sono i tuoi scrittori prediletti, dentro e fuori il genere? E a chi ritieni di essere maggiormente debitore, per stile?

Cinque nomi: Philip K. Dick, James G. Ballard, Richard K. Morgan, Maurice G. Dantec, Chuck Palahniuk, scrittori borderline che non hanno mai mostrato granché simpatia per gli steccati tra i generi. E fuori del genere Cormac McCarthy su tutti, nei confronti del quale riconosco una fascinazione stilistica notevole.

La fantascienza, è stato detto tante volte, è una letteratura di idee. Tu sei d’accordo o no?

Certo che sì, le idee che nascono dalla manipolazione “speculativa” del presente. Nella sua visione prospettica, la fantascienza non dovrebbe mai rinunciare alla sua funzione critica: della società, del potere, dell’economia. E’ probabilmente l’unica peculiarità che le è rimasta, ora che l’anelito al futuro permea ogni anfratto della realtà. Se togliamo alla fantascienza la sua carica propulsiva sul piano delle idee, non rimane che un guscio vuoto, destinato a essere riempito solo di sterili immagini. E il futuro non può risolversi in un banale coacervo di effetti speciali e seducenti promesse, così come ce li scodellano ogni giorno cinema, tv, pubblicità e videogiochi. La fantascienza scritta ha un obbligo morale di presidio. E per adempierlo fino in fondo deve fare pieno affidamento su quella che è stata da sempre la sua massima potenza di fuoco: le idee.

In una società sempre più tecnologica e consumistica, la sf non rischia di diventare un “bene di consumo” come tanti altri? Cosa si può fare per evitarlo?

Appunto, la fantascienza rischia di esaurirsi in un’orgia visuale senza più contenuti. In questo, il cinema e la fiction tv hanno avuto grosse colpe. E anche se i numeri sembrano dar loro ragione, penso che la fantascienza scritta debba battere altre strade e diventare più cinica: riuscire cioè a parlare al grande pubblico con storie che fondano idee, desiderio di scoperta a spettacolarità, riappropriandosi delle sue caratteristiche fondanti. Nella trasposizione tra libro e fiction c’è troppo spesso un vero e proprio saccheggio: via le idee a beneficio degli effetti speciali. Penso che si debba riequilibrare i piatti della bilancia e che stia alla fantascienza scritta fare adesso la propria parte, con coraggio. Non c’è nulla di male a essere commerciali (i vampiri hanno fatto un buon servizio all’horror, fino a quando non lo hanno saturato), ma occorre essere propositivi e non spocchiosi: molta fantascienza si è arroccata in una posizione di nicchia e si è attorcigliata su se stessa, contenta del proprio orticello da iniziati. Occorre uscire dal guscio e farlo con senso della misura e con cognizione dei propri mezzi. Il mio modesto suggerimento? Guardare al ricambio generazionale, ai lettori adolescenti, al mercato degli young adults, che tanta parte hanno avuto nel decretare il successo di vampiri, licantropi, angeli, demoni e streghe. Un po’ di consumismo non sarà mica veleno, a patto di non esserne succubi. I ragazzi sono lettori ai quali, però, si deve parlare di tecnologia con molta consapevolezza, perché sono abituati a masticarla per colazione…

Infine, quale genere di fantascienza o fantasy ti piace leggere quando sei “a riposo”?

“A riposo” non sono praticamente mai, diciamo a quale genere di fantastico mi abbevero tra un’avventura scritta e l’altra. Adoro le ibridazioni che mettano in campo due parole: futuro e thriller (o noir), ma anche lo steampunk. Mi piacciono le distopie sporche e maledette, i personaggi contaminati, ma anche il weird più lisergico. Grazie Urania per la chiacchierata, alla prossima avventura!

(a cura di G.L.)

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Robert A. Heinlein

settembre 16th, 2011

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Robert Anson Heinlein è nato a Butler, Missouri, nel 1907 ed è morto nel 1988. Dopo avere rinunciato alla carriera di ufficiale navale a causa di una malattia, si è dedicato alla fantascienza e sulle riviste di John W. Campbell Jr. (“Astounding” e “Unknown”) è divenuto in pochissimo tempo uno dei suoi maestri moderni. Inoltre ha scritto alcuni dei juveniles più riusciti della fantascienza, come Starman Jones (1953), Cittadino della galassia (Citizen of the Galaxy, 1957) e Fanteria dello spazio (Starship Troopers, 1959). Ha affrontato tutti i temi classici del genere, aggiornandoli: la subdola invasione aliena in Il terrore dalla sesta luna (The Puppet Masters, 1951), il viaggio nel tempo in La porta sull’estate (The Door Into Summer, 1957), l’astronave generazionale in Universo (Universe, 1963), il capovolgimento in termini della questione razziale in La fortezza di Farnham (1964), che abbiamo presentato in versione integrale in questa stessa collana.

Ancora: una controstoria della Rivoluzione americana è descritta in La luna è una severa maestra (1966), e si potrebbe continuare a lungo. Heinlein ha scritto la sceneggiatura di Uomini sulla luna (Destination Moon, 1950), di George Pal, unanimemente considerato il primo esempio moderno di cinematografia fantascientifica. Con Straniero in terra straniera (Stranger in a Strange Land, 1961) ha tentato un esperimento in anticipo sui tempi: in America il libro suscitò polemiche non solo per la sincerità con la quale affrontava temi scottanti come la religione e il sesso ma anche per la sua mole.

In Robert Heinlein convivono dunque molte anime; il romanziere, scomparso nel 1988, ha conosciuto una nuova stagione creativa dal 1971 in poi, iniziando con Non temerò alcun male (I Will Fear No Evil) e continuando con una serie di opere controverse che hanno mostrato le molte sfaccettature di uno scrittore spesso imprevedibile. Questi romanzi sono: Lazarus Long, l’immortale (Time Enough for Love, 1973: un seguito dei Figli di Matusalemme), Il numero della bestia (The Number of the Beast, 1981, sempre inserito nel ciclo di Lazarus Long), Operazione domani (Friday, 1982), Il gatto che attraversa i muri (The Cat Who Walks Through Walls, 1985, un’altra aggiunta al ciclo di Long), Oltre il tramonto (To Sail Beyond the Sunset, 1987, il suo ultimo romanzo).

Intanto, un solo romanzo di Heinlein era rimasto a lungo inedito, pur risalendo agli anni 1938-39: si tratta di For Us, the Living – A Comedy of Customs. In America è stato pubblicato finalmente dall’editore Scribner nel 2004 e in Italia lo ha tradotto “Urania” nel dicembre 2005 (con il titolo A noi vivi, n. 1505). La decisione di pubblicarlo a quasi settant’anni dalla composizione originaria fa già intendere che si tratta di un testo particolare: quello che avrebbe dovuto essere il primo romanzo di Heinlein e che non lo è stato –  per una serie di vicissitudini creative ed editoriali – parte subito con notevoli ambizioni e idee molto precise. Idee sulla scienza, la tecnologia, il ruolo dell’America: perché For Us, the Living non è una storia d’azione e neppure un capitolo della celebre Storia futura heinleniana, ma è semplicemente la storia futura degli Stati Uniti, già tutta racchiusa in una visione utopica e polemica di ampio respiro. L’espediente che dà il via al racconto è talmente classico da richiamare alla mente i maestri storici dell’utopia: Samuel Butler (Erewhon), Edward Bellamy (Guardando indietro) e soprattutto William Morris, il cui Notizie da nessun luogo è, come il testo di Heinlein, l’avventura di un Povero Uomo Moderno nel mondo del futuro, della post–modernità. Quello che il libro mette in scena è un esame affascinante e impietoso della civiltà di domani: una civiltà che in Heinlein, come in Morris e Bellamy, è studiata tratto per tratto, settore per settore, con la pazienza di un entomologo. Per i lettori abituati al futuro autore di Fanteria dello spazio, Stella doppia o La porta sull’estate costituisce una scoperta, una variazione sul tema del progettare mondi alternativi; per tutti si è trattato di un’importante aggiunta alla conoscenza di un autore che viene ancora considerato sinonimo di fantascienza americana, e di cui Philip K. Dick ha scritto: “Anche se abbiamo idee politiche completamente diverse, lo considero il mio padre spirituale,”[1].

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MM estate 2011 – Gli autori

agosto 12th, 2011

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Nato nel 1941, americano, David Hartwell è attivo nel campo della  fantascienza dal 1971, prima con iniziative amatoriali e  bibliografiche di un certo pregio (Science Fiction and Fantasy  Authors: a Bibliography of First Printings of their Fiction and  Selected Nonfiction, 1979, in collaborazione con L.W. Currey), poi con  un’intensa attività di giornalista e consulente editoriale. Dal 1988  recensisce le novità di fantascienza sulla “New York Review of Science  Fiction”, pubblicazione di cui Hartwell è diventato, negli anni, proprietario. È stato consulente o editor per  numerose e importanti case editrici, lottando con le necessità  commerciali di queste ultime per difendere la sua ricerca del nuovo. Non a caso  l’Encyclopedia of Science Fiction definisce l’attività di Hartwell  una tightrope walk o “passeggiata sulla fune”.
Come editor ha svolto un’opera encomiabile per Signet Books (fin dal 1971-’73), Berkley/Putnam (1973-’78), Gregg Press (una casa editrice universitaria  specializzata in ristampe di classici, 1975-’86), ecc. Per il gruppo Pocket Books/Simon & Schuster (1978-’83) ha creato la celebre collana di romanzi “Timescape”, mentre, conclusa quell’esperienza, è passato alla Tor Books – forse il principale editore americano di sf – in  qualità di consulente. Ha compiuto altre esperienze presso Arbor House  e William Morrow. Come antologista ha curato ampie raccolte dedicate all’horror (The Dark Descent, in italiano Il colore del male, ed. Armenia) e alla fantascienza, di cui ha voluto compendiare la storia attraverso l’intero arco del XX secolo (Ascent of Wonder: The Evolution of Hard sf, ecc.) In America, la serie The Year’s Best Science Fiction è già arrivata al sedicesimo volume.

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Kathryn Cramer, scrittrice di racconti e antologista, collabora da anni con David G. Hartwell. È cresciuta a Seattle, nel Nordovest degli Stati Uniti, ma ora vive tra Pleasantville, New York e Boston.
Diplomata in matematica alla Columbia University, nello stesso ateneo  si è laureata in studi americani. Tra i suoi molti libri si contano antologie di hard sf, fantasy (The Year’s Best Fantasy) e horror (Walls of Fear), ma anche manuali (Staying on Top When Your World Turns Upside Down: How to Triumph over Trauma and Adversity). Il suo racconto “In Small & Large Pieces” ha indotto Bruce Sterling a dichiarare: “Sono cose che nessun essere sano di mente può capire”. In effetti è la storia di due fratelli, la femmina psicotica e il maschio suicida. Recentemente, Kathryn Cramer ha fondato uno studio di consulenza per editori elettronici.

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Wilson Tucker

agosto 12th, 2011

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Scheda segnaletica: Emeritus

1) Science Fiction Master

I suoi romanzi di fantascienza si contano quasi sulla punta delle dita e non è stato prolifico neppure nel campo dei racconti, ma non importa: le sue opere sono tutte significative, sia per i temi trattati che per il modo di porgersi al lettore.

Particolarità che va sottolineata, Wilson “Bob” Tucker (1914-2006) si è sempre considerato un fan, un appassionato del genere: per molto tempo, quasi in contemporanea alla sua carriera di scrittore, ha prodotto delle riviste amatoriali o fanzine: dunque, anche se una parte della sua attività di romanziere appartiene al genere giallo o spionistico [vedi paragrafo 2], possiamo dire che Tucker sia un autore essenziale alla fantascienza.

Il suo esordio avviene nel 1941, a ventisette anni, con il racconto “Interstellar Way Station” (inedito in Italia). Il primo romanzo di fantascienza, The City in the Sea, è del 1951 (tit. it. La città in fondo al mare). Il romanzo è perfettamente inserito nel periodo in cui venne scritto, quando la fantascienza puntava il dito contro i rischi del disastro nucleare. In una città popolata esclusivamente da donne, giunge un uomo da non si sa dove; segue il viaggio delle donne alla ricerca del paese dello sconosciuto, vale a dire gli Stati Uniti tornati allo stato selvaggio dopo l’olocausto. E’ un libro di grande forza: Tucker non è uno stilista o uno scrittore raffinato come quelli che arriveranno successivamente, ma sa costruire una trama solida e tenere il lettore avvinto alla pagine tramite una narrazione non superficiale, che lo pone di fronte a situazioni estremamente realistiche. La tematica del matriarcato verrà ulteriormente sviluppata in Ice and Iron (I guerrieri nel ghiaccio, 1974), dove la troviamo unita al tema del viaggio nel tempo che si rivelerà centrale in molti romanzi di Tucker, in particolare The Lincoln Hunters del 1958 e The Year of the Quiet Sun del ‘70.

Del 1952 è The Long Loud Silence (rivisto nel 1970: Il lungo silenzio), uno dei più agghiaccianti e amari romanzi sul dopo catastrofe che la fantascienza ci abbia dato. Già nella prima edizione del ‘52 Tucker ci mette di fronte a una narrazione sgradevole, per nulla consolatoria e presenta uno scenario – quello degli Stati Uniti dopo una guerra nucleare e batteriologica – davvero terrorizzante. Raramente un racconto post-catastrofico è stato realista sino alla brutalità come questo, e ciò anche grazie al protagonista che sfugge alla rappresentazione dell’eroe positivo e si dimostra invece cinico, privo di emozioni, ostacolando qualsiasi tentativo di immedesimazione da parte del lettore. Nel 1953 esce The Time Master (rivisto nel 1971: I signori del tempo): qui, un extraterrestre immortale attraversa la storia dell’umanità alla ricerca dei sopravvissuti a un naufragio spaziale avvenuto diecimila anni prima. Anche in questo caso, il trattamento del tema dell’immortalità e del materiale mitico è molto convincente.

Del 1958 è il già ricordato The Lincoln Hunters, uno dei libri migliori di Tucker e uno tra i più interessanti romanzi sui viaggi nel tempo. L’emissario di una società futura e totalitaria viene inviato nel passato per registrare un discorso di Abramo Lincoln. E’ interessante la scelta di collocare il lettore tra le due epoche, in modo da potergli mostrare l’una e l’altra: il temponauta viene dal futuro ma non sbarca nel tempo del lettore secondo la scelta classica, bensì in un tempo precedente (una soluzione che sarà ripresa da Larry Niven nel ciclo di Svetz, in cui, incidentalmente, ci viene mostrato un futuro negativo come quello di Tucker).

Balzando al 1970 – in questo lasso di tempo lo scrittore aveva prodotto pochissimo – arriviamo al capolavoro The Year of the Quiet Sun (L’anno del Sole quieto, John W. Campbell Memorial Award). Qui Tucker torna alla tematica del viaggio nel tempo, che secondo H.G. Wells avrebbe potuto svilupparsi soltanto in direzione del futuro, mentre in gran parte della fantascienza è stato sfruttato come avventura nel passato. Ancora una volta ci troviamo di fronte a un romanzo di grande impatto e dal forte realismo. Il primo esperimento di cronoviaggio servirà a scoprire l’esito di un’elezione presidenziale, come quasi certamente accadrebbe oggi se fosse possibile. Il secondo esperimento, con destinazione poche decine di anni più tardi, ci svela un’immagine degli Stati Uniti al crepuscolo, sconvolti da un’estrema violenza, dal razzismo e dalla guerra civile. Ancora una volta dobbiamo notare come quella di Tucker non sia una fantascienza consolatoria: nei suoi romanzi le cose, chiamate con il loro nome e mostrate con la crudezza che appartiene loro, non vanno a posto per miracolo.

Lanfranco Fabriani

(apparso originariamente in “Delos” rivista di fantascienza, 2003; per gentile concessione)

2) Mystery & Spy Master

Nato a Deer Crook, Illinois, e sempre vissuto a Bloomington, una città dello stesso stato dove ha fatto il proiezionista cinematografico e l’elettricista teatrale dal 1933 al 1972, Wilson Tucker è indubbiamente un classico della sf. Scomparso nel 2006 a novantadue anni, lascia al genere un’eredità che difficilmente potrà essere dissipata: a parte la sua opera pionieristica e personale, si è distinto per un’acutezza di commentatore che ha pochi uguali. A lui si deve l’invenzione del termine “space opera”, coniato nel 1941 per descrivere l’avventura nello spazio di tipo seriale. Per la sua attività di appassionato, redattore di periodici amatoriali e romanziere ha ricevuto molti riconoscimenti; il premio Hugo gli è stato assegnato tre volte, a cominciare da quello retroattivo meritato dall’annata 1951 della sua fanzine “Bloomington News Letter”. Nel 1970 lo ha vinto di nuovo come miglior scrittore non professionista – un paradosso, per chi aveva alle spalle quasi una ventina di romanzi – e nel 2004 gliene è arrivato un terzo, pure retroattivo, per la sua attività letteraria non-professionale dell’anno… 1954. Con L’anno del sole quieto ha vinto il John Campbell Award ed è stato finalista al premio Nebula, mentre nel 1985 ha ottenuto il First Fandom Hall of Fame Award come appassionato della prim’ora. Nel 1986 gli è stato assegnato lo E.E. Smith Memorial Award e nel 1996, durante una cerimonia che si è svolta a bordo del transatlantico “Queen Mary” , è stato il secondo ad essere proclamato Scrittore Emerito dagli Science Fiction Writers of America. Nel 2003 è stato incluso nell’Albo d’onore della fantascienza americana (Hall of Fame).

Nonostanteche i suoi romanzi più noti in Italia siano quelli di sf, compreso l’ultimo I giorni della resurrezione (Resurrection Days, 1981), Tucker è autore di undici pregevoli thriller. Forse il più noto tra i suoi polizieschi, almeno per gli appassionati di fantascienza, è il racconto “Retroindagine criminale”, apparso nell’antologia Buone notizie dal Vaticano (Urania n. 623 e successivamente Oscar Mondadori). Nelle parole di Gian Filippo Pizzo, che è un estimatore del genere, “raramente abbiamo visto fondere così perfettamente la scienza del ragionamento deduttivo caratteristica del giallo con il marchingegno futuristico tipico della fantascienza. Il delitto del racconto avviene in un’epoca futura in cui gli investigatori possono fotografare il passato, rendendo quasi banale l’identificazione del colpevole: basta fare una serie di foto retrospettive sul luogo del crimine. L’assassino conosce il meccanismo e inventa uno splendido trucco, ma il poliziotto alla fine è più furbo di lui…”.

Tra i mystery ortodossi di Tucker apparsi anche in italiano ricordiamo: L’uomo nella mia tomba (Man in My Grave, 1956, tradotto nella Serie Gialla Garzanti due anni dopo); Nessuno mi può giudicare (Last Stop, 1963; apparso nel n. 61 dei “Suspense” Longanesi in brossura, 1966); Amare da morire (A Procession of the Damned, 1965; sempre nei “Suspense”, 1968). I primi fan di “Segretissimo” lo ricorderanno come l’artefice di due avventure ai confini della realtà, Scheda segnaletica: stregato (The Warlock; n. 261, 1968) e Chi trova una strega trova un tesoro (This Witch; n. 523, 1973). La strega di Scheda segnaletica è in realtà un uomo, Anson Bolda, nella cui infanzia “si nasconde qualcosa che si agita al di fuori della sua volontà” e che i contadini ucraini tra i quali è nato chiamano magia nera. Lo accompagnano alcuni tipi strani: “un vecchio, uno scrittore di avvenimenti soprannaturali con al suo fianco una donna ancora giovane ma dal viso fortemente segnato e che sembra voglia far dimenticare una volta per tutte di poter amare, e infine un altro personaggio misterioso”. Il gruppo è fermamente deciso a spingere Bolda in una trappola costituita dalle segrete di un carcere sovietico. Anson è un uomo che i servizi di sicurezza statunitensi non vogliono assolutamente perdere: non capita tutti i giorni, infatti, la fortuna di poter disporre di un autentico stregone… Chi trova una strega trova un tesoro si apre sulle rive del Giordano, “dove imperversa la guerra arabo-istraeliana. Wesley Ross è un mercenario dei nostri giorni che si affitta al miglior pagatore, quando un mercante arabo gli offre in vendita la bellissima Kelly. Misteriosa orientale dotata di poteri che sembrano magici, Kelly è una specie di strega in grado di prevedere quello che accadrà nell’immediato futuro. Il mercenario la compra per offrirle la libertà, ma la donna gli chiede di restare al suo fianco perché sa che può essergli di aiuto. Infatti è così. Quando il capo del servizio segreto israeliano offrirà a Ross un incarico molto delicato, Ross dirà di sì e da quel momento la vita per lui e per Kelly diventerà completamente divrsa, difficile. La missione è quasi impossibile ma quelli dell’’altra parte’ non sanno quale sia la vera carta vincente del mercenario. Sarà Kelly la chiave di volta di un successo che non sembra possibile a nessuno. In questo modo nasce una coppia nuova nella spy-story: quella di Ross e Kelly, personaggio singolarmente affascinante”.

Ma allo spionaggio, anzi al fanta-spionaggio, Wilson Tucker ha dedicato anche un memorabile romanzo breve: “Z come zebra” (“Able to Zebra”, 1953), tradotto ne Il libro del servizio segreto ovvero Urania n. 452 del 1967.

Dal sito personale di Wilson Tucker – http://www.printsations.com/WTworks.htm – traiamo questo elenco completo dei suoi thriller e spy stories, riordinato cronologicamente:

Chinese Doll (1946)

To Keep or Kill (1947)

The Dove (1948)

Stalking Man (1949)

Red Herring (1951)

Man in My Grave (1956, L’uomo nella mia tomba)

Hired Target (1957)

Last Stop (1963, Nessuno mi può giudicare)

A Procession of the Damned (Amare da morire, 1965)

Warlock (Scheda segnaletica: stregato, 1967)

This Witch (Chi trova una strega trova un tesoro, 1971)

Giuseppe Lippi, con la collaborazione di Mauro Boncompagni

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Kage Baker

agosto 12th, 2011

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Un romanzo inedito della Compagnia del tempo caratterizzato dall’immaginazione che da sempre contraddistingue il lavoro della Baker.

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Kage Baker, ovvero come una studiosa dell’Inghilterra elisabettiana possa conquistare il mondo della fantascienza. E’ il 1997 quando il pubblico americano entra per la prima volta in contatto con l’universo della Compagnia; il romanzo responsabile, La Compagnia del tempo (In the Garden of Iden), è stato da noi presentato in “Urania” n. 1432. L’idea centrale è quella – ben nota alla fantascienza, ma qui trattata con particolare originalità – di una società del futuro che ha scoperto il modo di rendere immortali i suoi clienti con speciali operazioni e trattamenti agli organi. Per accertarsi che le operazioni abbiano avuto successo, e che a centinaia d’anni dall’intervento originario i pazienti siano ancora vivi, la Dr. Zeus, Inc. ha brevettato il viaggio nel tempo quasi come uno strumento collaterale, ma in realtà per trarre il massimo profitto dal passato. I suoi agenti sono uomini e donne fedelissimi, prelevati dai secoli anteriori e resi essi stessi immortali. Questo è anche il caso di Mendoza, una giovane “rapita” alla Spagna del XVI secolo e messa al servizio della Compagnia. Con un’idea del genere, affidata per giunta alle mani di un’esperta, i casi sono due: o si sconfina nel pedante o si scrivono piacevoli romanzi ricchi di azione e particolari non banali. Il caso del ciclo della Compagnia appartiene, fortunatamente, alla seconda categoria. Il successo delle avventure di Mendoza nelle epoche storiche più diverse è stato fulmineo: e a In the Garden of Iden sono seguiti altri altri romanzi: Sky Coyote (La compagnia del tempo 2: Coyote del cielo in “Urania” n. 1455), Mendoza in Hollywood (La compagnia del tempo: Mendoza a Hollywood, in “Urania” n. 1464), The Graveyard Game (La Compagnia del tempo: Il futuro in gioco, “Urania” n. 1486), ecc. Oltre ai romanzi, il ciclo della Compagnia comprende diversi racconti, riuniti per la prima volta nel volume I cavalieri del tempo (Black Projects, White Knights: The Company Dossiers, 2004) che abbiamo presentato in un supplemento di “Urania”  del 2006, il n. 27.

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E.C. Tubb, lo spazio in una stanza

luglio 18th, 2011

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I lettori di “Urania” che si sono formati, fantascientificamente parlando, tra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli Ottanta, hanno qualcosa in comune. L’affetto per un autore da molti considerato escapista, “un semplice visionario” (come se non fosse una contraddizione in termini), un romanziere “così poco metaforico” che le sue rutilanti space opera si sarebbero potute scambiare per cronache. Cronache della galassia, naturalmente. E il fatto che oggi un editore di classici della sf come Elara abbia dedicato a un suo ciclo famoso, quello di Earl Dumarest, una poderosa edizione rilegata in più volumi, ha stupito qualcuno, trovato impreparato qualcun altro. Ma perché? Tubb è stato effettivamente uno dei più bravi artigiani della fantascienza inglese, anzi un artista del racconto a intreccio. Le se avventure (non solo spaziali, ma soprattutto spaziali) sono le migliori dopo quelle classiche di Eric Frank Russell.

Nato il 15 ottobre 1919 e scomparso il 10 settembre 2010, Edwin Charles Tubb ha dato molto alla nostra collana. A cominciare dai Pionieri di Marte (n. 157 del 1957) per finire con Terrore nell’iperspazio (n. 1004 del 1985), molti sono i suoi romanzi pubblicati con successo da Mondadori e ci dispiace soltanto che questa nuova doppietta – apparsa originariamente in una collana di mystery fantascientifici – sia arrivata troppo tardi, per ricordare un autore ormai scomparso anziché un sempreverde della sf d’azione.

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Quando abbiamo letto e comprato i due romanzi, grazie agli auspici di Antonio Bellomi, Tubb non solo era ancora in vita ma stava conoscendo una fase di rilancio voluta fortemente dai suoi agenti inglesi. Sia questo di “Urania”, perciò, non un ricordo retrospettivo ma un omaggio affettuoso, con un saluto a Tubb da parte di due o tre generazioni di lettori.

G.L.

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Michael Moorcock

luglio 18th, 2011

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Nato a Londra nel 1939, Moorcock ha impresso il segno a tre decenni della fantascienza britannica. Negli anni Sessanta ha diretto la storica rivista “New Worlds” – favorendo il decollo della cosiddetta new wave angloamericana – e ha pubblicato i suoi primi romanzi di fantascienza, imboccando nuove strade rispetto agli esordi fantastico-avventurosi. Tra i frutti di questo lavoro vi è I.N.R.I. (1966, premio Nebula ’67), racconto che pur facendo uso di un luogo tipicamente fantascientifico come il viaggio nel tempo, lo sfrutta per arrivare a una narrazione mitologica. I racconti fantasy di Moorcock, del resto, avevano gettato le basi per una concezione unitaria del genere: le avventure di Sojan lo spadaccino e, successivamente, i pastiche burroughsiani di Marte o le gesta del principe Corum hanno in comune, pur nella diversità dei toni, l’idea che tutte le storie possibili siano ambientate su altrettanti piani della realtà: e che miriadi di storie, su miriadi di livelli, formino nell’insieme il Multiverso in cui rientra tutta la produzione moorcockiana. Nella saga fantasy del principe Corum (sei romanzi pubblicati fra il 1971 e il 1974) il concetto viene chiarito in modo definitivo, sicché tutto quanto prende vita in Moorcock è collegato, niente appare casuale.

Negli anni Settanta il nostro crea alcune tra le opere più impegnative: la cosiddetta sequenza del “Campione eterno” – in cui rientrano le avventure di Corum e che vede in I.N.R.I. una sorta di premessa generale, perché i protagonisti della serie saranno tutti uomini del destino, eroi/antieroi dei rispettivi miti – e le Cronache di Jerry Cornelius. Quest’ultimo, personaggio ricorrente in una serie di romanzi ai confini tra science fiction e postmoderno, è una creatura ambigua che si muove in un mondo futuro distorto, apocalittico e grottesco dove i molti problemi dell’umanità sono giunti alla resa dei conti. In Programma finale, ad esempio (da cui Robert Fuest trasse il film omonimo, ribattezzato in Italia Alpha Omega, il principio della fine), un trio di malfattori si impossessa del programma studiato dal padre di Jerry per combattere la fame nel mondo e lo usa ai propri fini, favorendo la nascita di un nuovo, mostruoso messia. Negli anni Ottanta Moorcock è tornato alla fantasy, suo antico amore, e al romanzo tout-court, con opere mature e personali. In questo periodo ha completato il ciclo di Elric di Melniboné, una delle creazioni più originali nel campo della fantasia eroica, ma si è dato anche al fumetto e alla sistemazione della sua vasta produzione in una serie di edizioni accurate e pressoché onnicomprensive. In seguito si è trasferito in America, dove ha portato la sua cultura ed esperienza, senza abbandonare idealmente il vecchio continente: è stato ospite recente di Lucca Comics dove gli appassionati italiani hanno potuto festeggiarlo calorosamente.

Tanto affetto e considerazione poggiano però soprattutto sulla memoria, perché a differenza che sui mercati librari più maturi, oggi di Michael Moorcock in Italia si trova soltanto la ristampa del ciclo di Elric, passata dalla Nord a Fanucci, mentre la lodevole iniziativa di rimettere in circolazione il Programma finale (riproposto dallo stesso editore nel 2006) non ha avuto praticamente seguito. Eppure si tratta di un narratore chiave, senza il quale buona parte della fantascienza degli anni Settanta non sarebbe stata possibile. Un narratore che speriamo di poter proporre anche in futuro, su queste pagine e su “Urania”, per riprendere il discorso che riguarda il versante fantascientifico della sua produzione.

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James White; Biografia

giugno 14th, 2011

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Irlandese del nord, nato a Belfast il 7 aprile 1928, James White avrebbe voluto studiare medicina ma per motivi economici dovette rinunciarvi, ripiegando sull’attività di impiegato e consulente tecnico. Allevato da genitori adottivi, per un certo numero di anni si trasferì in Canada ma tornato in Irlanda sposò l’appassionata di fantascienza Margaret Sarah Martin (1955), dalla quale ebbe tre figli. White ha lavorato dapprima in un’azienda del settore abbigliamento e per un più lungo periodo alla Short Brothers, una società costruttrice di aeroplani.

Fin da giovane aveva pubblicato riviste amatoriali dedicate alla fantascienza, tra cui “Slant” (negli anni Quaranta-Cinquanta) e “Hyphen” (fino alla metà degli anni Sessanta). Ammalato di diabete e andato in pensione con diversi anni di anticipo nel 1984, continuò a dedicarsi alla sua attività di narratore, che era cominciata negli anni Cinquanta. Morì il 23 agosto 1999, di attacco cardiaco.

Ben dodici volumi, pubblicati tra il 1962 e il 1999, appartengono al ciclo della Stazione ospedale che è anche il titolo del primo libro di White sull’argomento. Si tratta di un’avvincente e spesso ironica saga medico-spaziale ambientata in un gigantesco ospedale militare del futuro, costruito dai due antagonisti di una guerra interstellare fratricida ma che per l’occasione hanno deciso di collaborare. White è stato un pacifista per tutta la vita e come scrittore un fine descrittore di extraterrestri positivi anziché maligni, all’opposto di tanta space opera corriva; forse alcuni suoi ritratti di “alien” sono filtrati nel celebre fumetto di fantascienza Jeff Hawke, che condivide lo spirito caustico e umanitario di molte storie whitiane.

Al di là del ciclo dedicato alla Stazione ospedale, White è famoso anche per opere “singole” come quelle raccolte nel presente volume. Vita con gli automi (Second Ending, 1961) è un classico racconto di avvertimento sui pericoli della guerra ma si spinge più in là, dipingendo un futuro di automazione e desolazione totale in cui l’umanità sembra essersi ridotta a un solo superstite, un uomo tenuto in animazione sospesa che si risveglia, accudito da robot efficientissimi, in epoche sempre più remote. Se Vita con gli automi, di ci ricorre quest’anno il cinquantesimo anniversario, conserva tracce di sapore wellsiano e un’indiscutibile capacità visionaria nel descrivere una serie di futuri di volta in volta più lontani e sconcertanti, Partenza da zero (Open Prison, 1964) resta un’efficace storia di avventure sorretta da un comprensibile senso d’insofferenza verso ogni restrizione e qualsiasi limitazione della libertà umana, fosse pure incarnata da un intero pianeta. Nella “quarta” d’epoca, Carlo Fruttero e Franco Lucentini ne evocavano la parentela con un altro celebre libro d’evasione, Il ponte sul fiume Kwai di Pierre Boulle: “Il problema dei campi di prigionia sarà facilmente risolto nelle guerre intergalattiche. Basterà lasciare i nemici catturati in piena libertà su un mondo lontano da tutte le rotte: ma gli ufficiali hanno sempre il dovere di tentare la fuga, anche da un pianeta dove non c’è filo spinato, dove non ci sono guardie, dove la vita è come una lunga vacanza”.

 

G.L.

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