Leiber e il viaggio nel tempo
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Un intervento di Riccardo Valla su Fritz Leiber e Il grande tempo, che va a completare il profilo tracciato da Giuseppe Lippi.
Rispetto all’idea di viaggiare fino alla luna e al sole, un tipo di viaggio che compare già negli scritti di Luciano (II secolo d.C.), l’idea di visitare il futuro è abbastanza recente e nasce come variante dell’utopia. Invece di presentare stati immaginari di terre lontane, nel romanzo sul futuro si descrivono quelli ipotetici del domani.
Quanto all’identità del primo a presentare in una sua opera il viaggio nel futuro, i francesi citano Mercier (1770), gli inglesi l’anonimo autore di The Reign of George VI, 1900-1925 (1763), che descrive la vittoria dell’Inghilterra sulla Francia. Negli ultimi anni sono state anche citate due opere di polemica politica, S. Madden, Memoirs of the Twentieth Century, del 1733, e un opuscolo di propaganda a favore di Cromwell, Aulicus his Dream, del 1644. Nessuno di questi testi inglesi ebbe però il successo del romanzo di Louis-Sébastien Mercier, L’An 2440, rêve s’il en fut jamais, che descriveva le meraviglie del futuro, create grazie all’insegnamento delle scienze, e che ebbe subito versioni italiane e inglesi.
Rispetto a questi precursori, gli autori italiani sono nettamente distanziati, e il primo è Nel 2073! Sogni d’uno stravagante, di Agostino Della Sala Spada (1874), seguito poi con un grande distacco da L’Anno 3000 di Paolo Mantegazza (1897) e Dopo la vittoria del socialismo di Ulisse Grifoni (1907).
Tutti questi testimoni del futuro, comunque, vi giungevano in sogno, o tramite visioni ed espedienti. Il vero viaggio nel tempo, con una macchina che permette di andare avanti e indietro nell’arco dei secoli, ha poco più di cent’anni e risale al romanzo La macchina del tempo di Wells (1895).
In Italia, queste storie erano piuttosto rare, prima che con gli anni Cinquanta giungesse la Science Fiction americana, ma da allora in poi il tema è sempre stato uno dei piatti forti della fantascienza italiana… da quando la fantascienza esiste, ossia da quando la parola fantascienza, coniata da Monicelli, è comparsa nel primo numero di “Urania” (allora “I Romanzi di Urania”). In quel mitico numero 1 compariva a puntate, in appendice, un romanzo di Simak sui viaggiatori nel tempo, Oltre l’invisibile. Nel romanzo, il protagonista, che vive in un lontano futuro, è coinvolto in un conflitto tra viaggiatori del tempo e si trova esiliato per un lungo periodo nell’America rurale degli anni Cinquanta.
Con il numero 12, Le armi di Isher di van Vogt, troviamo due viaggiatori nel tempo. Il primo è un giornalista della nostra epoca, che continua a oscillare tra passato e futuro, e il secondo è uno dei protagonisti, che torna indietro di qualche mese nel passato, portando con sé tutti i listini di borsa, e con i suoi guadagni mette in pericolo la stabilità finanziaria della sua epoca.
Prima di allora, i lettori italiani di storie di viaggiatori temporali avevano letto solo il romanzo di Wells. Al massimo, chi leggeva la rivista francese “Fiction” conosceva almeno per nome Le Voyageur imprudent di Barjavel, in cui, diversamente dalla Macchina del tempo, compariva un paradosso temporale, anche se un po’ ingenuo rispetto a quanto stavano scrivendo in America i vari Heinlein e Williamson. Nel romanzo di Barjavel, il viaggiatore, dopo un viaggio in futuro in cui l’umanità ha un’organizzazione da insetti sociali (operai, soldati, e una sola enome “regina” che si occupa della riproduzione) si reca ad assistere alle vittorie di Napoleone ed è ucciso da un proiettile vagante, Essendo morto in una data che precede quella della nascita, viene cancellato completamente dal flusso del tempo ed è come se non fosse mai esistito.
Intanto, negli Stati Uniti, nel periodo che va da Wells al 1950, vari scrittori avevano ripreso l’idea del viaggio nel tempo, a iniziare un autore poco noto in Italia, Ray Cummings, che nel 1924 scrisse The Man Who Mastered Time, in cui una macchina del tempo come quella di Wells portava il protagonista in varie epoche per sfuggire a una dittatura del futuro. Alcuni anni più tardi, nel 1931, appariva un interessante The Time Stream di John Taine, in cui un gruppo di studiosi di una civiltà del futuro si tuffava nel “flusso del tempo” per constatare la distruzione della civiltà e la nascita della barbarie. Nel romanzo, il tempo è circolare e il lontano passato coincide con il lontano futuro. Il romanzo ha una grande forza evocativa, ma evita di approfondire i paradossi.
Con la seconda metà degli Anni Trenta, comincia a delinearsi il tema del paradosso temporale, e il romanzo più significativo dell’epoca è La legione del tempo, di Jack Williamson (1938), in cui l’idea del viaggio nel tempo si unisce a quella dei “presenti alternativi” o degli “universi paralleli” che compariva nel romanzo di Murray Leinster, Bivi nel tempo (1934). In quest’ultimo, un cataclisma che coinvolge vari universi paralleli porta nella nostra realtà alcuni pezzi di Terre dove la storia ha seguito un altro percorso.
Williamson immagina invece che a indirizzare la storia lungo un percorso “alternativo” sia stato un intervento di viaggiatori del tempo provenienti dal futuro. Nel suo romanzo, due civiltà “alternative” del lontano futuro, ciascuna in grado di viaggiare nel tempo, si combattono ai nostri giorni per modificare la storia a proprio favore. Come nel film Ritorno al futuro, gli esponenti di ciascuna “sbiadiscono” e perdono realtà quando l’altra sembra sul punto di vincere.
A questi romanzi si accompagnano, negli anni attornmo al 1940, molti racconti che a volte propongono dei paradossi assai brillanti. Il più noto è quello di Heinlein, Un gran bel futuro (By His Bootstraps, 1941).
Il titolo del racconto è divenuto proverbiale. Significa “sollevarsi da solo, tirandosi su con le stringhe delle scarpe” (o, alla lettera, le cinghie degli stivali), tanto che il programma dei computer che serve per lanciare gli altri programmi si chiama “bootstrap” o “boot”. Però l’espressione non è di Heinlein perché era già in uso nella marina e Heinlein deve averla udita durante il servizio militare.
Nella storia, un giovane del nostro tempo riceve la visita di un viaggiatore del tempo, che lo porta in un lontano futuro. Là viene a sapere che una razza aliena ha invaso la terra e ha trasformato l’umanità in una razza di docili schiavi. Inoltre, prima di scomparire, ha lasciato varie apparecchiature come la macchina del tempo che ha trasportato nel futuro il giovane. In seguito, il viaggiatore si serve di lui come assistente, insegnandogli tutto quello che sa. Quando il viaggiatore scompare, il giovane comprende che il viaggiatore è lui stesso, e il ciclo temporale si chiude. Si è tirato su per le stringhe, ha fatto tutto da solo.
Vari anni più tardi, Heinlein riprese l’idea del “paradosso temporale chiuso” nel racconto Tutti voi zombie (1959), in cui l’autosufficienza del protagonista sale ancora di un grado. Il titolo si collega a una osservazione che s’incontra nelle storie sui viaggi nel tempo: “Se tornassi indietro nel tempo e uccidessi il padre del mio nemico” (o di Hitler, o di Napoleone ecc.) “lui non esisterebbe più”. Per ora è vivo, ma è una sorta di zombie, perché andando indietro nel tempo e uccidendo suo padre, non lo sarebbe più. Una variante è: “E se invece andassi indietro nel tempo e uccidessi mio padre?”, e la fantascienza ha risposto in vari modi: non riesce a uccidere suo padre perché ogni volta c’è qualcosa che glielo impedisce, o perché non è il vero padre, o perché l’azione crea un altro filone temporale o alla maniera di Fredric Brown: lui rimane, ma scompare tutto il resto dell’universo.
Heinlein si ferma alla formulazione originale, in cui ciascuna persona rischia di non esistere perché qualche viaggiatore del tempo, cambiando leggermente la realtà, può annullare le premesse che hanno portato alla sua nascita. Nella storia, una donna orfana dei genitori, che, senza saperlo, è una transessuale, viene sedotta e abbandonata e dà alla luce una figlia. La figlia scompare e lei in seguito cambia sesso. Divenuta uomo, si reca indietro nel tempo e seduce la protagonista (ossia se stessa quando era ancora donna). Naturalmente, con la macchina del tempo rapisce poi la bambina e la porta indietro nel tempo. In questo modo padre, madre e figlia sono una sola persona, a età diverse, e nessuno potrà mai alterare il passato, prima della nascita, e annullare la sua esistenza. (Potrebbe però alterare il futuro, dopo la sua nascita. Il racconto è brillante, come tutti i racconti di Heinlein, al punto da far scordare il filo logico.)
Il romanzo di Williamson dà inizio al filone principale di storie sui viaggi nel tempo, quello in cui la storia deve rimanere com’è e una opportuna polizia del tempo provvede a eliminare chi vorrebbe cambiarla. Tra i più noti romanzi di questo filone si possono ricordare La fine dell’Eternità di Isaac Asimov (1955) e la serie dei Guardiani del tempo (“Everard Cronodetective”, 1959) di Poul Anderson. Nel primo, una sorta di dittatura del tempo, chiamata “Eternità”, controlla gran pare dell’arco dei millenni, per quasi centomila anni. Le sue macchine del tempo però non riescono a superare quella data. Come scopre il protagonista, il blocco è stato messo da una civiltà del lontano futuro, che accusa l’Eternità di avere praticato uan politica isolazionista che ha impedito all’umanità di espandersi sulle stelle. Ora, gli uomini del lontano futuro intendono opporsi al sorgere dell’Eternità. Distruggendola, distruggeranno anche il loro filone temporale, ma l’umanità avrà l’occasione di spargersi in tutta la galassia.
I racconti di Anderson presentano un agente dei guardiani del tempo, Everard, il quale viene ogni volta mandato nel passato per impedire che qualcuno cambi la storia. Come nelle storie di spionaggio, i colpevoli sono altri agenti che hanno tradito, ma l’ambientazione è convincente e le storie sono ben raccontate. “Time opera” – space opera ambientata lungo il tempo – certo, ma di ottimo livello.
A volte si ha l’impressione che la tematica del viaggio nel tempo non sia stata ancora bene approfondita dalla fantascienza e che gli autori si siano limitati a una produzione brillante ma superficiale, trattando il tempo come se fosse lo spazio e disinteressandosi degli spunti maggiormente letterari, come per esempio l’incontro del protagonista con una propria copia più vecchia o più giovane: un romanzo di questo genere potrebbe forse evitare tutti i manierismi che rendono insopportabile a molte persone il solito romanzo d’introspezione.
Forse però la situazione non è proprio quella descritta da Ballard nel suo famoso articolo sullo “spazio interno” (1962), quando accusava gli scrittori di avere ridotto il tempo a niente di più che “una gloriosa ferrovia scenografica”, perché ci sono vari esempi di storie temporali che vanno al di là della trovata brillante, per esempio Il mondo che Jones creò, di Philip Dick, o La freccia del tempo di Martin Amis o Indietro nel tempo di Jack Finney.
Un primo tentativo di uscire dalla tradizionale storia di viaggi nel tempo è questo Il grande tempo di Leiber, che nel viaggio nel tempo e i conflitti tra chi vuole cambiare la storia e chi vuole mantenerla immutata vede il tentativo di costruire progressivamente una molteplicità di universi paralleli: quello che in seguito e sulla scia dei romanzi di Moorcock è oggi chiamato il “Multiverso”. I vari flussi temporali, compresi quelli annullati, sopravvivono sempre: ne sono testimoni i protagonisti, i quali vengono sia dal nostro flusso temporale sia da altri.
Leiber, però, non si limita a questo concetto, e sarebbe difficile ridurre a un solo spunto, anche se “universale”, il suo romanzo. Anzi, la ricchezza dei riferimenti fa pensare che il romanzo sia soprattutto un omaggio a Shakespeare.
Leiber è cresciuto tra esperienze teatrali, e dietro i suoi personaggi c’è sempre qualche riferimento alle scene. Il Grande tempo, a parte le riflessioni della protagonista (che potrebbero essere dei fuori scena: Greta Forzane si volta verso il pubblico e gli rivolge un monologo, mentre gli altri attori fanno finta di non sentire) sembra scritto per essere messo in scena. Anche i personaggi sono quelli del teatro: una soubrette brillante e pratica (Greta), due amorosi (il Ragazzo e la Ragazza Nuovi), un pedante, un rivale dell’amoroso, una sorta di “madre nobile” e varie comparse (la cretese, il romano, gli extraterrestri). E ciascuno ha una o più scene madri.
Lo stesso dialogo ha l’incisività dei testi per il teatro, ed è intercalato di piccole rivelazioni quasi proverbiali: per dirne solo una, l’opinione con una congiura si può spiegare sempre tutto, compresa l’origine dell’universo. E il testo ne è pieno.
C’è da chiedersi perché Leiber, che è autore di pagine memorabili, che scrive sempre a un alto livello stilistico, che è pieno di osservazioni e di situazioni illuminanti, non abbia mai raggiunto la fama di un Asimov o di un Heinlein, per citare due autori suoi contemporanei. Eppure le sue fantasy sono storie che a ogni successiva rilettura rivelano nuove sfaccettature e nuovi riferimenti interni, i suoi gialli sono perfetti, economici, e restano a lungo nella mente, la sua fantascienza non perde mai riferimento con la realtà, anche le sue recensioni che apparivano sulle riviste americane sono degne di un grande critico.
Forse perché il primo a non desiderarlo era lui. Forse, abituato a vivere a contatto con i testi recitati del padre, grande attore di teatro, pensava di se stesso: “O sei William Shakespeare o non sei nessuno”, e rispetto a quel modello si considerava un dilettante, ma alla maniera dei letterati cinesi classici, che scrivevano poesie perfette, ma solo per gli amici e i colleghi in grado di capirle, e non si curavano dei facili successi presso il pubblico grosso.
Riccardo Valla
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