Profili

Anthony Boucher

dicembre 15th, 2009

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Il curatore Giuseppe Lippi traccia un ricco profilo della vita e delle molteplici attività letterarie ed editoriali di Anthony Boucher. 

1943: chiude la rivista di John W. Campbell “Unknown Worlds”. 1949: Anthony Boucher, che ne era stato un attivo collaboratore, fonda insieme a J. Francis McComas una nuova testata che possa prenderne il posto e pubblicare, almeno in parte, lo stesso genere di materiale sofisticato sia nel campo della narrativa fantastica che della fantascienza; una rivista non più ritagliata nel classico formato pulp e che si rivolga ad un pubblico preparato, capace di recepire la science fiction moderna aperta alle suggestioni del mito. Il nuovo periodico, di formato digest o semi-tascabile, si intitola semplicemente “The Magazine of Fantasy”, anche se a partire dal secondo numero la testata verrà modificata in “The Magazine of Fantasy and Science Fiction”. Nel 2009 questa celebre pubblicazione americana – cui anche “Urania” deve molto, avendo attinto per anni ai suoi forzieri – ha festeggiato i sessant’anni di ininterrotta attività sotto la guida di Gordon Van Gelder. Boucher, il suo fondatore, l’aveva creata tenendo presenti due modelli: uno, come abbiamogià visto, è quello di “Unknown Worlds”, rivista in cui il fantastico non era mai gratuito né orripilante, ma rigoroso e vicino in spirito alla sf; l’altro è rappesentato da una pubblicazione gialla, la “Ellery Queen’s Mystery Magazine” (EQMM) che Frederic Dannay e Manfred B. Lee, i cugini Queen, avevano fondato per l’editore Mercury nel 1941. L’intento dei Queen era stato quello di creare una vetrina per il racconto giallo che non seguisse la moda della pulp fiction, ma permettesse ai migliori scrittori del poliziesco di trovare il proprio mercato anche al di fuori dell’indirizzo hardboiled. E così Rex Stout, Cornell Woolrich, John Dickson Carr e gli stessi Queen avevano potuto contare su uno sbocco nuovo e sofisticato, al quale ben presto si sarebbero accodati anche alcuni scrittori della “scuola dei duri”, in primo luogo Dashiell Hammett.

Poiché Anthony Boucher era sostanzialmente un uomo di due mondi e lavorava sia nel campo del giallo che della science fiction, non meraviglia che la casa editrice della sua rivista sia, nel 1949, Mystery House (poi Fantasy House), una sussidiaria della Mercury Press di Lawrence Spivak che già pubblicava l’”Ellery Queen’s Mystery Magazine”. Nel 1945 era stato lo stesso Frederic Dannay a raccomandare a Spivak il progetto di Tony Boucher e J. Francis McComas, ma prima di poterlo realizzare sarebbero passati quattro anni. Leggi tutto »

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Intervista con Vittorio Catani

dicembre 9th, 2009

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Giuseppe Lippi intervista Vittorio Catani, che torna in questi giorni su “Urania” con il suo ultimo romanzo Il Quinto principio.

Domanda: Vittorio, nei circa 50 anni di frequentazione della fantascienza in veste di autore, tu hai prodotto quasi esclusivamente opere brevi e brevissime. Lo testimonia, fra l’altro, la tua raccolta di racconti L’essenza del futuro edita nel 2007 da Perseo Libri, circa 650 pagine. L’unico tuo romanzo, finora, è stato Gli universi di Moras, che nel 1990 inaugurò la serie dei premi Urania. Come mai ora questo corposo volume, che solo un “Urania” Speciale ha potuto accogliere?

Risposta: È vero, mi sono sempre ritenuto uno scrittore di opere brevi. La mia bibliografia annovera inoltre quattro o cinque titoli intorno al centinaio di pagine ciascuno. Il quinto principio, in verità, è nato quasi per caso. Era la fine degli anni ’90 e Isa, la mia compagna di vita, mi ripeteva con insistenza che racconti ne avevo scritti anche troppi ed era il caso che mi presentassi al pubblico dei lettori con un’opera di maggior respiro. Secondo lei potevo farcela, o almeno tentare. Anche io sentivo il bisogno di esprimermi attraverso un testo più ampio, articolato, d’una maggiore complessità, possibilmente ricco di eventi e situazioni, di umori, e soprattutto che – in accordo con la mia personale visione della fantascienza – ponesse in campo alcuni radicali cambiamenti che stavano avvenendo nel mondo e nella vita di tutti i giorni. Il cyberpunk aveva saputo egregiamente “cantare” la controversa epopea delle nuove telecomunicazioni, era il caso, ora, di romanzare nuovi, spregiudicati portati della globalizzazione e d’una “allegra” gestione della politica, della finanza, dell’economia, dell’ambiente, di nuove tecnologie. Insomma, la vastità della scelta fra questi temi mi appariva davvero allettante.

D.: “Vastità di scelta dei temi?” È un po’ strano sentirlo dire in un momento in cui da molte parti si afferma che la fantascienza “è morta”. E comunque anche se i temi ci sono ancora, secondo i predetti “necrofori” sarebbe anzitutto il genere in sé ad aver fatto il suo tempo. Che ne pensi?

R.: Di questa “morte della fantascienza” io sento parlare fin dagli anni ’70, cioè la fantascienza starebbe morendo da un quarantennio! Se il genere in sé abbia fatto il suo tempo, non so bene: è chiaro che ogni genere narrativo ha un suo, diciamo così, arco di vita fisiologico e alla fine rischia di ripetere se stesso. Ma sotto questo aspetto credo che abbia fatto il suo tempo buona parte di tutto ciò che oggi si pubblica e strapubblica, non solo nella fantascienza. Lo sappiamo, la narrativa è diventata sfacciatamente un’industria in cui sono quasi esclusivamente il numero di copie vendute o l’apparato pubblicitario che premiano. Si lavora non per creare cultura ma per affossarla. In libreria ho provato a leggere il lodatissimo Moccia: ho smesso dopo poche pagine e sono rimasto depresso. De gustibus, ovviamente.
Ma non ho ancora risposto alla domanda sulla “vastità dei temi”.
Confesserò una cosa che ritengo un po’ insolita. Quando cominciai a prendere appunti per quello che poi sarebbe divenuto questo romanzo, era la fine dell’anno 2000, e due dei primissimi temi che mi stimolarono a scrivere furono l’“economia creativa” di Tremonti e l’adiacente “finanza creativa”. Le cartolarizzazioni, il voler “spalmare” i debiti sulle generazioni future (idea peraltro già ironicamente ipotizzata da Sheckley fin dagli anni ’50 nel racconto “Il costo della vita”), la capacità di creare operazioni arzigogolate che parevano risolvere il problema, ma – a guardar bene – sempre a discapito di altri inconsapevoli; il “non detto” dei politici ai cittadini, che diveniva menzogna perché nascondeva una truffa; l’immissione sconsiderata di titoli tossici in qualunque straccio d’operazione bancaria; l’indebitamento di ignari Comuni, nascosto in modo fraudolento da banche elargitrici di prestiti-trappola; le miliardarie parcelle di amministratori insensibili ai loro fallimenti; operatori di Borsa che architettavano diaboliche operazioni danneggiando non migliaia ma miliardi di modesti risparmiatori… Beh, questo non era che un assaggio di ciò che stava venendo fuori. Perché poi si dovrebbe pur dire degli investimenti mafiosi del grosso capitale sotto spoglie legalissime; del ritorno al lavoro schiavizzato; l’aumento vertiginoso del divario ricchi-poveri anche nei cosiddetti Paesi ricchi; lo scempio atroce che la crisi in atto sta compiendo nel Sud del mondo, in un silenzio mediatico quasi assoluto; le nuove ondate di razzismo; la legalizzazione della tortura; il bigottismo fondamentalista; il condizionamento attraverso un’amplificazione abnorme di media nuovi e più pervasivi…
E l’ambiente, e le più recenti tecnologie, le nuove armi e tutto il resto.
La fantascienza è morta? Gente, qui ci sarebbe da scriverne a tonnellate…

D.: La fantascienza quindi per te è quella che prende spunto dal reale per estrapolare sui tempi medio-brevi?

R.: Be’, no, farei un torto anche a me stesso. Ho amato praticamente tutti i filoni della fantascienza: da Jack Williamson a Edmond Hamilton, Van Vogt, Simak, Catherine Moore, Asimov, Dick, la Brackett, Lafferty, Le Guin, Mack Reynolds, Ballard, Moorcock, Malzberg, Ellison, Sheckley, Tenn, Stanislav Lem, Clarke, la Tiptree, Silverberg, via via fino a Sterling, Egan e tantissimi altri. Diciamo che in 50 anni di letture ho dovuto adeguarmi (ma con piacere) ai vari filoni della science fiction: da quella avventurosa a quella hard, dalla social science fiction alla New Wave fino al cyber e successori. Una vitalissima, articolata, rutilante avventura. Tuttavia,  personalmente ho sempre preferito una fantascienza interessata al presente. Forse uno dei motivi per cui la sf sembra in declino, è che – contrariamente a come è sempre stato, che io ricordi – oggi la gente parla solo del presente. Abbiamo perso il futuro, e quando ne accenniamo è in termini foschi. La gente, che ha tantissimi nuovi problemi, preferisce non rattristarsi ulteriormente. D’altronde scrivere una fantascienza ottimista, come alcuni vorrebbero, oggi a me suonerebbe una stonatura, un falso.

D.: Il quinto principio, allora, dovrebbe essere un libro cupo. Triste…

R.: …ma spero non lo sia! Certo nell’insieme il quadro non brilla per allegria, ma mi sono sforzato di metterci dentro un po’ di tutto, anche lampi di ironia o di humour. E anzitutto ho cercato di rendere avventuroso il racconto. Amo molto l’avventura in sé, la considero il Dna della narrativa. Esistono le avventure alla Salgari o alla Edmond Hamilton, ma ci sono anche la Recherche di Proust o l’Ulisse di Joyce, che a loro modo sono sempre avventura: all’interno di se stessi, o all’interno del loro genere in cerca di vie espressive nuove, rivoluzionarie. Nel mio romanzo ho quindi cercato di presentare temi attuali, estrapolandoli in un futuro situato a poco meno di metà secolo e proponendoli, se possibile, in forma di avventura ma – a volte – anche di riflessione. Il mio è un romanzo “corale”, cioè segue le storie di vari personaggi, sebbene vi siano un paio di protagonisti principali, e le storie che si incrociano alla fine confluiscano in un’unica trama, sia pure con diramazioni. Direi che il romanzo, nato per aggregazioni successive,  è soprattutto la costruzione-descrizione di uno scenario a venire.

D.: Il tuo libro affronta temi importanti e si articola in un piano  narrativo complesso. In che modo, secondo te, l’attuale fantascienza italiana può sfuggire alle strettoie dell’imitazione dei modelli stranieri o cinematografici e conquistare un’ampiezza di respiro, un’originalità che sia tutta propria e la tenga al riparo da eventuali riflussi?      

R.: Ai modelli che tu richiami, si potrebbe aggiungere quello dei videogame. Ma stavolta trovo davvero difficile rispondere alla tua domanda. Da un lato, credo che le caratteristiche di un genere non si possano predeterminare a tavolino; dall’altro, un qualcosa occorre pur studiarselo, quindi sarebbe proficuo sperimentare.
Infine, posso portare solo la mia esperienza personale: anche io, come altri in Italia – citerò solo due nomi, Aldani e Curtoni – ho sempre tentato di contribuire a una sf “all’italiana”, che non ne tradisse i canoni di base. Ma ammesso che io sia riuscito nel mio intento, va detto che ogni percorso personale può rivelarsi… troppo personale per essere rappresentativo.
A quanto io ricordi, fui uno dei primissimi autori (anni ’60) a scrivere una fantascienza con protagonisti dal nome italiano. Cosa che altri nostri scrittori e critici – scoprii – dichiaravano addirittura inattuabile. Io vedevo la questione come un modo per obbligarsi a mutare totalmente ambientazione e atmosfera, e architettare storie che fossero plausibili in uno scenario, quello nostrano, decisamente povero di tecnologie e mirabolanti invenzioni. Negli anni ’60 avevo scoperto autori italiani e stranieri (Cesare Pavese, Italo Calvino, Corrado Alvaro, Dino Buzzati, Leonida Repaci, Giovanni Arpino, William Faulkner, William Saroyan, Jack Kerouac, Vladimir Nabokov, Ernest Hemingway, il Drieu La Rochelle di Fuoco fatuo, lo Henry-Pierre Roché di Jules e Jim e tanti altri) che mi avevano affascinato per il loro stile, per le capacità evocative e per tematiche che sentivo molto vicine. Pensai che sarebbe stato molto bello inserire trame fantascientifiche negli scenari realistici, nelle atmosfere e nei sentimenti di questi autori, scenari e atmosfere molto più vicini ai nostri di quelli Usa, usando inoltre un linguaggio che non ricalcasse l’ordinarietà – talora l’estenuante piattezza – che dominava nella narrativa di genere. A posteriori (allora le mie idee non erano così chiare) potrei descrivere così il mio obiettivo: se noi italiani non possedevamo un adeguato immaginario tecnologico – ci mancavano industrie d’avanguardia, ricerca scientifica, laboratori, brevetti, premi Nobel, strutture, mentalità etc. – per poter scrivere una fantascienza all’americana, avevamo però una diversa, inesauribile fonte cui attingere: l’impatto, sulla nostra società e su noi individui, di quelle nuove tecnologie, che ci giungevano dalla riconosciuta Patria della fantascienza moderna.
Era quindi possibile, e credo lo sia tuttora, scrivere una science fiction “umanistica” oltre che, eventualmente, fanta-tecnologica. Si tratterebbe di un semplice adeguamento, delle varie tematiche specifiche, a temi e modalità culturali del Vecchio Mondo. Ciò che d’altronde credo sia avvenuto spontaneamente, in modo fecondo e senza traumi, fin dagli anni ’50, in Francia e poi in Paesi di lingua spagnola. Siamo tuttavia in un momento storico in cui è in atto un vasto rimescolamento dei linguaggi, degli stili, delle tematiche. Mi chiedo anche se e quale senso possa avere, oggi, promuovere una “via italiana alla fantascienza”.

(a cura di G.L.)

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Le avventure del bracchetto spaziale

novembre 24th, 2009

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Pubblichiamo la postfazione di Riccardo Valla a Crociera nell’infinito, il volume di “Urania Collezione” attualmente in edicola. 

1. All’inizio: la Nave di Sua Maestà “Beagle”

Il 27 dicembre 1831, dopo estesi lavori voluti dal nuovo capitano Robert FitzRoy e dopo vari ritardi dovuti all’inclemenza del tempo, il brigantino Beagle (“bracchetto”, nel senso della razza canina) lasciava il porto di Plymouth per la crociera che in sei anni l’avrebbe portato non solo a compiere il giro del mondo, ma anche a divenire una delle più famose navi della marina britannica, alla pari con la Victory di Nelson se non con il Bounty.

Infatti iniziava allora il viaggio in cui Charles Darwin raccolse le osservazioni naturalistiche e le testimonianze fossili che gli avrebbero permesso di enunciare la sua teoria dell’evoluzione delle specie attraverso il meccanismo della selezione naturale.

Non era il primo viaggio della nave, che aveva già in corso da alcuni anni una ricognizione delle coste del Sudamerica per tracciarne le carte geografiche a uso della marina inglese, ma il lavoro si era interrotto e la nave era ritornata a Plymouth perché il capitano Pringle Stokes, sopraffatto dalla solitudine e dalla nostalgia di casa, si era ucciso in un momento di depressione.

Il ventisettenne capitano FitzRoy, che prese il posto di Stokes, aveva già condotto la nave nel viaggio di ritorno e non sembrava soggetto a crisi di depressione – era il figlio illegittimo di un nobile e compensava con la pignoleria e la religiosità l’imbarazzo della nascita irregolare – ma gli organizzatori del viaggio pensarono bene di assegnargli un gentiluomo di compagnia che non gli facessse rimpiangere troppo l’assenza di altri membri della sua classe sociale. La scelta cadde su un naturalista, il ventitreenne Charles Darwin, che oltre ad avere dato buona prova di sé come classificatore, discendeva da una illustre famiglia che vantava già un famoso studioso, Erasmus Darwin, il nonno di Charles.

Il viaggio non fu certo movimentato come quello dell’astronave Space Beagle di questo romanzo di van Vogt – nessun kraken attentò alla solidità del fasciame e nessuna balena bianca cercò di sterminare l’equipaggio per regnare sull’intero universo dei pesciolini – ma non fu privo dei suoi lati bizzarri, soprattutto nei rapporti tra i due gentiluomini e nell’incidente dei “fuegini”.

Per quel che riguarda i rapporti tra i due, FitzRoy non intendeva rinunciare all’onore di ospitare nella propria cabina un gentiluomo come Darwin, appartenente alla miglior nobiltà della scienza, ma il coscienzioso naturalista gli riempiva l’intera cabina di vasi e boccette contenenti i suoi campioni, e il loro disordine era fonte di continui attriti. Quando il capitano protestava, Darwin per ripicca si trasferiva in un’altra cabina e il capitano dopo qualche giorno andava a scusarsi e lo richiamava. Leggi tutto »

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Alfred Elton van Vogt

novembre 18th, 2009

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Un profilo di A.E. van Vogt e della sua fantascienza tracciato dal nostro curatore Giuseppe Lippi. 

Scrittore canadese naturalizzato americano, Alfred Elton van Vogt è nato a Winnipeg nel 1912. Prolifico autore di drammi radiofonici e racconti sentimentali — le true confessions pubblicate prima della guerra sulle riviste popolari — van Vogt si accosta alla fantascienza relativamente tardi (1939), grazie alla rivista “Astounding” diretta John W. Campbell che accetta e pubblica con successo il suo primo racconto, “Black Destroyer”. Si tratta del capitolo iniziale di quella che diventerà una delle serie più acclamate della fantascienza dell’Età d’oro, The Voyage of the “Space Beagle”, nota in Italia con il titolo Crociera nell’infinito. Su “Astounding” van Vogt continuerà a pubblicare per anni; anche Slan, uno dei suoi testi più celebri, appare per la prima volta sulle pagine della famosa rivista (dal settembre 1940, in quattro puntate). Nel 1946 il romanzo viene raccolto in volume dalla Arkham House, ma nel 1951 Simon & Schuster pubblica l’edizione riveduta dall’autore, la stessa che oggi si usa per le traduzioni del romanzo (e che “Urania” ha seguito fin dal 1953, anno della prima edizione italiana).

Buona parte dei romanzi e racconti di van Vogt appartiene all’“Età d’oro” della fantascienza americana: Slan, The Voyage of the “Space Beagle” (Crociera nell’infinito, 1939-1943 su “Astounding”; 1950 in volume), Le armi di Isher (The Weapon Shops of Isher, 1941-43 “Astounding”; 1951), Il libro di Ptath (Ptath, 1943 “Unknown Worlds”; 1947), Non-Ā (The World of Ā, 1945-49 “Astounding”; 1948 e 1956). La guerra contro i Rull (The War Against the Rull, 1959) deriva da un gruppo di racconti pubblicati su “Astounding” fra il 1942 e il 1949, mentre il ciclo dell’Impero dell’atomo (Empire of the Atom e The Wizard of Linn, raccolti in volume rispettivamente nel 1956 e 1962) aveva visto la luce come una serie di episodi separati fra il 1946-47 e il 1950. Dopo aver tentato di propagandare, in Non-A, le virtù della “semantica generale” di Korzybski (autore del curioso saggio Science and Sanity, 1953), nella seconda metà degli anni Cinquanta van Vogt si è fatto paladino delle non meno dubbie virtù della dianetica sostenute da L. Ron Hubbard, fondatore della “scientologia” (dottrina che si propone di ottimizzare il nostro apparato psichico).

Affascinato dalle potenzialità della mente, van Vogt sfrutta il tema delle facoltà intellettuali secondo uno schema ricorrente: un personaggio situato in un futuro più  meno lontano sembra aver perso la sua identità, oppure, come in Slan, ogni traccia del ceppo cui appartiene; ma si trova catapultato in una situazione di crisi la cui soluzione è legata alla scoperta di facoltà eccezionali (telepatia, controllo assoluto sulla materia, addirittura l’immortalità). Preoccupato dalla dilagante “follia” dell’umanità, sia su un piano storico che su quello psichico e organico, per uscire dalla crisi del presente van Vogt non conosce alternativa che non passi attraverso una trasformazione della razza umana, la quale smetterà di essere tale e diventerà una specie nuova, l’homo superior teorizzato da tanta fantascienza. Solo raggiungendo questa meta “trascendente” si potranno liberare le forze vitali compresse da un’organizzazione sociale troppo primitiva: da qui le figure di imperatori, guerrieri e superuomini che incarnano i suoi desideri di indipendenza e di grandezza.

Questo eclettico romanziere ha conosciuto un ritorno di fiamma a partire dagli anni Sessanta, e sebbene i romanzi di tale periodo (The Beast o Moonbeast, 1963: La città immortale; The Silkie, 1969: Il segreto dell’ultrauomo; Children of Tomorrow, 1970: Figli del domani; Darkness on Diamondia, 1972: Diamondia, ecc.) non abbiano sempre trovato d’accordo gli appassionati, con l’eccezione di The Battle of Forever del 1971 (Battaglia per l’eternità), hanno tuttavia alimentato i dibattiti intorno alla tecnica di uno scrittore che in passato era stato oggetto di feroci attacchi da parte della critica radicale. In “Cosmic Jerrybuilder”, uno dei saggi raccolti nel volume In Search of Wonder, Damon Knight ne aveva dimostrato, fra l’altro, le contraddizioni logiche, condannando proprio quell’andamento onirico che tanto aveva affascinato il pubblico francese, da cui van Vogt è stato ritenuto per anni il massimo autore di science fiction (come da noi Asimov).

Dopo una prolifica carriera e molti riconoscimenti, van Vogt ha scritto un’autobiografia-pamphlet (Reflections, 1975) e qualche anno più tardi ha ravvisato nel film di Ridley Scott Alien (1979) un plagio del suo “Space Beagle”. Inutilmente ha intentato causa alla produzione del film: la corte avrebbe dato ragione a quest’ultima. Ritenuto uno dei tre grandi della sf tecnologica (insieme ad Asimov ed Heinlein), van Vogt è rimasto a lungo un mito per migliaia di lettori. E’ scomparso a Los Angeles nel gennaio 2000.

Crociera nell’infinito è il capolavoro di un certo tipo di avventura spaziale dove quel che conta non è tanto l’avventura fine a sé quanto le immagini e i misteri che, più o meno ingegnosamente, si nascondono nella trama: una sorta di sense of weird, oltre che sense of wonder, dove la meraviglia va a braccetto col terrore. Proprio quello che non succede nei film ad esso ispirati, a partire dal primo Alien, dove il terrore c’è ma è troppo viscerale per lasciare spazio all’elemento speculativo e il meraviglioso è di qualità inferiore. Ma il libro di van Vogt è anche, alla lontana, l’ispiratore di un importante movimento dei nostri giorni: il cosiddetto Connettivismo italiano, la risposta al cyberpunk di autori come Giovanni De Matteo, Francesco Verso, Sandro Battisti e numerosi loro colleghi. Le somiglianze, tuttavia, si fermano qui: a un concept universale – i mostri che si annidano nello spazio – e una disciplina super-scientifica che, nella visuione vanvogtiana, serviva a unificare tutte le conoscenze (un po’ come avrebbe voluto fare, ai suoi tempi, Giordano Bruno). In Crociera nell’infinito ogni episodio, ogni avventura contro i diabolici abitatori dello spazio sconosciuto è anche una partita a scacchi giocata con l’aiuto della scienza e dell’immaginazione e vissuta da un’astronave, la “Beagle”, e un equipaggio (Elliott Grosvenor e compagni) che si battono sfruttando una disciplina cognitiva d’avanguardia quale è il connettivismo. E sarà proprio il connettivismo – unione metalogica di tutte le scienze e tutti i saperi – a dare una possibilità di scampo ai terrestri dopo una serie di scontri durissimi contro il mostruoso felino Coeurl, gli agghiaccianti e alati Riim, il terribile Ixtl e l’immenso, insondabile Anabis che neppure vive su un pianeta, ma, simile a un Moby Dick celeste, permea della sua essenza distruttrice il cosmo stesso. 

Giuseppe Lippi

[La bibliografia italiana di A.E. van Vogt è reperibile sul Catalogo SF, Fantasy e Horror a cura di Ernesto Vegetti.]

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Intervista con Francesco Verso

novembre 10th, 2009

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Una franca conversazione del nostro curatore Giuseppe Lippi con uno scrittore deciso a farsi strada in fretta.

Domanda: L’anno scorso hai pubblicato il tuo primo romanzo, quest’anno, con il secondo, vinci il premio Urania. Ti ritieni uno scrittore particolarmente fortunato?

Risposta: Se da una parte la fortuna non guasta, dall’altra è pur vero che il mio primo romanzo Antidoti umani è arrivato finalista al Premio Urania 2004 a dimostrazione del fatto che la fortuna, da sola, non basta. Ero lì a contendere il premio anche quattro anni fa. Tuttavia non ho scritto molto, considerato che fino all’anno scorso lavoravo per una multinazionale nel settore dell’information technology. Piuttosto mi sono dedicato a fondo a due opere d’esordio la cui stesura mi ha impegnato per tre anni ognuna. Con E-Doll sentivo di avere tra le mani un ottimo romanzo. Prova ne è stata il fatto che non ho mandato il manoscritto a nessun agente letterario o casa editrice, né che l’ha ancora letto nessuno, a parte qualche amico intimo e la giuria del premio. Per cui la telefonata di fine luglio con cui tu e Sergio Altieri mi avete comunicato la vittoria, è stata il miglior riconoscimento che mi sarei mai potuto aspettare.

D.: Raccontaci un po’ di te: dove e quando sei nato, cosa fai nella vita e quali sono i tuoi principali interessi.

R.: Sono nato a Bologna nel 1973 ma vivo da sempre a Roma. Il mio percorso non è stato diretto, non ho avuto folgorazioni giovanili a illuminarmi la via. Al contrario fino al 2004 ho sempre nutrito dei fortissimi dubbi sul mio futuro, su che cosa avrei dovuto fare “da grande”. Forse la lettera, che ancora conservo, della redazione di “Urania” con cui mi viene comunicato di non aver vinto ma di essere arrivato in finale, ha fatto pendere la bilancia verso un destino che ora appare ineluttabilmente tracciato. Da allora, quello è stato il segnale che non avrei dovuto smettere di scrivere e che avrei dovuto insistere e credere fino in fondo nelle mie potenzialità. Poi è successo quello che doveva succedere. Almeno per me.
Da un anno ho lasciato il mio lavoro precedente, ho seguito un Master in editoria e ho ricominciato la gavetta con uno stage di tre mesi in una piccola casa editrice. Ora la mia vita ruota tutta attorno ai libri, a quelli letti e a quelli scritti, a quelli immaginati e a quelli editati. Sembra un sogno ma in effetti è quello che è capitato.

D.: La scelta del genere neo-noir è stata casuale o dettata da una tua predilezione?

R.: E-doll è nato in un giorno d’estate, in una casa in riva al mare. L’idea di uno scambio tra un essere freddo e transumano e una ragazzina volitiva e affamata di vita mi pareva interessante. Condita con presunti assassinii e misteriose affiliazioni, la trama mi ha convinto sin da subito che potesse funzionare bene.
Alla luce di cio’ l’appartenenza a un genere letterario non mi ha mai davvero preoccupato. Se la storia “gira”, se i personaggi e la scrittura “tengono”, ogni etichetta perde di significato di fronte alla capacità di un romanzo di stare in piedi da solo, senza ulteriori appigli. Certo è che amo la suspense e le rivelazioni, non soltanto quelle legate all’azione ma soprattutto quelle funzionali alla psicologia dei personaggi e allo svolgersi della trama. Il noir e la fantascienza vengono spesso tacciati di essere dei generi di serie B, dei semplici generatori di intrattenimento ma quando sono ben scritti, sono in grado di gettare una luce obliqua e quanto mai interessante sulle tante scomode verità che per l’appunto si preferiscono tenere celate nell’ombra. Su tutti, mi sento di citare coloro che sono stati per me degli illustri maestri: Edgar Allan Poe, Frank Herbert e Neal Stephenson.

D.: Ti interessi di cibernetica? Chi sono i robot, nella tua visione?

R.: Direi che m’interesso di umanità e di tutte le definizioni di “uomo” che sono state date durante il corso della storia. Il test di Turing ha rotto un tabù secolare sull’argomento e ha riacceso il dibattito sulla natura o l’artificiosità della nostra essenza più intima. Per questo mi è piaciuto fornire una mia interpretazione dei fatti, agitare le acque, far riflettere su che cosa significhi appartenere al genere umano e su quali siano i suoi limiti attuali. Dico attuali perché la questione della natura umana negli ultimi tempi si è arricchita di contributi essenziali, derivanti dallo sviluppo di discipline quali l’ingegneria genetica, la robotica e la nanotecnologia. Senza contare l’importanza di un concetto come la Singolarità che promette di rimescolare tutte le carte in tavola.
Staremo a vedere… Da scrittore questi sono argomenti assolutamente fecondi, capaci cioè di generare drammi, complicazioni e tutti quei conflitti che tengono incollati alle pagine o allo schermo. I robot per me sono assimilabili a un’altra forma di prole, i quali vengono al mondo in modo diverso rispetto agli esseri umani ma che sono tuttavia soggetti alle stesse regole della crescita di ciascuno di noi. Dato un certo livello di apprendimento, anche loro sono in grado fare tanto bene o male quanto i loro corrispettivi basati sulla chimica del carbonio. Ogni essere senziente deve la propria crescita in parte ai dati di partenza, in parte all’imitazione di comportamenti altrui, in parte alla sua specifica conformazione, data dall’unicità della posizione assunta nell’universo.

D.: Qual è il tuo filone preferito, a parte quello cibernetico?

R.: Non ho un genere preferito. Ammiro qualunque scrittore capace di ricreare il “sense of wonder” tanto caro alla fantascienza ma che prima di lei si poteva già trovare negli scritti di autori decadenti come Oscar Wilde e Baudelaire, dei romantici De Quincey e del monumentale Goethe, della tradizione classica e mitologica che affonda le sue radici in Omero e Cervantes, in Ariosto e Stevenson. L’apertura verso gli orizzonti del fantastico, verso i più fervidi confini dell’immaginazione hanno sempre guidato le mie letture, da quelle giovanili sino a quelle in età più adulta: dai viaggi “speziati” di Frank Herbert ai viaggi psichedelici di Philip Dick, passando per le identità doppie o sfuggenti di Jekyll e Hyde, Mattia Pascal, Rick Deckard e Takeshi Kovacs e approdare alle commistioni uomo-macchina di Pat Cadigan e J.G. Ballard, o alle inquietanti suggestioni di K.W. Jeter e William Burroughs.  

D.: Quale credi che sia, oggi, il potenziale maggiore della fantascienza?

R.: Indubbiamente l’abilità di scorgere i “contorni” del futuro. Dal Big Brother di Orwell, al “cyberspace” di Gibson e il “nexialism” di Van Vogt, gli scrittori di fantascienza sono soliti interrogarsi sui limiti dell’umanità, tracciano traiettorie ardite, connettono ciò che in apparenza non ha legami per suscitare dubbi, provocare reazioni, indurre riflessioni. Ogni scrittore, a mio avviso, deve possedere questa capacità di “tagliare” e “ricomporre” la realtà, cosi come ogni artista deve plasmare la propria materia per trasmettere un significato latente, ma le armi ad uso degli scrittori di fantascienza sono particolarmente affilate e malleabili da questo punto di vista. Ucronie, distopie, viaggi nello spazio-tempo, epopee della fantasia e macchinazioni globali, sono mezzi potentissimi che nelle mani di abili pensatori diventano storie immortali. Per questo romanzi del calibro di Accelerando di Charles Stross o Le possibilità di un’isola di Michel Houellebecq non possono essere ridotti a semplici strumenti di intrattenimento, come vorrebbe una certa visione che ancora oggi pervade l’atteggiamento nei confronti della sf nel nostro paese.

D.: Quali sono i tuoi progetti futuri?

R.: I progetti per ora sono orientati verso la stesura di Livido, il mio terzo romanzo che conto di chiudere entro dicembre di quest’anno e la proficua collaborazione, in veste di redattore editoriale, con la rivista di cultura connettivista “NeXT” diretta da Sandro Battisti. Ma in cantiere ci sono anche progetti più ambiziosi: insieme a Sandro Battisti, infatti, nei prossimi mesi vareremo una nuova collana di fantascienza e fantastico all’interno di una piccola benché nota casa editrice del settore, la Kipple di Luca Kremo Baroncinij, il quale è convito quanto noi che questi generi possano rivivere una seconda primavera grazie ai fermenti letterari e filosofici provenienti dal transumanesimo e postumanesimo. Anche le congiunzioni spazio-temporali, come per esempio la vittoria del premio Urania 2008, ci sembrano adatte per compiere questo balzo nell’agone dell’editoria, forti di una passione e di un entusiamo per la letteratura fantastica e neo-noir che definirei “sconfinati”. Per gli aggiornamenti su tutto questo e altro ancora, vi invito a visitare il mio sito web all’indirizzo: www.francescoverso.com e www.kipple.it.                    

(a cura di G.L.)

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Jeff Somers

ottobre 15th, 2009

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L’autore della Chiesa elettrica è un giovane talento che si è cimentato in parecchi campi, inclusa la fantasy del tipo più classico. Ecco ai lettori di “Urania” il profilo tracciato da Giuseppe Lippi.

The Electric Church (2007) è un romanzo abbastanza singolare. Parte come la storia di un culto del futuro e si trasforma in una caccia all’americana di quelle che tante volte abbiamo letto nei classici hardboiled: una manhunt dove il cacciatore non è persona che incontreremmo volentieri tutti i giorni, ma che sicuramente potrebbe raccontarci qualche storia mozzafiato. Jeff Somers, un romanziere della parte più antica e civilizzata degli USA, la costa orientale, adotta modelli e forme presi a prestito dal cinema e costruisce una trilogia che esplora i meandri di un mondo di domani movimentato e inquietante. La premessa, all’insegna dei migliori sentimenti della razza umana, è che chi ha scoperto la tecnologia dell’immortalità rappresenti un pericolo troppo grande per poter continuare a vivere. In effetti, l’immortalità di cui si vanta la Chiesa elettrica nella persona del suo fondatore, il giustamente battezzato Dennis Squalor, non riguarda l’anima ma il corpo. Bisogna prendere il cervello, inserirlo in una specie di corazza, collegarlo agli opportuni relé e farlo vivere in eterno. La cosa non piace a molti, che detestano cordialmente Squalor e i suoi seguaci (personaggi negativi); ed ecco entrare in scena, per dirimere una sublime questione d’invidia, Avery Cates (il personaggio positivo). Ma Cates è un killer…

Molti narratori d’oggi, americani e non, amano capovolgere i termini del classico racconto d’azione. Ai tempi del western puro gli sceriffi erano i buoni e i pistoleros i cattivi. I pistoleros perdevano e morivano sempre, amen (che in greco vuol dire: la verità). Contemporaneamente, in fantascienza, i terrestri erano i buoni e gli “altri” prestavano la faccia ai manigoldi (o le antenne, le ventose, i tentacoli…). Poi vennero Arsène Lupin, Dashiell Hammett, Ursula K. Le Guin e i manga, e le tinte cominciarono a sfumare. Oggi il killer rappresenta il buono, il desperado è il personaggio da emulare; l’outlaw – e in fantascienza l’hacker – sembra il modello più desiderabile in quanto fuori dagli schemi. Abbiamo chiuso il cerchio e siamo tornati lì dove tutto era cominciato, al ribelle romantico.

La serie di Jeff Somers, che pubblicheremo integralmente, consta di altri due titoli: The Digital Plague (2009) e The Eternal Prison (2009). Da giovane, il suo autore ha scritto anche un romanzo alla Tolkien, mentre attualmente si divide tra fantascienza e thriller polizieschi. Abita in una città del New Jersey, Hoboken, che è proprio di fronte a Manhattan, ma dove la vita costa meno. Qualcuno la trova poco smart, elegante, ma Jeff Somers ci si è confortevolmente sistemato.

Ne parla all’indirizzo http://jeffreysomers.com/blather/ mentre il sito dedicato a The Electric Church è http://the-electric-church.com/

G.L.

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Il futuro che è già cominciato

ottobre 14th, 2009

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Giuseppe Lippi ci accompagna nella conoscenza di Walter S. Tevis e dell’Urania Collezione che arriva in edicola in questi giorni: Futuro in trance.

Walter S. Tevis – un professore di università dell’Ohio, come il Bentley di questo romanzo – è noto ai lettori di fantascienza per un paio di opere, non di più: L’uomo che cadde sulla Terra (1963), il romanzo portato sullo schermo da Nicolas Roeg, e A pochi passi dal sole, un romanzo del 1983. In mezzo sta questo Mockingbird (1980) che in Italia è apparso anche con il titolo Solo il mimo canta al limitare del bosco. Tuttavia ha pubblicato diversi racconti brevi – facendo il suo esordio nel genere su “Galaxy”, nel 1957 – e una raccolta che li traduce in italiano è Lontano da casa, in “Urania” n. 1162. Gli appassionati di cinema lo ricordano per aver fornito il soggetto de Lo spaccone di Robert Rossen (1961), l’amaro film interpretato da Paul Newman e George C. Scott tratto dal suo romanzo.

L’uomo che cadde sulla Terra si era già segnalato per l’ambiguo e affascinante tratteggio del protagonista, un extraterrestre potentissimo ma “fragile”; l’uscita nel 1980 di Mockingbird, il romanzo che qui si presenta, conferma in Tevis un ottimo narratore, uno dei più sensibili su cui possa contare la fantascienza americana. Il libro, diciamolo subito, ci sembra felicemente estraneo agli abituali canoni fantascientifici e s’inserisce nel panorama con un’autorità tutta propria, perfino un po’ anomala. È un’utopia dalla non comune forza visionaria; è forse uno dei pochi romanzi “psicologici” (vedremo che il termine ha un senso più ampio) che valga la pena di leggere ancora e che la fantascienza abbia prodotto.

Mockingbird  è costruito su uno sfondo da utopia negativa, ma la sua natura è piuttosto quella dello psicodramma. Siamo di tre o quattro secoli nel futuro, dopo la prevedibile Morte del Petrolio, dopo l’Incidente di Denver e altre complicazioni; ma tutto questo è brusio sullo sfondo e viene a galla lentamente, attraverso i dialoghi dei personaggi e le loro considerazioni. I personaggi principali sono tre: Spofforth, il robot Serie Nove, Bentley (il professore dell’Ohio) e una ragazza strana ed enigmatica di nome Mary Lou.

Mary Lou dorme al giardino zoologico, davanti alla gabbia di un serpente (che non è un serpente, ma solo un’imitazione meccanica). Si sottrae alle pillole condizionanti da cui dipende la pace nervosa dell’umanità, non lavora: ruba i sandwich dalla macchina distributrice approfittando che il robot-fornitore è troppo stupido per accorgersene. È inquieta ed è simile a un risvegliato in un paese di sonnambuli.

Bentley per qualche verso le assomiglia: è un uomo che sa leggere (nessuno sa leggere in questo mondo, nemmeno i robot più perfezionati; alle università si insegnano tecniche di “rilassamento” e “sviluppo interiore”, non letteratura o scienza); è un sentimentale, uno che scopre – attraverso l’esperienza della lettura, del cinema muto e poi della prigione – di desiderare l’amore e la comunicazione come opposto all’isolamento dei sogni autistici. (La professione di Bentley consiste nell’insegnare ai giovani l’arte di produrre e controllare certe visioni psichedeliche, e la cosa è interessante se si tien conto che in seguito svilupperà un amore profondo per la letteratura e per tutto ciò che è conoscenza. La conoscenza, in altre parole, deve sempre metterci in rapporto con il mondo, non spingerci a rifuggire da esso. Dopo aver imparato a leggere, Bentley balza a una nuova coscienza di sé e del prossimo, e Tevis pone il problema sia in termini di comunicazione che in termini di salute morale).

Il terzo personaggio è Spofforth, il robot Serie Nove, il demiurgo di questo mondo in decadenza (non giureremmo che sia l’unico, ma certo è uno dei pochi androidi “di colore” della fantascienza). Spofforth è immortale, è quasi onnisciente: pure, una delle prime cose che ha imparato a desiderare è la morte. Non è uno di quegli irritanti robopatetici che a tutti i costi vogliono sangue invece che olio, nelle vene: lui probabilmente il sangue ce l’ha, è stato clonato da tessuto vivente. È l’incarnazione, plausibile e convincente, del desiderio di morte non solo individuale, ma di un’intera specie. Forse i robot sono la personificazione di quelle che gli psicologi chiamano “proiezioni”: su Spofforth il genere umano ha “proiettato” il suo disamore per se stesso, costruendosi un feticcio da venerare e odiare.

Il mondo in cui vivono Bentley, Mary Lou e Spofforth è un mondo senza storia. “Da bambino” scrive a un certo punto Bentley “mi hanno insegnato che prima della Seconda Era tutte le cose erano violente e distruttive perché nessuno rispettava i diritti umani, ma niente di più specifico. Non abbiamo mai sviluppato un vero e proprio senso della storia; tutto quel che sapevamo, sempre che ci soffermassimo a riflettere, era che prima di noi c’erano stati gli altri e che noi eravamo migliori di loro. Ma nessuno veniva mai incoraggiato a pensare al mondo esterno.”

“Non fare domande: rilassati”: è questo il comandamento del mondo senza storia. Tevis potrebbe fare sue le dichiarazioni del regista inglese John Boorman, rese parecchi anni fa: “In America c’è l’inquietante tendenza a non tener conto della storia, nemmeno la più recente. L’americano medio non si pone domande sulla scatoletta che ha appena comprato al supermercato, e io trovo che sia pericoloso esser tagliati fuori dalle fonti di ciò che usiamo e consumiamo. È sano interrogarsi sull’origine delle cose”. Ma per interrogarsi bisogna fare una scelta e accettare delle responsabilità.

“Non fare domande: rilassati” diventa il suggerimento che permette di evitarle. Molto di più: diventa la parola d’ordine di un vero e proprio condizionamento. Ora, la fantascienza ci ha abituati in varia misura alle società totali e condizionanti: ma questa di Tevis s’impone perché è essa stessa un’immagine della psiche, e il suo prodotto è un essere umano trasformato.

Pochi romanzi sono altrettanto visionari nell’immaginare una razza che, rinunciando a ogni funzione vitale, si è murata nel proprio egocentrismo e si è votata così all’estinzione. Trionfa il mito della self-reliance, l’autosufficienza, che sconfina in ottuso egoismo da una parte e in schiavitù dall’altra. L’umanità dei giorni di Bentley, infatti, è schiava. E non solo dei robot e delle pratiche di self-fulfilment, ma di se stessa.

Quello che colpisce in questo bel romanzo, man mano che si procede, è che il “caso clinico” di cui è vittima la razza potrebbe corrispondere benissimo a quello di un sol paziente: ne emerge il ritratto di una nevrosi che è reale sia sul piano collettivo sia su quello individuale. Affidatasi all’inorganico (macchine, droghe sintetiche) la razza può proteggere la sua parvenza di vita solo a prezzo dell’ignoranza: e infatti insegnare a leggere è vietato, parlare agli altri per più di qualche minuto è vietato, convivere è vietato. Questo rifiuto della realtà è un rifiuto della responsabilità, ed è l’equivalente dell’autoinganno a cui si sottopone il nevrotico per proteggere la sua particolare costruzione difensiva.

Gli autoinganni immaginati da Tevis a livello sociale sono numerosi: il principale obiettivo da raggiungere è la inwardness, o “crescita verso l’interiorità”; questo mito maschera in realtà la paura di comunicare, e infatti i contatti umani sono ridotti a zero (il più stretto, prevedibilmente, è il “sesso veloce” che si fa in condizioni di stupore). Per raggiungere questo affinamento dell’introversione, che è una parodia dello sviluppo interiore autentico, è necessaria la solitudine: ma nel mondo di Bentley le cose non vengono mai chiamate col loro nome, sicché il comandamento di star soli viene mascherato dietro il mito della privacy. Abolita la famiglia, i pochissimi bambini sono allevati in appositi dormitori dove vien loro insegnato a “stare insieme per ignorarsi”. È un esercizio fondamentale, nelle scuole di questo mondo: si riempie una stanza di ragazzini e li si condiziona a dimenticare l’esistenza degli altri. È un’esperienza importante, che da adulti sfocerà nel fenomeno del privacy withdrawal (il ritiro nella privacy, manifestazione automatica di difesa che scatta se un altro individuo ci parla per più di un minuto o se ci rivolge una specifica domanda, fatto imbarazzante oltre che sempre perseguibile).

D’altra parte, la facciata dietro cui cova questa morte dello spirito va salvata: ecco dunque l’altro comandamento, quello della mandatory politeness, la cortesia obbligatoria, a ricordare – se ce ne fosse bisogno – che la vita psichica del singolo e della comunità è regolata da una serie di dettami coattivi. Come in molte nevrosi, la cortesia obbligatoria ha lo scopo di porre i rapporti su un piano idealizzato e rispecchia la fondamentale scissione del soggetto.

Una celebre psicanalista americana, Karen Horney, ha paragonato la nevrosi a un patto col diavolo: è una maniera mitica per visualizzare il problema, e ci pare particolarmente adatta su un terreno – come quello della fantascienza – che fa ricorso volentieri a termini mitici. Ma chi è il “diavolo” della situazione? Forse Spofforth, il super-automa? Crediamo proprio di no: il diavolo resta il diavolo, e Spofforth è al massimo la conseguenza dei suoi servigi, che portano al disamore e quindi all’estinzione. Ma i termini del paragone reggono: stipulato il patto per liberarsi della responsabilità, la razza umana deve rinunciare al senso della realtà e alle sue stesse funzioni vitali.

Perché non nascono più bambini, nel mondo di Bentley e Mary Lou? Perché nessuno osa reggere lo sguardo degli altri? Perché lo “sviluppo interiore” culmina, per molti, nell’orrenda pratica di darsi fuoco vivi?

Il libro di Tevis, tuttavia, non è un sermone: e non vorremmo averne dato qui l’impressione, anticipando alcuni motivi e alcuni argomenti con troppa enfasi. È un romanzo costruito con scioltezza, dalla scrittura elegante e mossa, che tocca momenti intensamente lirici. È un romanzo che affronta con levità uno dei veri motivi di declino della nostra civiltà, e riesce a trarne un quadro agile e realistico. Il motivo in questione è il “ritiro”, il ritiro della mente in una para-realtà e in una rete di para-comunicazioni che sono menzognere, che defraudano in umanità la specie.

Tutto è cominciato con l’automobile, osserva ironicamente Tevis, che in essa vede una monade impenetrabile. Poi è venuta la televisione, e infine le droghe: oggi si potrebbero aggiungere i personal computer, ma il discorso non cambia. Il processo di alienazione consiste nel distacco dal mondo e dal vero sé.

Tuttavia, persino nella nevrosi esiste un dualismo che può portare il paziente a emergerne e a guarire: l’attaccamento alla propria identità e l’amore sono le armi più efficaci. Bentley, umanisticamente, è “l’uomo risanato” per via intellettuale oltre che emotiva, e alla fine del romanzo osserva nel suo diario:

Ripensandoci, ora, capisco che non ho più paura di Spofforth, né della prigione, né di alcun impedimento, e nemmeno di profanare la privacy di chicchessia. E ora, mentre procedo sulle antiche autostrade verdi cosparse di buche, con l’oceano alla destra e i campi vuoti alla sinistra, sotto il luminoso sole primaverile, mi sento libero e forte. Se non avessi letto dei libri, non potrei sentirmi così. Qualsiasi cosa mi succeda, grazie a Dio, so leggere, e ho veramente preso contatto con la mente di altre persone. Vorrei tanto poter scrivere queste parole, invece di dettarle. Perché scrivendo, oltre che leggendo, ho trovato il senso del mio nuovo io.

E poco più avanti:

Avere la mia Privacy e la mia Auto-sufficienza e la mia Libertà: cosa contava, se mi sentivo così? Ero in uno stato di “struggimento”, e lo ero da anni. Non ero felice… Non lo ero quasi mai stato… Quel che avevo desiderato e voluto anche allora era essere amato. E amare. E loro non mi avevano nemmeno insegnato la parola.

La scoperta dell’amore porta alla guarigione; la sua mancanza, o la sua impossibilità, porta alla morte: questo spiega il destino di Spofforth. E proprio il robot, che per ragioni biologiche ne è escluso, ne dà una delle immagini più toccanti. “Che cosa intendi, tu, per amore?” gli domanda Mary Lou.

Aspettò a lungo prima di rispondermi. Poi disse: “Un senso di agitazione nel petto. Palpitazioni. Il desiderio che tu sia felice. Un’ossessione di te, il piacere di guardarti piegare il mento, di scrutare lo sguardo intenso dei tuoi occhi. Ammirazione per il modo in cui tieni quella tazzina di caffè. Il sentirti russare, la notte, mentre io sono sveglio”.

Così dicendo, Spofforth rivela la centralità dell’amore. Nella sua imperfetta capacità di viverlo sta il suo interesse come personaggio, oltre che come specchio e come fantasma. Quando parla d’amore, tuttavia, Tevis non intende solo quello romantico, ma in genere l’amore per la vita e per la continuazione della specie. Il romanzo è la storia di una guarigione individuale – quella di Bentley e Mary Lou –, di una guarigione collettiva e della distruzione di un feticcio ossessivo. Per questo, in apertura, l’abbiamo definito “psicodramma”; ma la lettura dimostrerà che Tevis è più sottile, sfumato e acuto di quanto qui si sia riusciti a dire.

E nel romanzo, limpido e fluente, parola viene dietro parola come una benedizione.

Giuseppe Lippi

La bibliografia italiana è reperibile sul Catalogo SF, Fantasy e Horror a cura di Ernesto Vegetti.

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Radici lontane

settembre 13th, 2009

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In occasione della riedizione di Quando le radici in “Urania Collezione”, presentiamo un profilo di Lino Aldani tracciato da Giuseppe Lippi.

Lino Aldani era considerato il principale esponente della fantascienza italiana ed è morto a Pavia sabato 31 gennaio 2009, per un’incurabile malattia a un polmone. Suo genero, il dottor Angelo Corsico, è medico e ci fornisce alcune informazioni sulla patologia: Aldani è stato bene fino all’estate 2008, ma in settembre ha cominciato ad accusare disturbi alla prostata. Fattosi esaminare, ne è uscito con una diagnosi tranquillizzante per quanto riguarda il problema specifico, ma con la scoperta (casuale, a quanto sembra) di un piccolo tumore al polmone. Nonostante le dimensioni ridotte, si trattava di una forma particolarmente aggressiva: adeno-carcinoma. La situazione è precipitata dopo il Capodanno 2009 e l’8 gennaio, in seguito allo spezzarsi del femore, è stato necessario trasportarlo all’ospedale. Qui Aldani è rimasto poco più di tre settimane: prima presente a se stesso e impaziente di essere dimesso (“Sto morendo”, diceva ad Elettra, “fatemi tornare a casa mia”), poi gradualmente più stanco e, negli ultimi giorni, meno lucido. Non c’è stato niente da fare e si è spento la notte tra venerdì 30 e sabato 31 gennaio. Avrebbe compiuto 83 anni il 29 marzo.

Per ricordarlo ancora una volta, ma soprattutto per porgere il suo capolavoro ad una nuova generazione di lettori, abbiamo pensato di ristampare il primo e forse più autobiografico romanzo di Aldani, Quando le radici (1977). La stesura, in realtà, era già cominciata negli anni Sessanta, quando Aldani viveva a Roma e faceva l’insegnante di matematica, in preda ad alcuni dei dubbi e delle angosce che il protagonista del libro, Arno, denuncia nella parte iniziale. Come Aldani, a un certo punto Arno sente di dover tornare dove è nato, oltre il Po, per cercare di dare un senso a un’esistenza spaccata. Non sarà facile perché l’Italia del futuro che immagina il romanzo è un paese pieno di insidie e tranelli: autostrade mostruose, Tir evoluti e minacciosi, strade interrotte e dietro foreste oscure. Ma è un cammino necessario per ritrovare quello che la città di pietra gli ha tolto da tempo, per ricostruire una casa. Del resto Arno, come Aldani, un po’ romano lo è diventato e non solo nella parlata: anche la separazione ha il suo prezzo, l’inizio del viaggio è come la partenza per un’odissea. Ma il senso di una vita è nelle scelte che si fanno e Arno, come il suo autore, scavalca le strade rotte, supera i crepacci, entra nei boschi, lasciandosi alle spalle le tracce di incombente distruzione per vedere se e dove sia possibile rivivere. Arno è un italiano che, nonostante gli intrighi e i veleni, la corruzione e l’assopimento degli ideali, non scappa ai Caraibi o a Puerto Escondido come gli eroi di una generazione dopo, Diego Abatantuono nei film e tanti altri per davvero; anzi, non scappa affatto ma cerca di arrivare. Lì dove intende approdare non è un paese straniero, semmai straniato: ma questo fa parte del quadro. E’ il suo paese irriconoscibile e coperto di spine, lo stesso al quale Aldani aveva dedicato un primo romanzo, inedito, negli anni Cinquanta, affrontando l’odissea della Resistenza. In definitiva, Quando le radici è il romanzo della prossima resistenza: quella che ci sarà da combattere se e quando il paese si scuoterà di dosso il giogo del sonno. La corruzione, l’abuso di potere, l’ingiustizia sono manifestazioni dell’egocentrismo e dunque, in ultima analisi, dell’irrazionale; per nascondere il cadavere della corruttela bisogna distorcere i fatti, nascondere le verità. Il romanzo di Aldani adombra, pur in molto pessimismo, il bisogno di tornare a guardare in faccia la ragione; di scoprire il paese per quello che è. Come spesso accade in fantascienza, anche in questo caso il futuro è il deposito di un segreto che sta invece nelle origini, nella storia: Quando le radici vuol dire, in sostanza, quando riapriremo gli occhi per scoprire chi siamo.

Autore di racconti arrivato al romanzo solo più tardi, Aldani tuttavia ne ha pubblicati diversi, mentre è in attesa di vedere la luce, e ormai uscirà postumo,  uno dei suoi primi libri di narrativa, peraltro di genere realistico. I romanzi di fantascienza apparsi dopo Quando le radici sono: Eclissi 2000 (1979), già ripubblicato in “Urania Collezione” e che l’autore definisce “una professione di fede: l’astronave Terra Madre rappresenta il socialismo e il romanzo poggia sulla tesi che non puoi costituire un governo, anche socialista, senza dire bugie e promettere cose false”. Nel segno della luna bianca (ovvero Febbre di luna, 1980, in collaborazione con Daniela Piegai), è “un fantasy dichiaratamente di sinistra, e come tale fu attaccato da più parti. Questi detrattori lo giudicarono il peggior romanzo sporcaccione prima di Porci con le ali…” La genesi de La croce di ghiaccio (1989) “può essere cercata nel fatto che avevo un amico prete”, raccontava l’autore in un’intervista. “E’ stato quest’amico a introdurmi nel mondo degli zingari, ed è lui che nel romanzo viene ammazzato dai gironiani. In realtà il problema religioso non è pertinente o centrale al mio libro…”. Il suo quinto romanzo, un’avventura tra il popolo rom che si svolge parzialmente a Trieste, si intitola Themoro korik ed è apparso nel 2007 presso la casa editrice Perseo (ora Elara) di Bologna, che ha in catalogo l’opera completa di Aldani, sia per quanto riguarda i romanzi che i bellissimi racconti. Elara ha pubblicato altresì, nel 2007, il vecchio romanzo del 1961 Aleph 3, che Aldani non aveva mai voluto dare prima alle stampe.

G. L.

[Nell’illustrazione, Lino Aldani visto da Giuseppe Festino.]

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Alastair Reynolds

settembre 12th, 2009

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Esordisce in Italia, nel campo del romanzo, il massimo autore della sf spaziale inglese. Che è anche uno scienziato dell’ESA… Una presentazione firmata dal nostro curatore Giuseppe Lippi.

 

Modesto e sintetico, Alastair Reynolds (nato nel 1966) dice di sé sul proprio sito: “Sono uno scrittore britannico di fantascienza e abito nel Galles, dove sono nato. Dal 1992 al 2004 ho lavorato come ricercatore per l’Agenzia Spaziale Europea (ESA), occupandomi in particolare della S-cam, la più avanzata macchina ottica del mondo. Per sedici anni ho vissuto in Olanda, ma nel 2008 sono tornato nel Regno Unito. Ho comincato a scrivere nel 1990 e ho pubblicato diversi racconti. Il mio primo romanzo, Revelation Space, è uscito nel 2000 e in breve è stato segnalato al premio dell’Associazione britannica di fantascienza (BSFA) e all’Arthur Clarke. Il secondo romanzo, Chasm City, ha vinto il premio BSFA nel 2002. Il mio libro più recente, House of Suns, è apparso in Inghilterra ad aprile, mentre a ottobre 2009 uscirà Terminal World, un ‘planetary romance’ con influenze steampunk che parla di un patologo in esilio e di un pianeta con un bisogno urgente di medici e medicine… Nel 2010 partirà il ciclo dell’11K, una trilogia che affronta l’esplorazione del sistema solare (e oltre) nei prossimi undicimila anni”.

Dietro questa sintetica presentazione si nasconde uno dei più grandi reinventori della SF spaziale, tanto che definirla “space opera” suona ormai riduttivo. Reynolds è, insieme a Peter F. Hamilton, Stephen Baxter, Iain M. Banks, Ken MacLeod e pochi altri – tutti britannici – un visionario nella fantascienza tecnologica del XXI secolo. Il paese che ha dato i natali a H.G. Wells e Olaf Stapledon si reinventa oggi (ma la cosa è cominciata negli anni Novanta) non più all’insegna della distopia o della rottura dei tabù, come era avvenuto all’epoca delle due precedenti ondate di rinnovamento: la fase Huxley-Orwelliana e la new wave di fine anni Sessanta. Si reinventa, piuttosto, con epiche visioni barocche tolte di peso dall’eredità americana, e che fino a ieri costituivano il nerbo della SF commerciale; ma lo fa con una ricchezza di materiali e un’avvedutezza tecnica che producono una versione ampliata e aggiornata di ciò che è stata la fantascienza di ieri, proiettandola in una dimensione gigantesca negli scenari, imponente nella mole e innovativa sul piano dei contenuti scientifici. Nei casi migliori i risultati sono libri appassionanti e consapevoli in cui, come in quelli di Reynolds, la SF razionale di Arthur Clarke sposa quella epica di Ian Watson, passando attraverso tutta una serie di esperienze tipicamente britanniche: in Revelation Space riecheggia persino la vecchia, solida avventura spaziale di Eric Frank Russell ed E.C. Tubb.

Se però tutto si limitasse a questo, saremmo ancora a un semplice fenomeno di contaminatio non petita e potremmo glissare e passare oltre. In realtà, dietro le macroscopiche visioni di Alastair Reynolds si nasconde l’ambizione di raccontare una nuova esplorazione dell’universo, con nuovi mezzi tecnologici e, soprattutto, alla ricerca di nuovi significati. “Sono convinto che la conquista umana dello spazio abbia ancora un profondo valore, e se mi fermo a pensarci non mi pare difficile immaginare il prossimo libro che potrei scrivere in proposito, più altri dieci”.

Revelation Space, il grande e solido romanzo che “Urania” ha dovuto suddividere in due tomi, è l’annuncio di un progetto che già dimostra tutta la sua articolazione ed è uno dei primi gran tour guidati della galassia del nuovo millennio. Gran tour che arrivano non soltanto dopo gli immensi successi della New Space Epic cinematografica, da Star Wars in poi, ma soprattutto dopo l’autentica conquista umana dello spazio, quella che quarant’anni fa ha portato i primi uomini sulla luna.

Come i lettori di questo romanzo vedranno, l’astronautica di Reynolds è veramente qualcosa che trascende i razzi di una volta, le “spazionavi” e l’overdrive abusée. Il titanismo degli scenari non è fine a se stesso e neppure la grandiosità dei meccanismi narrativi, che uniscono il fascino dell’ingegneria a quello, molto più morbido, delle civiltà perdute e dei misteri di archeologia spaziale. Più ancora del suo predecessore Peter F. Hamilton – a sua volta tradotto con successo da “Urania” – Alastair Reynolds sembra affascinato non soltanto dall’impresa in sé (l’esplorazione del cosmo), ma dalla sua componente epistemologica. Le domande che lo interessano, in Revelation Space, sono tutt’altro che banali, anzi sono le domande ultime: cosa ha generato l’universo? Quale piano si nasconde dietro l’ordine delle stelle? In questo la “Renaissance” della SF britannica si discosta di molte leghe dal gusto spettacolare dell’avventura cinematografica, restituendocene una visione altrettanto briosa eppure adulta.

Direttamente collegati al primo, sono i seguenti romanzi che formano la sequenza di Revelation Space: Chasm City, 2001; Redemption Ark, 2002; Absolution Gap, 2003 e The Prefect, 2007, tutti pubblicati da Gollancz. La sfida, per “Urania”, è rappresentata dalla loro mole e dal… costo dei diritti. Reynolds ha recentemente chiuso un contratto col suo editore inglese che gli garantisce un anticipo di un milione di euro sui prossimi romanzi. Ottenere il contratto di Revelation Space ha richiesto più di un anno a causa del fatto che la nostra edizione sarebbe uscita soltanto in edicola e avrebbe pagato una cifra molto più modesta. Per ora, possiamo annunciare con orgoglio che ci siamo assicurati un nuovo romanzo fuori serie di Reynolds – Pushing Ice – e che partiremo presto all’attacco per ottenere Chasm City.

Varrà certamente la pena aspettare i due mesi che s’interpongono tra questo primo tomo di Revelation Space e il secondo che uscirà in dicembre: due mesi che passerete in compagnia di un nuovo scrittore, Jeff Somers e la sua Chiesa Elettrica, e del Premio Urania 2008 che sarà intitolato E-Doll. E per Natale, grande conclusione del maestoso romanzo reynoldsiano, autore che, al momento in cui scriviamo, è stato appena invitato al festival triestino Science + Fiction e che ci auguriamo vivamente possa essere in Italia a novembre, per festeggiare il suo primo romanzo insieme a noi.Giuseppe Lippi  

Risorse in rete

Il blog di Alastair Reynolds si trova all’indirizzo http://www.alastairreynolds.com/teahouse/
Il sito personale è all’indirizzo http://www.alastairreynolds.com/
La bibliografia italiana, finora scarsa ma che contiamo di rimpolpare noi stessi, è reperibile sul Catalogo della SF, Fantasy e Horror a cura di Ernesto Vegetti.

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Giuseppe Lippi intervista Danilo Arona

luglio 28th, 2009

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Il curatore dell’antologia Bad Prisma, in edicola ad agosto nella collana “Epix”, rivela i retroscena della sua attività e di questo progetto al nostro curatore Giuseppe Lippi.

GIUSEPPE LIPPI: Raccontaci brevemente di te. Cosa ti ha spinto a diventare prima un erborista e poi uno scrittore?

DANILO ARONA: Sarò sincero… Nel 1975 ero il fidanzato della erborista. Per il testosterone in circolo all’epoca, ben superiore a quello odierno, seguii la tipa nell’avventura commerciale. Poi lei mollò in contemporanea me e l’esercizio e io francamente non me la sentii di mandare tutto in malora. Resistetti per un po’ da solo, poi per fortuna all’inizio degli anni Ottanta incrociai nella mia (futura, allora) moglie che si accollò entrambi, me e l’esercizio. Io già scrivevo, soprattutto saggistica cinematografica. Giravo i festival (Parigi, Sitges, Avoriaz…) e in tutta sincerità non pensavo di “fare lo scrittore”. Però, a furia di vedere film, ti crescevano storie dentro. E insomma nel 1983 ci provai… Ero impallinato con l’horror ambientato nella provincia italiana. Ancora ci sto provando, si può dire.

GL: Tu hai cominciato la carriera professionale scrivendo articoli di cinema per la prima edizione di “Robot”, negli anni Settanta. Come vedi mutati i tempi fantascientifici, da allora?

DA: Sono mutati, sì… Temo che si siano ristretti gli spazi. Il problema è che la fantascienza ha debordato nella realtà. La fantascienza è praticamente la cronaca quotidiana. Così la narrativa ha perso il suo potere di anticipazione, il suo fascino presago. Provocando un crollo di attenzione e d’interesse. Ed è un assoluto peccato. Resiste al cinema per un insieme di fattori: effetti speciali, crogiuolo di generi, supereroi della Marvel,  spettacolarità seriale tipo Terminator… Ma chi si leggerebbe un libro del serial Terminator? Sulla carta stampata sono crollati Star Trek, X Files… Ci sono storie che funzionano solo sullo schermo, grande o piccolo che sia.

GL: Parlaci di Bad Prisma, la raccolta di racconti italiani da te curata che esce su “Epix” in agosto. Chi è Melissa, questa incarnazione del male che è il filo conduttore di tutta la vicenda?

DA: Melissa è uno spettro, anzi “lo” Spettro. Non è farina del mio sacco, non l’ho mai nascosto. Stava in un sito, presentata come “storia vera”, quella di una ragazza senza identità, bionda, si presume bella, investita alle 5, 20 del mattino il 9 dicembre del ’99 sull’autostrada vicino al casello di Padova… Un sito misterioso e affascinante che riportava diverse testimonianze di automobilisti che l’avevano avvistata alla stessa ora in altri punti del reticolato stradale italiano… Ognuno aveva provato la sensazione visiva d’investirla… Da questo primario presupposto risulta evidente la sua natura “prismatica”. Lo stesso fantasma a più facce, più identità, ma sempre lui… Non è facile da spiegare. Me ne sono impadronito. Peraltro, come ho già sottolineato, l’ignoto webmaster lo presentava come un autentico fatto di cronaca. E la cronaca non è esclusiva di alcuno. A Melissa ho già dedicato quattro libri, Cronache di Bassavilla, Melissa Parker e l’incendio perfetto, Pazuzu (il titolo e il genere sono fuorvianti, ma scrivo sempre di lei…) e un inedito che vedrà la luce nel 2010. Melissa è una e tante perché si aggancia alle ossessioni e agli incubi di ciascuno.

GL: Entrando nel merito  del volume, come ti sei trovato a gestire questo vero e proprio mosaico? Infatti, a ciascuno dei numerosi autori che hai scelto di contattare hai affidato il compito di scrivere “una storia di Melissa”, un particolare capitolo dell’insieme…

DA: Ho contattato amici, è vero, ma ho contattato ovviamente coloro che già conoscevano e apprezzavano il mio “Melissa Project”, in modo da non dover spiegare nulla ed evitare gli indottrinamenti (operazione peraltro di cui non sono affatto capace). A ognuno ho lasciato la massima libertà di declinazione del tema, con pochi riferimenti inevitabili: Melissa = fantasma biondo che ossessiona l’umanità sin dai primordi, soprattutto sulle strade di qualsiasi tipo. Ghost on the road. Ho solo chiesto un riferimento temporale specifico (evitando magari di accavallarsi tutti nel tempo presente…) in modo da poter montare l’antologia in senso cronologico, così che il lettore possa percepire il lavoro come un romanzo a tappe temporali. La cosa che più mi è piaciuta è che ognuno ha inserito senza forzature Melissa  nel proprio universo narrativo. Il racconto di Alan Altieri è quello più paradigmatico sotto questo aspetto.

GL: Quale ti pare il significato complessivo del volume?

DA: E’ un ottimo libro, non per merito mio, ma per il valore di chi vi ha partecipato. Alan Altieri dice che è un’operazione unica al mondo… Certo, siamo dei tifosi, ci mancherebbe che non fosse così. Però, al di là dei gusti e degli sbilanciamenti affettivi, Bad Prisma dimostra che, quando raggruppi la gente attorno a un progetto forte e condiviso, la nave va in porto senza il minimo problema. Con soddisfazione generale. Sarò scemo, ma per me è vera la storia dell’unione che fa la forza. E poi sai qual è l’aspetto ancora più straordinario? Tutti i “melissiani” (o badprismatici?) sono fra loro amici per la pelle. Nel 2009, in Italia, con l’aria che tira, questo mi pare già incredibile.

GL: Come vedi la situazione dell’horror oggi?

DA: In Italia interessantissima. Con autori – e autrici! – di livello planetario. Con un horror peculiare e tipicizzato che affonda alcune sue radici nel folklore, ma anche nella cronaca più scottante. Diventando quello che il noir non riesce più a essere: un genere di autentica denuncia, politicamente – se si vuole – scorrettissimo. Non faccio nomi, non serve, e poi magari nella fretta mi dimentico qualcuno. Però vorrei aggiungere che, oltre ai soliti noti, ci stanno torme di agguerriti giovani a conferma che il gotico e l’horror hanno una seria e storica possibilità di emergere e non limitarsi alla solita e afflitta parrocchia di venditori di gelato in Siberia. Aggiungo solo che l’horror italiano riesce a essere diverso da tutti gli altri al mondo quando dimentica le suggestioni americane, combinando i generi popolari e riscoprendo motivazioni culturali e fondative.

GL: Il cinema ti interessa ancora come allora?

DA: Certo. Se posso, vado ancora in sala. Non frequento più i festival perché la frequentazione assidua della letteratura mi ha, come dire, un po’ estromesso dal “giro”. Però il cinema resta ovviamente un primo amore. Vedo di tutto, non solo horror. Poche vere emozioni in realtà negli ultimi anni. Dopo i grandi autori dei “nostri” tempi (Carpenter, Cronenberg, Hooper, Craven e qualcun altro), abbiamo solo più un pavido elenco di anonimi shooter che girano tutti allo stesso modo. Negli anni Settanta-Ottanta avresti riconosciuto un Carpenter dallo stile e dall’atmosfera senza la necessità di saperlo dai titoli di testa. Chi oggi ti può garantire un simile risultato? Non mi viene in mente proprio nessuno.

GL: Per concludere, quali sono i tuoi attuali progetti?

DA: Giusto per contraddire la risposta precedente (ma sono uno schizzato dei Gemelli), sto ultimando un saggio critico su Gli uccelli di Hitchcock per una nuova collana curata da Paolo Zelati.  E’ una sfida affascinante: 560.000 battute su un unico film, peraltro il vero precursore dell’horror moderno… Poi vari racconti in altrettante antologie. Pare che Bad Prisma stia aprendo una strada. Speriamo che quest’ultima non stia tra quelle indicate nel sottotitolo: lì, in basso, a destra: tutte le strade per l’inferno!

[La foto di Danilo Arona è di LudovicusMed, scattata in occasione della presentazione romana del libro L’estate di Montebuio (Gargoyle Books), lo scorso 2 luglio.]

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