Dispacci

Tonani a Tempi Dispari

marzo 13th, 2009

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Il nostro autore di marzo ospite martedì prossimo della trasmissione di Francesco Gatti.

Prosegue l’attenzione dedicata alla fantascienza italiana da Tempi Dispari, il programma di Rainews24 condotto da Francesco Gatti. Martedì prossimo, nel corso del consueto appuntamento settimanale con la letteratura e i libri, il conduttore intervisterà Dario Tonani in collegamento dallo studio di Milano. L’intervento dell’autore è previsto verso le 22.10. Gli spettatori potranno così approfondire la conoscenza del suo Algoritmo bianco e dell’Agoverso che ne fa da sfondo.

Per i più impazienti, invece, è già disponibile sulle frequenze web di Fantascienza.com il booktrailer del libro, ideato e diretto da Antonia Romagnoli. E, sempre nella sezione Video del portale web italiano della fantascienza, i lettori potranno recuperare la scorsa puntata della trasmissione, dedicata a Lino Aldani, con ospiti Giuseppe Lippi e Ugo Malaguti. Buona visione!

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Giuseppe Lippi intervista Dario Tonani

marzo 5th, 2009

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Una conversazione a tu per tu con l’autore milanese di Infect@ e del ciclo dell’Agoverso, attualmente in edicola con L’algoritmo bianco.

D.: Da dove nasce l’idea dell’Algoritmo bianco?

R.: Mi ha sempre affascinato l’idea di un mondo in cui uomini e macchine ― affidandosi a un linguaggio comune ―  potessero contagiarsi a vicenda, riuscendo in qualche modo a farsi “sanguinare” reciprocamente: corpo da una parte e hardware dall’altra. E questo non con l’ausilio di chissà quali armi, ma semplicemente in funzione del loro modo d’interagire, di… parlarsi. Ecco il perché dei virus verbali, che sono un mix di codici macchina, slogan pubblicitari e chiacchiere banali, fusi insieme così da sviluppare più tossine possibili nei loro ospiti. Per farlo c’era bisogno ovviamente di un tramite, uno step evolutivo successivo rispetto all’uomo di oggi: l’uomo transumano. E poi tanti telefoni e una tecnologia molto spinta, che fosse in grado di mettere in contatto, in una sorta di peer to peer, persone che stanno anche a capi opposti del pianeta. Quale tecnologia? Fate conto di prendere Internet, Skype, Facebook, Youtube, Second Life, la tv satellitare, i cellulari di ultimissima generazione, di portarli all’ennesima potenza, metterli tutti quanti in uno shaker e distillarli in una sola goccia, che potete portarvi addosso come un profumo. Ecco, quello è l’Agoverso, il non-luogo/non tempo per eccellenza dove uomini e computer vivono la loro pax armata fatta di immagini, parole ed emozioni di seconda mano. Ho però voluto creare anche un antidoto a tutto questo: i libri, la lettura. Nella Milano del 2045 la carta è ormai sparita dalla circolazione, risucchiata nei laboratori clandestini dove viene “tagliata” per produrre una potente droga, ma agli angoli delle strade c’è chi spaccia le pagine dei vecchi tascabili come farmaco salvavita, un tot a rigo, perché la lettura è il miglior mantra contro la follia.

D.: Che cosa rappresenta per te il personaggio di Gregorius Moffa?

R.: Il fratello scriteriato e un po’ manesco che non ho mai avuto. Mi sono divertito moltissimo a creare un personaggio “fetente” e a pensare con la sua testa. E’ quel tipo di losco figuro che stentiamo persino ad ammettere che possa albergare in una parte di noi. E che riusciamo a fare emergere soltanto manipolandolo con un esercizio creativo, un po’ come usare le pinze, per non esserne troppo compromessi. Un giorno bussa alla porta e dice: “Ciao, fratellino, adesso siediti e stammi bene a sentire!”. E accompagna il suo “ben ritrovato” scaraventandoti sul divano. Sono rimasto più di un anno su quel divano ad ascoltarlo, sotto minaccia delle sue pistole.

D.: In che modo vedi legato questo ciclo al tuo lavoro precedente, in primis Infect@?

D.: I punti di contatto sono evidenti, sia come tipologia di storia sia come idee. Infect@ ed entrambe le storie de L’algoritmo bianco hanno connotazioni thriller/noir molto forti e si sviluppano tutte su adrenaliniche cacce all’uomo. Solo che nel caso delle ultime due ho saltato il fosso e anziché tenere le redini di un’indagine poliziesca ho preferito vestire i panni di uno spietato killer, che poi così negativo non è. Quanto alle idee, la matrice è più o meno la stessa: l’infezione, il contagio, il convincimento che nessuno è al sicuro in un mondo di comunicazione globalizzata, dove la mistificazione della realtà e la narcotizzazione delle coscienze sono all’ordine del giorno. In Infect@ il veicolo dell’infezione erano le immagini “mute”, le chine colorate dei cartoni animati; nell’Algoritmo, sono quelle che ho chiamato blatte, i virus metalinguistici, ma anche particolari tipi di carogne informatiche che viaggiano come tossine nell’Agoverso e sono in grado di aggredire l’organismo di un uomo, far impazzire il suo metabolismo, liquefare le sue facoltà cognitive. Tutto questo è solo un tantino più forzato rispetto a quello che accade oggi. Le blatte sono già qui, indubbiamente meno letali, ma altrettanto subdole. Solo che noi le chiamiamo balle.

D.: L’architettura delle due storie è un po’ strana e non cronologica. Perché?

R.: Sì, è vero. Nella prima storia, L’algoritmo bianco, ogni capitolo è contrassegnato da una sigla progressiva, come nella directory di un computer: “file 0.1, file 0.2…” e via dicendo fino al “file 1.4” (l’epilogo). Il motivo è presto detto: come spiego nel prologo, la vita del protagonista viene tecnicamente rimontata spezzone dopo spezzone, file dopo file, agendo sui suoi aghi. Nell’epilogo, invece, si descrivono fatti cronologicamente posteriori di sette anni a questo montaggio (il prologo, infatti, è il “file 1.3”). Il romanzo è suddiviso, poi, in due parti, dal titolo “Bianco” (la prima) e “Grigio e poi nero” (la seconda). I colori si riferiscono agli “stati” dell’algoritmo: bianco quando è ancora vergine, estrapolato da una linea telefonica e nascosto nel cane; grigio quando viene diffuso nell’Agoverso e diventa shareware; nero quando una volta sigillato l’Agoverso, ventre trasferito e “piombato” negli Oracoli… Il tutto è poi complicato dal fatto che la seconda storia, Picta muore! è cronologicamente precedente alla prima. In realtà, i lettori si saranno accorti che l’architettura del libro è molto più comprensibile alla lettura che non a spiegarla…

D.: Quando ti è nata l’idea di dare un prequel all’Algoritmo?

R.: La verità – come spesso mi accade – è che mi ero innamorato dell’idea dell’Algoritmo ed ero ostaggio del tipo armato sul divano, Gregorius Moffa. Nel primo romanzo avevo disseminato idee e personaggi che avrebbero potuto avere uno sviluppo successivo se solo avessi deciso di dedicarvi tempo. Quindi, il progetto di un seconda storia era una naturale conseguenza. Occorreva soltanto una spinta, che poi è arrivata dalla Mondadori. Perché un prequel e non un seguito? Perché a poco più di metà dell’Algoritmo avevo lasciato a se stesso un personaggio solo apparentemente secondario – il bambino Malik – che avevo trovato interessante far ritornare nell’epilogo. Quando decisi di scrivere un secondo romanzo scelsi di partire proprio da lui. E’ lui il collante delle due storie che abbracciano un lasso di tempo di una quindicina d’anni, ma che insieme coprono il volgere di un’unica giornata: dal tramonto all’alba L’algoritmo bianco, dall’alba al tramonto Picta muore! Nel libro, insomma, la notte viene prima del giorno…

D.: Pensi che continuerai a scrivere romanzi brevi e racconti, oltre che romanzi? Ed è vero che nel campo della short story ti piace cimentarti non soltanto con la fantascienza?

R.: Mi piacerebbe, in realtà faccio fatica a trovare il tempo anche solo per una delle due cose, figurarsi dedicarmi a entrambe. Ma mi sto applicando, la scrittura è disciplina e ha qualcosa di muscolare, richiede allenamento costante per acquistare il passo giusto. E quello, piano piano, sta cominciando ad arrivare. Quanto al cimentarmi con generi diversi dalla fantascienza, sì, me lo pongo come obiettivo. Ho sempre scritto storie molto ibridate tra un genere e l’altro, questo mi facilita quando si tratta di dosare gli ingredienti ed escluderne qualcuno per seguire una via meno spuria. Poco tempo fa, per la prima volta, ho scritto un racconto poliziesco che non ha nulla né di fantastico né di fantascientifico. Noir e thriller sono sempre stati vicini di casa delle mie storie.

D.: A quando la consegna di Infect@ numero 2?

R.: Grazie davvero di questa domanda. Presto, la stesura è a già molto avanti, entro fine anno conto di consegnarlo. Quello che posso dire è che Infect@ 2 sarà un seguito, un “dopo”, traslato nel futuro di qualche anno. In realtà il mini ciclo dell’Agoverso mi è servito come palestra per allenarmi con il “taglio seriale”. Quando si scrivono due storie con lo stesso mondo e gli stessi personaggi – prequel o sequel che siano – non è così immediato capire nella seconda che cosa dare per scontato e cosa no, specie se verranno pubblicate a distanza di anni l’una dall’altra, così come accadrebbe per Infect@ e Infect@ 2. Gregorius Moffa mi ha aiutato a comprendere certi meccanismi, a spegnere la luce in un locale e ad accenderla in quello attiguo senza inciampare nel passaggio dall’uno all’altro. A presto, allora.

[A cura di Giuseppe Lippi]

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In Virginia il 27-6-2009 sarà il Murray Leinster Day

febbraio 27th, 2009

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Una risoluzione congiunta delle camere del parlamento della Virginia ha dedicato il 27 giugno prossimo alla memoria di Murray Leinster, scrittore di fantascienza scomparso nel 1975.

Con una deliberazione che vanta pochi precedenti (si ricorda l’11 novembre 2002 designato dal sindaco di New York Michael Blumberg quale Giornata di Kurt Vonnegut, Jr, in occasione del suo ottantesimo compleanno), il parlamento statale della Virginia, su proposta del Senato e con risoluzione approvata dalla Camera dei Delegati, ha riconosciuto il prossimo 27 giugno come Giornata Nazionale di William Fitzgerald Jenkins. Il Jenkins Day è intitolato alla memoria dello scrittore di Norfolk, noto agli appassionati di fantascienza con lo pseudonimo di Murray Leinster.

Nato nel 1896 e scomparso nel 1975, nel corso della sua carriera Leinster ha attraversato l’intera storia del genere senza disdegnare incursioni nei territori limitrofi della detective story e dell’horror, fino al western. Leinster esordì nel 1916 su “Argosy”, storicamente considerata la prima rivista pulp americana, a soli vent’anni. Sulla stessa testata apparve nel 1919 la sua prima storia di fantascienza, “The Runaway Skyscraper” (tradotta in italiano come “La fuga del grattacielo”) su un palazzo di Manhattan in grado di spostarsi nel tempo, ripubblicata nel 1926 da Hugo Gernsback sulla sua “Amazing Stories” (e oggi disponibile on-line per i curiosi grazie al Progetto Gutenberg). La sua carriera si dispiegò poi attraverso i generi citati, con racconti pubblicati dalle principali riviste, da “Black Mask” a “Weird Tales”.

Nel 1934 Leinster pubblicò su “Astounding Stories” il racconto “Sidewise in Time” (“Bivi nel tempo” nell’edizione italiana), oggi universalmente riconosciuta come la prima storia sui mondi paralleli, ispiratore dell’omonimo premio assegnato ogni anno alla migliore opera sul tema. Nel 1945, con la novella “First Contact” (da noi “Primo contatto”) apparsa su “Astounding SF” introdusse il traduttore universale. All’anno successivo risale “A Logic Named Joe”, un racconto pubblicato sempre su “Astounding SF” con il vero nome di Jenkins, che anticipa prodigiosamente la società integrata e connessa in cui viviamo. Nel racconto una vasta rete di computer (chiamati “logici”, “Un Logico chiamato Joe”) interconnessi permette agli utenti lo scambio di informazioni, l’accesso ai dati e possibilità di intrattenimento.

La risoluzione n. 755 della House of Delegates della Virginia può essere letta sulle pagine on-line del “Richmond Sunlight”.

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Philip José Farmer (1918-2009)

febbraio 26th, 2009

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Il 25 febbraio 2009 è scomparso il Maestro di Riverworld e de Gli amanti di Siddo. Aveva firmato pietre miliari della fantascienza, a partire dal suo esordio capace di infrangere il tabù del sesso. Ma restava soprattutto un grande appassionato degli universi letterari del fantastico e della fantascienza.

La mattina di mercoledì 25 febbraio Philip José Farmer si è spento nel sonno nella sua casa di Peoria, Illinois. Nato il 26 gennaio del 1918 nello stato dell’Indiana, vantava tra i suoi antenati una mezza dozzina di nazionalità diverse (inglese, olandese, irlandese, scozzese, tedesca e cherokee). Il suo secondo nome era un tributo a una nonna materna di origini indiane.

Benché benestante, Farmer non ebbe un’infanzia facile. Crebbe in un ambiente reso rigido dall’educazione puritana impartitagli dal padre e come forma di evasione dal quotidiano maturò presto una forte passione per la letteratura fantastica (i libri di Oz, I viaggi di Gulliver) e fantascientifica (Edgar Rice Burroughs, Jules Verne). Iscrittosi all’università del Missouri nel 1937 con il proposito di diventare giornalista, fu costretto ad abbandonare gli studi a causa della bancarotta dell’azienda diretta dal padre. Per aiutarlo a uscire dai debiti lavorò quindi due anni come operaio in una centrale elettrica. Nel 1939 tornò all’università vincendo una borsa di studio in scrittura creativa e l’anno successivo conobbe Elizabeth Virginia Andre, che avrebbe sposato l’anno successivo. Nel 1941 si arruolò nell’Air Force come cadetto, ma ottenne il congedo quello stesso anno a seguito della notizia dell’attacco di Pearl Harbor.

Nei primi anni in cui Farmer tentò di intraprendere la carriera letteraria, dovette continuamente scontrarsi con una sorte avversa. Il suo esordio nella fantascienza avvenne nel 1952 con il racconto The Lovers (che avrebbe poi ampliato nel 1961 in romanzo, Gli amanti di Siddo, ristampato solo lo scorso anno nel n. 63 di “Urania Collezione”). Il racconto, rifiutato l’anno prima da riviste prestigiose come “Astounding SF” e “Galaxy” probabilmente a causa del tema scabroso dell’amore tra un terrestre e un’aliena, fu pubblicato nel 1952 su “Startling Stories” e guadagnò al suo autore l’attenzione di critici e lettori, meritandogli nel 1953 il premio Hugo per il giovane scrittore più promettente. L’anticonformismo, l’ironia dissacrante e la verve provocatoria si caratterizzano subito come i suoi marchi di fabbrica.

In quegli anni Farmer vinse un concorso indetto dall’editore Shasta, ma il fallimento della casa editrice gli impedì di riscuotere il premio e lo obbligò a tornare in cerca di un lavoro. Cominciò così a viaggiare molto, da Syracuse (New York) fino a Scottsdale (Arizona), occupandosi di documentazione tecnica per diverse imprese nel settore dell’elettronica, senza mai smettere di scrivere. Nella seconda metà degli anni ’50 vide la luce padre John Carmody, che sarebbe poi divenuto la figura centrale di una serie di racconti poi riuniti in romanzo (ripubblicato anche questo, un paio di anni fa, da “Urania Collezione” nel n. 52 della serie, Notte di luce). La fortuna cominciò finalmente ad arridergli e nel 1964 Farmer abbandonò il lavoro per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura.

Nel 1965 pubblicò The Maker of Universes (Il fabbricante di universi, “Urania Collezione” n. 47), all’origine dell’omonimo ciclo, un’opera già concepita ai tempi dei suoi studi e poi congelata dopo la delusione di Shasta. Nel 1971 diede alle stampe To Your Scattered Bodies Go (Il fiume della vita, premio Hugo 1972), primo tassello del grandioso affresco di Riverworld. In questo Ciclo del Mondo del Fiume Farmer tornò ad affrontare temi strettamente attinenti alla religione, come la resurrezione dell’umanità dopo la morte, e questo gli attirò le antipatie degli ambienti del fondamentalismo cristiano. Nei suoi lavori l’autore di Peoria non disdegnò mai l’approccio laterale ai nuclei sensibili del conformismo sociale e religioso: che si trattasse di sesso, di Fede o di rapporti interraziali, Farmer ha sempre dimostrato una totale indipendenza di giudizio dal sentimento consolidato. E forse era anche questo uno dei grandi segreti della carica emotiva della sua scrittura.

Il suo forte dinamismo lo portò anche a rileggere le avventure di personaggi di altri autori (The Wind Whales of Ishmael, sequel non autorizzato del Moby Dick di Melville; Il diario segreto di Phileas FoggThe Other Log of Phileas Fogg, 1973 – pastiche dedicato alle avventure verniane del Giro del mondo in 80 giorni; e ancora i romanzi dedicati al mondo di Oz oppure a eroi dell’età dell’oro del pulp come Tarzan e Doc Savage, o ancora a Sherlock Holmes); Farmer arrivò addirittura a indossare i panni fittizi di Kilgore Trout, eccentrica figura di scrittore modellata da Kurt Vonnegut nei suoi romanzi e racconti di fantascienza sullo stampo di Theodore Sturgeon, con il cui nome firmò nel 1974 Venus on the Half-Shell (Venere sulla conchiglia, “Urania Collezione” n. 15). Sull’onda della stagione di contestazione inaugurata dai movimenti del ’68 Farmer dedicò The Image of the Beast e il suo seguito Blown (L’immagine della bestia e Nelle rovine della mente) a uno stravagante mix di sessualità e viaggi interstellari, portando in scena un altro protagonista della fantascienza americana: il grande appassionato Forrest J. Ackerman, scomparso lo scorso dicembre.

Parafrasando le parole spese per 4SJ, potremmo dire oggi che ancora una volta la fantascienza ha perso un grande appassionato. Che Farmer avesse incidentalmente firmato nel corso della sua prolifica carriera anche alcune delle pietre miliari del genere, non può che renderci ancora più triste la sua dipartita.

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Un astronomo per Greg Egan

febbraio 25th, 2009

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Conseguire un Master parlando di scienza, società e fantascienza.

Il 19 febbraio il giovane astronomo Andrea Bernagozzi ha conseguito il diploma di Master in Comunicazione della Scienza alla SISSA (Scuola internazionale superiore di studi avanzati) di Trieste con il punteggio di 30/30 e lode. Titolo della tesi: Scienza e società nella fantascienza di Greg Egan, con relatore Fabio Pagan e correlatori Daniele Terzoli e Giuseppe Lippi.

Per Andrea, che è autore fra l’altro del divertente volume La fantascienza a test (Alpha Test 2007), è il coronamento di un brillantissimo curriculum nei due anni di corso e delle sue attività extra Master, tra scienza e divulgazione. Ora potrà tornare alle sue ricerche all’Osservatorio astronomico della Valle d’Aosta, arricchito di un’esperienza scientifico/letteraria in più. E continuando naturalmente a coltivare l’antica passione per la fantascienza.

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Segnali di humour

febbraio 23rd, 2009

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Un excursus sulle visioni di Jacques Spitz e il suo background socio-culturale, a firma di Laura Serra.

In Paradiso e potere, un saggio di qualche anno fa, Robert Kagan teorizzava che l’Europa, simboleggiata da Venere, si cullasse in un paradiso di mollezze decadenti quali il welfare, mentre l’America, simboleggiata da Marte, le toglieva le castagne dal fuoco provvedendo virilmente al warfare. La debolezza, per non dire l’impotenza, militare suggeriva al Vecchio Continente una politica di appeasement, mentre la forza dell’arsenale più grande del mondo spingeva gli Stati Uniti a perseguire i propri interessi e punire chiunque li contrastasse. Del resto, argomentava Kagan, qualunque paese, come avevano dimostrato Francia, Gran Bretagna e Germania nei secoli passati, avendone i mezzi tende ad aggredire e conquistare: il pacifismo prospera quando le armi non ci sono.

Che cosa succederebbe se Marte e Venere fossero davvero Marte e Venere dotati di tecnologie avveniristiche e la terra fosse come la vecchia Europa di Kagan, mollacciona e disarmata, pasticciona e viziata, incapace di rispondere al fuoco nemico? E’ l’interrogativo che si pone Jacques Spitz in Les signaux du soleil (1943) e che già H.G. Wells si era rivolto in La guerra dei mondi (1898). Coniugando il realismo bellico del biologo darwiniano e la fantasia distopica del sociologo fabiano, Wells aveva immaginato esseri superiori intenti a osservare gli uomini “con la stessa minuziosa cura con cui questi avrebbero potuto studiare al microscopio le effimere creature che sciamano e proliferano in una goccia d’acqua” e si era figurato che quegli intelletti freddi e calcolatori “guardassero alla terra con occhi invidiosi, elaborando piani per conquistarla”. Spitz lo aveva indubbiamente letto e anzi si può dire che Les signaux du soleil sia la sua Guerra dei mondi come l’Oeil du purgatoire (L’occhio del purgatorio) è la sua Macchina del tempo; ma il suo spirito teso e sintetico è assai diverso da quello analitico dello scrittore britannico. Leggi tutto »

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Le ricadute del futuro

febbraio 9th, 2009

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Prende piede la percezione del cambiamento come spirito di questi tempi, a caccia di una prospettiva che consenta di superare l’orizzonte della crisi. Quale funzione può svolgere il racconto dell’avvenire in questo contesto?

Esiste un fraintendimento di fondo per cui dai non addetti ai lavori si guarda alla fantascienza con la sufficienza che si riserverebbe a una persona poco affidabile o del tutto priva di credibilità. L’equivoco scaturisce dall’erronea convinzione nutrita da molti che, essendo letteratura rivolta al futuro, la science fiction abbia facoltà di previsioni e debba esercitare queste doti con una certa infallibilità. In realtà tutti i lettori sanno quanto siano infondate queste credenze, ma questo non ha mancato di alimentare una forma di pregiudizio verso un genere che più di una volta ha «mancato» di cogliere elementi poi entrati nella nostra quotidianità.

La naturale diffidenza verso la sfera del sapere scientifico – da sempre radicata nella cultura italiana – ha fatto il resto, avvalorando la logica della preclusione al futuro e lasciando che un certo umanismo di maniera trascinasse la letteratura italiana nella dimensione sospesa di un passato prossimo senza orizzonti.

Come conseguenza l’autore di fantascienza non ha mai goduto di molta popolarità qui da noi, e meno di tutti l’autore italiano di fantascienza. Se non altro è possibile da qualche tempo cogliere il giusto tributo della stampa e dell’editoria ai cyberpunk come precursori dell’attuale cultura della rete, oppure ai new waver britannici e americani come interpreti di una stagione autentica di avanguardia. Ma non crediamo che sia un caso se, mentre all’estero autori come Ken MacLeod e Charles Stross ricevono l’attenzione di ricercatori, scienziati e sviluppatori dell’ICT (Information and Communication Technology, il settore che coinvolge l’elaborazione e la trasmissione dell’informazione e il progetto degli strumenti hardware e software per la loro implementazione), qui da noi siano autori completamente estranei al circuito della speculative fiction a raccogliere credito nelle già rarissime occasioni di confronto e dibattito sul futuro.

Un caso emblematico è rappresentato dalla recente iniziativa organizzata da Nòva24 Il Sole 24 Ore e Telecom Italia, un think tank tenutosi il 27 novembre scorso a Venezia per discutere di futuro e del racconto delle sue conseguenze, come si può estrapolare dal sito web dedicato alle Venice Sessions. Sempre sul sito, che raccoglie gli interventi dei protagonisti di quella giornata, è possibile catturare un’istantanea di quel pregiudizio di cui parlavo in apertura in merito al fallimento dei futurologi e ai loro tentativi di «controllare» il futuro (due cose: la prima, nell’opinione generale esiste un’interscambiabilità di fondo tra la figura vaghissima del futurologo e quella decisamente più definita dello scrittore di fantascienza, allo stesso modo in cui illustri esponenti della vita politica di questo paese continuano a confondere astrologi ed astronomi; la seconda, segnatevi la parola “controllo”, ci torneremo più avanti).

Nel suo editoriale sul numero di Nòva24 uscito in allegato al Sole 24 Ore del 2 gennaio scorso, Luca De Biase riprende i temi del suo intervento al workshop e affronta con cognizione di causa l’impatto che il “racconto dell’avvenire” produce sul nostro mondo. De Biase fa giustamente notare come ci sia una tendenza diffusa a parlare di cause ma una ritrosia generalizzata a considerarne le conseguenze. In un contesto ad altissimo grado di integrazione com’è diventato il mondo in cui viviamo, dove le esperienze in un numero considerevole di settori tecnologici interagiscono reciprocamente influenzando il tasso di progresso della storia, isolare le cause può diventare proibitivo e condurre a risultati fuorvianti. Ma quello che giustamente possiamo fare è basarci sulle condizioni del presente in relazione al modo in cui esso era stato disegnato nelle pagine o immaginato nel lavoro degli scrittori e ricercatori che sono stati i principali artefici del nostro mondo. Dopotutto è stato proprio William Gibson a sostenere che “ogni presente è inevitabilmente più complesso di qualunque futuro riusciamo a immaginare”.

“Oggi”, scrive De Biase, “le frontiere del possibile sono in movimento da troppi punti di vista: ecologia, internet, nanotecnologie, robotica, genetica, neuroscienze, biotecnologia – insieme alle loro conseguenze sociali, economiche e culturali – offrono un’immagine del futuro di una complessità tale da rendere irragionevole ogni interpretazione lineare”. L’autore parte da queste considerazioni per domandarsi se sia ancora possibile in un simile contesto “un racconto del futuro che catalizzi le forze innovative”. La risposta, come suggerisce l’esperienza di Gibson, è nell’uso della letteratura come «modello matematico» per il mondo e la storia, in grado di semplificare la realtà senza banalizzarla. E qui torniamo al discorso delle conseguenze. Il futuro è per definizione relegato nella sfera delle possibilità, ma esiste “il modo in cui lo si racconta, lo si disegna, lo si progetta”. Questo non è privo di impatto.

Gli anglofoni hanno un’espressione per indicare le conseguenze dell’immaginario sul reale: self-fulfilling prophecy. Indica la situazione per cui, nell’atto stesso della sua formulazione, una certa ipotesi ottiene un riscontro e un’accettazione che contribuiscono alla sua realizzazione. Le “profezie che si autoavverano” sono tenute in altissimo conto dagli analisti dei mercati finanziari, ma non sono poi così lontane dall’idea del paradosso della predestinazione esplorato dalla letteratura dei viaggi nel tempo e per questo familiare a ogni lettore di fantascienza. Ma possiamo ricondurre in qualche misura allo stesso contesto anche l’evoluzione della Rete e il suo successo.

Tim Berners-Lee, co-fondatore di Internet e  tra i massimi esperti mondiali di web science, non esita a dichiarare che, tra il 1989 e il 1990, mentre erano intenti a immaginare il futuro gettando le basi per il World Wide Web, lui e i suoi colleghi non disponevano ancora del vocabolario adatto per descriverlo. Oggi quel vocabolario è entrato nell’uso comune e prosegue incessantemente il flusso di compenetrazione tra il linguaggio della strada e il gergo tecnico degli specialisti. Non c’è bisogno che ricordi come questo panorama di profonda integrazione fosse già stato perfettamente delineato negli scenari di Neuromante, nel 1984. Dal suo avvento a oggi il web ha continuato a evolvere e, nel suo sviluppo, ha stravolto le nostre abitudini, il nostro stesso modo di rapportarci al mondo attraverso lo spazio e il tempo. È in questo che risiede l’importanza della Rete.

“È un mezzo di comunicazione,” spiega Berners-Lee, “e non più, a mio avviso, un network di pagine. È una rete di persone. In una parola è l’umanità. […] Pensiamo al web come a una cosa grande e importante. Quando lo si considera un mezzo di comunicazione per l’umanità, e improvvisamente l’umanità si trova a dover affrontare questo enorme problema economico, ci si rende conto che c’è bisogno di comprenderlo a fondo: sviluppare la web science, assicurarsi che il web sia utile per l’umanità”.

Le parole di Berners-Lee richiamano alla memoria “l’allucinazione consensuale condivisa da milioni di operatori legali, in ogni parte del mondo” evocata da Gibson nelle sue pagine. È notizia dei giorni scorsi che a dicembre gli utenti connessi alla Rete hanno sfondato la quota epocale del miliardo di navigatori. Ma al di là degli orizzonti richiamati dal cyberpunk, la nuova frontiera fa gola a governi e compagnie perché, se oggi c’è un posto da cui siamo ragionevolmente certi che passi il futuro, quel posto è Internet. Australia e Regno Unito stanno studiando delle misure che limitino l’accesso alla Rete e la fruizione dei suoi contenuti. Periodicamente, disegni di legge analoghi si manifestano anche in Italia, sollevano dibattiti agguerriti e poi si perdono nella discussione parlamentare. Ma c’è una preoccupante tendenza verso il controllo di Internet che continua a raccogliere consensi tanto dal fronte della politica quanto da quello della magistratura. E la visione dei dirigenti delle grandi compagnie del settore, specie quelle in qualche modo legate agli interessi dei governi attraverso la rete delle partecipazioni statali, entra sempre più spesso in conflitto con la prospettiva di ricercatori e sviluppatori.

È evidente la contrapposizione tra una visione gerarchica e rigidamente regolamentata e l’immagine romantica di una frontiera libera e anarchica, completamente decentralizzata. La ricerca, per fortuna, è sempre meno influenzata dalla prospettiva del controllo. Questa è una conseguenza dell’evoluzione che si è prodotta negli ambienti scientifici a partire soprattutto dalla caduta della Cortina di Ferro, con lo smarcamento progressivo (benché non definitivo) della tecnologia dagli interessi militari.

E questo è solo uno dei tanti esempi che dimostrano come ancora una volta le conseguenze dell’atto di immaginare il futuro potrebbero incidere sulla distribuzione delle probabilità tra i futuri possibili. E la fantascienza, continuando a essere chiamata in causa per parlarci attraverso l’immagine del futuro dei cambiamenti che hanno luogo attorno a noi, non può ancora permettersi di prescindere dalle conseguenze.

[gdm]

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Tempi Dispari: fantascienza on-line

febbraio 7th, 2009

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Arrivano le registrazioni delle serate di Tempi Dispari dedicate alla fantascienza. 

Gli interventi dei nostri autori alla trasmissione Tempi Dispari di Rainews24 del 13 gennaio scorso sono ora disponibili anche on-line, nella sezione Video di Fantascienza.com. La registrazione è stata spezzata in tre segmenti: il primo comprende gli interventi di Alberto Costantini e mio; il secondo raccoglie la deposizione di Donato Altomare; nel terzo troviamo invece il confronto a distanza tra Pierfrancesco Prosperi e Dario Tonani.

E l’attenzione dedicata da Tempi Dispari alla fantascienza non si esaurisce qui. Martedì scorso sono intervenuti infatti Silvio Sosio ed Elisabetta Vernier, mentre per la prossima puntata è attesa la presenza di un altro autore della scuderia Delos Books, Giampietro Stocco (vincitore dell’ultima edizione del premio Alien e autore del recente techno-thriller Dalle mie ceneri). Fantascienza scritta (e scritta da italiani) mai così presente in TV come in questi tempi.

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Intervista a Lino Aldani

febbraio 2nd, 2009

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 Riprendiamo questa lunga intervista ad Aldani curata da Giuseppe Lippi.

Lino Aldani è ritenuto, a livello internazionale, il maggiore esponente della fantascienza italiana ed è senz’altro il più tradotto. Nell’antologia The Science Fiction Century (1997), il volume a cura di David G. Hartwell che ripropone i capolavori della sf del Novecento, i soli autori italiani inclusi sono Lino Aldani e Dino Buzzati. Il suo successo dipende da tre motivi: la forza dello stile, con cui descrive ambienti straordinari e personaggi reali, estremamente credibili (non di rado si tratta di mature proiezioni dello stesso Aldani); la costante qualità dell’invenzione in un genere che spesso si accontenta di scimmiottare le trovate altrui, per cui si può ben dire che Aldani sa uno dei pochi maestri italiani del fantastico; infine, la tensione ideale, l’intensità che c’è in ognuno dei suoi racconti, sia che descrivano una grottesca Italia del futuro, sia che parlino della necessità di rivoluzionare l’uomo. Autore, in cinquant’anni di carriera, di innumerevoli racconti brevi che spaziano dalla commedia al dramma, dall’avventura psicologica alla profezia sul nostro domani, Aldani ha scritto in tutto sei romanzi fantastici, mentre almeno due di genere realistico non sono mai stati pubblicati. Per onorare i cinque decenni di una carriera così importante, la Perseo Libri di Bologna ha racchiuso l’intero corpus della narrativa di Aldani – racconti e romanzi – in cinque volumi: La croce di ghiaccio, Ontalgie, Aria di Roma andalusa, Febbre di Luna e Themoro korik, cui si può aggiungere la raccolta a quattro mani, firmata con Ugo Malaguti, Millennium. “Urania” ha voluto festeggiare a sua volta il grande scrittore andando  a intervistarlo nella sua casa di San Cipriano Po, dove ha ritrovato un geniale narratore, un attivissimo direttore di rivista – la sua “Futuro Europa”, attualmente pubblicata dalla Perseo, è la reincarnazione della storica “Futuro” degli anni Sessanta – e un uomo davvero impeccabile, lombardo di sangue ma romano di spirito oltre che d’adozione… Come si vedrà dalle seguenti battute. 

Domanda: Aldani, tu sei nato nel 1926 e hai combattuto molte battaglie del presente, immaginando nelle tue opere quelle del futuro.Come ti senti nello scenario degli anni Duemila, adesso che ci siamo?

Risposta: Abbiamo tutti aspettato quella data, ma nel complesso provo una gran delusione. Gli anni 2000 sono arrivati a vuoto, inutilmente; tante cose che avrebbero dovuto mettersi a posto, invece si sono aggravate.

D.: Ma l’emozione di vivere questo XXI° secolo?

R.: L’emozione? Per dirla alla Gigi Proietti, meno male che ci sono arrivato. 2002, 2003, 2004, un anno vale l’altro… Qui non si muove niente, è questo il grave.

D.: Secondo te, c’è stata una contrazione del senso del futuro?

R.: Sì che c’è stata. Quale senso del futuro ci è rimasto? Lo ha scritto anche Fabio Calabrese ad Antonio Scacco, parlando di prospettive…

D.: E i motivi?

R.: Non lo so con precisione, ma non siamo pronti a gestire il futuro. Ci siamo capitati in mezzo e non ce la facciamo.

D.: Questa situazione è molto diversa dal passato…

R.: Negli anni Sessanta e Settanta c’è stato un ottimismo della volontà che ci ha fatto sperare, ma col passare degli anni ha avuto la meglio il pessimismo della ragione. Guarda quello che scrive Ernst Schumacher, il sociologo tedesco di Piccolo è  bello, un libro del 1973: a meno di non cambiare radicalmente il nostro atteggiamento in direzione bioetica, il mondo andrà incontro a un’immane distruzione di risorse, capacità e forme di vita. Non vedere questo equivale ad essere fregati. Una delle cose che l’umanità non vuole assolutamente capire è che da quando è iniziato un certo tipo di sviluppo, non abbiamo fatto un momento di pausa. Stiamo continuando ad andare avanti in progressione geometrica, prosciugando tutto quello che avremmo dovuto conservare per il futuro.

D.: E’ un enorme problema politico. Un tempo c’erano le attese del socialismo, a mitigare il panorama: tu sei stato un militante e ancora nel 1980, in un’intervista concessa a Vittorio Curtoni sulle pagine della rivista “Aliens”, parlavi di rivoluzione….

R.: Le attese socialiste, che condividevamo in tanti, non si sono verificate. Sì, ci ho creduto a lungo, ma ormai l’unica rivoluzione che possiamo fare consiste nel coraggio di sopportare l’attuale situazione. E’ già un pensiero rivoluzionario, perché non vuol dire condividere ma sopportare un certo stato di cose.

D.: Sopportare va bene, ma reagire?

R.: Come si fa? Non è più possibile. Il perché è già contenuto in nuce nelle analisi di André Gorz, ad esempio nel Socialismo difficile del 1968. Noi abbiamo vissuto l’epoca di Stalin, che è stato l’uomo che ha tentato di costruire il socialismo in Russia dopo Lenin…

D.: L’obbiettivo finale di un regime socialista dovrebbe essere l’abbattimento dello stato, naturalmente dopo un periodo transitorio. In passato non hai mancato di sottolinearlo: era questa la tua visione dell’utopia?

R.: Sì, e credo che nonostante tutto si potrebbe ancora arrivare al superamento dello stato…. In effetti è l’unica utopia ancora viva, l’unica che possa stare in piedi. [Sorride, poi]: Peccato che m’hai preso in una giornata in cui non so parlare. Ti rispondo a frasi mozze.

D.: Forse è solo che non hai voglia di teorizzare. Veniamo a cose più concrete, per esempio la tua famiglia e l’ambiente da cui provieni.

R.: Mio padre era uno chef d’albergo originario di San Zenone, mia madre una mondina di San Cipriano Po. Personalmente non ho imparato l’arte culinaria, so fare solo qualche piatto. [La moglie, Mirella, interviene: “Lumache e quaglie le fa benissimo!”]

D.: Quando sei nato, i tuoi genitori vivevano a Roma?

R.: Sì, mio padre ci si era trasferito per lavorare. Per far partorire mia madre erano tornati a San Cipriano, ma avevo quaranta giorni quando siamo andati definitivamente a Roma. [Mirella interviene per aggiungere aneddoti sulla nascita di Lino. Lui, un po’ irritato, la interrompe]: Ma te stai un po’ zitta un momento? Sì, sono spesso irritato perché da infante mi legavano le braccia nelle fasce. Però, in fondo sono una buona pasta.

D.: Mi puoi raccontare qualcos’altro, della tua infanzia?

R.: Sto scrivendo un racconto sull’argomento.  Mi ricordo, per esempio, che mia madre mi lasciava solo in casa, dicendo che mi avrebbe tenuto compagnia il bambin Gesù. Però io stavo solo su un seggiolone e mi rodevo… Altro che “la mamma fa presto”! Avevo tre anni e magari, per calmarmi, lei prometteva di portarmi un grammofonino che regolarmente non arrivava. A tre anni già scrivevo e scarabocchiavo, volevo risme di carta. “Tu prega Gesù”, diceva la mamma: ma il mio sogno era possedere una risma di carta! Gesù l’ho cassato, l’ho cancellato da allora. Sono ateo completo, sottolineato. Però combatto sempre con i libri di religione, perché sono alla ricerca di una conferma alle mie conclusioni. Sono una personalità profondamente religiosa perché so vedere, nelle cose della vita, un lato che non è affatto terra-terra.

D.: I tuoi studi, la tua professione?

R.: Ho studiato matematica e filosofia, materie che poi ho insegnato nelle scuole serali. T’a ricordi, Mire’…? Però la scuola l’ho odiata, appena ho potuto sono andato via. Baby pensionato dell’insegnamento, eccomi qua.

D.: Come è cominciata la tua carriera letteraria?

R.: Nell’immediato dopoguerra ho scritto un romanzo senza titolo e diversi racconti di ambientazione partigiana che avrei potuto pubblicare con Lucio Lombardo Radice. Lui dirigeva la rivista di un circolo culturale, “Incontri”, che mi rifiutò un racconto: l’avrebbero accettato solo a patto di cambiare il finale. Lo stesso dicasi per il romanzo, Lombardo Radice pensava che ci fossero problemi ideologici, cose che non andavano. La tesi del libro era che non si può entrare in un’epoca di pace portandosi dietro i vecchi rancori della guerra partigiana. Dopo questi inizi, c’è stato un romanzo esistenziale, Le anatre di sughero. Parlava di un certo Coriolano Mauser, una mia proiezione, e della sua esistenza. Questo signore viveva situazioni tipiche dell’esistenzialismo: si trovava in un cimitero, assisteva alle imprese di un gruppo di vagabondi che scoperchiavano le bare dei morti. Ad un certo punto, andava da un pescatore sul fiume che utilizzava le anatre di sughero: bestiole finte che suggeriscono l’idea di una realtà illusoria.

D.: Sono esperienze autobiografiche anche per quanto riguarda il periodo di guerra?

R.: Durante la Seconda guerra mondiale sono tornato a San Cipriano Po, il paese dove sono nato, per un periodo di quattordici mesi. Ero renitente alla leva e avevo deciso ad andare in collina fra i partigiani, ma nessuno volle accompagnarmici. E’ un paese di cacca, il mio, di confine, di gente che si schisciava (scansava, sottraeva).

D.: Dopo quegli esordi neorealisti, come ti è nata la passione per il fantastico?

R.: Per me è un fatto naturale, di carattere. Sono nato ignorante e sono rimasto ignorante a lungo, son venuto fuori dopo: di conseguenza, all’epoca dei primi racconti non è che avessi tanto riflettuto su problemi di genere o altro. Del resto, da ragazzi, chi aveva il tempo di leggere? I miei primi racconti fantastici li ho scritti dopo aver fatto il militare e letto Sartre, il mio grande amore. Si era verso la metà degli anni Cinquanta, quando mi è venuta l’idea de “L’inseguito”. Più o meno a quell’epoca è uscita “Urania” rivista e mi è dispiaciuto non poco quando ha chiuso dopo quattordici numeri. In seguito ho letto “Planète”, che conteneva altre suggestioni ma sulla stessa onda: il mistero del santo Graal, eccetera…

D.: Come hai cominciato a scrivere fantascienza?

R.: E’ stato un mio alunno, all’epoca in cui insegnavo. Vedendo che avevo con me dei numeri di “Urania” mi ha fatto conoscere un pazzo, certo Polimeni, che si interessava di dischi volanti. In seguito l’alunno mi portò un numero di “Oltre il cielo”, la rivista pubblicata negli anni Cinquanta-Sessanta. Ho cominciato a collaborare, a scrivere racconti per loro e mi sono familiarizzato con la redazione: l’ingegner Armando Silvestri, il direttore, e il suo braccio destro Cesare Falessi, alto quasi due metri, una specie di marziano ma con un buon acume editoriale. E’ stato lui a consigliarmi di passare dal genere satirico, con cui avevo esordito, al racconto “serio” di sf. Per i miei gusti, comunque, in “Oltre il cielo” c’erano troppa avventura e troppa astronautica.

D.: Ed è stato a quell’epoca che hai conosciuto tua moglie.

R.: Ho conosciuto Mirella nel 1955, lavorava nella stessa scuola (dove insegnava matematica) e in occasione degli esami ci siamo frequentati un po’ di più. Il 25 luglio 1957 ci siamo sposati e ricordo che il giorno prima abbiamo fatto un doppio di tennis. Abbiamo vinto noi e gli altri ci hanno chiesto la rivincita, ma dovevamo sposarci ventiquattr’ore dopo e così abbiamo rinunciato. Elettra, nostra figlia, è nata nel 1964.

D.: Un anno prima avevi fondato una tua rivista di fantascienza…

R.: Sì, “Futuro” è nata nel 1963. Ne ero molto soddisfatto, ma si trattava di una visione utopica perché pensavo che se uno publica cose buone, il successo è automaticamente assicurato. Invece mi resi conto che per aver successo te devi appecorona’. Intorno alla rivista lavoravamo in parecchi: a parte me c’erano Massimo Lo Jacono, Giulio Raiola, Sandro Sandrelli e Inìsero Cremaschi; con Lo Jacono non mi ci prendevo, lui era per una rivista commerciale, io per la qualità. Poi arrivò Cremaschi e allora… che vuoi fare più? Lui aveva il pallino della moglie, Gilda Musa, ce la infilava dappertutto.

D.: Quella di “Futuro” è stata un’avventura breve, ai tempi. Anche se poi l’avresti rifondata con Ugo Malaguti e oggi la pubblichi con il titolo “Futuro Europa”.

R.: Sì, la prima “Futuro” è morta nel 1964, dopo il fallimento di un distributore e il subentrare del secondo. Otto numeri usciti e non vedemmo neanche un soldo, proprio perché il distributore fallì. Chiuso quel ciclo, le prospettive per la mia narrativa mi sembravano zero. Non scrivevo più niente. Nel 1975 ho lasciato la scuola, mettendomi in aspettativa; quindi sono andato in pensione. Intanto, già nel 1968 eravamo andati via da Roma e ci siamo trasferiti a San Cipriano Po, il paese dove sono nato: ho  insegnato ancora qualche anno in zona e Mirella ha fatto lo stesso. Poi ci siamo ritirati.

D.: Come è stato l’impatto con queste terre?

R.: Appena arrivato da Roma in provincia di Pavia, mi è sembrato di sbarcare su un altro pianeta. Dove fra l’altro comandavano i fascisti. Per due anni non abbiamo avuto neanche una casa, mentre costruivamo questa: poi mi hanno eletto sindaco e ho rivoltato le carte in tavola, sul piano politico. Ho fatto ribattezzare via Gramsci la strada in cui viviamo e ho ripreso a scrivere.

D.: Hai messo subito mano al tuo primo romanzo, Quando le radici?

R.: Guarda, i primi capitoli di Quando le radici li avevo già scritti a Roma nel 1966: ma allora ero troppo occupato a vivere. Alla fine, quando il libro è uscito nello Science Fiction Book Club della Tribuna (1977), rispecchiava abbastanza fedelmente quello che avevo fatto nella realtà, il trasferimento da Roma al Po. In questo paese, San Cipriano, sono successe proprio le cose di cui parlo nel romanzo.

D.: E’ una storia tormentata ma realistica, una  profetica visione dell’italia del futuro. Come venne accolta, all’epoca?

R.: Credo che fosse accusata di pavesismo, di eccesso di realismo provinciale, cose del genere. Anche per questo, quando l’editore De Vecchi mi commissionò un secondo romanzo decisi di cambiare registro e il risultato fu Eclissi 2000 del 1979.

D.: Come avevi conosciuto De Vecchi?

R.: Tramite Mario Macario, il figlio di Erminio. Eravamo amici, lui aveva un contatto con De Vecchi e mi chiesero di scrivere un altro libro. Eclissi sembra la storia di un viaggio interstellare, tema popolare ma secondo me insostenibile: tuttavia, negli ultimi anni mi sono convertito all’idea che una cosa del genere puoi scriverla come puro divertissement. Lo stesso vale per i viaggi nel tempo. In un certo senso, però, anche Eclissi 2000 è una professione di fede: l’astronave Terra Madre rappresenta il socialismo e il romanzo poggia sulla tesi che non puoi costituire un governo, anche socialista, senza dire bugie e promettere cose false: è questo il significato dell’astronave che non vola.

D.: Poi, nel 1980, è stata la volta di Nel segno della luna bianca scritto con Daniela Piegai e pubblicato dalla Nord.

R.: Il nostro titolo era Febbre di luna ed è stato restaurato per la riedizione fatta dalla Perseo Libri. L’idea ci è nata per sfatare le tante cavolate sulla Tradizione con la T maiuscola, la destra eccetera. Volevamo fare un fantasy che fosse dichiaratamente di sinistra, e come tale fu attaccato da Gianfranco de Turris e altri. Costoro lo giudicarono il peggior romanzo sporcaccione prima di Porci con le ali

D.: Come era suddiviso il lavoro tra te e la Piegai?

R.: Il romanzo è prevalentemente mio perché la trama è mia dalla “A” alla “Z”, ma avevo bisogno di una collaboratrice come la Piegai che è esperta in sortilegi, leggende eccetera. Mi ha tolto le castagne dal fuoco in varie occasioni, ma il romanzo lo sento mio.

D.: Così arriviamo alla Croce di ghiaccio del 1989, il romanzo pubblicato dalla Perseo.

R.: Sì, e la sua genesi può essere cercata nel fatto che avevo un amico prete. Costui aveva una gran paura  di finire ammazzato da un momento all’altro per mano degli zingari che avrebbe dovuto evangelizzare. E’ stato quest’amico a introdurmi nel mondo degli zingari, è il prete che nel romanzo viene ammazzato dai gironiani. Ma il problema religioso non è pertinente o centrale al mio libro: non sono d’accordo con i critici cattolici come Antonio Scacco, secondo i quali sarebbe un romanzo scritto per fare andare d’accordo scienza e religione.

D.: Nella tua carriera i racconti hanno sempre avuto una posizione predominante. Li preferisci ai romanzi?

R.: Sì, indubbiamente. La fantascienza è un genere che si regge sulla bontà dei suoi racconti o al massimo delle novelette, cioè i racconti lunghi. A chi fosse preoccupato della sorte dei personaggi, posso assicurare che in un racconto è possibile delinearli con la stessa efficacia. Se basta una schioppettata per abbattere un volatile, perché sprecarne tre o quattro? Personalmente, ritengo di aver scritto vari romanzi che hanno la lunghezza di racconti: “La costola di Eva”, “Trentasette centigradi”, eccetera.

D.: Quale consiglio daresti a un giovane aspirante scrittore?

R.: Tu vuoi farmi dire qualche banalità! Non si possono dare consigli, semmai augurare a tutti di  avere una gran fortuna, imboccare la strada giusta. In realtà nessuno può dire come si fa, men che meno io. Bisogna avere serietà innanzi tutto.

D.: Cosa ti piace leggere di fantascienza?

R.: Da anni non la seguo più, a parte quello che arriva alla redazione di “Futuro Europa” e che leggo per dovere.

D.: E quali criteri segui, in questo tuo “dovere”?

R.: Colmo con uno sforzo il gap della mia ignoranza.

D.: Secondo te, ha ancora senso scrivere science fiction? 

R.: Sì, ma solo a patto di mettere in risalto la “pars destruens”, non la “pars construens”. Altrimenti ci limiteremmo a scriverla solo perché siamo nel campo, la conosciamo e compagnia bella.

(Intervista raccolta da Giuseppe Lippi con il contributo di Mirella Aldani, Ugo Malaguti e Sebastiana Vilia a San Cipriano Po, PV, il 18 settembre 2004. Pubblicata su “Urania” n. 1494 nel gennaio 2005.)

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Voci dal domani

gennaio 23rd, 2009

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Altra doverosa segnalazione che interesserà gli appassionati in zona. Sabato prossimo 31 gennaio, a partire dalle ore 18.30, Vittorio Catani ed Eugenio Ragone saranno gli animatori di una performance teatrale presso il centro polifunzionale L’Eccezione di Puglia Teatro, in via Indipendenza 75 a Bari. L’evento, organizzato con la collaborazione di Angela e Francesco Ragone, comprenderà la lettura di un certo numero di racconti.

Vittorio Catani uscirà prossimamente in “Urania” con il suo nuovo romanzo fantascientifico, Il Quinto Principio.

Nel seguito, riportiamo il comunicato stampa dell’evento:

Mai come oggi ci preoccupiamo del futuro nostro e dei nostri figli. Mai come oggi rimuoviamo il futuro per vivere alla giornata. “Non ci sono più i bei futuri d’una volta”, si direbbe. Eugenio Ragone e Vittorio Catani, “esperti in futuro” per la loro pluridecennale attenzione alle trasformazioni tecnologiche e alla narrativa di fantascienza, presentano VOCI DAL DOMANI. Sette brevi letture drammatizzate focalizzate su aspetti-chiave del mondo che ci attende dietro l’angolo.
Il proliferare di aggeggi tecnologici inutili, il mai tramontato pericolo atomico, meraviglie e allucinazioni dell’ingegneria genetica, l’illusione che la scienza – da sola – risolva i nostri problemi, l’acquisizione di nuovi vasti mercati a qualunque costo…
Sette flash articolati dal drammatico al grottesco, dall’incubo alla satira feroce, fino al surreale, al mistico, alla riflessione un tantino malinconica:

1) CINQUE MINUTI DI GENIO, di Vladen Bakhnov
2) LE OMBRE, di Vittorio Catani
3) LA BALLATA DI NAUGHTY SAM, di Fabrizio Gabella
4) IL NOSTRO AGENTE A MADRAS, di Gert Hofman
5) IL MIRACOLO SEGRETO, di Jorge L. Borges
6) LETTERA ALLA REALE ACCADEMIA DI BRUXELLES, di Benjamin Franklin
7) STORIA ANTICA, di Lamberto Pignotti

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