Orizzonti

Futurismo e fantascienza

febbraio 10th, 2010

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L’anno scorso è stato celebrato ovunque il centenario del movimento futurista, ma pochi si sono preoccupati di stabilire eventuali rapporti tra la celebre avanguardia italiana e la narrativa di fantascienza. Lo fa per noi uno studioso come Gianfranco de Turris (nella foto accanto), che ha accettato di pubblicare qui la sua relazione sull’argomento, discussa a Trieste nel novembre 2009.

“Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!”

Manifesto e fondazione del Futurismo, 1909

Sembra quasi ovvio affermare che se in Italia ci fu un movimento artistico che può avere dei punti con contatto regolari e non occasionali con quella che chiamiamo science fiction, fantascienza, questo è stato il futurismo: l’avvenire era il loro punto di riferimento, il modernismo la loro filosofia, la macchina il loro mito. La fantascienza, così come venne codificata da Hugo Gernsback nel 1926 voleva effettuare divulgazione scientifica attraverso una narrativa popolare di genere avventuroso; il movimento di Marinetti rinnegava i canoni estetici del passato e si sentiva proiettato nel futuro utilizzando nella prosa e nella poesia tutte le novità tecnico-scientifiche della sua epoca. Leggi tutto »

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Palermo Scienza 2010

febbraio 3rd, 2010

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Nel capoluogo siciliano, una settimana di convegni, mostre, incontri e proiezioni dedicata alla scienza. Con un occhio di riguardo per il suo futuro.

Riceviamo da Vincenzo Miceli e volentieri pubblichiamo la segnalazione di un evento culturale che potrà interessare gli appassionati di Palermo e dintorni. Palermo Scienza esperienza inSegna 2010 è “una festa per la Scienza proposta alla città da un gruppo di scuole e di enti coordinati da Marcellina Profumo e Carmelo Arena per comunicare Scienza in modo che lasci un Segno”. Il tema di quest’anno, la Biodiversità, verrà svolto attraverso mostre, convegni e incontri, in un evento a 360° che si svilupperà dal 18 al 25 febbraio presso l’Università di Palermo (edificio 19 in Viale delle Scienze).

Tra gli appuntamenti proposti, anche una rassegna di spettacoli tra cui, nell’area tematica “Cinema e Scienza”, con le docufiction 2059, cronache dal futuro (La città cervello, Il corpo rinnovabile, L’energia del mondo) e i film E venne il giorno di M. Night Shyamalan e Ultimatum alla Terra di Scott Derrickson. Tutti i dettagli sui luoghi e i tempi sono sul sito della manifestazione (o direttamente qui).

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Epix, la recensione di Enzo Verrengia

agosto 3rd, 2009

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Riportiamo un articolo di Enzo Verrengia, uscito lo scorso 5 luglio sulle pagine della “Gazzetta del Mezzogiorno”, che recensisce la nostra nuova collana dedicata alle forme del fantastico: “Epix”.

Una nuova serie arricchisce le collane Mondadori riservate ai generi. Si tratta di “Epix”, partorita dalla redazione Oscar e dall’egida di Sergio “Alan D.” Altieri, grande affabulatore di action stories saldamente al timone del settore mass market. Veramente, qui più che di un genere bisogna parlare di commistione, termine preferibile a “contaminazione”. Gli autori, stanchi di venire ingabbiati in definizioni e “scuole”, fondono noir e fantascienza, thriller e complotti, fantasy e avventura. La collana “Epix” rinverdisce i fasti di un filone dal quale uscirono i grandi del fantastico americano del XX secolo: Lovecraft, Matheson, Ellison. Una chiave per interpretarli è il cosiddetto weird tale, il racconto dell’insolito, nel quale, appunto, possono convergere suggestioni multiple.

Così “Epix” apre con Terry Brooks, il creatore del ciclo di Shannara, e Valerio Evangelisti, ambedue maestri delle alchimie più travolgenti, quando c’è da inventarsi scenari inattesi. Un americano e un italiano dai talenti complementari. I figli di Armageddon, di Terry Brooks (Mondadori, pag. 416, Eur. 4.90) ripropone il tema postapocalittico in forma del tutto inedita. Qui la Terra distrutta da una biblica combinazione di guerra e collasso ecologico lascia spazio all’irrompere del fiabesco. Un fiabesco tetro, cupo, disperato, certamente. Non più il far west futuribile di Mad Max, bensì una sorta di omaggio a Conan il Barbaro e ai cicli di Robert Howard. L’interazione fra armi, elementi scatenati ed epidemie ha prodotto una nuova specie, che supera il concetto di mutante. Dove ha vinto il Male, non possono che imperversare i Demoni. Ma vi si contrappongono individui che serbano ancora i resti della parvenza umana. Sono Logan Tom e Angela Perez. Il primo animato da un idealismo tipico degli eroi, la seconda determinata trasformare le oasi degli scampati in vivai di ripopolamento. L’uomo e la donna uniti nella classica traccia della “quest”, la ricerca del portento in cui risiede la salvezza. Per I figli di Armageddon questa risiede nei poteri indecifrabili del Variante, la cui natura apparentemente magica nasconde il segreto della riscossa per l’umanità.

L’altro volume di “Epix” è Acque oscure, di Valerio Evangelisti (Mondadori, pag. 240, Eur. 4,90). Imperdibile antologia di uno dei pochi nomi delle lettere italiane affrancatosi alla grande da ogni sudditanza rispetto ai best-seller di importazione. Il suo Inquisitore Nicolas Eymerich è un’autentica icona di culto. Nel libro, peraltro, si conquista uno spazio gustosissimo con due parodie. “Eymerich contro Dan Brown” e “Eymerich contro Palanihuk” sono occasioni straordinarie di confronto sulla narrativa contemporanea, accorpata in due scrittori diversamente esemplari di ciò che attrae più lettori.

Esilarante anche “Marte invaderà la Terra”, in cui Valerio Evangelisti applica alla lettera il meccanismo della guerra preventiva a un’invasione strumentale del pianeta rosso per fini di lucro. Si scopre, dunque, che le campagne di imbonimento mediatico e la propagazione di notizie artefatte va benissimo anche per scatenare un conflitto interplanetario.

La prosa fluida e impeccabile di Evangelisti risucchia nelle correnti di narrazioni sempre dense di sorprese e mai avulse da una visione distopica delle cose.

I figli di Armageddon e Acque oscure, insomma, si prestano alla perfezione per il lancio di “Epix”, che non mancherà di imprimere nuove svolte all’immaginario.

Enzo Verrengia

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Giuseppe Lippi intervista Danilo Arona

luglio 28th, 2009

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Il curatore dell’antologia Bad Prisma, in edicola ad agosto nella collana “Epix”, rivela i retroscena della sua attività e di questo progetto al nostro curatore Giuseppe Lippi.

GIUSEPPE LIPPI: Raccontaci brevemente di te. Cosa ti ha spinto a diventare prima un erborista e poi uno scrittore?

DANILO ARONA: Sarò sincero… Nel 1975 ero il fidanzato della erborista. Per il testosterone in circolo all’epoca, ben superiore a quello odierno, seguii la tipa nell’avventura commerciale. Poi lei mollò in contemporanea me e l’esercizio e io francamente non me la sentii di mandare tutto in malora. Resistetti per un po’ da solo, poi per fortuna all’inizio degli anni Ottanta incrociai nella mia (futura, allora) moglie che si accollò entrambi, me e l’esercizio. Io già scrivevo, soprattutto saggistica cinematografica. Giravo i festival (Parigi, Sitges, Avoriaz…) e in tutta sincerità non pensavo di “fare lo scrittore”. Però, a furia di vedere film, ti crescevano storie dentro. E insomma nel 1983 ci provai… Ero impallinato con l’horror ambientato nella provincia italiana. Ancora ci sto provando, si può dire.

GL: Tu hai cominciato la carriera professionale scrivendo articoli di cinema per la prima edizione di “Robot”, negli anni Settanta. Come vedi mutati i tempi fantascientifici, da allora?

DA: Sono mutati, sì… Temo che si siano ristretti gli spazi. Il problema è che la fantascienza ha debordato nella realtà. La fantascienza è praticamente la cronaca quotidiana. Così la narrativa ha perso il suo potere di anticipazione, il suo fascino presago. Provocando un crollo di attenzione e d’interesse. Ed è un assoluto peccato. Resiste al cinema per un insieme di fattori: effetti speciali, crogiuolo di generi, supereroi della Marvel,  spettacolarità seriale tipo Terminator… Ma chi si leggerebbe un libro del serial Terminator? Sulla carta stampata sono crollati Star Trek, X Files… Ci sono storie che funzionano solo sullo schermo, grande o piccolo che sia.

GL: Parlaci di Bad Prisma, la raccolta di racconti italiani da te curata che esce su “Epix” in agosto. Chi è Melissa, questa incarnazione del male che è il filo conduttore di tutta la vicenda?

DA: Melissa è uno spettro, anzi “lo” Spettro. Non è farina del mio sacco, non l’ho mai nascosto. Stava in un sito, presentata come “storia vera”, quella di una ragazza senza identità, bionda, si presume bella, investita alle 5, 20 del mattino il 9 dicembre del ’99 sull’autostrada vicino al casello di Padova… Un sito misterioso e affascinante che riportava diverse testimonianze di automobilisti che l’avevano avvistata alla stessa ora in altri punti del reticolato stradale italiano… Ognuno aveva provato la sensazione visiva d’investirla… Da questo primario presupposto risulta evidente la sua natura “prismatica”. Lo stesso fantasma a più facce, più identità, ma sempre lui… Non è facile da spiegare. Me ne sono impadronito. Peraltro, come ho già sottolineato, l’ignoto webmaster lo presentava come un autentico fatto di cronaca. E la cronaca non è esclusiva di alcuno. A Melissa ho già dedicato quattro libri, Cronache di Bassavilla, Melissa Parker e l’incendio perfetto, Pazuzu (il titolo e il genere sono fuorvianti, ma scrivo sempre di lei…) e un inedito che vedrà la luce nel 2010. Melissa è una e tante perché si aggancia alle ossessioni e agli incubi di ciascuno.

GL: Entrando nel merito  del volume, come ti sei trovato a gestire questo vero e proprio mosaico? Infatti, a ciascuno dei numerosi autori che hai scelto di contattare hai affidato il compito di scrivere “una storia di Melissa”, un particolare capitolo dell’insieme…

DA: Ho contattato amici, è vero, ma ho contattato ovviamente coloro che già conoscevano e apprezzavano il mio “Melissa Project”, in modo da non dover spiegare nulla ed evitare gli indottrinamenti (operazione peraltro di cui non sono affatto capace). A ognuno ho lasciato la massima libertà di declinazione del tema, con pochi riferimenti inevitabili: Melissa = fantasma biondo che ossessiona l’umanità sin dai primordi, soprattutto sulle strade di qualsiasi tipo. Ghost on the road. Ho solo chiesto un riferimento temporale specifico (evitando magari di accavallarsi tutti nel tempo presente…) in modo da poter montare l’antologia in senso cronologico, così che il lettore possa percepire il lavoro come un romanzo a tappe temporali. La cosa che più mi è piaciuta è che ognuno ha inserito senza forzature Melissa  nel proprio universo narrativo. Il racconto di Alan Altieri è quello più paradigmatico sotto questo aspetto.

GL: Quale ti pare il significato complessivo del volume?

DA: E’ un ottimo libro, non per merito mio, ma per il valore di chi vi ha partecipato. Alan Altieri dice che è un’operazione unica al mondo… Certo, siamo dei tifosi, ci mancherebbe che non fosse così. Però, al di là dei gusti e degli sbilanciamenti affettivi, Bad Prisma dimostra che, quando raggruppi la gente attorno a un progetto forte e condiviso, la nave va in porto senza il minimo problema. Con soddisfazione generale. Sarò scemo, ma per me è vera la storia dell’unione che fa la forza. E poi sai qual è l’aspetto ancora più straordinario? Tutti i “melissiani” (o badprismatici?) sono fra loro amici per la pelle. Nel 2009, in Italia, con l’aria che tira, questo mi pare già incredibile.

GL: Come vedi la situazione dell’horror oggi?

DA: In Italia interessantissima. Con autori – e autrici! – di livello planetario. Con un horror peculiare e tipicizzato che affonda alcune sue radici nel folklore, ma anche nella cronaca più scottante. Diventando quello che il noir non riesce più a essere: un genere di autentica denuncia, politicamente – se si vuole – scorrettissimo. Non faccio nomi, non serve, e poi magari nella fretta mi dimentico qualcuno. Però vorrei aggiungere che, oltre ai soliti noti, ci stanno torme di agguerriti giovani a conferma che il gotico e l’horror hanno una seria e storica possibilità di emergere e non limitarsi alla solita e afflitta parrocchia di venditori di gelato in Siberia. Aggiungo solo che l’horror italiano riesce a essere diverso da tutti gli altri al mondo quando dimentica le suggestioni americane, combinando i generi popolari e riscoprendo motivazioni culturali e fondative.

GL: Il cinema ti interessa ancora come allora?

DA: Certo. Se posso, vado ancora in sala. Non frequento più i festival perché la frequentazione assidua della letteratura mi ha, come dire, un po’ estromesso dal “giro”. Però il cinema resta ovviamente un primo amore. Vedo di tutto, non solo horror. Poche vere emozioni in realtà negli ultimi anni. Dopo i grandi autori dei “nostri” tempi (Carpenter, Cronenberg, Hooper, Craven e qualcun altro), abbiamo solo più un pavido elenco di anonimi shooter che girano tutti allo stesso modo. Negli anni Settanta-Ottanta avresti riconosciuto un Carpenter dallo stile e dall’atmosfera senza la necessità di saperlo dai titoli di testa. Chi oggi ti può garantire un simile risultato? Non mi viene in mente proprio nessuno.

GL: Per concludere, quali sono i tuoi attuali progetti?

DA: Giusto per contraddire la risposta precedente (ma sono uno schizzato dei Gemelli), sto ultimando un saggio critico su Gli uccelli di Hitchcock per una nuova collana curata da Paolo Zelati.  E’ una sfida affascinante: 560.000 battute su un unico film, peraltro il vero precursore dell’horror moderno… Poi vari racconti in altrettante antologie. Pare che Bad Prisma stia aprendo una strada. Speriamo che quest’ultima non stia tra quelle indicate nel sottotitolo: lì, in basso, a destra: tutte le strade per l’inferno!

[La foto di Danilo Arona è di LudovicusMed, scattata in occasione della presentazione romana del libro L’estate di Montebuio (Gargoyle Books), lo scorso 2 luglio.]

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Introduzione a “Il mondo degli showboat”

luglio 9th, 2009

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Pubblichiamo l’introduzione all’Urania Collezione di questo mese, firmata dal nostro Curatore Giuseppe Lippi. 

Showboat World ci riporta sul Pianeta Gigante, una delle prime e più fortunate creazioni di Jack Vance, l’immenso mondo povero di metalli dove hanno trovato asilo i paria e i senza-regola della Terra, i quali hanno dato vita a un groviglio di civiltà anacronistiche e post-tecnologiche. Come tutti ricorderanno, il pianeta faceva mirabilmente da sfondo a uno dei romanzi più famosi dell’autore californiano, Big Planet appunto (L’odissea di Glystra, 1952), e il suo ritorno in Showboat World, un romanzo del 1975, indica in Vance il bisogno di un ambiente fantastico del tutto eccentrico rispetto alle correnti mode fantascientifiche.

E infatti la vasta regione del fiume Vissel, dove Showboat è ambientato, coi suoi colori, le sue brezze, i suoi vascelli e i gonfaloni, le strane tribù e i desueti costumi, i cappellacci ornati di piume, stivali, sciabole e schioppi è più prossimo a Salgari che a John Campbell; e ciò che di più fantascientifico possiede è l’humor culturale, quello strizzar l’occhio alle sinistre abitudini che talora così da presso parodiano le nostre (anche se la maestria di Vance giunge al punto da passare quasi con negligenza queste osservazioni, da farne solo uno spunto del suo merletto più ricco).

Come è chiaro nel romanzo, ciò che interessa Vance è anzi tutto l’esotica avventura; un’avventura non tanto vissuta nei modi amari e romantici di Conrad, di Melville, dei metafisici del mare insomma; ma in quelli più scanzonati, e leggeri, d’un immaginario operettista. Potremmo anzi dire con una certa dose di verosimiglianza che Showboat sia una River Opera e che dell’operetta Vance fornisca, lungo il romanzo, la ricetta ideale attraverso le simpatiche teorizzazioni di Apollon Zamp, Garth Ashgale e Throdorus Gassoon. Leggi tutto »

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Come ladro di notte: l’introduzione all’edizione del 1972

giugno 15th, 2009

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Riportiamo l’Introduzione all’edizione 1972 del romanzo Come ladro di notte di Mauro A. Miglieruolo, a firma dei curatori di Galassia Vittorio Curtoni e Gianni Montanari.

Eccoci dunque al terzo romanzo italiano che Galassia presenta ai lettori nella sua nuova veste. Più di un anno e mezzo ci è occorso per ritrovare e accomodare (grazie in special modo a Lino Aldani) quest’opera davvero unica che da parecchio tempo languiva in un cassetto, ma ora possiamo tenerla a battesimo con legittimo orgoglio.

Come ladro di notte (non ‘nella notte’ – vedere Prima Lettera ai tessalonicesi in: Ricciotti – Le lettere di San Paolo – Coletti Editore Roma 1958 – Pag. 14 paragrafo 5 – dizione questa che l’autore preferisce alle altre traduzioni) risale come prima stesura al 1966, pur essendo stato definito l’anno seguente. Come Miglieruolo tiene a sottolineare, e come l’opera stessa rivela chiaramente, il romanzo è stato scritto in un periodo di intensa trasformazione della sua personalità politica. La maturazione definitiva e successiva a quel periodo lo avrebbe poi costretto a rinnegare il tipo di impostazione filosofica e moralisticheggiante data al romanzo, ma fortunatamente non gli avrebbe impedito di conservarlo per tutti noi.

Il carattere che più si presenta evidente alla prima lettura è la davvero enorme mole di elementi che sono stati chiamati a costruirlo: Come ladro di notte è un romanzo che oseremmo chiamare apocalittico, oltre che per la bizzarra operazione di sintesi subita dal linguaggio, per il suo coinvolgere più o meno quasi tutti gli aspetti attuali e futuri del vivere civile. Forse l’unico difetto risiede proprio in questa sua molteplicità di intenti mai portati compiutamente a termine. A questo proposito è Miglieruolo stesso a offrircene una spiegazione.

“Il romanzo” egli dice “ha il difetto inevitabile di ogni opera concepita in periodi di rapida trasformazione. È parziale e spesso superfluo, nella misura in cui accenna o imposta problemi che poi non vengono sviluppati perché hanno perso il sostegno delle forze interiori che li ispiravano, o che rimangono esterne alle esigenze dell’azione e dell’ispirazione complessiva. Vedi per esempio il tema di Elio palesemente incompiuto rispetto agli sviluppi possibili; idem per i rapporti Zanzotto-Silvana e Zanzotto-crisi-Congrega.

Ma ciò che ci spinge soprattutto a non tenere conto di questo difetto è l’incredibile (e meraviglioso) universo che prende vita dalle pagine del romanzo. Mai nulla di simile era stato in precedenza tentato da uno scrittore italiano di fantascienza. Moduli e schemi classici vengono rilevati da Miglieruolo e deformati nella sua alchimia personale della parola, immersi in un bagno misterioso da cui emergono ricoperti di una patina affascinante. L’ideale cosmico di morte che pervade ogni mossa e ogni intento della Congrega appare come il punto fermo di un’intera concezione esistenziale. E il lento germe della corruzione si infiltra silenzioso in questo immenso apparato, mentre tutt’intorno si agitano le patetiche figure che intendono arrestarne o aiutarne la corsa maledetta.

Un grandioso affresco dipinto dagli uomini e da questi incrinato e condotto alla rovina. Una morale, forse? Oppure un atto di accusa?

Vittorio Curtoni e Gianni Montanari

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Intervista con Mauro Antonio Miglieruolo

giugno 15th, 2009

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Una conversazione del curatore Giuseppe Lippi con l’autore italiano a cui è dedicato l’Urania Collezione di questo mese.

GIUSEPPE LIPPI: Quando hai cominciato a interessarti di fantascienza? E prima, qual è stata la tua formazione culturale?

MAURO ANTONIO MIGLIERUOLO: Ho deciso che sarei stato lettore di fantascienza molto prima di cominciare a leggerla. È una cosa che mi è nata dentro, un virus extraterrestre presente nell’aria e che probabilmente ho respirato senza accorgermene nelle rare occasioni in cui abbandonavo il mio involontario reclusorio di pre-adolescente in quel di Roma, via Lavinio 20. All’epoca abitavo da certi miei vecchi prozii, preoccupatissimi delle responsabilità che la custodia comportava e che a stento mi concedevano di mettere il naso fuori casa; naso che a me, abituato alla libertà totale di un bambino del profondo sud, neppure andava tanto di mettere fuori, avvilito com’ero dall’ininterrotta distesa di asfalto e cemento con cui mi toccava avere a che fare. La fantascienza rappresentò allora forse l’unica accettabile via di fuga, o di ritorno al contatto con la natura. La natura aliena dei mille mondi e relative mille avventure, in sostituzione di valli, montagne, boschetti, caverne, rovine e fiumare che non mi era più concesso di affrontare direttamente.
Poi un giorno ebbi in tasca il danaro sufficiente per effettuare il mio primo acquisto e decisi che fosse un libro, un fascicolo di “Urania” per l’esattezza: Cittadino dello spazio. Lo comprai all’edicola di via Cerveteri, adiacente via Lavinio (l’edicola, come ho potuto verificare recentemente, è ancora attiva nello stesso cantone che ricordo). Rimasi alquanto deluso dalla lettura del romanzo. Mi aspettavo molto di più di quel che vi trovai. Molto più senso del meraviglioso, molta più invenzione, molta più sospensione dell’incredulità e allontanamento dalla realtà. Poco dopo trovai questo e altro su un carrettino di quelli che pullulavano all’epoca, vicino al cinema Appio. Il carrettino esibiva una gran messe di fascicoli di fantascienza che potevo acquistare (favoloso) a metà del prezzo di copertina. Me ne ingozzai. Da quel momento il mio unico pensiero fu di risparmiare su tutto per mettere da parte l’occorrente per poterne acquistare altri. Mi sobbarcai persino l’onere di farmi a piedi il percorso scuola-casa (all’andata no, non potevo permettermi di far tardi e  non era neppure conveniente: il costo del biglietto infatti, anch’esso dimezzato prima delle otto, era di appena dieci lire). Ogni percorso all’uscita da scuola, invece, mi fruttava un risparmio di ben venti lire. Messe insieme, corrispondevano al valore di un paio di “Urania” alla settimana. In questo modo, dunque, potei scoprire la gloria dei famosi primi cento numeri dei “Romanzi di Urania”, nonché i favolosi quattordici di “Urania” rivista. Scoprii il significato della parola felicità, una felicità nella quale mi inoltravo solo una volta alla settimana, ma che riverberava su tutto il resto.
Dal punto di vista culturale occorre si sappia che sono un perfetto autodidatta, avendomi la scuola fornito di una base assolutamente mediocre, non idonea ad affrontare quel che poi sarebbe diventata la mia passione: scrivere racconti. Mi sono formato infatti, come scrittore ma anche come lettore, principalmente sui fascicoli di “Urania”, “Scienza fantastica” e “Oltre il cielo”, moltiplicando le riletture e fantasticando ― dopo aver constatato l’inevitabile rarefarsi dei “capolavori” ― sulla possibilità di scriverne autonomamente. Fortuna ha voluto che frequentassi un altro lettore accanito come me, che divenne destinatario dei miei primi tentativi: un mio conterraneo, tale Franco Adinolfi, dal quale il tempo mi ha separato. È anche per merito suo e dei suoi incoraggiamenti che mi sono ostinato nel perseguire l’ambizioso obiettivo di misurarmi con i grandi della fantascienza (del risultato non dico; dico della spinta che mi portò all’azione…).
I contatti con la grande letteratura vennero molto più tardi, tramite l’assidua frequentazione delle biblioteche pubbliche. Più tardi ancora, quando nel 1963 iniziai l’attività lavorativa e potei disporre di un reddito personale, passando dalle biblioteche alle librerie, i contatti con la cultura contemporanea si intensificarono attraverso il massiccio acquisto di ogni sorta di libro, dei quali riempii in breve la mia vita. Scienza e filosofia, più che la stessa letteratura, divennero gli obiettivi preferiti. Joyce, ad esempio, lo conobbi molto tardi e per esclusivo merito di Lino Aldani che mi fornì il testo e mi sollecitò a leggerlo (Ulisse). In un tempo successivo, dopo i soliti grandi di ogni tempo, a partire dai russi (Dostoevskj, Solgenitsin, Puskin, Tolstoi in testa), incontrai Svevo, Gadda, Marotta, Fenoglio, Levi, Maraini ecc., cioè i grandi della pur grande letteratura italiana. Incontro che mi confortò e sostenne in un certa misura le mie pretese di competere con gli scrittori d’oltreoceano, cosa che allora mi sembrava impresa folle, degna di essere perseguita in ragione proprio della sua follia.
Oggi, al contrario, considererei una diminuzione essere paragonato a uno dei fortunati che ne hanno ricevuto l’eredità; almeno a me, e non credo di essere il solo, la fantascienza americana attuale ha ben poco da dire. Numerosi sono anche gli apporti scientifici, prevalentemente divulgativi, che hanno turato le falle della diseducazione scolastica: Gould, Kamin, Lewontin, Hawking ecc.; nonché quelli filosofici (decisivi) dovuti all’ingegno di  Balibar, Lecourt, Althusser, Bettelheim, Lukacs, Havemann, Turchetto, Preve, un’infinita serie di autori. Sono proprio loro ad avermi trasmesso la ricchezza ideologica che mi ha permesso di tornare alla fantascienza con un bagaglio di conoscenze sufficiente ad alimentare la mia ambizione di innovare in un campo in cui l’innovazione è all’ordine del giorno.

GL: Gli interessi sociali e politici sono stati sempre importanti nella tua vita?

MAM: In quanto generico membro della comunità degli italiani sì, certo, lo sono sempre stati. Anche prima che maturassi l’attuale orientamento politico: infatti quando, senza tentare di nascondermi troppo, avrei potuto tranquillamente passare per un democristano di destra, ero mosso da molti dei valori di oggi. La parola solidarietà aveva un senso per me. Così come l’istintiva rivolta contro la sopraffazione, il pregiudizio, la discriminazione, il raggiro, l’abuso del debole e la violenza. Ritengo che questi valori, oggi in pieno declino, dovrebbero far parte di qualsiasi individuo, di destra, centro o sinistra. E che anzi la qualifica di cittadino sia effettivamente meritata quando questi valori costituiscano l’asse della personalità. Il problema è che l’attuale democrazia può funzionare soltanto in presenza di una relativa passività (e disinteresse per la politica) da parte delle masse. Anzi questa è voluta, provocata. Lo stupidario politico, il linguaggio ermetico, il dire detto in modo da sembrare tutt’altro da ciò a cui le parole oscuramente alludono, l’ipocrisia, la disonestà, la chiusura della casta in se stessa, non sono fatti contingenti, errori; ma conseguenza della necessità di provocare disgusto nelle persone e mantenerle lontane dalla gestione della cosa pubblica. Perciò vedo positivamente la presenza in politica delle persone qualsiasi (anche quelle molto distanti idealmente da me). Perché questa presenza costituisce l’unica via per impedire ai potenti, tramite i professionisti della politica, di fare e disfare a modo loro. In assenza delle masse e di molteplici organismi di controllo dal basso, la democrazia si trasforma in un semplice rito. In niente. Il che fa sì che funzioni in effetti come un’oligarchia.
Molto meno interessato sono invece all’attività politica in senso proprio. Essa è del tutto marginale nella mia vita. Ho le mie idee ma non amo agitare bandierine, né servire altre cause che non siano la mia e quella del mio vicino di casa. In effetti il periodo in cui mi sono lasciato coinvolgere è abbastanza limitato. Dal 1967 alla cosiddetta “linea dell’Eur” nel 1975, anno d’inizio di tutto il male che poi si è succeduto [1]. Ho continuato a corrente alternata per qualche altro anno e poi ho definitivamente chiuso. In quel periodo mi sono impegnato a contribuire a rendere il paese migliore di quanto fosse. C’era bisogno di dare una mano e l’ho data, come ho saputo e potuto (senza ipocrisia: credo di aver fatto bene). Ma la mia vocazione non è la politica. La mia vocazione è la letteratura, scrivere, leggere e riflettere sull’attività dello scrittore e del lettore.

GL: Che anno era quando hai avuto l’idea di Come ladro di notte?

MAM: Non ricordo bene, ma la data della concezione deve risalire al 1966. Forse prima, ma non sono sicuro. Certo è che nel 1967 il romanzo non solo era finito, ma anche battuto a macchina. Di più la memoria non mi permette di dire. A parte che dovevo essere molto arrabbiato e amareggiato quando gli ho dato inizio.

GL: Cosa intendi per “marxismo non-marxista”, il concetto che citi nella tua postfazione al romanzo?

MAM: Non è facile rispondere sinteticamente a questa domanda. Ci provo. Parto da ciò che credo sia a tutti noto, che cioè Marx è stato il primo a dichiararsi non marxista. Questo prendere le distanze non riguardava il suo stesso pensiero, che per altro, come avviene per tutti i grandi innovatori, era in costante evoluzione; riguardava le modalità di lettura (con i paraocchi dell’ideologia dominante) e, conseguentemente, le interpretazioni deviate a cui questa modalità dava luogo. Sotto la pressione del pensiero dominante, nel quale erano stati allevati, gli intellettuali invece di sviluppare le novità rintracciabili nel Capitale le riconsegnavano, pur senza rendersene conto, al passato scientista che Marx aveva appena abbandonato (non senza ripensamenti, ritorni indietro ed errori). Su questo punto le parole di Lenin sono non solo inequivocabili, ma del tutto condivisibili. Afferma Lenin che soltanto ponendosi del punto di vista del proletariato la teoria di Marx è intelligibile; e soltanto da quel punto di vista la teoria è applicabile e può vincere. È il punto di vista dell’osservatore che determina i risultati dell’esperimento (su questo punto la concordanza di Marx con la fisica quantica di là da venire è quantomeno sorprendente). Dopo la morte di Marx e Engels, la divaricazione tra il messaggio marxista e il marxismo all’opera nella società aumenta ulteriormente. A parte un riferimento ad alcune generiche parole d’ordine e frettolose formulazioni, il marxismo della Seconda Internazionale ha ben poco del messaggio originale. Esso si caratterizza per un economicismo e uno storicismo che si scontrano frontalmente con la teoria di Marx, teoria che fondamentalmente è non-economicista (Marx ha come riferimento lo studio di un tutto sociale, cioè la società nel suo insieme, non la mera base economica); con Stalin, infine, l’irrigidimento della teoria, la chiusura di ogni spazio di discussione atto a correggere questi orrori teorici, l’equivoco supplementare determinato dallo statalismo, dal dirigismo e dal sostitutismo (l’identificare la volontà delle masse con la volontà del Capo, una lezione che non sembra essere stata ben digerita: gli Stalin imperversano in questi inizi del nuovo millennio), riduce il marxismo a poco più che una giaculatoria. Ecco dunque perché definisco marxismo non-marxista quello vigente fino a pochi decenni fa. Perché non lo è, anche se ai suoi avversari fa comodo far finta che lo sia, onde poter celebrare, dopo la caduta del muro di Berlino, due funerali con una morte sola: il funerale del marxismo sovietico, fondamentalmente antimarxista; e il funerale dei marxisti di oggi che vogliono tornare a Marx per andare oltre Marx (per andare verso il Newton del marxismo che lo trarrà dalle attuali difficoltà teoriche). I quali ultimi “marxisti di oggi”, però, non hanno alcuna intenzione di lasciarsi sotterrare prima di aver detto la loro. E averla detta a voce alta.

GL: In che modo si è arrivati alla pubblicazione di Come ladro di notte? Qual è stato il ruolo di Lino Aldani?

MAM: Ruolo determinante, pari a quello svolto dai due innovatori della fantascienza italiana, Curtoni e Montanari. Devo però riconoscere a Lino Aldani uno speciale diritto di primogenitura. È infatti per sua iniziativa che si è messa in moto la macchina che ha portato alla pubblicazione di Come ladro di notte. Sedotto dal garbo con cui ero stato accolto in casa sua, nonché dalla disponibilità dimostrata, mi offrii (con quanta generosità potete immaginarlo) di portargli il mio primo romanzo per averne un parere. All’immediata risposta positiva da parte sua corrispose un immediato ottemperare da parte mia. Avuto tra le mani il dattiloscritto Aldani si prese “almeno quindici giorni per rispondere”. Io che ero abituato ai tempi biblici in uso tra i curatori delle collane (non mi sono mai spiegato il perché di tanta lentezza), non mi sembrò vero poter avere il suo parere dopo appena due settimane, massimo tre. Mi predisposi quindi all’attesa con animo più che lieto. Il giorno dopo invece la sorpresa. Aldani mi telefona per dirmi che avendo iniziato a scorrere il dattiloscritto la sera stessa, non era più stato capace di staccarsene. Riteneva di poterne decisamente caldeggiare la pubblicazione. Del resto non ho ricordi: come e in quali circostanze il dattiloscritto sia arrivato sui tavoli del duo che stava dando una stagione unica alla fantascienza italiana. Se a consegnarlo nelle mani di Curtoni abbia provveduto Aldani stesso o si sia limitato a esprimere quella valutazione positiva. Quel che ricordo è lo stupore per l’eco che la pubblicazione ebbe, un’eco tale da superare le mie più rosee aspettative.

GL: Ti riconosci ancora nelle parole scritte da Vittorio Curtoni e Gianni Montanari nell’introduzione alla prima edizione su “Galassia”, nel 1972?

MAM: Non solo mi ci riconosco, ma affermo anche che non si poteva dire di più e meglio (del romanzo) con meno parole.

GL: Nell’edizione successivamente approntata dalla rivista “Pulp” (1984) ci sono differenze testuali?

MAM: Nessuna differenza. Non mi è mai stato concesso (forse per fortuna, altrimenti l’avrei stravolto) di metterci sopra effettivamente le mani.

GL: Chi è per te Zanzotto e fino a che punto ti riconosci in lui?

MAM: Zanzotto è sostanza mia di vita allargata, metafora di un Miglieruolo aumentato, simbolo di quel che vorrei essere e, ahimé, non sono. Non ho infatti il suo coraggio, la sua forza interiore, la sua fedeltà a se stesso. Da me ha avuto solo una certa ostinazione, una certa occasionale cupezza e la difficoltà a mantenere buone relazioni anche con coloro con cui vorrebbe averle. Zanzotto fondamentalmente è un isolato, vittima della sua stessa rassegnata disperazione. Non ha amici. Ha collaboratori fedeli all’idea, alla causa, non a lui. Li avesse avuti il suo destino sarebbe stato molto diverso.

GL: Condividi il pessimismo di tanti su questi primi anni del XXI secolo? Era meglio il futuro che immaginavamo di quello che è arrivato?

MAM: Gli scrittori di fantascienza, con tutta la loro (nostra) audacia immaginativa, sono stati vittima dell’ottimistico punto di vista sulle sorti dell’umanità che domina il pensiero di un certo tipo di intellettuale televisivo. Le utopie negative di cui tanto abbiamo letto o erano di maniera, o, nella loro essenza, costituivano una sorta di esorcismo. La stessa fantascienza sociologica ha visto ben poco, di là dall’ovvio, di quel che il domani, diventato ormai oggi, ci riservava. Questo non vale per tutti certamente, ma descrive bene la tendenza di fondo. Oggi che l’indomani ci è addosso con tutto il suo carico di disdetta, possiamo affermare tranquillamente che è al peggio che siamo arrivati. Ho letto proprio in questi giorni, mi sembra su Repubblica, che il ministro Tremonti annunciava con sollievo (immaginatevi il mio) che “abbiamo evitato l’Armaggeddon”. Il mio commento è: bene, molto bene… Ma quando è che siamo stati avvisati dell’incombente pericolo? Una Apocalisse si approssima e nessuno ci dice niente se non quando questa è passata oltre (se pure è vero che sia passata!). Per rispondere alla domanda, non ho allora altra possibilità che formularne una a mia volta: c’è nulla di peggio di questo sfiorare il pericolo senza che neppure lo si sappia? No, non c’è. Questo è il massimo. Il massimo della sfiducia in noi, il massimo della manipolazione, il massimo dell’impotenza nascosta nelle vesti della potenza.

GL: Quale credi debba essere l’obbiettivo, in pieni anni Duemila, di una buona fantascienza italiana?

MAM: Compito degli autori in questi anni di rapidi cambiamenti è fornire risposte agli interrogativi che milioni di esseri umani, dopo il lungo sonno del Reaganismo, iniziano nuovamente a porsi. Che ne sarà del nostro domani? Quali sorprese, quali meraviglie e quali orrori è in grado di riservarci? Si tratta di risposte che soltanto uno scrittore di fantascienza è in grado di fornire, perché sa come fornirle, appropriate e giuste; ed è anche l’unico a volerle fornire. Come mai escludo chiunque non sia uno scrittore di fantascienza, o uno che ne faccia proprie le modalità? A causa delle gabbie ideologiche, le stesse di cui sono prigionieri i tuttologi che imperversano sugli schermi televisivi. Viceversa, l’andare oltre è proprio al nostro mestiere, al nostro DNA intellettuale, la forza che ci sostiene e che nelle avversità letterarie ci permette di sopravvivere. Le risposte che la gente cerca le forniremo noi con la fantascienza, perché nessun altro vorrà darle. Gli altri si accomoderanno nel tran tran di sempre, nelle risposte ben collaudate e gradite a Sua Maestà il Dio Trino e Quattrino.
Si tratta in fondo della medesima operazione spontaneamente avviata negli anni Venti e Trenta da quegli straordinari creatori di futuro che sono stati gli scrittori di fantascienza americani. Sono stati capaci di scavare nella realtà il tanto necessario a estrarre il minerale prezioso delle infinite possibilità che essa nascondeva. Lavorando questo materiale con la fantasia hanno ottenuto, pur senza proporselo, di avere un peso considerevole nello sviluppo dei costumi, e un poco anche nei medesimi avvenimenti. Analoga operazione siamo chiamati a compiere noi oggi, con quel grado in più di consapevolezza atto a renderci diversi eppure, nelle mutate condizioni, altrettanto efficaci. Accenno ad alcune possibili tematiche: i meccanismi di oppressione ideologica e oppressione materiale; i pericoli insiti nella propensione a mettere uno solo al posto di comando (ve l’immaginate un Hitler a cui basta pigiare un tasto per scatenare un Olocausto?); la crescente disumanizzazione nelle relazioni umane; la manipolazione dell’informazione; la guerra quale mezzo ordinario per risolvere le controversie internazionali; le irrazionalità del sistema economico; la giustizia; l’accumulazione, in una società sempre più ricca, di enormi risorse a un polo e di inaudite miserie all’altro polo. Se sapremo farlo, trasfigurando tutto questo materiale con l’aiuto della fantasia, è sicuro che avremo un ruolo negli avvenimenti che si approssimano. Altrimenti resteremo testimoni inascoltati, travolti anche noi, come tutti, da questa resistibilissima discesa verso la ricerca del capro espiatorio, di colui al quale far pagare tutto il fiele che ci fanno bere, del debole da linciare. Nella direzione indicata intendo muovermi. Spero di poterlo fare in numerosa e gradita compagnia.

GL: Torniamo a Come ladro di notte. In che modo sei arrivato alla scelta di uno stile così immaginativo e, al tempo stesso, “sintetico”, in cui praticamente manca il punto di vista onnisciente dell’autore?MAM: Una domanda questa molto impegnativa che mi costringe, per la prima volta, a riflettere sulla mia personale “poetica”. Dubito che riuscirò, considerato il poco tempo a disposizione, a risponderti con la dovuta semplicità e completezza. Comunque ci provo. Anzitutto non si è trattato di una scelta, non almeno della scelta dello scrittore, ma del lento e inesorabile imporsi delle esigenze di lettore. Mi spiego. Essendo per necessità il principale utente di ciò che scrivo, è giocoforza che il me stesso lettore eserciti una notevole, a volte ipercritica, autorità sullo scrittore. Il mio modo di lavorare è infatti del tutto legato all’atteggiamento di un qualsiasi appassionato nel momento in cui si accinge ad aprire un libro. Di quel libro sa poco, a volte niente; ma quel poco e quel niente (un nome illustre, una copertina allettante, la pura e semplice appartenenza a un genere) sono bastati a farglielo acquistare e ora bastano a indurlo a leggere. Egli non sa dove le pagine che va sfogliando lo condurranno. Spera che lo conducano a un approdo positivo, divertente, gradevole; vorrebbe magari trarne un qualche insegnamento, forse arricchirsi con nuovi punti di vista, una nuova visione del mondo.
Nello stesso identico modo io tendo a scrivere. Se mi guardo mentre scrivo, osservo che quasi mai lo faccio in presenza di un punto di approdo, ma non posso fare altro che narrare come viene (una specie di fluire di ricordi futuri che si affacciano al presente). Non posso nemmeno sapere più di quel che sa il lettore, il quale scopre quel che il racconto è mentre lo legge, a differenza di me che lo scopro mentre scrivo. Cosicché all’Io scrittore non spetta altro che far sì che ciò che scrive sia divertente, leggibile, ben detto; che sia l’essenziale di quel che c’è da dire, guardandosi dal tradire la promessa iniziale di leggerezza, di levità. Insomma, ho un sorvegliante interno che un po’ mi aiuta e un po’ mi castiga. Dalla fantascienza ho preso il gusto e forse la sostanza dell’immaginativo cui accenni; e sempre dalla fantascienza quel “pensare grande” , cioè l’articolare le vicende umane all’interno di una visione storica degli avvenimenti (visione che, purtroppo, raramente diventa “pensare epico”) la quale mi sembra una sua caratteristica saliente.  Questo modo di concepire le cose è alla base del titanismo che informa Come ladro di notte, e noto di sfuggita che è tale caratteristica a permettere alla narrativa di anticipazione di accedere a un alto livello di significatività, spesso negato alla restante letteratura. L’andare al sodo, la “sinteticità” che noti è presa invece da alcuni autori classici, dai quali è pure arrivata la spinta a caratterizzare il più possibile la pagina.
Per offrire un sommario punto di riferimento degli autori che mi hanno influenzato (diciamo meglio: che mi hanno suggerito il come si scrive) mi limiterò a citarne due: Sheckley per quanto attiene alla fantascienza, Bukowski per quanto attiene alla restante letteratura. Da Sheckley ha ricevuto la leggerezza nell’intonazione, nonché un certo distacco dalla vicenda narrata, che poi consiste in un non prendersi troppo sul serio; da Bukowski, la cui fama negli ultimi anni si è alquanto appannata, la capacità di (o almeno l’aspirazione a) rappresentare un insieme di personaggi e situazioni, nonché l’ambiente in cui l’azione si volge, con pochissime battute, quasi senza descrizioni e comunque nel breve di una sola pagina. Approfitto di questa domanda per ricordare che lo scrittore non può tutto quello che vuole ma, autolimitato come Dio, solo ciò che le creature che ha messo nero su bianco vogliono. Ciò che la storia medesima vuole. Il racconto è un processo in atto, cioè qualcosa che prende forma e si determina mentre procede; e che mal tollera l’intervento del demiurgo che sa o finge di sapere. Ogni intervento del genere costituisce un’alterazione del racconto, un ritorno al di qua della pagina, la sospensione della credibilità, l’interruzione del sogno. Occorre, in questo caso, una grande maestria (che non possiedo) per mantenere inalterato il fascino della lettura. Se posso, cerco di sottrarmi a tale difficoltà. Una volta che la storia ha acquisito uno determinata forma, mi occorre rispettarla, altrimenti finisco in un vicolo cieco.

GL: Vuoi accennare qualcosa sulla dottrina del romanzo, “l’ideale” propugnato dalla Congrega degli Inumani?

MAM: A mio parere il fascino di Come ladro di notte sta anche, se non prima di tutto, nella ideologia che lo informa. Non per la qualità dell’ideologia, che vale quanto qualsiasi altra, ma per il ruolo che è chiamata a svolgere e per il suo funzionamento. Non si tratta, come troppo spesso avviene, dell’intrusione nel romanzo delle personali convinzioni dell’autore, cioè di sovrapposizioni morali o di residui di visioni del mondo astratte, ma di una ideologia organica al romanzo medesimo, della sua pietra angolare. Si tratta inoltre di una ideologia vera, sincera, attiva e viva, coerente nelle sue incoerenze, come sono spesso (sarei tentato di affermare: sempre) le ideologie in ogni circostanza in cui si manifestino. Come esempio di coerenza nell’incoerenza porto quello di Zanzotto, affiliato fedelissimo agli ideali della Congrega. Zanzotto è convinto che l’uomo sia un coacervo di crudeltà, ambizioni, opportunismi, avidità, tradimenti e, di conseguenza, meritevole di essere annientato. Ma non è egli stesso la testimonianza dell’opposto, cioè dell’esistenza di uomini giusti che giustificano l’intera razza della quale fanno parte? Zanzotto è tale che contraddice con il suo essere e le sue battaglie proprio quello in cui crede. Non diversamente da quanto accade all’uomo della strada e alle sue perpetue lamentazioni sulla mediocrità dei politici che puntualmente, votazione dopo votazione, contribuisce a eleggere.
Vediamo ancora. Tipico dell’ideologia è di seminare nella realtà, con le sue pratiche, gli elementi che poi la comproveranno. Sono le pratiche di discriminazione sociale a fondare o accentuare le differenze che ne giustificano la prosecuzione. È la pratica di annientare gli uomini dotati di un’etica (come Elio) che eliminerà i “buoni” dal panorama del mondo: ma in questa maniera emergerà un universo di “cattivi” che giustificheranno gli scopi della Congrega. Occorre aggiungere che un’ideologia come quella della Congrega, del tutto simile alle ideologie che hanno informato il XX secolo, è interna  a una visione del mondo determinista, pre-quantistica e direi persino pre-marxiana. Essa implica una concezione unidimensionale dell’umanità (l’uomo egoista, l’uomo consumatore, la cattiveria umana ecc. ecc.) dentro la quale siamo ancora immersi; e una concezione della storia unidirezionale, che cioè non contempla esiti aperti, variabili, stocastici ma che possiamo tranquillamente definire fondamentalista. Questa concezione si articola in un’ampia gamma di posizioni ai cui estremi vi è da una parte quella trionfalistica propria ai cantori del liberismo; e dall’altra una  mistica nichilista all’interno della quale è possibile collocare l’ideologia degli affiliati nel romanzo. Per ultimo accennerò che quella della Congrega, in quanto ideologia, è mero strumento di potere, destinata perciò stesso alla corruzione, senza però che venga riconosciuta come tale (il che impedisce che il processo degenerativo possa essere combattuto efficacemente); al contrario, viene  definita e vissuta come un necessario “adattamento ai tempi”. Le pratiche di potere, infatti, fin dall’inizio disattivano qualsiasi anticorpo in grado di ostacolare il proprio dispiegamento o di impedirne l’esercizio. Che si tratti di pratiche di potere lo si evince sia dalle modalità con cui funzionano all’interno (conformismo, disciplina militare, repressione del dissenso [Brunico], assenza di vero dibattito ecc.); sia nei rapporti con il mondo esterno, necessariamente descritto come il male assoluto. Senza tale proiezione dell’immaginario primitivo, gli anticorpi potrebbero riattivarsi e mettere in pericolo la sacra struttura che divide gli uomini nelle opposte categorie di coloro che comandano e coloro che obbediscono, cioè il popolo sovrano.
Un’ultima osservazione sul carattere contraddittorio e proprio per questo funzionale dell’ideologia congregazionista: nessun affiliato, neppure Zanzotto, arriva a chiedersi chi, una volta devastata la galassia, provvederà a devastare la Congrega (l’ideologia non pensa: realizza se stessa). Come sarà possibile, specie dopo aver conseguito la grande vittoria, persuadere gli affiliati a sacrificarsi all’idea originale? Loro, i “buoni” della situazione… Nel momento dell’euforia, dei secolari obiettivi acquisiti, dovrebbero autodistruggersi, potendo invece dar luogo a un Nuovo Mondo, a un Uomo Nuovo da collocare nell’universo innocente? Anche in quest’ultimo particolare vedo me stesso in Zanzotto. L’ingenuità sua, la scarsa conoscenza dei reali meccanismi che presiedono la formazione della realtà, la complessità del mondo. Ma da allora, da quando il personaggio è stato concepito, molta acqua è passata sotto i ponti. E di molta ideologia, molta presunzione e innocenza, mi sono liberato!

Roma, aprile 2009.

(a cura di G.L.)


[1] L’autore si riferisce qui a un una revisione del meccanismo della scala mobile – il punto unico di contingenza – che entrò gradualmente in vigore nel 1977 dopo essere stato conquistato dal sindacato due anni prima. In questo modo i salari reali sarebbero stati difesi dall’inflazione, che allora cresceva intorno al 20% su base annua. Le attese sindacali, tuttavia, vennero sostanzialmente deluse perché nessuno degli esecutivi che si formarono in quel periodo realizzò le trasformazioni di fondo chieste dalla classe lavoratrice. Si può dire quindi che la “svolta dell’Eur” non ebbe il seguito sperato (N.d.R.).

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La Matrice ha dieci anni

marzo 31st, 2009

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In occasione dell’anniversario dell’uscita nelle sale di Matrix, pubblichiamo un intervento di Dario Tonani.

Tu pensi che siamo nel 1999. Saremo almeno nel 2199. Non posso dirti con esattezza l’anno perché sinceramente non lo so neanch’io. E qualunque mia spiegazione non ti basterebbe. Vieni con me. Guarda tu stesso. Sei sulla mia nave, la Nabucodonosor. E’ un hovercraft. Sei in plancia, adesso. E’ il nostro cuore operativo dal quale lanciamo il segnale d’ingresso pirata in Matrix”. Sono le parole di Morpheus a uno straniato Neo, il momento della rivelazione nel film destinato a cambiare per sempre i canoni della fantascienza cinematografica: Matrix. L’anno, come spiega l’anfitrione Morpheus, è il 1999, esattamente una decade fa. Il luogo: una città qualunque del nostro presente, ricostruita – per questioni di budget – all’altro capo del mondo, a Sidney, in Australia.

Ed ecco la prima di una serie spropositata di “anomalie”, di specchi contrapposti che fanno di Matrix il primo vero prodotto da sala per il nuovo millennio e il più “poliedrico e filosofico” tra i film di fantascienza dai tempi di 2001 Odissea nello SpazioBlade Runner: l’azione è qui oggi, ma a generarla è la terra bruciata di un domani lontanissimo. Presente e futuro s’intrecciano, a fare da tramite una linea telefonica: da una parte la finzione, il sogno, il mondo posticcio generato dalle macchine, dall’altra la cruda realtà di un domani che – manipolo di “resistenti” a parte – non ha più nulla di umano.

Per passare da un piano all’altro non c’è che un modo: aprire gli occhi. “Wake up, Neo” compare sul computer del protagonista in una delle scene iniziali. Un invito che i due registi, Andy e Larry Wachowski, sembrano voler fare proprio rigirandolo, in modo assai meno garbato, agli spettatori in sala: “Wake up, guys”. Come dire: nulla di quanto vedrete con Matrix è stato pensato/realizzato/mostrato prima. Vero solo in parte, diremo noi (penso per esempio al film di animazione Ghost in the Shell di Mamoru Oshii, del 1995), ma indubbiamente un proposito sostenuto da argomentazioni più che valide sia sul piano visuale, sia su quello strettamente realizzativo.

Il film è un orgia di effetti speciali, azione pura, pittoriche coreografie e dialoghi pseudoesistenziali. Mette insieme e frulla abilmente kung-fu movies, fumetti, videogames, videoclip e cyberpunk, il tutto abbondantemente condito di citazioni consce (le più evidenti, Alice nel paese delle meraviglie, lo gnosticismo, il buddismo, le storie di Philip K. Dick, i fumetti di Grant Morrison) e probabilmente inconsce, espressione di quel debito di riconoscenza che i fratelli Wachowski affermano di avere nei confronti dei manga e dei grandi maestri del cinema d’animazione giapponese (tanto da voler incontrare questi ultimi nel corso della tappa a Tokyo del tour di presentazione del secondo film, Matrix Reloaded).

Un conto, però, è riconoscersi nel taglio narrativo di manga e anime, tutt’altro è voler riportare quello stesso modo di raccontare sul piano della realtà, con attori in carne e ossa. Chiamati a fare cose praticamente impossibili, con la naturalezza di chi deve dare l’illusione allo spettatore in sala di compierle quasi tutti i giorni. E a poco serve il fatto che la storyboard venga disegnata (e mostrata sul set prima di girare ogni scena) proprio secondo gli stilemi del fumetto giapponese o riprendendo certi “quadri” in stile Frank Miller. L’idea dei Wachowski, del resto, è proprio quella di prendere un cartone animato e consegnarlo al mondo delle tre dimensioni. Senza sconti. Una straordinaria sfida immaginifica ancor prima che tecnica…

Sul set, tra cavi e pallottole

Che sul set di Matrix qualcosa di effettivamente mai visto stia prendendo forma lo si capisce da numerosi indizi: la troupe si allontana da Hollywood, preferendo per questioni di costi delocalizzare la produzione a Sidney, ciò nonostante si premura di reclutare il meglio del meglio delle singole professionalità in tema di effetti speciali, computer grafica, fotografia, scenografia, sonoro. Sul set si utilizzano tecniche di ripresa di assoluta avanguardia e, non contenti, se ne sperimenta di nuove: su tutte il cosiddetto bullet time, al quale si devono gli straordinari ralenti a 360 gradi delle scene di combattimento, che obbliga gli attori a recitare appesi a cavi, circondati da qualcosa come 120 fotocamere e due macchine da presa. Dal lontano oriente scende, poi, in forze una squadra di istruttori di kung fu, alla guida di Woo Ping Yuen (regista e coreografo del primo successo di Jackie Chan, Drunken Master, maestro della cosiddetta Drunken Boxing), che ha il compito di trasformare in quattro mesi attori completamente a digiuno di arti marziali in “combattenti” credibili quanto meno davanti alla macchina da presa…

Alla Warner Bros sembra che abbiano un’idea ancora approssimativa di quello che stanno combinando sul set i due ragazzi terribili di Chicago, che al loro attivo come registi hanno solo un film – Bound, Torbido inganno, del 1996 – tanto che la luce verde alla pellicola viene data solo in fase di pre-produzione. Il cast, per il quale si fanno via via i nomi anche di Johnny Depp, Brad Pitt, Will Smith e Val Kilmer per la parte di Neo, è un amalgama perfetto: gli attori si sentono già da subito parte di un progetto senza eguali e sviluppano tra loro e la troupe un cameratismo paragonabile solo a quello nato sul set della trilogia de “Il signore degli anelli”. Si assoggettano volentieri a sfiancanti sedute di allenamento per familiarizzare con le tecniche di fighting e coi cavi che li sosterranno durante le evoluzioni più acrobatiche. Questa, quanto meno, è la parte che amano ricordare “a cose fatte”, forti dei numeri che danno ragione alla loro scelta di sudare su un tatami per parecchie ore al giorno: “Matrix” infatti, uscito nelle sale statunitensi il 31 marzo 1999  e in Italia il 7 maggio, incassa al botteghino la bellezza di 456,3 milioni di dollari (43 in più del primo Batman e, sempre per restare in tema di fantascienza, quasi 100 in più di Minority report del binomio stellare Dick/Spielberg) e si colloca al 74 posto nella classifica degli incassi di tutti i tempi, una piazza davanti a Il gladiatore, dieci davanti a L’ultimo samurai e addirittura 176 davanti a The Truman Show, altra pellicola cult sul rapporto finzione/realtà.

Nel 2000 arrivano anche quattro Oscar, seppur minori (“miglior montaggio”, “migliori effetti speciali”, “miglior montaggio sonoro” e “miglior sonoro”) e tre MTV Awards (“miglior film”, “miglior performance maschile” a Keanu Reeves, “miglior combattimento” per il duello tra Keanu Reeves e Laurence Fishburne). Matrix diventa un mito, i suoi protagonisti osannati come artefici di un nuovo modo di produrre/girare/interpretare un film. Le citazioni e le parodie più o meno serie non si contano: un centinaio, tra lungometraggi e spot pubblicitari, ma probabilmente molti sfuggono alla conta. Tra le più ricordate, quelle de La tigre e il dragone (Ang Lee, 2000) e di Shrek (Andrew Adamson e Vicky Jenson, 2001). In soli tre anni, fino al 2002, si è calcolato che la famosa sequenza del bullet time sia stata riproposta in una ventina di film diversi.

Manca qualcosa?

Contrapposizioni forti, dicevamo. Matrix vive e si alimenta di opposti: bene/male, amore/odio, realtà/sogno, umanità/macchine, spiritualità/scienza, Neo/agente Smith, Oracolo/Architetto, pillola rossa/pillola blu… Ma è anche un esempio per certi versi unico di interdisciplinarietà, di incontro e fusione di strumenti espressivi. Al primo film si aggiungono quattro anni dopo, nel 2003, altri due capitoli: Matrix Reloaded (735,6 milioni di dollari d’incasso, 29° nella classifica di tutti i tempi) e, a soli sei mesi di distanza, Matrix Revolutions (appena, si fa per dire, 424 milioni, 91° posto), di fatto la seconda metà del precedente.

Sempre nel 2003 arriva Animatrix, una raccolta di nove cortometraggi a cavallo tra cinema d’animazione, computer grafica e anime giapponesi, realizzati da quei maestri dell’animazione del Sol Levante che tanta parte ebbero nell’immaginario dei fratelli Wachowski. Animatrix costituisce una sorta di prequel e getta le basi per la realizzazione di una serie di videogames per diverse piattaforme ludiche, come Enter the Matrix, The Matrix, Path of Neo e Matrix Online, al cui interno sono presenti spezzoni della trilogia cinematografica, con tanto di scene inedite.

Film, cartone animato, videogame. Un’articolazione in sette titoli, quasi 8 ore di visione, senza contare i contenuti speciali dei DVD e la “longevità” dei videogiochi. Manca qualcosa? Appare fin troppo chiaro che il tavolo si regge su tre sole gambe. Sorge spontanea la domanda: “E il libro?”. Risposta: “Non c’è nessun libro!”. Che un film nasca da un soggetto originale anziché da un volume non è affatto raro, anzi. L’ultima “anomalia” di “Matrix” sta semmai nel fatto che nel corso degli anni nessuno si sia cimentato con una novelization ufficiale della trilogia. Insomma, un “dopo”, da rileggersi sulla pagina…

L’ipotesi ampiamente condivisa è che Matrix sia nato sotto mille forme, eccetto che come storia da raccontare per iscritto: film, fumetto, cartone animato, videogioco, videoclip. E, a dispetto di certi suoi dialoghi filosofeggianti e pseudoesistenziali un po’ ambiziosi, fonda il suo perché soprattutto sulle immagini. Pur con le sue pause e qualche lungaggine, è fruizione immediata, creatura da vedere, tutt’al più da ascoltare o con cui giocare. Ma non da leggere. Insomma, quando si è visto di tutto e di più, suona assai difficile aspettarsi ancora qualcosa da una descrizione per sua natura sequenziale, parola per parola. Come scrittore mi duole ammetterlo, ma dopo l’orgia visiva, il tartagliare di una pagina scritta sarebbe ben poca cosa. Sarebbe come tenere gli occhi chiusi. E questo con Matrix equivarrebbe a perdersi praticamente tutto.

Wake up, Neo”.

Buon compleanno, Matrix!

[Dario Tonani]

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Un Brambilla di dimensione europea

marzo 30th, 2009

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Tra i riconoscimenti raccolti dal team di “Urania” alle premiazioni dell’Italcon/Eurocon 2009, un premio Europa a Franco Brambilla.

Come da tradizione, sabato sera a conclusione della giornata clou della Deepcon/Italcon, l’annuale convention degli appassionati di fantascienza, si è svolta la cerimonia di premiazione con la consegna dei premi nazionali, con la consueta conduzione del presidente della World SF Italia Ernesto Vegetti. A prevalere nella categoria per il “Saggio in volume” è stato il curatore di “Urania” Giuseppe Lippi con il suo fondamentale Dizionario ragionato di 2001 Odissea nello Spazio. Lippi ha ricevuto il premio dalle mani di Bruce Sterling, due pezzi da 90 della storia della fantascienza riuniti insieme davanti alla numerosa platea. Primo tra i traduttori, invece, il grande Riccardo Valla, attualmente al lavoro sull’attesissimo esordio di Alastair Reynolds nella nostra collana regolare.

A seguire si è svolta la consegna dei premi Europa, essendo stata questa edizione della convention nazionale associata alla Eurocon. Qui un meritatissimo riconoscimento è stato tributato all’immenso Franco Brambilla, che mese dopo mese continua ad arricchire con le sue visioni straordinarie le proposte di “Urania” e “Urania Collezione” e, con esse, la fantasia di tutti i lettori.

La lista completa dei finalisti e dei vincitori di Premio Italia e Premio Europa può essere consultata sulle pagine elettroniche di Fantascienza.com. Nella foto, invece, il trofeo di Brambilla sorvegliato dal suo corpo di guardia. Qui il nostro copertinista che espone il premio.

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Watchmen: il sogno di celluloide

marzo 18th, 2009

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Non credo nei miracoli: parafrasando il Dr. Manhattan, sono impossibili per definizione. Ma come definire altrimenti la riuscita di un film come la trasposizione dell’opera più complessa (paragonabile, per carica ideologica, solo a V per Vendetta) e incontestabilmente più influente nella storia dei comics?

Watchmen è l’opera di Alan Moore e Dave Gibbons che ha stravolto per sempre l’approccio ai supereroi e questo ne ha fatto di diritto il punto di non ritorno del fumetto contemporaneo. Riprodurne la complessità e la profondità sul grande schermo non era un gioco da ragazzi. Zack Snyder, acclamato dalla critica come il “regista più visionario” di questi tempi (etichetta che ricorda quella appiccicata una trentina d’anni fa addosso a Ridley Scott, quando era evidente a chiunque che la vetta della controversa classifica dovesse in realtà essere spartita tra ben altri autori, quali David Cronenberg, David Lynch o Terry Gilliam), è riuscito nell’impresa e il suo successo ha il sapore del miracolo.

Le riserve su un’operazione del genere erano molteplici, a partire dall’adattamento di un’opera stratificata, caratterizzata dalla sovrapposizione di livelli narrativi, dalla trama fortemente delinearizzata che genera una struttura frattale, con i continui flashback, le divagazioni, gli inserti metanarrativi e il citazionismo estremo che risentono dell’attitudine postmodernista di Moore e della sua passione per la narrativa e le intuizioni di William Burroughs. Ma la visione del film riesce per fortuna a esorcizzare tutte queste riserve e regala due ore e tre quarti di purissimo piacere cognitivo, un distillato delle visioni e delle riflessioni che impreziosiscono la lettura della graphic novel originaria. Quella che poteva rivelarsi la più disastrosa Caporetto hollywoodiana di fronte al potere della scrittura, trova invece la via della riuscita malgrado la scomunica di Alan Moore e la gestazione più che mai travagliata, tra cambi di registi (almeno tre, da Gilliam a Paul “Bourne” Greengrass, passando per Darren Aronofsky) e passaggi di mano alla produzione fino all’atto finale della battaglia tra la Warner Bros e la 20th Century Fox.

Ogni volta che capita di riscontrare una così equilibrata alchimia di tecnica ed estetica è quasi inevitabile una reazione di incredulità. Se si aggiungono le premesse di cui sopra, l’incredulità subisce un’amplificazione esponenziale. Probabilmente la scelta di Snyder e della produzione è stata quella di adottare un approccio riguardoso dell’originale senza lasciarsi sopraffare dall’imponenza dell’impresa. La scelta migliore possibile, come confermano i risultati: l’unica in grado di conservare lo spirito della graphic novel evitando l’integralismo religioso del fan convinto di avere abbracciato il culto di una setta.

L’ironia – insegna il postmoderno – è in fondo il metodo migliore per maneggiare la materia quando essa si combina in forme esotiche rischiando il collasso e la degenerazione. E di ironia Watchmen (il film) è infarcito almeno quanto il fumetto, riuscendo così a replicarne intatta la carica demistificatoria dell’universo dei supereroi e, al contempo, offrire una riflessione sull’uomo e sulla nostra società – riflessione magari meno fantascientifica e maggiormente declinata sul versante del fantastico che volge all’ucronia. Intuizione dello sceneggiatore californiano David Hayter, già apprezzato per il suo ottimo lavoro sui primi due copioni della trilogia dedicata agli X-Men della Marvel e inizialmente associato anche alla regia del film quando era ancora in cantiere per la Universal. Hayter ha lavorato sulla sceneggiatura per un possibile adattamento del fumetto fin dal 2001, realizzandone otto diverse versioni e arrivando, grazie anche all’apporto di Alex Tse, a un distillato delle situazioni, degli snodi e dei dettagli che non a caso nei copioni preliminari gli erano valsi il favore dello stesso Moore, prima che le vicissitudini produttive lo allontanassero da tutti i progetti cinematografici legati alla sua opera.

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