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Mike Resnick

febbraio 27th, 2012

resnickautograph.jpgNato nel 1942 [e morto nel 2020, NdR], scrittore e allevatore di cani, Mike Resnick ha esordito nel 1965 con il romanzo burroughsiano The Forgotten Sea of Mars e per molti anni ha scritto ogni genere di narrativa commerciale, dalla fantasy avventurosa debitrice di Edgar Rice Burroughs (The Goddess of Ganymede, 1967 e Pursuit on Ganymede, 1968) ai libri erotici, invariabilmente firmati con pseudonimi. Questo lungo periodo della sua carriera corrisponde perfettamente al ritratto del “paperback writer” senza soldi e senza speranza cui il mercato in trasformazione degli anni Sessanta-Settanta permetteva di sopravvivere in modo sempre più incerto, e di cui ci hanno lasciato memorabili trasposizioni la canzone dei Beatles (“Paperback Writer”, appunto) e romanzi come Il mondo di Herovit di Barry Malzberg e Addio Sheherazade di Donald E. Westlake. Quest’ultimo è la storia di un romanziere softcore che non sa più cosa inventare per eccitare il suo pubblico fantasma; il primo, invece (da noi tradotto nel volume speciale per il cinquantesimo di “Urania”), è l’odissea di un autore di fantascienza vecchio stampo che non riesce più a sopravvivere nella giungla dei tascabili ed è messo di fronte al totale sfruttamento della sua creatività.

Tra i romanzi fantascientifici di Resnick, che si è scostato un paio di volte dal genere ma ha sempre finito col ritornarvi, si segnalano Redbeard (1969), un’avventura post-atomica ambientata nella metropolitana di New York, e una novelization della serie Battlestar Galactica scritta dopo una lunga assenza dal settore. Negli anni Ottanta ha dato vita a due cicli avventurosi: i Racconti del Centro Galattico (con i romanzi Sideshow, 1982, The Three-Legged Hootch Dancer, 1983, The Wild Alien Tamer, 1983 e The Best Rootin’ Tootin’ Shootin’ Gunslinger in the Whole Damned Galaxy, 1983) e  i Racconti della Cometa di Velluto (Eros Ascending, 1984, Eros at Zenith, 1984, Eros Descending, 1985 ed Eros at Nadir, 1986). Il primo è ambientato in un luna-park, il secondo in un bordello spaziale.

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Più impegnativi i racconti della raccolta Bwana & Bully! (1981), seguiti dai romanzi Ivory: A Legend of Past and Future (1988), Paradise: A Chronicle of a Distant World (1989) e Purgatory (1993), in cui Resnick affronta i problemi del colonialismo in vari paesi dell’Africa trasferendoli su scala interplanetaria. Si inseriscono nella stessa vena Inferno (1994, con lo stesso titolo su “Urania” n. 1257) e i racconti o romanzi brevi “Kirinyaga” (1988) e “The Manamouki” (1990), entrambi vincitori del premio Hugo. Il romanzo breve “Seven Views of Olduvai Gorge” (1994), ambientato in Africa e imperniato sulle origini dell’umanità, ha vinto nel 1995 il premio Nebula per la sua categoria.

Su “Urania” sono già usciti numerosi romanzi di Mike Resnick: The Soul Eater (1981, col titolo Il divoratore di anime nel n. 978, una sorta di Moby Dick in versione fantascientifica), Walpurgis III (1982, con il titolo Il pianeta di Satana, n. 984), The Branch (1984, Il tronco di Davide, n. 990), The Dark Lady, (Ritratto in nero, n. 1092), e i già citati Purgatory (Purgatorio, n. 1253) e Inferno (id., n. 1257).  Il killer delle stelle (Widowmaker, 1995; in “Urania” n. 1449) presentava le avventura di Jefferson Nighthawk, assassino noto su molti mondi con il nome di Fabbricante di Vedove.

Come antologista ha curato, fra l’altro, l’antologia di “recursive science fiction” – storie di fantascienza sul mondo della fantascienza – Inside the Funhouse, da noi tradotta in “Urania” n. 1273 col titolo Fantashow. Starship Mutiny (2005), il romanzo che presentiamo oggi, inaugura un’intensa serie spaziale che ha già prodotto altri due romanzi.

G.L.

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Carlo Fruttero e la sua Urania

gennaio 19th, 2012

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Nei ventitre anni compresi tra il n. 281 del maggio 1962 e il n. 1009 del novembre 1985, il grande scrittore torinese trasformò Urania in un ebdomadario dell’altro mondo. Se fino a quel momento la collana fondata da Giorgio Monicelli era stata il viatico per centinaia di avventure nell’universo e nel tempo, quando Fruttero arrivò al timone e quando in seguito (1964) gli si affiancò l’amico Franco Lucentini, anche per Urania arrivò la tanto sospirata modernizzazione. Non che prima fosse stata antica, anzi, il futuro era il suo tempo d’adozione fin dal 1952. Ma letterariamente aveva guardato al feuilleton, al romanzo d’appendice, all’intrattenimento romantico anche quando, di fatto, traduceva e magari spezzettava a puntate i romanzi più recenti e nervosi. Con Carlo Fruttero si può dire che Urania abbia aperto alla modernità come stile: non a caso la veste grafica cambiò e le copertine di Karel Thole entrarono nella fase più aggressivamente surreale. Ora Fruttero se n’è andato, a ottantacinque anni, in riva al Mar Tirreno, lontano dalla sua Torino e lontanissimo dai rombi di Urania, le losanghe colorate che rappresentavano la testata. Un altro rombo, quello della risacca che ha magistralmente evocato nel romanzo “Enigma in luogo di mare”, ne ha preso il posto da tempo. Ma per noi, figli di quelle letture, di quell’Urania “trancio di torta” rispetto alle altre collane che erano al massimo una “tranche de vie”, il ricordo è indelebile. Basta pensare alle decine, e probabilmente centinia di antologie di short stories che Urania pubblicò in quel ventennio, con titoli fiammeggianti come Contatto con l’inumano, C’è sempre una guerra, Storie di fantamore, Per il rotto della mente, Com’era lassù?, Sua altezza spaziale, Il dio del trentaseiesimo piano; alle succulente raccolte rilegate come Storie di fantasmi, Universo a sette incognite, L’ombra del duemila, I mostri all’angolo della strada, 40 storie americane di guerra, La verità sul caso Smith, eccetera. Oggi Urania è diretta dai lettori di Carlo Fruttero, da quelli che si sono formati con lui. E dal profondo di quella che è ancora la sua collana, lo ringraziano insieme a Franco Lucentini, perché è anche per merito loro se la fantascienza ha continuato ad essere godibile come una torta e non solo leggibile come letteratura del possibile.

(1926-2012)

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Onryo – Gli autori

gennaio 12th, 2012

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Masako Bando. È con lei, nata nel 1958, con Hideaki Sena e con l’autore di Ringu Koji Suzuki che il moderno horror giapponese s’impone agli inizi degli anni Novanta dapprima come corrente letteraria che gode di un immenso successo nel paese e che in seguito, grazie anche a film, manga (fumetti) e videogiochi, diventa quel  fenomeno di portata mondiale definito horror japanesque. La novità delle opere di Bando consiste nella riscoperta delle tradizioni del folklore della sua terra. Dopo l’esperienza di studio all’estero, ritornata in patria, comincia a scrivere delle fiabe pian piano rendendosi conto di come un grande patrimonio di leggende e tradizioni popolari dalle infinite possibilità narrative resti ignorato e decidendo di compiere un lavoro di riscoperta. Sebbene i suoi romanzi siano innegabilmente impregnati di atmosfere horror e soprannaturali, allo stesso tempo si riscontra una descrizione assai attenta della vita contadina scandita da un ripetersi di gesti immutati nel tempo. Lo sfondo delle sue storie non sono solitamente gli estesi centri metropolitani giapponesi, bensì località rurali distanti dalla capitale Tokyo (spesso si tratta di luoghi dell’isola di Shikoku nella quale la scrittrice è nata) dove gli aspetti più invasivi della modernità sono assenti o perlomeno poco percepiti. La tecnologia è quasi del tutto nulla e comunque mai un elemento centrale. Il nucleo del racconto s’avvolge e s’innesta su una leggenda o una storia appartenente al folklore locale che funge da supporto per gli eventi che la scrittrice vuole raccontare. Un altro elemento assai importante è la descrizione del rapporto sentimentale uomo-donna spesso analizzato dal punto di vista femminile. L’abilità di scrittura di Bando è notevole, il suo stile preciso ed efficace, le descrizioni sempre acute e profonde. Ma non si deve rimanere sorpresi. Come scrivevamo più sopra,  in Giappone la differenza tra jun bungaku (letteratura pura) ed entateinmento bungaku (letteratura di genere) verte sui filoni trattati e non sulle capacità narrative degli scrittori appartenenti a questi due grandi gruppi. I confini spesso sono assai labili e anche un autore come Haruki Murakami è in realtà collocabile in entrambe le letterature. Identico discorso vale per Bando, soprattutto in considerazione dei suoi ultimi lavori in cui, abbandonato l’elemento fantastico, si concentra su storie che descrivono i sentimenti che legano uomini e donne e nelle quali l’eros rappresenta una forte componente.
Nel 1982 vince la settima edizione del Premio per gli esordienti Mainichi dowa. Nel 1993 pubblica il romanzo horror Shikoku (Il paese dei morti) – trasposto anche in film -, cui segue una lunga serie di volumi. Nel 1994 con Mushi (Insetti) si aggiudica il premio «opera eccellente» nella prima edizione del Gran premio del romanzo horror giapponese. Nel 1996 con Sakuraame (La pioggia di ciliegi) vince la terza edizione del Premio letterario Shimase ren’ai e con Yamahaha (La madre delle montagne) l’anno seguente si aggiudica la centosedicesima edizione del prestigioso Premio Naoki. Nel 2002 con Mandarado (La via del mandala) vince poi la quindicesima edizione del Premio Shibata Renzaburo. Senza dubbio Masako Bando è una delle autrici più valide ed interessanti della letteratura giapponese contemporanea.

Inoue Masahiko. Lo scrittore nasce a Tokyo nel 1969. Nel 1981 con la novella sugli spiriti Shobosha ga okurete (L‘autopompa ritarda) attrae l’attenzione dell’autore di gialli Michio Tsuzuki (1929-2003) e vince la terza edizione del Premio Lupin.  Nel 1983 con Yokeina mono ga (L’essere in più), racconto dell’orrore sperimentale, si aggiudica il premio «opera eccellente» all’Hoshi Shin’ichi short short contest iniziando così la sua brillante carriera di scrittore. Inoue si è dedicato in particolare modo alla stesura di racconti brevi o cortissimi – short short – incentrati sul fantastico e sul soprannaturale arrivando ad avere al suo attivo centinaia di storie pubblicate, non tralasciando comunque di scrivere romanzi come Ijinkan no fantazuma (Il fantasma del palazzo degli stranieri, 1991), immaginaria biografia della giovinezza di Van Helsing trascorsa nella città di Nagasaki poco prima dell’apertura del Giappone all’Occidente nel 1868. Tra le sue raccolte di racconti vanno sicuramente menzionate Igyo hakurankai (Esposizione bizzarra, 1994), Gaikotsujo, (Il castello degli scheletri, 1995), Kyofukan shujin (Il padrone del palazzo della paura, 1996), 1001 byo no kyofu eiga (Film paurosi da 1001 secondi, 1997, 2005) che riunisce novelle incentrate sui film horror inizialmente pubblicate nell’edizione giapponese della rivista FANGORIA, Kirei (Spiriti leggiadri, 2000), Kimyona genju jiten (Dizionario delle bizzarre bestie fantastiche, 2002) e Roman (Roman, 2004). Per lo sviluppo delle novelle di fantascienza, fantasy e horror, dal 1997 ha ideato e personalmente curato una serie di antologie tematiche dal titolo generale di Igyo korekushon (Freak Out Collection-Collezione bizzarra) che ha ormai superato i quaranta volumi divenendo la più ampia serie antologica di racconti originali di letteratura fantastica al mondo. Per tale ciclopico lavoro, già nel 1998 gli è stato conferito il premio speciale della diciannovesima edizione del Gran premio della fantascienza giapponese. Suoi lavori sono stati editi su varie prestigiose riviste letterarie sia di genere che mainstream.

Sakyo Komatsu. Vero nome Minoru Komatsu, lo scrittore nasce a Osaka nel 1931 e trascorre la giovinezza nella città di Kobe. La Divina Commedia di Dante Alighieri (1265-1321) letta durante la scuola media inferiore influenza fortemente la sua visione di un universo fantastico. Si iscrive all’Università di Kyoto dove si laurea in letteratura italiana con una tesi su Luigi Pirandello (1867-1936) al quale, successivamente, dedica anche un racconto. Durante l’università frequenta diversi intellettuali, registi e scrittori, collaborando inoltre con varie riviste letterarie amatoriali. Entra anche a far parte del partito comunista da cui poi però si dissocia. Disegna alcuni manga come Iwan no baka (Ivan lo scemo) e Daichi teikai (Il mare sul fondo della terra) pubblicati con lo pseudonimo di Minoru Mori. Il manga è una forma espressiva verso la quale continuerà sempre a nutrire un profondo interesse. Terminati gli studi nel 1954, cambia più volte lavoro. Decisivo si rivela il suo incontro con la rivista S-F magajin della Hayakawa Shobo che gli permette di trovare un editore attento e interessato al tipo di letteratura che intende sviluppare. Nel 1961, con la pubblicazione di Chi ni wa heiwa o (Pace in terra), si fa conoscere come autore d’avanguardia della SF giapponese. Nel 1971 con il volume Tsugu no wa dare ka? (Chi ci succederà?) si aggiudica la seconda edizione del Premio Seiun. Premio di cui vince anche la quarta edizione nel 1973, la settima edizione nel 1976 e la nona edizione nel 1978 grazie rispettivamente ai racconti Kessho seidan (La costellazione di cristallo), Vomiisa (Vomisa) e Gorudiasu no musubime (Il nodo di Gordio). Ottiene poi, nel 1983, un altro premio alla quattordicesima edizione del Premio Seiun per merito del romanzo Sayonara Jupita (Bye-bye, Jupiter). Nel 1974 Nihon chinbotsu (Il Giappone affonda), forse la sua opera più famosa e rappresentativa dove l’autore immagina lo sprofondamento in mare dell’arcipelago nipponico – tradotta in inglese, francese, spagnolo, russo, cinese, coreano, e in diverse altre lingue ma non ancora in italiano -, vince contemporaneamente la ventisettesima edizione del Premio dell’associazione degli scrittori di giallo del Giappone e la quinta edizione del Premio Seiun. Fino a oggi in patria ha venduto più di quattro milioni di copie. Nihon chinbotsu è un classico riconosciuto della fantascienza mondiale ed è stato trasposto in un film di grande successo nel 1973 e nuovamente nel 2006. Anche da diversi altri suoi lavori sono state tratte delle pellicole, sceneggiati televisivi e fumetti. Nel 1985 grazie a Shuto shoshitsu (La sparizione della capitale), opera nella quale descrive lo stato di panico in cui precipitano i giapponesi di fronte all’improvvisa e misteriosa scomparsa di Tokyo, si aggiudica la sesta edizione del Gran premio della fantascienza giapponese. Nel 1990 gli è stato consegnato il Premio per la cultura di Osaka. Impegnato nel promuovere a livello popolare l’importanza della ricerca spaziale e fervente sostenitore di varie iniziative sociali e culturali, con Shin’ichi Hoshi  (1926-1997) e Yasutaka Tsutsui è considerato uno dei tre grandi scrittori della fantascienza nipponica. Le sue opere non sono soltanto di genere fantascientifico, ma anche fantastico e storico-soprannaturale. Nel 1981 fonda con un capitale sociale di trenta milioni di yen la società IO Corporation che si occupa di promuovere attività di vario tipo. Nel 2000 è stato istituito il Premio Komatsu Sakyo per le opere di letteratura SF, fantasy ed horror e dal 2001 viene pubblicata la rivista trimestrale Komatsu Sakyo magajin (Komatsu Sakyo magazine). La casa editrice dell’Università Internazionale Josai ha iniziato a stampare la sua opera omnia di cui sono previsti cinquantacinque volumi. Komatsu è stato scelto come ospite d’onore insieme con David Brin per Nippon 2007, la sessantacinquesima Worldcon (World Science Fiction Convention) di Yokohama del 2007. E’ morto nel luglio 2011 durante la preparazione di questo volume. All’asteroide 6983 scoperto da Takao Kobayashi nel 1993 è stato dato il nome di Komatsusakyo.

Hiroko Minagawa. Nata a Seoul nel 1930 durante l’occupazione nipponica della Corea; suo padre era un medico giapponese che aveva ricevuto l’incarico di professore associato del dipartimento di medicina dell’Università Imperiale fondata nella capitale coreana. Dopo il diploma Minagawa si iscrive al corso di letteratura inglese della facoltà di lingue straniere dell’Università Cristiana Femminile di Tokyo senza però portare a compimento gli studi. Nel 1970 con Kawato (I Kawato) vince la seconda edizione del Premio per la letteratura per l’infanzia Gakken nella sezione opere non di narrativa. Nel 1972 esordisce come scrittrice con il volume per ragazzi Umi to jujika (Il mare e la croce) ambientato agli inizi del periodo Edo dove affronta temi quali la libertà religiosa e il senso della vita umana. Oggi il libro è incluso nella lista dell’International institute for children’s literature di Osaka come una delle cento migliori opere di letteratura per ragazzi pubblicate nel Sol Levante tra il 1946 ed il 1979. Lo stesso anno un altro suo lavoro, Jan Shiizu no boken (Le avventure dei Jan Seez), arriva in finale al Premio Edogawa Ranpo e, nel 1973, con il racconto Arukadia no natsu (L’estate in Arcadia), storia di una adolescente inquieta che alleva un gufo nella sua cameretta, riesce ad aggiudicarsi la ventesima edizione del Premio per gli esordienti Shosetsu Gendai indetto dall’editore Kodansha. Tale riconoscimento rappresenta il suo debutto come scrittrice professionista. Nel 1985 vince la trentottesima edizione del Premio dell’associazione degli scrittori di giallo del Giappone grazie al romanzo Kabe-tabishibai satsujin jiken (Il muro-Il caso degli omicidi del teatro itinerante), poi nel 1986 la novantacinquesima edizione del Premio Naoki con Koibeni (Lo scarlatto dell’amore), romanzo storico che descrive la passione della protagonista per l’uomo di cui è innamorata sullo sfondo delle case di piacere delle città di Edo e Nagoya, nel 1990 la terza edizione del Premio Shibata Renzaburo con Baraki (Il lutto delle rose), raccolta di racconti fantastici incentrati sulle storie di alcuni attori e attrici di teatro, e nel 1998 la trentaduesima edizione del Premio Yoshikawa Eiji tramite il romanzo giallo fantastico Shi no izumi (La fonte della morte) ambientato nella Germania della seconda guerra mondiale. Da Shi no izumi sono stati tratti anche degli spettacoli teatrali.  Ha scritto opere che vanno dalla narrativa fantastica fino al romanzo storico, dalla letteratura gialla a quella sentimentale. Il volume Futari Okuni (Le due Okuni) è stato trasposto nel musical di grande successo Okuni replicato più volte nell’ultima decina di anni e incluso pure negli eventi dell’Expo 2005 di Aichi.

Nanami Kamon Scrittrice e saggista laureatasi nella prestigiosa Università d’arte Tama di Tokyo, dopo aver lavorato come curatrice presso un museo di belle arti si è dedicata professionalmente alla scrittura debuttando nel 1992 con il romanzo Hitomaru chofukurei (Ordine di contrastare il male per Hitomaru), primo di un ciclo di quattro libri. Le sue opere sono in genere incentrate sul tema dell’horror e delle storie di fantasmi del cui filone rappresenta una delle maggiori scrittrici giapponesi contemporanee. È inoltre nota per i suoi reportage relativi alle antiche magie giapponesi e al feng shui, argomenti dei quali ha una profonda conoscenza.

Tra i molti libri da lei pubblicati si ricordano le raccolte di racconti sovrannaturali Ko (La maledizione degli insetti, 1996) che riunisce cinque storie dell’orrore di ambientazione scolastica, Tokoyozakura (Il ciliegio eterno, 2002) formato da storie legate tra loro nelle quali il giovane protagonista si muove tra la realtà e il mondo soprannaturale superando anche la barriera del tempo e Owasuremono (L’oggetto dimenticato, 2006) antologia composta di otto storie in cui presenze spettrali irrompono negli spazi bui della vita di tutti i giorni, i romanzi 203 goshitsu (La stanza 203, 2004) che vedono una giovane studentessa andare ad abitare da sola in un appartamento dove si manifestano inquietanti fenomeni inspiegabili, Mari (Mari, 2005) dove l’incubo di una donna inizia nel momento in cui incontra un suo amico d’infanzia sposatosi di recente, e Iwaiyama (Il monte della celebrazione, 2007), un “real horror” basato su vicende sperimentate personalmente dall’autrice. Ci sono poi i tre libri di saggi dal titolo generale di Uwasa no shinbutsu (Dicerie su Dei e Buddha, editi rispettivamente nel 1998, 1999 e 2007) nei quali descrive i luoghi dove si manifestano gli spiriti. Ha al suo attivo più di una settantina di volumi pubblicati. Molte delle sue storie si basano su esperienze da lei realmente vissute.

Yoshiki Shibata Nata a Tokyo nel 1959, si è laureata all’Università Aoyama Gakuin in letteratura francese. Con il suo primo romanzo RIKO  Viinasu no eien – (RIKO – L’eternità di Venere) nel 1995 si aggiudica la quindicesima edizione del Premio Yokomizo Seishi per il mystery. È questo l’inizio della sua sfolgorante carriera di scrittrice. Il ciclo dell’ispettrice Murakami Riko, pur richiamando nostalgicamente le atmosfere degli anni Settanta, è basato su una vena di completa originalità presentando una poliziotta madre single, personaggio estremamente umano capace di affascinare il cuore del pubblico e di portare l’autrice al successo. Si compone, oltre che dal sopraccitato volume, dei romanzi Madonna no fukaki fuchi (Il profondo abisso della Madonna) e Daiana no asaki yume (Il sogno leggero di Diana) editi rispettivamente nel 1996 e nel 1998. Negli anni seguenti, pur continuando di preferenza a occuparsi di letteratura gialla, Shibata pubblica libri che spaziano dal romanzo sentimentale all’horror, dalla fantascienza fino ad arrivare al racconto fantastico ottenendo un vasto consenso tra i lettori. Tra le sue numerose opere si ricordano il ciclo fantastico avventuroso iniziato con Ento (City Inferno) composto di quattro libri, la divertente serie che vede come io narrante il gatto investigatore Shotaro il quale vive con la scrittrice di gialli Hitomi Sakuragawa incominciata con il volume Yukino sanso no sangeki (Tragedia allo chalet Yukino), il ciclo horror in quattro romanzi Riaru 0 (Rial 0) relativo a una serie di inspiegabili omicidi seriali che prende il via con Yubi (Dita), il giallo a fondo rosa Futatabi no niji (Di nuovo l’arcobaleno) dove la proprietaria di un piccolo locale che serve piatti tipici di Kyoto si occupa di risolvere i problemi dei suoi avventori, V Virejji no satsujin (Omicidio a V Village) con protagonista la vampira detective giapponese Megu, il mystery Shojo-tachi ga ita machi (La città dov’erano le ragazze), il fantasy Ja (Serpenti), Kanransha (La ruota panoramica) dove un’investigatrice privata che non vuole rassegnarsi alla misteriosa scomparsa del marito si occupa di risolvere dei casi intricati, l’antologia dell’orrore Yoruyume (Sogni notturni) e il romanzo fantascientifico Kosode nikki (Diario del kimono a maniche corte) che narra di viaggi nel tempo. Ha al suo attivo più di una settantina di volumi pubblicati. Da alcuni dei suoi lavori sono state realizzate delle produzioni televisive come, ad esempio, da Futatabi no niji trasposto nel 2005 in un serial di ventiquattro puntate dalla NHK, la RAI giapponese, con il titolo di Nanairo no obanzai (Il piatto dei sette colori).

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E veniamo ai sei autori italiani che affiancano la formazione  giapponese. Cominciamo dal primo curatore del volume,

Massimo Soumaré:  nato a Torino nel 1968, Massimo è traduttore, scrittore, curatore editoriale e di mostre d’arte, insegnante di lingua giapponese e ricercatore indipendente. Collabora con riviste specializzate sulle culture orientali quali Quaderni Asiatici (Centro di Cultura Italia-Asia «G. Scalise») e A Oriente! (La Babele del Levante), per cui ha anche curato il numero bilingue relativo al Giappone (2002), con riviste di cultura letteraria italiane e giapponesi come LN-LibriNuovi (CS_libri), Semicerchio (Le Lettere), Studi lovecraftiani (Dagon Press), Ronza (Asahi Shinbunsha), Komatsu Sakyo Magazine (IO Corporation) e cultura cinematografica come Nocturno (Cinema Bis Comunication). Ha redatto le note di letteratura giapponese moderna per il Grande dizionario enciclopedico Nova della casa editrice UTET (2001) riedito nel 2003 con il titolo di L’Enciclopedia (La Biblioteca di Repubblica, La Repubblica). Ha inoltre tradotto varie opere di molti scrittori giapponesi moderni e contemporanei quali Ken Asamatsu, Osamu Dazai, Kaori Ekuni, Hideyuki Kikuchi, Miyuki Miyabe, Kenji Miyazawa, Riku Onda, Michizo Tachihara, Yasutaka Tsutsui, Kyusaku Yumeno ecc., numerosi saggi, curato dibattiti tra scrittori italiani e giapponesi. Come autore suoi racconti sono stati pubblicati in diverse antologie quali ALIA (CS_libri), Fata Morgana(CS_libri), Tutto il nero del Piemonte (Noubs) e Igyo Collection (Kobunsha) e sue opere sono state tradotte e pubblicate in Cina, Giappone e USA. Due suoi saggi sono stati inclusi anche in Sekai no SF ga yatte kita!! Nipponkon fairu 2007 (È arrivata la fantascienza mondiale!! Nippon convention file 2007), volume sugli eventi organizzati dalla SFWJ (L’Associazione degli Scrittori di SF e Fantasy giapponesi) nel corso della prima Worldcon asiatica di Nippon 2007 a Yokohama. Il libro ha vinto nel 2009 il Premio Seiun nella sezione non-fiction.
È perito ed esperto come traduttore ed interprete per la lingua giapponese per la Camera del commercio, industria, artigianato ed agricoltura di Torino. Insegna lingua giapponese presso il CentrOriente di Torino e la Fondazione Università Popolare di Torino.

Altro curatore è Danilo Arona, classe 1950. Scrittore e saggista di lunghissimo corso (ha iniziato a scrivere e a pubblicare negli anni Settanta), Danilo è laureato in filosofia a indirizzo psicanalitico, musicista e giornalista. Il suo incontro con il mondo dell’horror risale al decennio precedente, complici i “Racconti di Dracula” delle Edizioni Farolfi e il seminale film Psyco di Alfred Hitchcock, visionato all’età di undici anni. Da lì ne dedusse che la sua vita sarebbe stata vissuta all’insegna della paura, s’intende ovviamente quella catartica da intrattenimento. E sotto il profilo editoriale non si è fatto mancare quasi nulla, avendo scritto nel corso di quasi quarant’anni saggi, romanzi, racconti, testi critici cinematografici, prefazioni, post-fazioni, cataloghi e altro ancora. E’ stato giurato nel 1980 al Festival del cinema fantastico e del terrore di Sitges. Della sua vasta produzione editoriale i titoli cult sono: Cronache di Bassavilla, Finis Terrae e L’estate di Montebuio. La sua prima storia di fantasmi edita risale al 1985 e s’intitola Un brivido sulla Schiena del Drago, in cui s’immagina una vasta zona dell’autostrada A 26 infestata da un megaspettro – il Godiasca – in grado di provocare catastrofi. Da allora elabora sempre più raffinate declinazioni del mondo invisibile: da Melissa a Miss Continental, da Tulpa alla Blue Siren, per arrivare al tenerissimo fantasma proposto in questo pagine, una bellissima bionda di cui conosciamo solo il nomignolo “Vale”(forse in vita si chiamava Valentina, chissà…).

Presenza di rango, ancora torinese (ma non a caso la capitale sabauda è anche notoria città di spettri…), è quella di Alessandro Defilippi, psicanalista junghiano, collaboratore del supplemento letterario Tuttolibri del quotidiano “La Stampa”, che ha pubblicato con Sellerio e Passigli straordinari lavori come  Una lunga consuetudine, Locus Animae e Le perdute tracce degli Dei. Storie d’intelaiatura gotica, sempre ai confini del reale. Ma esiste un Defilippi che non ha paura di entrare a gamba tesa nel diafano mondo del “sesto senso”: è quell’autore che ci ha regalato perle come Bambini, La dama nera e lo stupendo Berggasse 19 (nel quale il dottor Freud ha un’esperienza ravvicinata con una certa Melissa…) e che qui è presente con un racconto sognante quanto gelido, una fiaba nera che profuma al contempo tanto di «J-Horror» quanto di Piemonte.

Stefano Di Marino non è scrittore che necessita di molte presentazioni. Stefano – lui con i suoi tanti “Alias” – è un pezzo, il pezzo forte, del nostro immaginario. Ormai impossibile da contenere nel territorio per quanto vasto dell’action/thriller, grazie al quale ci ha regalato capolavori come Il sangue versato, Lacrime di drago, Quarto Reich e la lunga, serratissima, serie de Il Professionista, Stefano è negli ultimi anni impegnato in un lavoro di sottile contaminazione tra il gothic e la spy story con titoli al cardiopalma quali Vladivostock Hit e Tempesta sulla città dei morti. Peraltro, essendo anche uno dei massimi esperti italiani di cultura giapponese, è giocoforza trovare il suo nome tra i dodici autori qui proposti. Il “fantasma” che ci presenta, in ossequio alla dibattuta fisicità degli spettri giapponesi, viaggia ai confini del mito, laddove larve e demoni coabitano nel loro ancestrale disegno di attacco all’umanità. Adrenalina pura.

Un vero e proprio “omaggio” agli onryo è quello di Angelo Marenzana, che ha forse scritto La donna dai capelli ramati ancora sotto l’influenza di Melissa (come Stefano Di Marino, ha partecipato all’antologia Bad Prisma, dedicata alla regina dei fantasmi della strada), ma confessa anche di non avere mai visto al cinema un film come Shutter (un ottimo film tailandese) o il suo remake “giapponesizzato”, e sotto questa luce il suo contributo ci suona significativo quanto sinistro. Angelo, piemontese come Arona e Defilippi, ha firmato romanzi noir come Tre fili di perle, Destinazione Avallon, Legami di morte, Buchi neri nel cielo ed è presente in decine di antologie quali Omissis, La legge dei figli, Tutto il nero del Piemonte, La Tierra de los Caidos e Bersagli innocenti. Ricordatevi di lui se nelle notti oscure e nebbiose state viaggiando da soli per una strada secondaria e di colpo sentite un forte odore di benzina…

Infine, Samuel Marolla, autore rivelazione dell’Horror Italian Style che nel 2009 ha esordito col botto per merito di un’antologia personale pubblicata in Epix dal titolo Malarazza. Il più giovane autore del gruppo – ha 34 anni – vi stupirà per l’impianto originalissimo del suo racconto Fobìa, per la perfetta ambientazione milanese e per l’incredibile coerenza alla «J-Horror« che immette l’antico archetipo nel contenitore tecnologico per eccellenza. Ma non è giusto sciuparvi la sorpresa, perché sino a poche pagine dallo svelamento finale, non capirete mai dove si va a parare. Samuel ha pubblicato vari racconti in antologie che s’intitolano L’altalena e Archetipi e ha firmato soggetto e sceneggiatura di una storia per il fumetto Dampyr.

E con questo è proprio tutto. Anzi, quasi tutto. Perché dobbiamo ancora ricordarvi che v’imbatterete, durante la lettura, in una settantina di note esplicative che non sono frutto di pedanteria, ma l’indispensabile corollario chiarificatore per muoversi più agevolmente nel mondo complesso e misterioso dei fantasmi Japan Style.

Buona paura!

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La regina della (nuova) space opera

gennaio 12th, 2012

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Quando nel 1986 uscì L’apprendista ammiraglio, primo episodio della lunga avventura di Miles Vorkosigan, negli ambienti della fantascienza si capì subito che era spuntato un nuovo talento e che un intero genere – quello della bistrattata, stantia space opera – sarebbe risorto dalle ceneri con nuovo orgoglio e nuove cose da dire. I numerosi titoli di cui si compone la serie, indipendenti l’uno dall’altro e leggibili in modo perfettamente autonomo, hanno confermato questa impressione. Vorkosigan è un personaggio credibile, addirittura realistico nelle sue avventure e sventure, e il futuro galattico in cui si muove è ben circostanziato. Se dovessimo indicare un ideale successore del “realismo” asimoviano – il ciclo delle Fondazioni, certo, ma anche quello dell’Impero – non esiteremmo a dichiarare che questo continuatore sia McMasters Bujold, l’autrice che più di tutti ha saputo traghettare un certo tipo di sf classica verso le esigenze dela produzione moderna. Quali sono queste esigenze? Innanzi tutto la serialità e in secondo luogo l’ampio respiro di ogni romanzo, che non solo racconta una lunga avventura ma costituisce un affresco, se il termine non sembra troppo abusato, di un angolo di galassia e di un aspetto della civiltà interstellare che si svilupperà in un domani barocco e tuttavia ancora riconoscibile.

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In passato, “Urania” non ha potuto avvicinarsi alla grande saga bujoldiana per ragioni di mole e perché i diritti erano detenuti da altri editori, ma oggi, compiendo uno sforzo non indifferente, ci siamo assicurati la ristampa de I due Vorkosigan – uno dei titoli più ricercati della serie – e nello stesso tempo abbiamo acquistato il recente inedito Cryoburn (2010), che pubblicheremo prossimamente. Ne I due Vorkosigan la lotta fra due fratelli è il filo conduttore di un’aspra vicenda che sembra riecheggiare Il conte di Montecristo, ma il cui piacere non sta solo nell’intreccio o nei progetti di vendetta. Sotto la malizia e addirittura l’odio, infatti, cova un sentimento di libertà, un desiderio di realizzazione che soltanto lo spazio può appagare. I due Vorkosigan è davvero una grande space opera, dove il vorticare della galassia si sente anche nelle scene e nelle situazioni più claustrofobiche. Lois McMasters Bujold è nata a Columbus (Ohio, Stati Uniti) nel 1949. Ha vinto quattro volte il premio Hugo per il miglior romanzo di sf.

G.L.

 

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Keith Laumer

dicembre 8th, 2011

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Uno scrittore di fantascienza

“allo stato puro”, senza orpelli

e molto attento alla suspense

Il segno dei due mondi, Agente 064 operazione demoni, Minaccia dagli Hukk, Oltre l’orbita di Giove: e, fuori di “Urania”, classici come I mondi dell’impero, La guerra di Retief, La spiaggia del dinosauro, Il giorno prima dell’eternità. Questo è Keith Laumer, scrittore americano nato nel 1925  e morto nel 1993, ma la cui vita fu spezzata già una volta nel 1971, a seguito di un ictus devastante che lo lasciò semiparalizzato. Costretto a muoversi su una carrozzella, per diversi anni Laumer non poté più scrivere e solo gradualmente riprese questa attività nella seconda metà del decennio. L’anonimo appassionato americano che gestisce il sito http://www.keithlaumer.com/, racconta della ventennale amicizia con Laumer e del modo inatteso in cui si concluse, tre anni prima della morte:

“Finalmente, nel 1990 ebbi l’opportunità di conoscere Keith nella sua casa di Brooksville, in Florida. Ero intimidito dall’uomo, dal suo talento e dalla personalità complessiva; era paralizzato da un lato ma si muoveva su un motoscooter e durante il nostro incontro lo usò per mostrarmi la proprietà. Avevo portato mia figlia di nove anni; avevamo fatto tanta strada per venirlo a trovare dall’Oregon, dopo due decenni di lettere e telefonate. Fu un incontro meraviglioso tranne per gli ultimi minuti, quando Keith estrasse una Luger, me la puntò al petto e mi disse di andarmene. In seguito si scusò ma da allora non l’ho più visto”.

Lo sconcertante episodio, nato dalla rabbia impotente di Laumer quando non riusciva ad esprimersi correttamente e non poteva controbattere alle opinioni su cui era in disaccordo (in questo caso, un banale diverbio sull’uso di una videocamera), è raccontato per intero al sito http://www.keithlaumer.com/eforums/messageview.cfm?catid=1&threadid=314

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L’apprendista stregone

dicembre 8th, 2011

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Fra gli autori di fantascienza che hanno cominciato a farsi un nome negli anni Settanta, rinnovandone completamente il bagaglio culturale e il modo di scrivere, John Varley è uno dei pochi che siano riusciti a imporsi all’attenzione di pubblico e critica con un relativamente piccolo numero di opere.

Nato a Austin, nel Texas, nel 1947, ha frequentato la Michigan State University prima di sposarsi e di mettere al mondo tre figli; fino al 1973 ha lavorato come scrittore freelance prima di dedicarsi all’arte di scrivere a tempo pieno. Ha pubblicato sia romanzi che numerose raccolte di racconti.

Dotato di un’esuberante inventiva, ricco d’idee e di trovate originali, Varley si è soprattutto imposto per merito della sua narrativa breve, quella in cui s’avverte subito la presenza del vero scrittore di fantascienza.

Il nostro genere è infatti eminentemente basato sulle idee più che sui personaggi, gli scavi introspettivi o le descrizioni liriche. E se tutto questo rimane appannaggio del romanzo mainstream, è altrettanto vero che quello fantascientico offre altre possibilità ai suoi autori, prima fra tutte quella di dispiegare la propria arte al servizio dell’invenzione.

Gran merito del fatto che alcuni romanzi di sf resistano più di altri alle ingiurie del tempo e al mutare dei gusti dei lettori deriva dal fatto, come nel particolare caso di Varley, che ci si trova di fronte a uno scrittore di razza, fornito di quella particolare dote, non a tutti elargita, che fa sì che i suoi libri non vivano di una sola idea ma ne contengano, come un gioco di scatole cinesi, altre che prolificano libere e ricche di stimoli, guidando il lettore in una selva di sentieri.

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Maico Morellini

novembre 10th, 2011

Giovedì 10 ottobre alle 18,30 Maico Morellini sarà presentato da Giuseppe Lippi al pubblico milanese presso il Wow Spazio Fumetto di viale Campania 12. Sabato 12 ottobre alle 11,00 Maico tornerà in scena a Trieste, presso l’Hotel Continentale, per una nuova presentazione de Il re nero con Lippi.

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A colloquio con il vincitore del premio Urania, tra  fantapolitica, futuro e cinema

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Come ti è nata l’idea del Re nero?L’idea è nata in due momenti successivi. Avevo un’ambientazione, quella di Polis Aemilia, chiarissima e dettagliata nella sua struttura socio-politica, nella storia e nelle relazioni con il mondo esterno. Avevo protagonista ed antagonista, con il loro approccio alla Polis e ai tentativi del Governo di creare uno stato solido in un mondo di caos e disordine. E poi avevo un giallo investigativo, dall’inizio alla fine. Per arrivare alla storia così come l’ho raccontata, ho incastrato questi tre blocchi cercando di sfruttare al meglio l’ambientazione, di inserire antagonista e protagonista all’interno della stessa indagine fino a esaltarne le motivazioni e i dubbi. E’ stato un mix molto prolifico perché mano a mano che pensavo alle interazioni tra le idee messe in campo, queste si sono amalgamate dandomi anche spunti ai quali inizialmente non avevo pensato.

Quali sono gli argomenti che più ti stanno a cuore, tra quelli sviluppati nel romanzo?

Ho cercato di sviluppare nel modo più credibile di cui fossi capace un’evoluzione politica (e non solo) della società italiana. L’idea dell’isolazionismo, del ripescare ideali dal passato cercando di costruire con essi un futuro artificiale ma concreto, la volontà di creare un’isola di salvezza in un mare di caos e violenza che è alla base della nascita di Polis Aemilia sono cose a cui tengo molto. E parallelamente a questo, le reazioni suscitate nei protagonisti del romanzo dal vivere in Polis Aemilia. E’ un’ambientazione estrema e come tale il bianco, il nero e il grigio della nostra vita comune assumono tonalità molto più forti. Descriverle, con tutti i dubbi, le certezze e gli interrogativi che le costituiscono è stato molto importante per me. Le motivazioni dei personaggi racchiudono queste tonalità, racchiudono le stesse risposte che noi proviamo a dare alle difficoltà della vita, la cui intensità è ovviamente elevata a potenza vista l”ambientazione futuristica e, come ho detto, estrema. Ho tentato di inserire una storia nella storia e quindi, insieme al giallo investigativo, qualcosa di più profondo e strutturale. Questa seconda parte, la struttura del bene, del male, della neutralità, mi è molto cara.

A quale progetto stai lavorando attualmente?

Ora mi dedico a qualcosa di decisamente diverso. L’ambientazione del progetto nel quale ho deciso di buttarmi è la Vienna di fine 1700 e il protagonista è l’alchimista, il medico e il filosofo Franz Anton Mesmer, famoso per le sue capacità ipnotiche note come ‘mesmerismo’. Si tratta di un fantasy-storico nella reale ambientazione settecentesca ma che, ovviamente, ha anche molti elementi di pura fantasia.

Cosa pensi dell’attuale cinema di fantascienza?

Credo stia ritrovando un po’, seppure non ancora in modo deciso, una sua identità. La cosa che ho sempre apprezzato del cinema di fantascienza (come anche dell’horror) è la sua capacità di esplorare situazioni del tutto particolari (sia come ambientazione che come interazioni tra i personaggi), grazie proprio all’elemento fantascientifico. Penso a District 9 che prende spunto dalla presenza aliena per sviscerare tematiche tutt’altro che prettamente fantascientifiche. Così come Moon, cattivo e visionario, dipinge un futuro molto crudo e cinico. Ho l’impressione, e i due film citati sono solo degli esempi ma ce ne sono altri, che si stia ricominciando a fare fantascienza intelligente e non solo di intrattenimento (per intenderci, Transformer è puro intrattenimento, film come Skyline nemmeno quello). E questo è un bene. In più il cinema italiano pare essersi riavvicinato al genere. Insomma, adesso molto più che qualche anno fa trovo che stiamo andando verso un ritorno della fantascienza matura.

(a cura di G.L.)

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Matheson’s Legend

novembre 10th, 2011

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He Is Legend è un’antologia celebrativa scritta dai figli naturali e spirituali di Richard Matheson, i molti discepoli di cui è costellato il panorama letterario americano. E’ un esercizo dell’immaginazione che consiste nell’inventare “prequel”, “sequel” e variazioni sui temi dei più famosi racconti mathesoniani, e come tale si presta sia a celebrare un mito della narrativa che a costruire un labirinto di specchi riflettenti le immagini e le paure dei più bravi autori d’oggi. Il libro ha vinto il premio Bram Stoker e il suo curatore, Christopher Conlon, lo ritiene il suo maggior successo editoriale. Conlon ha tuttavia all’attivo numerosi romanzi come autore (A Matrix of Angels, Midnight on Mourn Street, Mary Falls, The Weeping Time, Saying Secrets e altri) e altrettanti titoli come curatore. Fra questi ultimi ricordiamo:  Filet of Sohl, The Classic Scripts and Stories of Jerry Sohl; The Twilight Zone Scripts of Jerry Sohl; Poe’s Lighthouse, All-New Collaborations With Edgar Allan Poe. Nel campo della poesia ha pubblicato A Sea of Alone, Poems for Alfred Hitchcock.

Ma l’ispiratore di tutto, il King della narrativa elettrizzante americana resta lui, Richard Burton Matheson. E’ nato il 20 febbraio 1926 ad Allendale, nel New Jersey, da genitori norvegesi. Suo padre era un ex-marinaio mercantile, poi trasformatosi in installatore di pavimenti a piastrelle. Cresciuto a Brooklyn (dove, a otto anni, già pubblicava qualche poesia sulle pagine del “Brooklyn Eagle”), Matheson frequentò la Brooklyn Technical High School, dove ottenne il diploma nel 1943. Fu quindi arruolato nell’esercito e dimesso in seguito a una ferita riportata in azione: da queste esperienze avrebbe tratto il romanzo di guerra The Beardless Warriors ( 1960; tr.it. I ragazzi della morte, Longanesi, Milano 1963). Tornato alla vita civile, si iscrisse all’Università del Missouri per specializzarsi in giornalismo; già scriveva racconti e vendette il primo, “Born of Man and Woman”, al “Magazine ol Fantasy and Science Fiction”, che lo pubblicò nel numero dell’estate 1950. Pur avendo scritto romanzi bellissimi (Io sono leggenda, Tre millimetri al giorno, Io sono Helen Driscoll), Matheson è fiorito in un’epoca in cui esisteva un ampio mercato per la narrativa breve, e in cui persino il cinema e la televisione adottavano, di tanto in tanto, il formato antologico; il grosso della sua prima produzione è fatto di racconti e gli eccellenti romanzi fantastici, polizieschi, di guerra e persino western (una passione che gli si è rivelata negli anni Novanta, e che lo ha reso un beniamino fra i lettori della prateria) sembrano quasi un succedaneo, una conseguenza di queste famose short stories.

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Joe Haldeman

novembre 10th, 2011

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Americano, nato nel 1943, Joseph William Haldeman si è diplomato in fisica e astronomia e ha combattuto in Vietnam tra il 1967 e il 1969 come geniere, rimanendo gravemente ferito. Da questa esperienza ha ricavato un’onorificenza (il Purple Heart) e un primo romanzo, uscito nel 1972, che parla di quella guerra (War Year). Il suo primo libro di fantascienza è The Forever War (Guerra eterna, 1974) che vinse i premi Hugo e Nebula. Questo celebre testo – costituito dalla fusione di più racconti apparsi in precedenza sulla rivista “Analog” – rappresenta una trasposizione in chiave fantascientifica della guerra, esperienza umana e letteraria che per Haldeman parve concludersi nel 1975 con un altro testo breve, “You Can Never Go Back”.

Se il più famoso romanzo di fantascienza militare era stato, fino a quei tempi, Starship Troopers (Fanteria dello spazio, 1959) di Robert A. Heinlein, Guerra eterna si presentò fin dall’inizio come un anti-Fanteria, permeato da una visione decisamente più disincantata e dolorosa del conflitto, e interessante proprio come resoconto traslato delle esperienze dell’autore nel Sud-est asiatico. Negli anni seguenti Haldeman si è riconfermato autore di un’interessante serie di romanzi e racconti, perlopiù di genere tecnologico: Ponte mentale (Mindbridge, 1976), Al servizio del TB II (All My Sins Remembered, 1977), l’avventura di Star Trek Il pianeta del giudizio (Planet of Judgement, 1977), Mondo senza fine (World Without End, 1979), Scuola di sopravvivenza (There Is No Darkness, 1983), Fondazione Stileman (Buying Time, 1989), Il paradosso Hemingway (The Hemingway Hoax, 1992) e l’ambizioso 1968.

Per molti anni Haldeman ha giurato che non avrebbe mai scritto un seguito di The Forever War. La decisione di pubblicare un nuovo, ampio romanzo che si ricollegasse idealmente al suo capolavoro è venuta molti anni dopo e non è stata di Haldeman – come egli stesso ha dichiarato – ma degli editori: “A un certo punto, delle varie proposte che avevo presentato è parso che un romanzo intitolato The Forever Peace fosse la più desiderabile e quindi mi sono messo all’opera. Ma non è assolutamente un seguito di Guerra eterna, anche se il libro è imperniato sul problema della violenza e del conflitto. È una riflessione molto personale su una serie di temi che mi stavano a cuore, e che certo si possono riscontrare in altre mie opere.” Dunque, The Forever Peace (1997) era solo un segno premonitore. (“Urania” lo ha pubblicato come Pace eterna nel n. 1336, ma la traduzione fu criticata da buona parte dei lettori e in occasione della nuova edizione in “Urania collezione” abbiamo provveduto a farne una nuova).  A Pace eterna seguirà, nel 1999, l’autentica seconda parte di The Forever War, che Haldeman accetterà di scrivere nel giro di poco più di due anni e intitolata Forever Free (Missione eterna, prima edizione in “Urania” n. 1413). Qui non solo i temi di fondo sono quelli del famoso romanzo originale, ma vi compaiono, impensabilmente trasformati, anche i personaggi di The Forever War: in particolare il veterano Mandella.

Che Haldeman abbia voluto tornare sui propri passi, dopo aver più volte assicurato che un seguito di Guerra eterna non ci sarebbe stato affatto, potrebbe sembrare ambiguo. Lo stesso autore ha ritenuto di dover raccontare come sia arrivato alla decisione per “giustificare” in qualche modo la sua scelta:

“So che qualunque cosa dirò questa ‘contraddizione’ mi perseguiterà per il resto dei miei giorni, ma lasciatemi fare almeno il tentativo. Ho sempre affermato che non avrei mai scritto il seguito di Guerra eterna, pur avendo ricevuto offerte allettanti da parecchi editori: il racconto era completo in sé, dicevo. Quindi, venti anni dopo, ho scritto Pace eterna, spiegando a chiunque interessasse che NON si trattava di un seguito ma di un libro autonomo in cui l’autore, a distanza di un ventennio, prendeva nuovamente in considerazioni una parte di quei problemi.

“A questo punto arriva Robert Silverberg. Bob stava compilando un’antologia, Far Futures, in cui alcuni autori di ‘classici moderni’ della sf avrebbero pubblicato un racconto lungo o romanzo breve ambientato nello stesso universo del loro capolavoro. Siccome il compenso offerto era superiore a quello che, all’epoca, avevo ricavato per Guerra eterna, accettai la proposta. Ero arrivato a un terzo circa del mio romanzo breve quando mi resi conto che si trattava indiscutibilmente dell’inizio di un romanzo vero e proprio; un seguito di Guerra eterna ma ‘sui generis’, dato che fra le due vicende erano passati vent’anni e i personaggi principali erano diventati genitori di due ragazzini, una situazione molto lontana dal loro violento passato… almeno apparentemente. Per di più li avevo intrappolati su Middle Finger, Dito medio, un pianeta che è soltanto un luogo di riproduzione per Uomo, l’inumano successore dell’umanità. Bisognava in qualche modo reagire alla situazione e i miei personaggi reagivano.

“Scrissi a Bob e gli chiesi se avesse nulla in contrario a che il mio romanzo breve venisse utilizzato, in seguito, come primo capitolo di un romanzo vero e proprio, e lui rispose: nessun problema, ma dovrai aspettare tre anni per pubbicare il romanzo (due anni dall’uscita dell’antologia).

“Per questa ragione decisi di consegnare a Bob un altro racconto (“A Separate War”, tradotto in “Urania” n. 1543 come “Una guerra personale”) e di continuare l’altro come romanzo autonomo, intitolandolo Missione eterna (Forever Free). Naturalmente l’aggettivo ‘eterna’ non poteva mancare, e la gente – compresa mia moglie – lo confonde già con gli altri due, Guerra eterna e Pace eterna. Credo di essermi fabbricato il letto di spine da solo, per cui è meglio che mi ci sdrai. La mia nuova missone nella vita è cercare il giusto sostantivo da accoppiare con ‘eterna'”.

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David Moody

ottobre 9th, 2011

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Il bancario dell’odio virale è nato nel 1970 e ha cominciato a pubblicare nel 1996 con Straight to You

Non è da tutti lavorare in banca. In un mondo di poeti, insegnanti di scrittura creativa, musicisti, ballerini e chirurghi plastici, fare il bancario può essere un’alternativa interessante. Così deve aver pensato David Moody, inglese quarantenne di Birmingham che avevamo adocchiato già ai tempi della defunta “Epix”. Di lui proponiamo oggi Il virus dell’odio (Hater, 2009), romanzo con un “rationale” fantascientifico alla Poe e le cui radici affondano nel genere contagio all’inglese.

Come in Poe il terrore può avere un risvolto grottesco – “Perdita di fiato”, “Valdemar” – così Il virus non lesina gli effetti raccapriccianti sopra le righe. Come il film 28 giorni dopo dipinge una catastrofe intimamente umana, eppure universale perché sfocia nel collasso biologico della civiltà, anche il cupo romanzo moodiano non risparmia niente e nessuno, anzi parte dal presupposto che proprio i sentimenti di solidarietà e d’amore siano l’agente più pericoloso per la diffusione del flagello. Ovidio ci ha lasciato versi di profonda verità umana: “Odierò se potrò, altrimenti amerò, controvoglia”; Moody sembra capitalizzare sulla confessione del poeta per adattarla ai nostri tempi tumultuosi. Non per nulla gli altri suoi romanzi hanno titoli come Dog Blood, Rage e Disintegration.

Un particolare che forse interesserà i lettori amanti delle biografie è che ormai David non esercita più l’indipendente professione di bancario ma ha ceduto alle pressioni del mondo, facendosi scrittore a tempo pieno. Il suo editore inglese commenta: “Lo ha contagiato un virus”.

G.L.

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