Dispacci

L’umanista del futuro

giugno 14th, 2013

brad

Ray Bradbury, il novantunenne “umanista del futuro” (come è stato definito da un critico spagnolo), è morto il 5 giugno 2012, esattamente un anno fa. Oggi, Mondadori rende omaggio all’anniversario del maestro mandando in libreria un volume senza precedenti nell’editoria italiana: Cento racconti. Autoantologia 1943-1980 (disponibile anche in e-book). Il libro si basa su un testo americano – The Stories of Ray Bradbury, Knopf 1980 – curato dallo stesso autore, il quale aveva scelto cento tra le sue più poetiche e appassionanti short stories, ordinandole con un personalissimo criterio di assonanze e rimandi. L’edizione italiana comprende più di 1300 pagine di testo, un’introduzione dell’autore, un’intervista concessa alla “Paris Review”, nonché tutta una serie di racconti classici, molti di quali appositamente ritradotti, e persino qualche inedito.

Leggi tutto »

Posted in Dispacci, Fantascienza | commenti 3 Comments »

La bomba oltre la siepe

agosto 3rd, 2010

Tags: , , , , , , , , , , , , , , , , ,

Ovvero, come ce la cavammo dopo la fine del mondo… un intervento su Pat Frank a cura di Valentina Paggi e Giuseppe Lippi.

Quello che ai lettori piace di più, nei romanzi catastrofici, sono ovviamente le scene di catastrofe: quando l’uragano arriva, il finimondo è bello fresco e case e persone vanno a pezzi. Ma quanto dura? C’è un romanzo di Philip K. Dick, in italiano Cronache del dopobomba, in cui dopo un preavviso di una decina d’anni si scatena l’apocalisse e una pioggia di bombe H cade sulla California settentrionale. Dopo le prime scene veramente forti, in cui una villetta crolla in testa alla proprietaria (che però poi esce e va a fare l’amore col primo che capita) e un negozio cade intorno a un tecnico focomelico (che sopravvive a differenza del titolare, tranciato in due sulle scale), si instaura una sequela di situazioni normali o para-normali, in cui we get along nonostante il fallout. Dick è molto bravo a descrivere personaggi credibili e normali in situazioni tese, e Cronache del dopobomba potrebbe essere uno dei suoi bei romanzi realistici della California, da Confessioni di un artista di merda a Voci dalla strada; invece l’anno è il 1981, che per l’epoca era il futuro, e varie situazioni weird ci assicurano che siamo dalle parti della fantascienza. Il focomelico, per esempio, ha poteri paranormali ed è un genio della meccanica in grado di costruirsi una macchina che lo trasporti e faccia per lui il lavoro delle braccia e delle gambe. Una bambina di sette anni, Edie, ha un gemello sapiente accovacciato nel suo fianco e solo un ex-psichiatra, Stockstill, sa che le sue non sono fantasie. Un astronauta lanciato proprio il giorno della bomba continua a orbitare intorno alla Terra, esausto, senza che nessuno possa recuperarlo. Un ragazzo nero dimostra un talento geniale per gli affari eccetera, sicché, man mano che gli anni Ottanta scivolano via, la vita riprende come se niente fosse (o quasi). L’unico a rodersi il fegato come prima è il dottor Bluthgeld, che vorrebbe dire “Soldisporchi” come Strangelove voleva dire Stranamore. Bluthgeld è il fisico atomico, nato a Bucarest, che ha fatto esplodere per errore un fascio di bombe negli strati alti l’atmosfera, e questo una decina d’anni prima della guerra vera e propria. Dire che il rimorso lo perseguiti sarebbe un eufemismo: lui ha paura di essere riconosciuto e ammazzato, per cui emigra nella bucolica contea di Marin, si mette ad allevare pecore e spera di nascondersi sotto il nome di Jack Tree. I fisici atomici non saranno popolari, dopo la terza guerra mondiale, ma per il resto si cercherà di tirare avanti. Ecco, è a questo punto che il lettore di fantascienza catastrofica può sentirsi defraudato: va bene il mondo dipinto a colori smorti, va bene il sapiente realismo, mais où sont les bombes d’antan? Il macello, ov’è mai più?

Attenzione, verrebbe da dirgli, non essere precipitoso. Il caos, la deflagrazione, lo scoppio che si ripercuote senza fine, a ben guardare c’è. Solo che non provoca calcinacci e lingue di fuoco come nelle prime, bibliche pagine, ma terremoti, conflitti ciechi e orrori della mente. La vita dopo la bomba è come la vita nei cimiteri, si dice a un certo punto nel libro di Dick. Il terrore, la nausea, il rimpianto non sono tormenti inferiori a quelli somministrati dai diavoli dell’inferno, sebbene i personaggi più vitali sentano che nonostante tutto si può andare avanti. Lo stesso principio vale nel caso di un romanzo meno frequentemente ricordato di quelli dickiani, ma molto famoso all’epoca in cui apparve e ancora oggi circondato da un discreto culto internazionale: Addio, Babilonia di Pat Frank. Il libro, del 1959, potrebbe aver ispirato non solo qualche episodio del Dopobomba (che invece è del 1965), ma la stessa concezione del romanzo successivo. Lo dimostra il giudizio che ne dà in quarta di copertina Gianni Montanari, in occasione di una ristampa – vedi coincidenza – del 1981:

Addio, Babilonia elabora l’agghiacciante ritratto di un frammento di provincia americana alle prese con gli orrori del dopobomba, orrori che consentono all’autore una critica spesso impietosa di uno spaccato ideale del ceto medio del suo paese. A differenza di molte opere simili, infatti, questa aggredisce con coraggio la difficile indagine sotto un profilo precipuamente sociale e politico, connotando con tocchi sapienti un piccolo campionario di umanità capace di imprimersi indelebilmente nella mente dei lettori, e di rammentare loro che certe catastrofi sono sempre in agguato… anche se le armi finali mutano forma e nome”.

Il libro è l’opera di Harry Hart Frank, in arte Pat, giornalista e scrittore che fu anche consigliere del governo (come più tardi Paul Linebarger alias Cordwainer Smith e Alice Sheldon alias James Tiptree, jr.). Nacque a Chicago il 5 maggio 1908, visse a Washington e a New York e durante la Seconda guerra mondiale lavorò per i servizi d’informazione della Difesa, trasferendosi all’estero. Nel 1960 fu membro del Comitato nazionale del Partito Democratico, nel ’61 diventò consigliere del National Aeronautics and Space Council. Sempre nel 1961 ricevette un importante premio letterario, l’American Heritage Foundation Award. Morì a soli cinquantasette anni a Jacksonville, Florida, di pancreatite acuta. Ha pubblicato i romanzi Mister Adam (Mr. Adam, 1946), storia di una grave forma di sterilità che colpisce tutti i maschi e che in Italia uscì nella “Medusa”; An Affair of State (1948); Hold Back the Night (1952); Forbidden Area (1956), storia di un proditorio attacco sovietico all’America portata sugli schermi TV con Tab Hunter (nota anche con il titolo Seven Days to Never); e Addio, Babilonia (Alas, Babylon 1959). Nel 1962 Frank fece uscire il saggio How to Survive the H Bomb and Why (Come sopravvivere alla bomba all’idrogeno e perché), che potrebbe essere letto in un corso propedeutico ad Addio, Babilonia. (Tuttavia il romanzo sembra mettere in scena il consiglio opposto: come non è bene sopravvivere all’olocausto. Ma questo fa parte del dramma…). The Long Way Round (1953) è un libro di viaggi e memorie, mentre è uscito postumo (1967) un libro sulla guerra nel Pacifico intitolato Rendezvous at Midway – USS Yorktown and the Japanese Carrier Fleet, firmato da Frank con Joseph D. Harrington.

Benché il primo romanzo, Mister Adam, sia frequentemente citato a causa del tema genetico, il suo capolavoro resta Addio, Babilonia, un’opera che ha il respiro profondo del “novel” moderno ed è l’antitesi del racconto sensazionale. L’azione si svolge a Fort Repose, in Florida, una cittadina immaginaria ma basata su quella reale di Mount Dora. I personaggi sono molti, sfaccettati e credibili: Randy Bragg, leguleio senza uno scopo; il colonnello Mark Bragg, suo fratello, che gli dà l’avvisaglia del disastro; Helen, la moglie di Mark; Elizabeth Lib McGovern, l’attuale donna di Randy; il banchiere Quisenbery, il politico Logan, il medico Dan Gunn, l’ex-amiraglio Sam Hazzard, fino al presidente USA Josephine Vanbruuker-Brown, la prima donna eletta alla Casa Bianca come effetto dell’emergenza. Il bombardamento atomico della Florida è una delle catastrofi centrali del romanzo, ma gli Stati Uniti riescono nonostante tutto a vincere la guerra. Il prezzo è altissimo: i morti non si contano e il paese è ridotto a una potenza di trascurabile importanza, ricattata da nazioni dell’ex-Terzo mondo come il Venezuela e il Brasile. Alla conclusione del romanzo, Fort Repose sembra essere la sola città rimasta in piedi in Florida, costretta ad affrontare il futuro in una solitudine senza precedenti.

Come molti libri letti nella giovinezza, Addio, Babilonia (la frase deriva dalla Bibbia di re Giacomo, al capitolo 18:10 dell’Apocalisse: “Guai, guai immensa Babilonia, possente città: in un’ora sola è giunta la tua condanna!”), lascia nel lettore un’impressione indelebile che la rilettura adulta giustifica, per fortuna, ampiamente. È un libro degli anni Sessanta che si inserisce non tanto nella scia di Red Alert (1958), il romanzo di Peter George da cui sarà tratto Il dottor Stranamore, ma dell’Ultima spiaggia (On the Beach di Nevil Shute, 1957, che tuttavia parla dell’Australia) e annuncia Il buio oltre la siepe di Harper Lee (To Kill a Mockingbird, 1960), di cui condivide i toni psicologici e l’allarme politico. La metafora del buio al di là del giardino, e cioè la casa del vicino sconosciuto, è quella intorno a cui ruota il libro di Lee, impregnato dell’analisi di una comunità violenta e del tema del razzismo; il romanzo di Pat Frank, che pure è basato sull’esame di una cittadinanza, allude a un peccato più grave, più irreparabile che non “uccidere un mockingbird, cioè un mimo o un usignolo. Qui la vittima non è un uccello innocuo e canterino, non è la città di Babilonia ma l’umanità intera, suicida in un gesto di proporzioni bibliche. Non senza una nota di speranza, in fondo: se nel Buio oltre la siepe i tempi non sono ancora maturi per evitare la morte del pur innocente uomo di colore, in Addio Babilonia la Bomba è ’a livella. Ricchi e poveri, bianchi e neri non solo possono, ma devono convivere fianco a fianco per la sopravvivenza della comunità, e quando nel parco pubblico le due fontanelle con la scritta “solo bianchi” e “solo gente di colore” smettono entrambe di funzionare, l’antica differenza perderà di significato, e giovani studenti bianchi e neri sederanno vicini sui banchi di scuola (con ben cinque anni di anticipo sul Civil Rights Act del 1964).

C’è grande spazio infatti per i giovani, nella civiltà postatomica. I ragazzini, figli della Guerra Fredda e della paura della Bomba, sono quelli che accettano prima e meglio la nuova era, e i primi a gestire la situazione d’emergenza, mentre gli adulti ben inseriti nella società saranno le prime vittime del nuovo status quo: il banchiere si rifiuterà di accettare l’idea di un mondo in cui il denaro equivale a carta straccia, gli anziani di abbandonare l’albergo privo di risorse di sopravvivenza, e gli avidi di separarsi dai gioielli contaminati che pur costituiscono un pericolo mortale. Del resto un’impietosa selezione naturale fa sì che anche i malati e i più deboli siano i primi a soccombere in un mondo che non si può più prendere cura di loro, ma che nonostante tutto continua ad andare avanti. 

E dunque, lungi dai facili finali moraleggianti, la verità, paradossale, sarà questa: in una civiltà resa più “dura” e “pulita” dalla scopa manzoniana dell’atomica si prospetta un futuro – anche se remoto – che potrà reggersi soltanto sull’energia nucleare. Non c’è un’accusa della tecnologia tout court, semplicemente dell’uso improprio che può farne l’uomo.

Quel che convince di più è che il romanzo non si riduce, banalmente, al ritratto di “una catastrofe” o del “mondo dopo l’olocausto”: libri come questo sono in realtà esercizi di stile sulla vita di un campione di gente qualsiasi. La guerra atomica è il catalizzatore, ma le storie che seguono provengono dall’ambiente di tutti i giorni, da angosce che rodono l’anima, sensi di colpa sfibranti e la pace che non c’è più (se mai c’era stata).

Valentina Paggi e Giuseppe Lippi

Bibliografia Italiana di Pat FRANK (ps. di Harry Hart FRANK)

A cura di Andrea Vaccaro

(I titoli dei racconti sono in tondo, fra virgolette, quelli dei romanzi in corsivo. Le opere sono indicate in ordine alfabetico di titolo italiano, senza tener conto dell’articolo)

Addio, Babilonia (Alas, Babylon, J.B. Lippincott, Philadelphia, 1959)
La Bussola n. 3 [SFBC 17], Casa Editrice La Tribuna, 30 giu. 1965
Biblioteca Universale Rizzoli L L337, Rizzoli, lug. 1981

“L’isola della morte”(non indicato)
         Supergiallo. Settimanale di Racconti Polizieschi n. 19, Tip. Novissima, 24 ago. 1946

Mister Adam (Mr. Adam,  J.B. Lippincott, Philadelphia, 1946)
         Medusa CCXXXVII, Mondadori, set. 1949

Altre opere, non tradotte in Italia (dei romanzi viene indicato il genere all’interno di parentesi quadre)

An Affair of State, J.B. Lippincott, Philadelphia, 1948 [fantapolitica]
“The Bomb”, Colliers, Jul 8 1939
“Burden on the Family”, The Saturday Evening Post, Apr. 29 1950
“Capital Gains”, Cosmopolitan, Dec. 1955
“The Christmas Bogey”, This Week Literary Cavalcade, Dec. 1955
“Complete Protection”, Colliers, Jul. 15 1939
“Danger in the Stars”, Redbook, Feb. 1955
“A Date in Bethesda”, Colliers, Apr. 1 1944
“Deciding Score”, Colliers, Jun. 4 1949
“The Empty Desert”, The Saturday Evening Post, Mar. 17 1962
Forbidden Area, J.B. Lippincott, Philadelphia, 1956 [fantapolitica]
“The Ghosts of Montfaucon”, Liberty, Jan. 10 1942
Hold Back the Night, J.B. Lippincott, Philadelphia, 1952 [guerra]
How To Survive the H Bomb And Why, J.B. Lippincott, Philadelphia, 1962 [saggio]
“Ill Wind”, Colliers, Sep. 14 1946
“In Enemy Hands”, The Saturday Evening Post, Dec. 6 1958
“The Last Man on Puang”, Colliers, Aug. 5 1939
The Long Way Round, J.B. Lippincott, Philadelphia, 1952 [diario di viaggio]
“The Loneliest Island”, Colliers, Apr. 20 1946
“The Madman”, Argosy, Sep. 1947
“The Man Who Told the Truth”, Bluebook for Men, Feb. 1961
“Midget’s Moon”, The Saturday Evening Post, Mar. 7 1959
“The Nightmare”, Playboy, Feb. 1964
“On Edge”, Colliers, Jul 22 1950; EQMM, Aug. 1954
“Only the Brave”, Woman’s Home Companion, Dec. 1939
“The Pentagon Spy”, The Saturday Evening Post, Feb. 23 1957
“Prexy Was a Pin-Up”, The Saturday Evening Post, Oct. 23 1954
“Russian Agent”, The Saturday Evening Post, Mar. 17 1951
“The Skipper Couldn’t Take It”, Colliers, Mar. 14 1942; Argosy (UK), Jul. 1942
“Stranger in the Sky”, The Saturday Evening Post, Dec. 7 1957
“Target: Treason”, Colliers, Jun. 22 1946
“This One Is on the House”, Playboy, May 1958
“Victory”, Country Home Magazine, Sep. 1939

La bibliografia italiana completa è sul Catalogo SF, Fantasy e Horror 
La bibliografia in lingua inglese è alla pagina dell’Internet Speculative Fiction DB.

Posted in Fantascienza, Profili | commenti 5 Comments »

Ancora un premio Hugo per Vernor Vinge

agosto 3rd, 2010

Tags: , , , , , ,

Il popolare romanziere americano ai vertici del gradimento con un romanzo che ha vinto i premi più importanti del 2007

Scrittore amato e coccolato dagli appassionati – soprattutto quelli che amano la science fiction fondata su solide basi scientifiche – Vernor Vinge è nato nel 1944 a Waukesha, nel Wisconsin, e fino al 2002 ha insegnato matematica alla San Diego State University. I suoi romanzi sono Il mondo di Grimm (Grimm’s World, 1969), Naufragio su Giri (The Witling, 1976), Quando scoppiò la pace (The Peace War, 1984) e I naufraghi del tempo (Marooned in Realtime, 1986), tutti pubblicati da “Urania”. Inoltre Universo incostante (A Fire Upon the Deep, 1992; premio Hugo 1993) e Quando la luce tornerà (A Deepness in the Sky, 1999; premio Hugo 2000).

Rainbow’s End (2006; premio Hugo 2007) costituisce un tentativo in una nuova direzione: descrivere il mondo del prossimo futuro come in un documentario scientifico, con una tecnica distaccata che potremmo quasi definire kubrickiana. Il romanzo non è di genere spaziale ma terrestre, informatico per la precisione: è la cibernetica che plasma la vita del 2025, come non è difficile immaginare dalla prospettiva del 2006. Ma le trasformazioni sono state radicali e i vecchi computer non esistono  più: il loro posto è stato preso da intricatissime connessioni individuali rese possibili da un balzo tecnologico che per ora possiamo soltanto immaginare. Rainbow’s End non si è limitato a vincere lo Hugo ma anche il premio Locus, ed è stato candidato al John W. Campbell Award. Per il momento è l’ultimo romanzo da lui pubblicato. Vinge è anche autore di importanti racconti brevi, raccolti nel volume personale The Collected Stories of Vernor Vinge (Orb Books 2002).

(a cura di G.L.) 

Posted in Fantascienza, Profili | commenti 3 Comments »

Millemondi 52: Controrealtà

luglio 26th, 2010

Tags: , , , ,

Scatta l’appuntamento estivo con The Year’s Best SF: i migliori racconti pubblicati nel 2007 raccolti in un’antologia imperdibile, a cura di David G. Hartwell e Kathryn Cramer. 

La teologia, in fondo cos’è? Matematica applicata. Chi ha scritto la storia della Terra? I Sysadmin. Quali stagioni ci aspettano? Nuove ere glaciali. In definitiva, chi gestirà l’occupazione? Le donne. Le materie che s’insegnano in questa nutrita antologia di controtendenze sono le solite: fisica, chimica, matematica, scienze sociali, cosmologia. È il punto di vista che cambia, la prospettiva che si allarga. Perché la fantascienza, in fin dei conti, non vuole insegnare niente a nessuno, salvo a guardare con i propri occhi, a giudicare con la propria testa e a sostituire, quando è il caso, i Logori Assiomi con le più Sconcertanti Ipotesi. Ventisei capolavori della short-story riuniti per la prima volta in un solo volume.

David Hartwell, nato nel 1941, prepara da oltre un decennio la collezione in cui raccoglie i migliori racconti e romanzi brevi dell’anno. In questo ricco volume offriamo ai lettori The Year’s Best SF n. 12, una vetrina delle migliori short stories di scuola anglo-americana. Kathryn Cramer, nata nel 1962, ha curato antologie di hard SF, fantasy (The Year’s Best Fantasy) e horror (The Architecture of Fear, per cui ha vinto il World Fantasy Award).

Millemondi n. 52 – Estate 2010
AA.VV. – Controrealtà
a cura di David Hartwell e Kathryn Cramer

Sommario

pag. 5     Introduzione di David G. Hartwell e Kathryn Cramer
pag. 9     Nanomacchine a Clifford Falls di Nancy Kress
pag. 29   Fratello, hai un decino? di Terry Bisson
pag. 39   Quando gli amministratori di sistemi dominavano la Terra di Cory Doctorow
pag. 81   Fallo e basta! di Heather Lindsley
pag. 95   Storie alternative di Gardner R. Dozois
pag. 115 La luna corre di Edd Vick
pag. 127 Filmini casalinghi di Mary Rosenblum
pag. 157 Chu e i nant di Rudy Rucker
pag. 173 Silenzio a Firenze di Ian Creasey
pag. 185 Le nostre occupanti, donne di Kameron Hurley
pag. 193 Questa è l’era glaciale di Claude Lalumière
pag. 205 Parla, bastardo di Eileen Gunn
pag. 209 Spedizione, con ricette di Joe Haldeman
pag. 215 L’era del ghiaccio di Liz Williams
pag. 227 L’alba, e il tramonto, e i colori della terra di Michael Flynn
pag. 273 Teologia matematica applicata di Gregory Benford
pag. 277 Quill di Carol Emshwiller
pag. 301 Tigre, in fiamme di Alastair Reynolds
pag. 329 I morti camminano di Paul J. McAuley
pag. 349 Damasco di Daryl Gregory
pag. 383 Palude metallica di Michael Swanwick
pag. 403 Prendermi cura di me stesso di Ian R. MacLeod
pag. 407 Spedizione nelle basseterre di Stephen Baxter
pag. 425 Elementare Heisenberg di Wil McCarthy
pag. 431 Ruanda di Robert Reed
pag. 441 Prevenzione di Charlie Rosenkrantz

[Clicca sulla copertina per visualizzarla in formato grande, oppure qui per visualizzare la copertina integrale.]

Posted in Fantascienza, Millemondi | commenti 33 Comments »

Michael John Harrison

giugno 3rd, 2010

Tags: , , , , , , , , , ,

Dopo il successo di Luce dell’universo, torna su “Urania” il maestro dell SF britannica

Michael John Harrison è nato il 26 luglio 1945. Ha pubblicato il primo romanzo, The Pastel City, nel 1971: “Urania” lo ha tradotto nel n. 809 con il titolo La città del lontanissimo futuro. Nel 1982 il successivo romanzo In Viriconium ha vinto un premio indetto dal quotidiano “Guardian”. Dopo due raccolte di racconti, The Ice Monkey e Viriconium Nights, sono usciti Climbers (1989) e il graphic novel The Luck in the Head in collaborazione con Ian Miller. Del 1992 è il nuovo romanzo The Course of the Heart, e del 1997 Signs of Life; nel 2000 è la volta della raccolta di racconti Travel Arrangements.

Light (2002, tradotto con il titolo Luce dell’universo nel supplemento n. 26 di “Urania” del febbraio 2006) ha vinto il premio James Tiptree 2003. Harrison vive nella zona occidentale di Londra e scrive critica per il “Times Literary Supplement”. Il suo sito internet è qui: http://www.mjohnharrison.com/index.htm

Se Light era il più bel libro di sf che ci fosse capitato di leggere quell’anno, e degno di un “Urania” speciale, questo secondo romanzo, che non è un seguito ma si svolge nello stesso universo, è altrettanto intelligente e maturo. Bello per il fascino delle ipotesi e del paesaggio cosmico da cui trae la propria forza, per l’ingegnosità con cui è narrato e la creatività dello stile. In breve: un classico moderno della fantascienza inglese.Qualche lettore si sarà accorto del nostro continuo interesse nei confronti degli scrittori briannici: da Peter F. Hamilton ad Alastair Reynolds, da Kim Newman a M. John Harrison, ci sembra siano questi i più caratteristici innovatori di un genere del romanzo che è sempre più difficile distinguere dalla sua controparte letteraria o mainstream

 G.L.

Posted in Fantascienza, Fantasy, Profili | commenti 11 Comments »

Non-A, ovvero L’utopia del ragionare corretto

aprile 16th, 2010

Tags: , , , , , , , , , ,

Pubblichiamo un intervento del traduttore e critico Riccardo Valla sul Non-A e i meccanismi narrativi adottati da A.E. van Vogt nei suoi romanzi. 

Più che nella fantascienza, Non-A andrebbe collocato tra i romanzi utopici, dato che è una delle ultime utopie scritte nel Ventesimo secolo (epoca in cui si sono scritte soprattutto anti-utopie).

Naturalmente, come per le altre utopie, la sua forma segue quella del romanzo della sua epoca, e infatti Non-A non è privo di componenti avventurose e di spunti fantascientifici come gli imperi galattici, le macchine pensanti e i viaggi tra i pianeti. ovvero, per dirla con alcune parole dello stesso van Vogt, è uno di quei “romanzi aristotelici in cui vince sempre l’eroe” (cap. 4). Ma anche Il mondo nuovo era più vicino al romanzo dei suoi tempi – nel suo caso abbiamo il romanzo dello sviluppo della personalità del Selvaggio – che ai lunghi fervorini delle utopie del Settecento, le quali, da parte loro, appartenendo a un’epoca in cui gli scrittori filosofeggiavano a ogni pie’ sospinto, sono diverse dai racconti di viaggio che costituivano la forma delle prime utopie. Quindi non c’è da stupirsi di trovare un’utopia nella forma del romanzo fantascientifico anni Quaranta, con tutte le componenti “pulp” o “space opera” ereditate dal quindicennio precedente. Del resto, il patrimonio di immagini sviluppato dalla fantascienza fino a quel momento – astronavi, pianeti alieni abitati, nuove scienze dell’elettrone e dell’atomo, intelligenze artificiali, mutanti, androidi – è ancora valido oggi, dopo settant’anni, come dimostra il successo di Guerre stellari.

A detta dell’autore, Non-A è il suo libro di maggiore successo. Nella introduzione all’edizione riveduta del 1970, van Vogt scriveva: 

Dopo la seconda guerra mondiale, è stato il primo romanzo di fantascienza scelto da uno dei più importanti editori americani per essere pubblicato in volume.

Ha vinto il premio del Manuscripters Club.

L’Associazione delle Biblioteche di New York l’ha incluso tra i migliori romanzi del 1948.

In Francia, Jacques Sadoul afferma che il romanzo, quando ne comparve la prima edizione, creò virtualmente da solo il mercato francese della fantascienza. Quella prima edizione vendette più di 25.000 copie.

La pubblicazione del romanzo ha richiamato un forte interesse sulla Semantica generale. Numerosi studenti, per merito suo, sono affluiti all’Istituto di Semantica generale di Lakeville, nel Connecticut, per studiare con il conte Alfred Korzybski; lo stesso Korzybski si è fatto fotografare mentre legge il romanzo.

È stato tradotto in nove lingue.

E in realtà, con la sua scusa di ritrarre un futuro mondo basato sulla Semantica generale – un’utopia, dunque – il romanzo è davvero un’efficace presentazione di quella scuola. Leggi tutto »

Posted in Fantascienza, Profili | commenti 3 Comments »

Infect@ opzionato per il cinema

marzo 22nd, 2010

Tags: , , ,

Interessanti sviluppi sul fronte cinematografico della fantascienza: Infect@, il romanzo d’esordio di Dario Tonani pubblicato in “Urania” nel 2007, è stato ufficialmente opzionato per diventare un film.

Un futuro al cinema per Infect@? E’ quello che noi tutti, lettori di Dario Tonani, ci auguriamo! Intanto il primo passo è stato fatto. L’indiscrezione è circolata negli ultimi mesi e ci è stata confermata dallo stesso autore milanese: un intraprendente regista italiano, che è stato anche docente alla New York Film Academy, ha opzionato i diritti cinematografici del romanzo pubblicato nell’aprile 2007 (“Urania” n. 1521). Prima di lui soltanto Valerio Evangelisti, tra gli autori italiani di “Urania”, era arrivato a vendere l’opzione per il cinema di una sua storia. Dopo Infect@, Tonani ha pubblicato lo scorso anno l’acclamato dittico L’algoritmo bianco e si appresta a tornare nel 2011 con il seguito proprio del suo romanzo d’esordio.

Vi terremo informati sugli sviluppi del progetto. Intanto auguriamo a Dario di vedere presto realizzato il futuro in cui le sue visioni, con il loro distillato di anticipazione e immaginario, finiranno impresse sulla celluloide.

[Nell’immagine, un’illustrazione alternativa realizzata da Franco Brambilla per la copertina di Infect@.]

Posted in Dispacci, Fantascienza, Orizzonti | commenti 30 Comments »

Cordwainer Smith: uno scrittore per tempi difficili

marzo 15th, 2010

Tags: , , , , , , , , , , , ,

Dopo una luna assenza dal panorama editoriale italiano, torna grazie a “Urania Collezione” il poliedrico Cordwainer Smith, ideatore della Strumentalità dell’Uomo e precursore del recente filone postumanista.

La breve ma intensa vita di Cordwainer Smith (al secolo Paul Linebarger, 1913-1966) è degna di un romanzo di spionaggio: americano ma fin da piccolo far-traveled, con un eterno conto in sospeso con l’oriente, religioso fervente e più tardi coinvolto in attività governative – esperto di politica orientale, è stato consigliere militare nella guerra di Corea e in precedenza aveva collaborato al sostegno del regime cinese prerivoluzionario – , per un certo periodo si è interessato di tecniche del lavaggio del cervello e ha scritto addirittura un manuale sull’argomento (Psychological Warfare, 1948). Ha cominciato a scrivere giovanissimo, e quando nel 1950 uscì il suo primo racconto di fantascienza (“Scanners Live in Vain”) aveva già alle spalle tre romanzi d’altro genere. Ha sempre firmato la sua narrativa con pseudonimi, da vero uomo-ombra: prima come Felix C. Forrest, poi come Carmichael Smith e infine Cordwainer Smith. La sua principale ambizione letteraria è stata quella di trasfondere nella narrativa americana modi e atteggiamenti del racconto cinese e spesso le sue storie fantastiche sono plasmate, almeno stilisticamente, da questo sforzo.

Quasi tutta la fantascienza di Cordwainer Smith è legata da uno sfondo comune e si svolge in un futuro molto lontano dal nostro (oltre diecimila anni): in quest’epoca barocca, l’umanità si è estesa nella galassia e la domina sotto la ferrea ma benevola tirannide della Strumentalità, una casta ereditaria di signori che, grazie a una sostanza ricavata dalle gigantesche pecore ammalate del pianeta Norstrilia, possono vivere per secoli.

Se i signori della Strumentalità sono il vertice della gerarchia sociale, al gradino più basso si trovano gli underpeople (= sottopersone), animali modificati biologicamente in modo da poter somigliare agli esseri umani ed esprimersi come loro, ma privi in effetti di qualsiasi diritto civile. È un’estensione fiabesca della terribile idea di H.G. Wells, ma in alcuni racconti raggiunge un’originalità propria (“The Ballad of Lost G’mell”, 1962, “The Dead Lady of Clown Town”, 1964).

Smith ha scritto numerosi racconti e in Italia sono state pubblicate tre antologie separate: Quest of Three Worlds del 1966 (su “Galassia” come Sabbie, tempeste e pietre preziose), You Will Never Be the Same del 1963 (L’astronave d’oro, Fanucci) e Stardreamer del 1971 (Giù nei vecchi mondi, Fanucci). Sempre Fanucci ha pubblicato poi Il ciclo della strumentalità in due volumi, completo di tutti i racconti (1989). Ha scritto, invece, un solo romanzo, che all’epoca della prima pubblicazione americana è stato diviso in due separati volumi: The Planet Buyer, del 1964, e The Underpeople (1968). Le traduzioni sono, rispettivamente, L’uomo che comprò la Terra e L’uomo che regalò la Terra (entrambe su “Galassia”). Il manoscritto originale è stato ricomposto nel 1975 e pubblicato col titolo Norstrilia. La nostra edizione segue quella del ’75.

La narrativa di Cordwainer Smith rappresenta uno dei punti più interessanti della fantascienza a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, e se la morte prematura dell’autore ha impedito che il ciclo della Strumentalità venisse portato a termine, ciò non toglie che i racconti migliori possiedano un’originalità e soprattutto un “taglio” che li distingue nettamente dalla produzione contemporanea. Come si accennava all’inizio, questo taglio è ottenuto con il tentativo di ricalcare modelli narrativi tradizionali e orientali: il racconto fantascientifico viene trattato alla stregua di un’antica leggenda, come se chi lo narra rievocasse un tempo remoto, soffuso di una luce che non è più quella cronachistica delle narrazioni di genere, e a volte nasconde un’insospettata crudeltà. I personaggi, per la loro stessa ambiguità biologica, sono qualcosa di più e di diverso dai semplici esseri umani (si veda, ad esempio, la donna-gatto G’mell); si ha la sensazione che qualcosa di prodigioso sia accaduto, ma tolto alla sfera del soprannaturale e proiettato in un universo governato da forze arcaiche.

Tutto questo determina un arricchimento fantastico e una prospettiva inedita. Si può avere, in alcuni casi, la sensazione di muoversi in un mondo eccessivamente oscuro, ma a nostro avviso questo non toglie a Smith ciò che è di Smith, vale a dire l’aver concepito un futuro che non costituisce una mera estensione della nostra realtà, ma che arriva, attraverso una serie di espedienti narrativi e un graduale accumulo di materiali eterogenei, ad avere uno spessore per così dire “mitologico”. E all’interno della fantascienza che ha effettuato tentativi simili (pensiamo alle opere di Zelazny o di Farmer), la narrativa di Smith mantiene un’autonomia e una statura di tutto rispetto.

La fantascienza è ricca di personalità bizzarre, di gusti un po’ forti, ma crediamo che questo corrisponda alla sua intrinseca natura. Il romancero futurista che qui si presenta ne sarà la conferma per chi già lo conosce, e per tutti gli altri costituirà una gradita sorpresa.

Giuseppe Lippi

[La bibliografia italiana delle opere fantastiche di Smith è disponibile sul Catalogo SF, Fantasy e Horror, a cura di Ernesto Vegetti. Il sito ufficiale di Cordwainer Smith, curato da sua figlia, si trova all’indirizzo: http://www.cordwainer-smith.com/]

Posted in Fantascienza, Profili | commenti 11 Comments »

A Ernesto Vegetti

gennaio 20th, 2010

Tags: , , , ,

Oggi, 20 gennaio, si svolgono a Borgomanero (NO) i funerali di Ernesto, presso la chiesa di San Bartolomeo in via Prevosto Felice Piana 51.

L’universo, che altri chiama il Catalogo, si compone di un numero indefinito e forse infinito di voci e rimandi incrociati. In un famoso progetto di riorganizzazione del mondo, Jorge-Luis Borges, un grande dell’immaginario, paragonò il cosmo a una Biblioteca composta “di un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali… Venticinque vasti scaffali, in numero di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno. A ciascuna parete di ciascun esagono corrispondono cinque scaffali; ciascun scaffale contiene trentadue libri di formato uniforme; ciascun libro è di quattrocentodieci pagine; ciascuna pagina, di quaranta righe; ciascuna riga di quaranta lettere nere…” Quando il suo custode sarà morto, non mancheranno mani pietose che ne accompagneranno le spoglie “oltre la ringhiera che dalla biblioteca si spalanca sull’abisso. La sepoltura avverrà nell’aria insondabile; il corpo affonderà lungamente e si corromperà e si dissolverà nel vento generato dalla caduta, che è infinita.”
Per quanto letterarie e magniloquenti (lui era tutt’altro tipo), queste righe si adattano, forse, a ricordare Ernesto Vegetti e la sua opera, il progetto bibliografico concepito in gioventù per uso personale e curato professionalmente per tutta la vita. In questa triste occasione scopro, fra l’altro, che qualcuno ha tentato di quantificare l’inquantificabile: le voci del Catalogo sarebbero centoquindicimila e riguarderebbero ventisettemila volumi di circa quindicimila autori (la fonte è Vittorio Catani in un articolo pubblicato su Fantascienza.com). Con il che si è detto ancora poco, o niente. Il fatto è che in quest’opera labirintica ci siamo tutti noi, le nostre vite e passioni: di ognuno è indicato il luogo, la data, il numero di pagine e battute. Un altro rimando permette di vedere le immagini di quello che siamo o ci sarebbe piaciuto essere, le nostre copertine. Ognuno può diventare un uomo-libro, ha detto Ray Bradbury; se è così, Ernesto Vegetti ci ha letteralmente inventati, inserendoci in un’opera che illustra e compendia la nostra esistenza. Non lo sapeva, o forse fingeva di ignorarlo, ma era un po’ il nostro demiurgo.
Questo caro amico era diventato, da decenni, un eccellente collaboratore di tutte le case editrici impegnate nel settore. Ha aiutato Gianfraco Viviani ai tempi d’oro dell’Editrice Nord, si è prodigato per la Libra-Perseo-Elara di Ugo Malaguti, ha collaborato con enti e fondazioni impegnate nella ricerca bibliografica. E da alcuni anni collaborava volentieri con noi: le minuziose bibliografie di “Urania collezione” devono tutto a lui e hanno permesso alla collana di fare un notevole salto di qualità. Come faremo, adesso? E chi riepilogherà, nel numero del sessantennale che uscirà nell’ottobre 2012, la storia della “corazzata Urania”, come l’aveva battezzata – bontà sua -, nel volume dei cinquant’anni?
Lasciatemi dire che ci sono perdite incolmabili. Oggi, il lavoro della redazione di “Urania” non sarebbe possibile senza il Vegecatalogo. E ogni volta che lo apriremo di nuovo ricorderemo la modestia, quasi l’umiltà del suo attentissimo realizzatore. Credo che Ernesto Vegetti sia stato un uomo eccellente in molti aspetti della vita: come padre e marito, immagino, come amico e lavoratore, ma per noi è stato soprattutto un sognatore capace di non insterilirsi nelle sue fantasie, e invece, come i migliori, farne dono agli altri. Per un lettore non c’è dote più vitale della memoria, ed Ernesto Vegetti ha rappresentato per più di trent’anni questa memoria condivisa.
Sergio Altieri, Marzio Biancolino, io personalmente e tutto lo staff di “Urania” abbiamo perduto un valente amico. Il nostro Premio annuale perde un giurato ineccepibile quanto appassionato, ma da oggi, se vogliamo ricordarlo degnamente, non possiamo che rimboccarci le maniche e cercare di imitare la passione e il rigore di Ernesto.
A patto di esserne capaci.

Giuseppe Lippi

[Nella foto, Ernesto Vegetti con Ian Watson.]

Posted in Dispacci, Fantascienza | commenti 6 Comments »

Ernesto, ciao, a presto

gennaio 18th, 2010

Tags: , , , , ,

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo tributo all’amico Ernesto Vegetti di Vittorio Curtoni.

Trovarsi a vivere in un mondo senza Ernesto Vegetti è come precipitare in un incubo di Philip Dick o Edgar Allan Poe: un pezzo essenziale della realtà è scomparso, e hai voglia a cercarlo, proprio non c’è più. Quanto mi mancherano le nostre frequenti telefonate, gli incontri di persona, non riesco nemmeno a immaginarlo. Per adesso la sua essenza è solo un concetto astratto che quel grande bastardo del tempo si incaricherà di concretizzare.

In anni remoti non ci vedevamo molto di buon occhio, schierati come eravamo (e siamo rimasti) su fronti politici opposti, in tempi in cui la militanza ideologica aveva un peso decisivo. Mica come oggi, con tutto il froufrou del centro qui e centro là: noi due eravamo agli antipodi e ci fiutavamo maluccio. Sciocche intemperanze della gioventù. Quando abbiamo cominciato a frequentarci sul serio siamo diventati inseparabili, e al diavolo la politica (sulla quale lui era peraltro ferreo, oltre che preparatissimo). Al massimo ci scherzavamo su, non risparmiavamo nemmeno le battutacce, tanto nessuno dei due coltivava sogni da missionario. Andava bene così.

Ernesto era, come ha scritto Gianfranco Viviani, un uomo d’altri tempi: onestà, correttezza, senso dell’onore erano i suoi spiriti guida. Uniti a un meticoloso amore per la precisione, un’attenzione spasmodica al dettaglio, una cultura di amplissima portata, una natura cordiale e irruenta, una tendenza irrefrenabile alla sincerità, hanno fatto di lui una delle figure centrali della fantascienza (e affini) italiana. Promotore nei Settanta della World SF Italia, l’associazione che riunisce operatori e appassionati della sf, di cui è stato presidente per lunghi anni; ideatore e motore imprescindibile dell’annuale Premio Italia; creatore del grandioso Catalogo di Fantascienza, Fantasy e Horror (disponibile in rete su Fantascienza.com), l’opus magnum della sua vita; membro della giuria del Premio Urania e del Premio Galassia, nonché di chissà quanti altri premi letterari; estensore per le pubblicazioni del ramo di bibliografie impeccabili, strumenti preziosi messi a disposizione di tutti: questo, oltre a molto altro, era Ernesto Vegetti. Uomo, en passant, di una generosità sterminata, capace di dannarsi l’anima in settimane di ricerca pur di fornire tutte le informazioni che gli venivano chieste o di spendere interi giorni al telefono per rimediare ai disastri combinati col computer da analfabeti dell’informatica come il sottoscritto. Per non parlare della generosità materiale, concreta, dello spiccatissimo senso dell’ospitalità, della simpatia travolgente. Eccetera.

Oddio, ho come la sensazione di scrivere il ritratto di un santo, il che è l’ultima cosa che lui avrebbe voluto. Qualche difettuccio lo aveva, soprattutto a livello di assetto mentale: malleabile fino a un certo punto, tendeva alla testardaggine più coriacea una volta superato quello che considerava il livello di guardia. Fargli cambiare idea su qualcosa era impresa praticamente impossibile, a meno che non fosse lui stesso a percorrere la strada del cambiamento, da intelligente cittadino del mondo qual era. Ogni tanto attaccava discorsi interminabili, oppure si piantava a metà e si scordava di concludere. Altro non rimembro. Quisquilie e pinzellacchere, è ovvio. In effetti, a pensarci bene, è stato per me una sorta di incarnazione di angelo laico, molto terreno, molto solido. E ve lo dice uno che negli angeli non crede.

Lettore insaziabile, aveva cominciato da ragazzo con le storie western; poi, rendendosi conto che il mercato italiano non bastava a soddisfare la sua voracità, era passato alla fantascienza e al fantastico in generale. Amori tutti che non ha mai tradito, costruendo gradualmente, senza mai fermarsi, una biblioteca di dimensioni gigantesche. Ben adatte alla sua natura. Era anche (e potrà sembrare un paradosso, ma è la verità) timido, schivo: per anni ha esercitato in solitudine l’amore per i libri e soltanto nel 1977 si è deciso a uscire allo scoperto, diventando l’unico solo vero Vegetti nazionale. Grazie a me, debbo dire. È una di quelle cose di cui vado particolarmente orgoglioso. Ernesto lesse, sul quinto numero della rivista “Robot” (agosto 1976), il mio entusiastico editoriale sulla convention di Ferrara del giugno precedente. Si disse che non poteva perdere un evento del genere e l’anno dopo si presentò a Ferrara. Dove non trovò traccia delle molte persone di cui avevo raccontato, visto che, per sfortuna sua, l’edizione ’77 dello SFIR non fu esattamente un successo. Ma lui, impavido, non si perse d’animo, e insistette, e com’è andata a finire lo sappiamo tutti. Mi piace pensare che sia sempre esistito tra noi due un legame karmico che doveva, fatalmente, portarci al grande affetto che abbiamo condiviso.

Dire che Ernesto mi mancherà è l’eufemismo del millennio. Anche mentre scrivo queste rimembranze, sono pronto ad acchiappare il telefono e chiamarlo per quattro chiacchiere. Ohi ohi. Ma cosa diavolo è successo? Com’è che non mi rispondi?

A conti fatti, immagino che quel che mi mancherà di più saranno i viaggi in automobile con lui e Gianfranco Viviani, una volta l’anno, di marzo, andata e ritorno per Fiuggi. All’Italcon o morte! Ernesto e Gianfranco arrivavano da me, a Piacenza, verso le dieci del mattino. Si faceva colazione, poi si partiva. Tipo carro dei pionieri lanciato alla conquista del Far West, mutatis mutandis. Molto mutatis, è sottinteso. Sosta a un autogrill per il pranzo (veloce), magari un’altra fermata per incontenibili necessità fisiologiche, arrivo a Fiuggi nel tardo pomeriggio. Urrà, ci siamo! Il tutto condito da chiacchiere da vecchi amici (o vecchie baldracche, quali amavamo definirci) sulla fantascienza, sulle persone dell’editoria. Malignità e sghignazzi e applausi e lodi, imparzialmente. Straordinario senso di famiglia. L’appartenenza a un gruppo, un’amicizia cementata dagli anni, i lavori fatti in comune, l’amore che ci univa. Noialtri, tre dei grandi vecchi della fantascienza italiana.

E adesso uno non c’è più. Ma vaffa, va’.

Vittorio Curtoni

[Nella foto del 1992, tratta da Fantascienza.com, voltati verso l’obiettivo da sinistra: Vittorio Curtoni, Gianfranco Viviani ed Ernesto Vegetti, “tre dei grandi vecchi della fantascienza italiana”.]

Posted in Dispacci, Fantascienza | commenti 1 Comment »

« Previous Entries Next Entries »