La notte tra venerdì 30 e sabato 31 gennaio 2009 è morto Lino Aldani, il più conosciuto narratore della fantascienza italiana dagli anni Sessanta fino ad oggi. Si trovava nell’ospedale di Pavia dove era stato ricoverato da tempo per una malattia incurabile a un polmone. I primi sintomi si erano avuti in settembre, poi le condizioni si sono aggravate. La notizia ci è giunta dalla figlia Elettra. Una funzione civile si svolgerà nella sede comunale di S. Cipriano Po, il paese dove Aldani era nato e abitava dal 1968, lunedì 2 febbraio alle ore 14,00.
Per ricordarlo pubblichiamo una mini-biografia e un lungo pezzo (con intervista) su di lui.
In sintesi
Lino Aldani, considerato il principale esponente della fantascienza italiana, è morto a Pavia il 31 gennaio 2009 per un’incurabile malattia a un polmone. Nato nel 1926 a San Cipriano Po (PV), vi si è ristabilito nel 1968. Nei quarantadue anni intermedi ha vissuto e lavorato a Roma, come professore di matematica. Ha cominciato a scrivere negli anni Cinquanta e a pubblicare nel 1960. Ha scritto soprattutto racconti fantastici e di fantascienza, e solo a partire dal 1977 alcuni romanzi: Quando le radici (1977, ma iniziato dieci anni prima), Eclissi 2000 (1979), Nel segno della luna bianca (ovvero Febbre di luna, 1980, in collaborazione con Daniela Piegai), La croce di ghiaccio (1989), Themoro Korik (2007). La casa editrice Perseo, oggi ribattezzata Elara (Bologna) ha raccolto in cinque volumi l’opera completa di Aldani: La croce di ghiaccio, Ontalgie, Aria di Roma andalusa, Febbre di Luna e Themoro Korik, il suo ultimo romanzo. A questi titoli si può aggiungere la raccolta a quattro mani, firmata con Ugo Malaguti, Millennium. Scrittore completo e ricco d’inventiva, Aldani si colloca tra gli autori italiani che hanno saputo interpretare con maggior sensibilità le radicali trasformazioni del paese e dell’Europa intera: non a caso è stato tradotto in molte lingue fin dagli anni Sessanta.
Ritratto di Aldani, con intervista
di Giuseppe Lippi
Aldani è stato un maestro della fantascienza grazie al primato della sua immaginazione; ma è anche lo scrittore più potente della sua generazione perché si tratta di un uomo consapevole e padrone dei suoi mezzi ben al di là dei limiti di un genere. Come buona parte della generazione che ha fatto la fantascienza classica italiana, Aldani è padano; ma è praticamente sposato a Roma, dove ha vissuto per quarant’anni, ha conosciuto sua moglie Mirella ed ha avuto la figlia Elettra.
Raccontava infatti: “Mio padre, uno chef originario di San Zenone, si era trasferito a Roma per lavorare. Mia madre era una mondina di San Cipriano Po; nel 1926, per farla partorire, i miei erano tornati in paese, ma avevo quaranta giorni quando siamo andati definitivamente a Roma. Durante la Seconda guerra mondiale sono tornato a San Cipriano per un periodo di quattordici mesi. Ero renitente alla leva e avevo deciso ad andare in collina fra i partigiani. Ho studiato matematica e filosofia, materie che poi ho insegnato nelle scuole serali: però la scuola l’ho odiata, appena ho potuto sono andato via. Sono un baby pensionato dell’insegnamento.” Rievocando le origini della sua carriera letteraria, Aldani prosegue: “Nell’immediato dopoguerra ho scritto un romanzo senza titolo e diversi racconti di ambientazione partigiana. Dopo questi inizi, c’è stato un romanzo esistenziale, Le anatre di sughero. Parlava di un certo Coriolano Mauser, una mia proiezione, e della sua esistenza.
“Quanto alla passione per il fantastico, per me è un fatto naturale. Sono nato ignorante e a lungo sono rimasto tale: di conseguenza, all’epoca dei primi racconti non è che avessi riflettuto sul problema dei generi. Del resto, da ragazzi, chi aveva il tempo di leggere? I miei primi racconti fantastici li ho scritti dopo aver fatto il militare e letto Sartre, mio grande amore. Si era verso la metà degli anni Cinquanta, quando mi è venuta l’idea de ‘L’inseguito’. Più o meno a quell’epoca è uscita la rivista Urania e mi è dispiaciuto non poco quando ha chiuso dopo quattordici numeri. In seguito ho letto Planète, che conteneva altre suggestioni ma sulla stessa onda …”
Nel 1960 Aldani comincia a pubblicare i suoi racconti di fantascienza: “Ho cominciato a collaborare con Oltre il cielo, la rivista pubblicata negli anni Cinquanta e Sessanta, e mi sono familiarizzato con la redazione: l’ingegner Armando Silvestri, il direttore, e il suo braccio destro Cesare Falessi, alto quasi due metri, una specie di marziano ma con un buon acume editoriale. E’ stato lui a consigliarmi di passare dal genere satirico, con cui avevo esordito, al racconto ‘serio’ di SF. Per i miei gusti, comunque, in ‘Oltre il cielo’ c’erano troppa avventura e troppa astronautica.
“Nel 1955 ho conosciuto Mirella, mia moglie, che insegnava matematica nella stessa scuola. Il 25 luglio 1957 ci siamo sposati ed Elettra, nostra figlia, è nata nel 1964”.
Un anno prima Aldani aveva fondato una sua rivista di fantascienza, la storica “Futuro”. “Sì, Futuro è nata nel 1963. Ne ero molto soddisfatto, ma la mia era una visione utopica. Pensavo che se si publicano cose buone, il successo è automaticamente assicurato. Invece…Intorno alla rivista lavoravamo in parecchi: a parte me c’erano Massimo Lo Jacono, Giulio Raiola, Sandro Sandrelli e Inìsero Cremaschi. La prima incarnazione di Futuro è morta nel 1964, dopo il fallimento di un distributore e il subentrare del secondo. Otto numeri usciti e non vedemmo neanche un soldo, proprio perché il distributore fallì. Chiuso quel ciclo, le prospettive per la mia narrativa mi sembravano zero. Non scrivevo più niente. Intanto, già nel 1968 eravamo andati via da Roma e ci eravamo trasferiti a San Cipriano Po: ho insegnato ancora qualche anno in zona e Mirella ha fatto lo stesso, poi ci siamo ritirati. Nel 1975 ho lasciato la scuola, mettendomi in aspettativa; quindi sono andato in pensione”.
Ma con il tempo libero a disposizione e il ritorno in Lombardia, per Aldani si prepara una nuova stagione creativa. A partire dal 1977 si darà anche al romanzo: Quando le radici (iniziato dieci anni prima) è la storia del famoso trasferimento da Roma sul Po, ma slittata nel futuro di un’Italia mostruosa; Eclissi 2000 (1979) “è una professione di fede: l’astronave Terra Madre rappresenta il socialismo e il romanzo poggia sulla tesi che non puoi costituire un governo, anche socialista, senza dire bugie e promettere cose false”. Nel segno della luna bianca (ovvero Febbre di luna, 1980, in collaborazione con Daniela Piegai), è “un fantasy dichiaratamente di sinistra, e come tale fu attaccato da più parti. Questi detrattori lo giudicarono il peggior romanzo sporcaccione prima di Porci con le ali…”
La genesi de La croce di ghiaccio (1989) “può essere cercata nel fatto che avevo un amico prete. E’ stato quest’amico a introdurmi nel mondo degli zingari, ed è lui che nel romanzo viene ammazzato dai gironiani. In realtà”, continua Aldani, “il problema religioso non è pertinente o centrale al mio libro…”. Il suo quinto romanzo, un’avventura tra il popolo rom che si svolge parzialmente a Trieste, è uscito per la Perseo Libri di Bologna con il titolo Themoro Korik. La stessa casa editrice ha raccolto in quattro volumi l’opera completa di Aldani: La croce di ghiaccio, Ontalgie, Aria di Roma andalusa e Febbre di Luna, cui si può aggiungere la raccolta a quattro mani, firmata con Ugo Malaguti, Millennium.
L’epoca in cui Aldani esordisce è quella in cui alcuni scrittori italiani, non solo di “genere”, non si vergognano affatto di interessarsi al futuro. Esso appariva non più come semplice speranza patriottica o terra promessa dai grandi ideali messianico-religiosi, ma come un “tempo nuovo” plasmato dalle realtà della scienza e della tecnica; un tempo consapevole di questioni fisiche, biologiche ed epistemologiche. E’ stata una sorta di piccola rivoluzione copernicana, ed è durata quel che è durata: eppure, questa scrittura ha lasciato un segno e tuttora muove qualcosa, nonostante che i moventi ideologici iniziali, le cause civili e l’impegno politico siano, per forza di cose, radicalmente cambiati. Lo strano periodo cui alludiamo, che forse affonda le radici nel modernismo dei futuristi e nelle aeropitture degli anni Venti e Trenta, e i cui esponenti hanno letto Marinetti-Palazzeschi-Landolfi, si situa tuttavia più tardi, nel periodo che segue la caduta del fascismo e la Seconda guerra mondiale. E’ la ricostruzione degli anni Cinquanta (che il cinema di Antonioni troverà alienante) a permetterne il fiorire; è la Civiltà delle macchine illustrata sulla rivista dell’IRI a fornirgli un’ideologia di facciata, mentre le esperienze del Politecnico, della casa editrice Einaudi e del nuovo realismo le forniranno l’ossatura contro-ideologica, la speranza cioè di un totale cambiamento di orizzonte politico.
I maggiori esponenti di questa stagione sono ben noti: Italo Calvino delle Cosmicomiche e Ti con zero, Primo Levi (che scrive le Storie naturali con lo pseudonimo di Damiano Malabaila) e tutta una serie di autori che popoleranno i decenni centrali del secolo ormai concluso: cioè poco prima che una letteratura di massa sempre più avvolgente venisse a sostituire la non inutile pagina scritta, il lavoro personale o artigianale. Oltre ai già ricordati Calvino e Levi, la categoria comprende Tommaso Landolfi, che nel dopoguerra ha pubblicato alcuni testi para- o pseudoscientifici: Un paniere di chiocciole, 1964, La pietra lunare (1968) e i Racconti impossibili, 1966; Ennio Flaiano con i satirici Un marziano a Roma (1957), Una e una notte (1958) e il surreale Melampus (1970); Dino Buzzati, il nostro più prolifico autore dell’inquietudine, con i Sessanta racconti (1958) da cui si è potuta trarre in seguito una Boutique del mistero (1964); Giuseppe Berto con il fortunato La fantarca, 1965, ristampato anche per le scuole; Carlo Fruttero e Franco Lucentini con i loro racconti di fantascienza, una lunga attività editoriale e, più tardi, anche un giallo tecnologico (A che punto è la notte, 1979).
Tra gli autori più interessanti del periodo, del resto, bisogna annoverare alcuni cineasti, quasi sempre scrittori dei propri film: Michelangelo Antonioni (Deserto rosso, 1964), Marco Ferreri (La donna scimmia, 1963; Il seme dell’uomo, 1969), Tinto Brass (Il disco volante, 1964), Ugo Gregoretti (Omicron, 1963), Elio Petri (La decima vittima, 1965), Roberto Faenza (H2S, 1969), ecc. Finita l’epoca del neorealismo, i suoi eredi si sono addentrati in un territorio nuovo per il nostro paese e che qualcuno ha tentato di bollare come “metaforlandia”, il regno delle metafore. In verità era qualcosa di molto più concreto: l’urgenza di interpretare una realtà contraddittoria e potenzialmente esplosiva con i mezzi dell’immaginazione.
Di poco successiva è la generazione di autrici e autori che hanno contribuito alla nascita del genere letterario che in Italia si chiama fantascienza, e sulla quale Aldani primeggia. In tutti, il motivo centrale è l’illusorietà di un presente in rapida trasformazione, l’attesa del XXI secolo con la spettrale antropologia che seguirà. Grazie a loro, la letteratura del futuro ha raggiunto anche gli strati popolari, attestandosi come vera e propria mitologia di un’epoca. Certo, l’impresa degli scrittori proiettati al futuro non è stata facile: come conciliarne le visioni con gli interessi di famiglie e “cose nostre”, con gli scandali e le bustarelle, con la cronica diffidenza nazionale verso ogni e qualsivoglia innovazione? Come rendere credibile – narrativamente credibile – un mondo che si suppone asettico e tecnologico, efficientissimo e raggelante e che, al tempo stesso, debba tener conto dello strapaese? Per riuscirci ci sarebbe voluto un grande umorista (e non è un caso se alcune delle più belle storie fantascientifiche italiane siano state scritte – e disegnate – da Benito Jacovitti, l’unico uomo che potesse mandare una lisca di pesce a volare nello spazio) o un uomo con almeno un piede fuori dai vizi nazionali, e perché no tutt’e due.
Lino Aldani è stato, magari senza alcun proposito, il nostro Candido dell’immaginazione scientifica, e ha rivolto il suo sogno, più che alle stelle o alle comete, al fiume e ai boschi, alle città di domani e agli uomini che le abiteranno (come Arno, il protagonista di Quando le radici: altro nome fluviale). Così ha fuso racconto speculativo e romanzo tradizionale, facendo in modo che il contenitore narrativo fosse sempre all’altezza delle aspettative letterarie; il contenuto, quando fosse il caso, si sarebbe fatto introspettivo e analitico, ma in ultima analisi sarebbe sfociato nella descrizione di un generale slittamento: la parafrasi (in un tempo vicino, immediato eppure non presente; un tempo “straniato”) di un’esperienza fondamentale, quella dell’uomo che muta.
Seguendo l’esempio innovatore di Aldani si sono mossi altri autori, fra cui Renato Pestriniero, Vittorio Curtoni e Vittorio Catani (tutti condizionati dalle strettoie di un mercato limitatissimo); mentre altri risultati sono venuti dal cinema, che ha impastato volentieri l’apologo al futuro con la commedia all’italiana; ma già negli anni Settanta quella possibilità tramontava, sopraffatta dai film porno softcore e dai generi tradizionalmente più lucrativi. Agli autori letterari non è restato dunque che rifugiarsi nell’esperimento, nel lavoro tipicamente intellettuale dell’avanguardia, nella poesia “sofferta”; o nel rinnovamento di un genere che forse non era più nemmeno un genere.
Uomo completo e ricco d’inventiva, Aldani trascende a sua volta i limiti di un genere e si colloca tra i romanzieri che hanno saputo interpretare con maggior sensibilità le potenziali trasformazioni della realtà italiana. La sua riflessione all’inizio del nuovo millennio non è per niente consolatoria:
“Gli anni 2000 sono arrivati a vuoto, inutilmente; tante cose che avrebbero dovuto mettersi a posto, invece si sono aggravate. 2002, 2003, 2004, un anno vale l’altro… Qui non si muove niente, è questo il grave. Non so dirlo con precisione, ma non siamo pronti a gestire il futuro. Ci siamo capitati in mezzo e non ce la facciamo. Negli anni Sessanta e Settanta c’è stato un ottimismo della volontà che ci ha fatto sperare, ma col passare degli anni ha avuto la meglio il pessimismo della ragione. A meno di non cambiare radicalmente il nostro atteggiamento in direzione bioetica, il mondo andrà incontro a un’immane distruzione di risorse, capacità e forme di vita. Non vedere questo equivale ad essere perduti. Una delle cose che l’umanità non vuole assolutamente capire è che da quando è iniziato un certo tipo di sviluppo, non abbiamo fatto un momento di pausa. Stiamo continuando ad andare avanti in progressione geometrica, prosciugando tutto quello che avremmo dovuto conservare per il futuro. Le attese socialiste, che condividevamo in tanti, non si sono verificate. Sì, ci ho creduto a lungo, ma ormai l’unica rivoluzione che possiamo fare consiste nel coraggio di sopportare l’attuale situazione. E’ già un pensiero rivoluzionario, perché non vuol dire condividere ma sopportare un certo stato di cose.
“Scrivere science fiction ha ancora un senso? Sì, ma solo a patto di mettere in risalto la ‘pars destruens’, non la ‘pars construens’. Altrimenti ci limiteremmo ad andare avanti solo perché siamo nel campo e la conosciamo”.
Una riflessione che racchiude tutta l’opera aldaniana, realistica e visionaria insieme, civilmente impegnata e poetica, mirabolante come può esserlo un’ottava ariostesca e seria come ogni sguardo utopico sul futuro.
Tutti i racconti e romanzi di Lino Aldani sono raccolti nell’edizione uniforme pubblicata dalla Perseo libri di Bologna, oggi Elara: La croce di ghiaccio, Ontalgie, Aria di Roma andalusa, Febbre di Luna e Themoro korik, il suo ultimo romanzo (2007). A questi titoli si può aggiungere la raccolta a quattro mani, firmata con Ugo Malaguti, Millennium.
Giuseppe Lippi