Fantascienza a Tempi Dispari: Lippi ricorda Lino Aldani

marzo 9th, 2009

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Si torna a parlare di fantascienza sulle frequenze di Rainews24, con un ricordo del grande Lino Aldani. 

Domani sera “Urania” tornerà in TV con il suo storico curatore Giuseppe Lippi. L’occasione è rappresentata dall’appuntamento settimanale con la letteratura della trasmissione di Rainews24 Tempi Dispari, condotta da Francesco Gatti. Lippi interverrà intorno alle ore 22.00 per tracciare un profilo e un ricordo di Lino Aldani, il padre della fantascienza italiana scomparso lo scorso 31 gennaio. Alla trasmissione parteciperà, da Bologna, anche l’editore Ugo Malaguti.

L’appuntamento, come di consueto, potrà essere seguito anche on-line, in streaming sul sito web della Rai, a partire dalle ore 21.30.

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I funerali di Lino Aldani

febbraio 3rd, 2009

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Nel racconto di Giuseppe Lippi.

Lunedì 2 febbraio in tutta la Lombardia c’è neve; non ce la sentiamo di partire in macchina e alle 12,05 prendiamo un treno in Centrale. Alle 12,33 siamo a Pavia, dove ci raccoglie il genero di Lino, dottor Angelo Corsico. Essendo medico, ci fornisce alcune informazioni sulla patologia: Lino Aldani è stato bene fino all’estate 2008, ma in settembre ha cominciato ad accusare disturbi alla prostata. Fattosi esaminare, ne è uscito con una diagnosi tranquillizzante per quanto riguarda il problema specifico, ma con la scoperta (casuale, a quanto sembra) di un piccolo tumore al polmone. Nonostante le dimensioni ridotte, si tratta di una forma particolarmente aggressiva: adeno-carcinoma. Non è uno dei tumori che attaccano preferibilmente i fumatori, ma di quelli che possono colpire chiunque; il fatto paradossale è che Lino Aldani non aveva alcun disturbo respiratorio.

Arrivati all’Istituto per le Malattie del lavoro, saliamo al terzo piano; qui ha sede una fondazione che assiste i malati terminali. Ancora fino a Natale, raccontano il dottor Corsico e sua moglie Elettra, figlia unica di Aldani, lo scrittore era riuscito a partecipare alla vita di famiglia, sia pure sempre più inappetente e con difficoltà motorie. Per spostarsi da una stanza all’altra usava la poltroncina a rotelle dello studio: questo perché il tumore aveva cominciato a diffondersi nelle ossa. La situazione è precipitata dopo Capodanno e l’8 gennaio, in seguito allo spezzarsi del femore, è stato necessario trasportarlo all’ospedale. Qui Aldani è rimasto poco più di tre settimane: prima presente a se stesso e impaziente di essere dimesso (“Sto morendo”, diceva ad Elettra, “fatemi tornare a casa mia”), poi gradualmente più stanco e, negli ultimi giorni, meno lucido. Non c’è stato niente da fare e si è spento la notte tra venerdì 30 e sabato 31 gennaio. Avrebbe compiuto 83 anni il 29 marzo.

Nella camera ardente arriviamo poco prima della chiusura della bara. In qualche minuto è tutto finito e il convoglio delle macchine prende la strada di San Cipriano Po, il paese di Aldani a una ventina di chilometri.

Qui, alle 14,00, si svolge una breve cerimonia civile nella sala comunale, alla presenza del sindaco Pietro Faravelli, dei parenti stretti e alcuni amici: gli editori Ugo Malauti e Armando Corridore, vari affezionati lettori. Diamo un breve addio allo scrittore di “Buonanotte Sofia”, “37° centigradi”, Quando le radici ed Eclissi 2000. Ugo Malaguti parla della sua fantascienza realistica e impegnata, io stesso ricordo l’apertura dei tempi in cui Aldani cominciò a scrivere, il breve periodo del boom negli anni Sessanta. E’ strano parlare di fantascienza davanti a una cara persona morta: penso che sia la prima volta che mi capita e, spero, l’ultima. Molti hanno le lacrime agli occhi; Mirella, moglie di Aldani, è stretta tra le cognate. La fantascienza sarebbe davvero fuori posto, se non fosse anche ciò che ha rappresentato l’arte di Aldani. E per un uomo che scrive, vita e creazione sono una cosa sola.

Del resto, molti dimenticano che “fantascienza” è un’etichetta di comodo, una gabola quasi, ma è il fantastico che sta al cuore dell’operazione e Lino Aldani è stato un grande del fantastico, definizione che non credo respingerebbe. Fantasia lucida e avvertita, si è detto, per capire la realtà invece che sfuggirla. E che da oggi vivrà nel ricordo e nei suoi libri.

La mattina di martedì 3 febbraio, Aldani è stato cremato e l’urna inumata nel cimitero di San Cipriano Po.

G.L.

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Intervista a Lino Aldani

febbraio 2nd, 2009

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 Riprendiamo questa lunga intervista ad Aldani curata da Giuseppe Lippi.

Lino Aldani è ritenuto, a livello internazionale, il maggiore esponente della fantascienza italiana ed è senz’altro il più tradotto. Nell’antologia The Science Fiction Century (1997), il volume a cura di David G. Hartwell che ripropone i capolavori della sf del Novecento, i soli autori italiani inclusi sono Lino Aldani e Dino Buzzati. Il suo successo dipende da tre motivi: la forza dello stile, con cui descrive ambienti straordinari e personaggi reali, estremamente credibili (non di rado si tratta di mature proiezioni dello stesso Aldani); la costante qualità dell’invenzione in un genere che spesso si accontenta di scimmiottare le trovate altrui, per cui si può ben dire che Aldani sa uno dei pochi maestri italiani del fantastico; infine, la tensione ideale, l’intensità che c’è in ognuno dei suoi racconti, sia che descrivano una grottesca Italia del futuro, sia che parlino della necessità di rivoluzionare l’uomo. Autore, in cinquant’anni di carriera, di innumerevoli racconti brevi che spaziano dalla commedia al dramma, dall’avventura psicologica alla profezia sul nostro domani, Aldani ha scritto in tutto sei romanzi fantastici, mentre almeno due di genere realistico non sono mai stati pubblicati. Per onorare i cinque decenni di una carriera così importante, la Perseo Libri di Bologna ha racchiuso l’intero corpus della narrativa di Aldani – racconti e romanzi – in cinque volumi: La croce di ghiaccio, Ontalgie, Aria di Roma andalusa, Febbre di Luna e Themoro korik, cui si può aggiungere la raccolta a quattro mani, firmata con Ugo Malaguti, Millennium. “Urania” ha voluto festeggiare a sua volta il grande scrittore andando  a intervistarlo nella sua casa di San Cipriano Po, dove ha ritrovato un geniale narratore, un attivissimo direttore di rivista – la sua “Futuro Europa”, attualmente pubblicata dalla Perseo, è la reincarnazione della storica “Futuro” degli anni Sessanta – e un uomo davvero impeccabile, lombardo di sangue ma romano di spirito oltre che d’adozione… Come si vedrà dalle seguenti battute. 

Domanda: Aldani, tu sei nato nel 1926 e hai combattuto molte battaglie del presente, immaginando nelle tue opere quelle del futuro.Come ti senti nello scenario degli anni Duemila, adesso che ci siamo?

Risposta: Abbiamo tutti aspettato quella data, ma nel complesso provo una gran delusione. Gli anni 2000 sono arrivati a vuoto, inutilmente; tante cose che avrebbero dovuto mettersi a posto, invece si sono aggravate.

D.: Ma l’emozione di vivere questo XXI° secolo?

R.: L’emozione? Per dirla alla Gigi Proietti, meno male che ci sono arrivato. 2002, 2003, 2004, un anno vale l’altro… Qui non si muove niente, è questo il grave.

D.: Secondo te, c’è stata una contrazione del senso del futuro?

R.: Sì che c’è stata. Quale senso del futuro ci è rimasto? Lo ha scritto anche Fabio Calabrese ad Antonio Scacco, parlando di prospettive…

D.: E i motivi?

R.: Non lo so con precisione, ma non siamo pronti a gestire il futuro. Ci siamo capitati in mezzo e non ce la facciamo.

D.: Questa situazione è molto diversa dal passato…

R.: Negli anni Sessanta e Settanta c’è stato un ottimismo della volontà che ci ha fatto sperare, ma col passare degli anni ha avuto la meglio il pessimismo della ragione. Guarda quello che scrive Ernst Schumacher, il sociologo tedesco di Piccolo è  bello, un libro del 1973: a meno di non cambiare radicalmente il nostro atteggiamento in direzione bioetica, il mondo andrà incontro a un’immane distruzione di risorse, capacità e forme di vita. Non vedere questo equivale ad essere fregati. Una delle cose che l’umanità non vuole assolutamente capire è che da quando è iniziato un certo tipo di sviluppo, non abbiamo fatto un momento di pausa. Stiamo continuando ad andare avanti in progressione geometrica, prosciugando tutto quello che avremmo dovuto conservare per il futuro.

D.: E’ un enorme problema politico. Un tempo c’erano le attese del socialismo, a mitigare il panorama: tu sei stato un militante e ancora nel 1980, in un’intervista concessa a Vittorio Curtoni sulle pagine della rivista “Aliens”, parlavi di rivoluzione….

R.: Le attese socialiste, che condividevamo in tanti, non si sono verificate. Sì, ci ho creduto a lungo, ma ormai l’unica rivoluzione che possiamo fare consiste nel coraggio di sopportare l’attuale situazione. E’ già un pensiero rivoluzionario, perché non vuol dire condividere ma sopportare un certo stato di cose.

D.: Sopportare va bene, ma reagire?

R.: Come si fa? Non è più possibile. Il perché è già contenuto in nuce nelle analisi di André Gorz, ad esempio nel Socialismo difficile del 1968. Noi abbiamo vissuto l’epoca di Stalin, che è stato l’uomo che ha tentato di costruire il socialismo in Russia dopo Lenin…

D.: L’obbiettivo finale di un regime socialista dovrebbe essere l’abbattimento dello stato, naturalmente dopo un periodo transitorio. In passato non hai mancato di sottolinearlo: era questa la tua visione dell’utopia?

R.: Sì, e credo che nonostante tutto si potrebbe ancora arrivare al superamento dello stato…. In effetti è l’unica utopia ancora viva, l’unica che possa stare in piedi. [Sorride, poi]: Peccato che m’hai preso in una giornata in cui non so parlare. Ti rispondo a frasi mozze.

D.: Forse è solo che non hai voglia di teorizzare. Veniamo a cose più concrete, per esempio la tua famiglia e l’ambiente da cui provieni.

R.: Mio padre era uno chef d’albergo originario di San Zenone, mia madre una mondina di San Cipriano Po. Personalmente non ho imparato l’arte culinaria, so fare solo qualche piatto. [La moglie, Mirella, interviene: “Lumache e quaglie le fa benissimo!”]

D.: Quando sei nato, i tuoi genitori vivevano a Roma?

R.: Sì, mio padre ci si era trasferito per lavorare. Per far partorire mia madre erano tornati a San Cipriano, ma avevo quaranta giorni quando siamo andati definitivamente a Roma. [Mirella interviene per aggiungere aneddoti sulla nascita di Lino. Lui, un po’ irritato, la interrompe]: Ma te stai un po’ zitta un momento? Sì, sono spesso irritato perché da infante mi legavano le braccia nelle fasce. Però, in fondo sono una buona pasta.

D.: Mi puoi raccontare qualcos’altro, della tua infanzia?

R.: Sto scrivendo un racconto sull’argomento.  Mi ricordo, per esempio, che mia madre mi lasciava solo in casa, dicendo che mi avrebbe tenuto compagnia il bambin Gesù. Però io stavo solo su un seggiolone e mi rodevo… Altro che “la mamma fa presto”! Avevo tre anni e magari, per calmarmi, lei prometteva di portarmi un grammofonino che regolarmente non arrivava. A tre anni già scrivevo e scarabocchiavo, volevo risme di carta. “Tu prega Gesù”, diceva la mamma: ma il mio sogno era possedere una risma di carta! Gesù l’ho cassato, l’ho cancellato da allora. Sono ateo completo, sottolineato. Però combatto sempre con i libri di religione, perché sono alla ricerca di una conferma alle mie conclusioni. Sono una personalità profondamente religiosa perché so vedere, nelle cose della vita, un lato che non è affatto terra-terra.

D.: I tuoi studi, la tua professione?

R.: Ho studiato matematica e filosofia, materie che poi ho insegnato nelle scuole serali. T’a ricordi, Mire’…? Però la scuola l’ho odiata, appena ho potuto sono andato via. Baby pensionato dell’insegnamento, eccomi qua.

D.: Come è cominciata la tua carriera letteraria?

R.: Nell’immediato dopoguerra ho scritto un romanzo senza titolo e diversi racconti di ambientazione partigiana che avrei potuto pubblicare con Lucio Lombardo Radice. Lui dirigeva la rivista di un circolo culturale, “Incontri”, che mi rifiutò un racconto: l’avrebbero accettato solo a patto di cambiare il finale. Lo stesso dicasi per il romanzo, Lombardo Radice pensava che ci fossero problemi ideologici, cose che non andavano. La tesi del libro era che non si può entrare in un’epoca di pace portandosi dietro i vecchi rancori della guerra partigiana. Dopo questi inizi, c’è stato un romanzo esistenziale, Le anatre di sughero. Parlava di un certo Coriolano Mauser, una mia proiezione, e della sua esistenza. Questo signore viveva situazioni tipiche dell’esistenzialismo: si trovava in un cimitero, assisteva alle imprese di un gruppo di vagabondi che scoperchiavano le bare dei morti. Ad un certo punto, andava da un pescatore sul fiume che utilizzava le anatre di sughero: bestiole finte che suggeriscono l’idea di una realtà illusoria.

D.: Sono esperienze autobiografiche anche per quanto riguarda il periodo di guerra?

R.: Durante la Seconda guerra mondiale sono tornato a San Cipriano Po, il paese dove sono nato, per un periodo di quattordici mesi. Ero renitente alla leva e avevo deciso ad andare in collina fra i partigiani, ma nessuno volle accompagnarmici. E’ un paese di cacca, il mio, di confine, di gente che si schisciava (scansava, sottraeva).

D.: Dopo quegli esordi neorealisti, come ti è nata la passione per il fantastico?

R.: Per me è un fatto naturale, di carattere. Sono nato ignorante e sono rimasto ignorante a lungo, son venuto fuori dopo: di conseguenza, all’epoca dei primi racconti non è che avessi tanto riflettuto su problemi di genere o altro. Del resto, da ragazzi, chi aveva il tempo di leggere? I miei primi racconti fantastici li ho scritti dopo aver fatto il militare e letto Sartre, il mio grande amore. Si era verso la metà degli anni Cinquanta, quando mi è venuta l’idea de “L’inseguito”. Più o meno a quell’epoca è uscita “Urania” rivista e mi è dispiaciuto non poco quando ha chiuso dopo quattordici numeri. In seguito ho letto “Planète”, che conteneva altre suggestioni ma sulla stessa onda: il mistero del santo Graal, eccetera…

D.: Come hai cominciato a scrivere fantascienza?

R.: E’ stato un mio alunno, all’epoca in cui insegnavo. Vedendo che avevo con me dei numeri di “Urania” mi ha fatto conoscere un pazzo, certo Polimeni, che si interessava di dischi volanti. In seguito l’alunno mi portò un numero di “Oltre il cielo”, la rivista pubblicata negli anni Cinquanta-Sessanta. Ho cominciato a collaborare, a scrivere racconti per loro e mi sono familiarizzato con la redazione: l’ingegner Armando Silvestri, il direttore, e il suo braccio destro Cesare Falessi, alto quasi due metri, una specie di marziano ma con un buon acume editoriale. E’ stato lui a consigliarmi di passare dal genere satirico, con cui avevo esordito, al racconto “serio” di sf. Per i miei gusti, comunque, in “Oltre il cielo” c’erano troppa avventura e troppa astronautica.

D.: Ed è stato a quell’epoca che hai conosciuto tua moglie.

R.: Ho conosciuto Mirella nel 1955, lavorava nella stessa scuola (dove insegnava matematica) e in occasione degli esami ci siamo frequentati un po’ di più. Il 25 luglio 1957 ci siamo sposati e ricordo che il giorno prima abbiamo fatto un doppio di tennis. Abbiamo vinto noi e gli altri ci hanno chiesto la rivincita, ma dovevamo sposarci ventiquattr’ore dopo e così abbiamo rinunciato. Elettra, nostra figlia, è nata nel 1964.

D.: Un anno prima avevi fondato una tua rivista di fantascienza…

R.: Sì, “Futuro” è nata nel 1963. Ne ero molto soddisfatto, ma si trattava di una visione utopica perché pensavo che se uno publica cose buone, il successo è automaticamente assicurato. Invece mi resi conto che per aver successo te devi appecorona’. Intorno alla rivista lavoravamo in parecchi: a parte me c’erano Massimo Lo Jacono, Giulio Raiola, Sandro Sandrelli e Inìsero Cremaschi; con Lo Jacono non mi ci prendevo, lui era per una rivista commerciale, io per la qualità. Poi arrivò Cremaschi e allora… che vuoi fare più? Lui aveva il pallino della moglie, Gilda Musa, ce la infilava dappertutto.

D.: Quella di “Futuro” è stata un’avventura breve, ai tempi. Anche se poi l’avresti rifondata con Ugo Malaguti e oggi la pubblichi con il titolo “Futuro Europa”.

R.: Sì, la prima “Futuro” è morta nel 1964, dopo il fallimento di un distributore e il subentrare del secondo. Otto numeri usciti e non vedemmo neanche un soldo, proprio perché il distributore fallì. Chiuso quel ciclo, le prospettive per la mia narrativa mi sembravano zero. Non scrivevo più niente. Nel 1975 ho lasciato la scuola, mettendomi in aspettativa; quindi sono andato in pensione. Intanto, già nel 1968 eravamo andati via da Roma e ci siamo trasferiti a San Cipriano Po, il paese dove sono nato: ho  insegnato ancora qualche anno in zona e Mirella ha fatto lo stesso. Poi ci siamo ritirati.

D.: Come è stato l’impatto con queste terre?

R.: Appena arrivato da Roma in provincia di Pavia, mi è sembrato di sbarcare su un altro pianeta. Dove fra l’altro comandavano i fascisti. Per due anni non abbiamo avuto neanche una casa, mentre costruivamo questa: poi mi hanno eletto sindaco e ho rivoltato le carte in tavola, sul piano politico. Ho fatto ribattezzare via Gramsci la strada in cui viviamo e ho ripreso a scrivere.

D.: Hai messo subito mano al tuo primo romanzo, Quando le radici?

R.: Guarda, i primi capitoli di Quando le radici li avevo già scritti a Roma nel 1966: ma allora ero troppo occupato a vivere. Alla fine, quando il libro è uscito nello Science Fiction Book Club della Tribuna (1977), rispecchiava abbastanza fedelmente quello che avevo fatto nella realtà, il trasferimento da Roma al Po. In questo paese, San Cipriano, sono successe proprio le cose di cui parlo nel romanzo.

D.: E’ una storia tormentata ma realistica, una  profetica visione dell’italia del futuro. Come venne accolta, all’epoca?

R.: Credo che fosse accusata di pavesismo, di eccesso di realismo provinciale, cose del genere. Anche per questo, quando l’editore De Vecchi mi commissionò un secondo romanzo decisi di cambiare registro e il risultato fu Eclissi 2000 del 1979.

D.: Come avevi conosciuto De Vecchi?

R.: Tramite Mario Macario, il figlio di Erminio. Eravamo amici, lui aveva un contatto con De Vecchi e mi chiesero di scrivere un altro libro. Eclissi sembra la storia di un viaggio interstellare, tema popolare ma secondo me insostenibile: tuttavia, negli ultimi anni mi sono convertito all’idea che una cosa del genere puoi scriverla come puro divertissement. Lo stesso vale per i viaggi nel tempo. In un certo senso, però, anche Eclissi 2000 è una professione di fede: l’astronave Terra Madre rappresenta il socialismo e il romanzo poggia sulla tesi che non puoi costituire un governo, anche socialista, senza dire bugie e promettere cose false: è questo il significato dell’astronave che non vola.

D.: Poi, nel 1980, è stata la volta di Nel segno della luna bianca scritto con Daniela Piegai e pubblicato dalla Nord.

R.: Il nostro titolo era Febbre di luna ed è stato restaurato per la riedizione fatta dalla Perseo Libri. L’idea ci è nata per sfatare le tante cavolate sulla Tradizione con la T maiuscola, la destra eccetera. Volevamo fare un fantasy che fosse dichiaratamente di sinistra, e come tale fu attaccato da Gianfranco de Turris e altri. Costoro lo giudicarono il peggior romanzo sporcaccione prima di Porci con le ali

D.: Come era suddiviso il lavoro tra te e la Piegai?

R.: Il romanzo è prevalentemente mio perché la trama è mia dalla “A” alla “Z”, ma avevo bisogno di una collaboratrice come la Piegai che è esperta in sortilegi, leggende eccetera. Mi ha tolto le castagne dal fuoco in varie occasioni, ma il romanzo lo sento mio.

D.: Così arriviamo alla Croce di ghiaccio del 1989, il romanzo pubblicato dalla Perseo.

R.: Sì, e la sua genesi può essere cercata nel fatto che avevo un amico prete. Costui aveva una gran paura  di finire ammazzato da un momento all’altro per mano degli zingari che avrebbe dovuto evangelizzare. E’ stato quest’amico a introdurmi nel mondo degli zingari, è il prete che nel romanzo viene ammazzato dai gironiani. Ma il problema religioso non è pertinente o centrale al mio libro: non sono d’accordo con i critici cattolici come Antonio Scacco, secondo i quali sarebbe un romanzo scritto per fare andare d’accordo scienza e religione.

D.: Nella tua carriera i racconti hanno sempre avuto una posizione predominante. Li preferisci ai romanzi?

R.: Sì, indubbiamente. La fantascienza è un genere che si regge sulla bontà dei suoi racconti o al massimo delle novelette, cioè i racconti lunghi. A chi fosse preoccupato della sorte dei personaggi, posso assicurare che in un racconto è possibile delinearli con la stessa efficacia. Se basta una schioppettata per abbattere un volatile, perché sprecarne tre o quattro? Personalmente, ritengo di aver scritto vari romanzi che hanno la lunghezza di racconti: “La costola di Eva”, “Trentasette centigradi”, eccetera.

D.: Quale consiglio daresti a un giovane aspirante scrittore?

R.: Tu vuoi farmi dire qualche banalità! Non si possono dare consigli, semmai augurare a tutti di  avere una gran fortuna, imboccare la strada giusta. In realtà nessuno può dire come si fa, men che meno io. Bisogna avere serietà innanzi tutto.

D.: Cosa ti piace leggere di fantascienza?

R.: Da anni non la seguo più, a parte quello che arriva alla redazione di “Futuro Europa” e che leggo per dovere.

D.: E quali criteri segui, in questo tuo “dovere”?

R.: Colmo con uno sforzo il gap della mia ignoranza.

D.: Secondo te, ha ancora senso scrivere science fiction? 

R.: Sì, ma solo a patto di mettere in risalto la “pars destruens”, non la “pars construens”. Altrimenti ci limiteremmo a scriverla solo perché siamo nel campo, la conosciamo e compagnia bella.

(Intervista raccolta da Giuseppe Lippi con il contributo di Mirella Aldani, Ugo Malaguti e Sebastiana Vilia a San Cipriano Po, PV, il 18 settembre 2004. Pubblicata su “Urania” n. 1494 nel gennaio 2005.)

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Lino Aldani (1926-2009)

gennaio 31st, 2009

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La notte tra venerdì 30 e sabato 31 gennaio 2009 è morto Lino Aldani, il più conosciuto narratore della fantascienza italiana dagli anni Sessanta fino ad oggi. Si trovava nell’ospedale di Pavia dove era stato ricoverato da tempo per una malattia incurabile a un polmone. I primi sintomi si erano avuti in settembre, poi le condizioni si sono aggravate. La notizia ci è giunta dalla figlia Elettra. Una funzione civile si svolgerà nella sede comunale di S. Cipriano Po, il paese dove Aldani era nato e abitava dal 1968, lunedì 2 febbraio alle ore 14,00.

Per ricordarlo pubblichiamo una mini-biografia e un lungo pezzo (con intervista) su di lui.

In sintesi

Lino Aldani, considerato il principale esponente della fantascienza italiana, è morto a Pavia il 31 gennaio 2009 per un’incurabile malattia a un polmone. Nato nel 1926 a San Cipriano Po (PV), vi si è ristabilito nel 1968. Nei quarantadue anni intermedi ha vissuto e lavorato a Roma, come professore di matematica. Ha cominciato a scrivere negli anni Cinquanta e a pubblicare nel 1960. Ha scritto soprattutto racconti fantastici e di fantascienza, e solo a partire dal 1977 alcuni romanzi: Quando le radici (1977, ma iniziato dieci anni prima), Eclissi 2000 (1979), Nel segno della luna bianca (ovvero Febbre di luna, 1980, in collaborazione con Daniela Piegai), La croce di ghiaccio (1989), Themoro Korik (2007). La casa editrice Perseo, oggi ribattezzata Elara (Bologna) ha raccolto in cinque volumi l’opera completa di Aldani: La croce di ghiaccio, Ontalgie, Aria di Roma andalusa, Febbre di Luna e Themoro Korik, il suo ultimo romanzo. A questi titoli si può aggiungere la raccolta a quattro mani, firmata con Ugo Malaguti, Millennium. Scrittore completo e ricco d’inventiva, Aldani si colloca tra gli autori italiani che hanno saputo interpretare con maggior sensibilità le radicali trasformazioni del paese e dell’Europa intera: non a caso è stato tradotto in molte lingue fin dagli anni Sessanta.

Ritratto di Aldani, con intervista
di Giuseppe Lippi

Aldani è stato un maestro della fantascienza grazie al primato della sua immaginazione; ma è anche lo scrittore più potente della sua generazione perché si tratta di un uomo consapevole e padrone dei suoi mezzi ben al di là dei limiti di un genere. Come buona parte della generazione che ha fatto la fantascienza classica italiana, Aldani è padano; ma è praticamente sposato a Roma, dove ha vissuto per quarant’anni, ha conosciuto sua moglie Mirella ed ha avuto la figlia Elettra.

Raccontava infatti: “Mio padre, uno chef originario di San Zenone, si era trasferito a Roma per lavorare. Mia madre era una mondina di San Cipriano Po; nel 1926, per farla partorire, i miei erano tornati in paese, ma avevo quaranta giorni quando siamo andati definitivamente a Roma. Durante la Seconda guerra mondiale sono tornato a San Cipriano per un periodo di quattordici mesi. Ero renitente alla leva e avevo deciso ad andare in collina fra i partigiani. Ho studiato matematica e filosofia, materie che poi ho insegnato nelle scuole serali: però la scuola l’ho odiata, appena ho potuto sono andato via. Sono un baby pensionato dell’insegnamento.” Rievocando le origini della sua carriera letteraria, Aldani prosegue: “Nell’immediato dopoguerra ho scritto un romanzo senza titolo e diversi racconti di ambientazione partigiana. Dopo questi inizi, c’è stato un romanzo esistenziale, Le anatre di sughero. Parlava di un certo Coriolano Mauser, una mia proiezione, e della sua esistenza.
“Quanto alla passione per il fantastico, per me è un fatto naturale. Sono nato ignorante e a lungo sono rimasto tale: di conseguenza, all’epoca dei primi racconti non è che avessi riflettuto sul problema dei generi. Del resto, da ragazzi, chi aveva il tempo di leggere? I miei primi racconti fantastici li ho scritti dopo aver fatto il militare e letto Sartre, mio grande amore. Si era verso la metà degli anni Cinquanta, quando mi è venuta l’idea de ‘L’inseguito’. Più o meno a quell’epoca è uscita la rivista Urania e mi è dispiaciuto non poco quando ha chiuso dopo quattordici numeri. In seguito ho letto Planète, che conteneva altre suggestioni ma sulla stessa onda …”

Nel 1960 Aldani comincia a pubblicare i suoi racconti di fantascienza: “Ho cominciato a collaborare con Oltre il cielo, la rivista pubblicata negli anni Cinquanta e Sessanta, e mi sono familiarizzato con la redazione: l’ingegner Armando Silvestri, il direttore, e il suo braccio destro Cesare Falessi, alto quasi due metri, una specie di marziano ma con un buon acume editoriale. E’ stato lui a consigliarmi di passare dal genere satirico, con cui avevo esordito, al racconto ‘serio’ di SF. Per i miei gusti, comunque, in ‘Oltre il cielo’ c’erano troppa avventura e troppa astronautica.
“Nel 1955 ho conosciuto Mirella, mia moglie, che insegnava matematica nella stessa scuola. Il 25 luglio 1957 ci siamo sposati ed Elettra, nostra figlia, è nata nel 1964”.

Un anno prima Aldani aveva fondato una sua rivista di fantascienza, la storica “Futuro”. “Sì, Futuro è nata nel 1963. Ne ero molto soddisfatto, ma la mia era una visione utopica. Pensavo che se si publicano cose buone, il successo è automaticamente assicurato. Invece…Intorno alla rivista lavoravamo in parecchi: a parte me c’erano Massimo Lo Jacono, Giulio Raiola, Sandro Sandrelli e Inìsero Cremaschi. La prima incarnazione di Futuro è morta nel 1964, dopo il fallimento di un distributore e il subentrare del secondo. Otto numeri usciti e non vedemmo neanche un soldo, proprio perché il distributore fallì. Chiuso quel ciclo, le prospettive per la mia narrativa mi sembravano zero. Non scrivevo più niente. Intanto, già nel 1968 eravamo andati via da Roma e ci eravamo trasferiti a San Cipriano Po: ho  insegnato ancora qualche anno in zona e Mirella ha fatto lo stesso, poi ci siamo ritirati. Nel 1975 ho lasciato la scuola, mettendomi in aspettativa; quindi sono andato in pensione”.

Ma con il tempo libero a disposizione e il ritorno in Lombardia, per Aldani si prepara una nuova stagione creativa. A partire dal 1977 si darà anche al romanzo: Quando le radici (iniziato dieci anni prima) è la storia del famoso trasferimento da Roma sul Po, ma slittata nel futuro di un’Italia mostruosa; Eclissi 2000 (1979) “è una professione di fede: l’astronave Terra Madre rappresenta il socialismo e il romanzo poggia sulla tesi che non puoi costituire un governo, anche socialista, senza dire bugie e promettere cose false”. Nel segno della luna bianca (ovvero Febbre di luna, 1980, in collaborazione con Daniela Piegai), è “un fantasy dichiaratamente di sinistra, e come tale fu attaccato da più parti. Questi detrattori lo giudicarono il peggior romanzo sporcaccione prima di Porci con le ali…”

La genesi de La croce di ghiaccio (1989) “può essere cercata nel fatto che avevo un amico prete. E’ stato quest’amico a introdurmi nel mondo degli zingari, ed è lui che nel romanzo viene ammazzato dai gironiani. In realtà”, continua Aldani, “il problema religioso non è pertinente o centrale al mio libro…”. Il suo quinto romanzo, un’avventura tra il popolo rom che si svolge parzialmente a Trieste, è uscito per la Perseo Libri di Bologna con il titolo Themoro Korik. La stessa casa editrice ha raccolto in quattro volumi l’opera completa di Aldani: La croce di ghiaccio, Ontalgie, Aria di Roma andalusa e Febbre di Luna, cui si può aggiungere la raccolta a quattro mani, firmata con Ugo Malaguti, Millennium.

L’epoca in cui Aldani esordisce è quella in cui alcuni scrittori italiani, non solo di “genere”, non si vergognano affatto di interessarsi al futuro. Esso appariva non più come semplice speranza patriottica o terra promessa dai grandi ideali messianico-religiosi, ma come un “tempo nuovo” plasmato dalle realtà della scienza e della tecnica; un tempo consapevole di questioni fisiche, biologiche ed epistemologiche. E’ stata una sorta di piccola rivoluzione copernicana, ed è durata quel che è durata: eppure, questa scrittura ha lasciato un segno e tuttora muove qualcosa, nonostante che i moventi ideologici iniziali, le cause civili e l’impegno politico siano, per forza di cose, radicalmente cambiati. Lo strano periodo cui alludiamo, che forse affonda le radici nel modernismo dei futuristi e nelle aeropitture degli anni Venti e Trenta, e i cui esponenti hanno letto Marinetti-Palazzeschi-Landolfi, si situa tuttavia più tardi, nel periodo che segue la caduta del fascismo e la Seconda guerra mondiale. E’ la ricostruzione degli anni Cinquanta (che il cinema di Antonioni troverà alienante) a permetterne il fiorire; è la Civiltà delle macchine illustrata sulla rivista dell’IRI a fornirgli un’ideologia di facciata, mentre le esperienze del Politecnico, della casa editrice Einaudi e del nuovo realismo le forniranno l’ossatura contro-ideologica, la speranza cioè di un totale cambiamento di orizzonte politico.

I maggiori esponenti di questa stagione sono ben noti: Italo Calvino delle Cosmicomiche e Ti con zero, Primo Levi (che scrive le Storie naturali con lo pseudonimo di Damiano Malabaila) e tutta una serie di autori che popoleranno i decenni centrali del secolo ormai concluso: cioè poco prima che una letteratura di massa sempre più avvolgente venisse a sostituire la non inutile pagina scritta, il lavoro personale o artigianale. Oltre ai già ricordati Calvino e Levi, la categoria comprende Tommaso Landolfi, che nel dopoguerra ha pubblicato alcuni testi para- o pseudoscientifici: Un paniere di chiocciole, 1964, La pietra lunare (1968) e i Racconti impossibili, 1966; Ennio Flaiano con i satirici Un marziano a Roma (1957), Una e una notte (1958) e il surreale Melampus (1970); Dino Buzzati, il nostro più prolifico autore dell’inquietudine, con i Sessanta racconti (1958) da cui si è potuta trarre in seguito una Boutique del mistero (1964); Giuseppe Berto con il fortunato La fantarca, 1965, ristampato anche per le scuole; Carlo Fruttero e Franco Lucentini con i loro racconti di fantascienza, una lunga attività editoriale e, più tardi, anche un giallo tecnologico (A che punto è la notte, 1979).

Tra gli autori più interessanti del periodo, del resto, bisogna annoverare alcuni cineasti, quasi sempre scrittori dei propri film: Michelangelo Antonioni (Deserto rosso, 1964), Marco Ferreri (La donna scimmia, 1963; Il seme dell’uomo, 1969), Tinto Brass (Il disco volante, 1964), Ugo Gregoretti (Omicron, 1963), Elio Petri (La decima vittima, 1965), Roberto Faenza (H2S, 1969), ecc. Finita l’epoca del neorealismo, i suoi eredi si sono addentrati in un territorio nuovo per il nostro paese e che qualcuno ha tentato di bollare come “metaforlandia”, il regno delle metafore. In verità era qualcosa di molto più concreto: l’urgenza di interpretare una realtà contraddittoria e potenzialmente esplosiva con i mezzi dell’immaginazione.

Di poco successiva è la generazione di autrici e autori che hanno contribuito alla nascita del genere letterario che in Italia si chiama fantascienza, e sulla quale Aldani primeggia. In tutti, il motivo centrale è l’illusorietà di un presente in rapida trasformazione, l’attesa del XXI secolo con la spettrale antropologia che seguirà. Grazie a loro, la letteratura del futuro ha raggiunto anche gli strati popolari, attestandosi come vera e propria mitologia di un’epoca. Certo, l’impresa degli scrittori proiettati al futuro non è stata facile: come conciliarne le visioni con gli interessi di famiglie e “cose nostre”, con gli scandali e le bustarelle, con la cronica diffidenza nazionale verso ogni e qualsivoglia innovazione? Come rendere credibile – narrativamente credibile – un mondo che si suppone asettico e tecnologico, efficientissimo e raggelante e che, al tempo stesso, debba tener conto dello strapaese? Per riuscirci ci sarebbe voluto un grande umorista (e non è un caso se alcune delle più belle storie fantascientifiche italiane siano state scritte – e disegnate – da Benito Jacovitti, l’unico uomo che potesse mandare una lisca di pesce a volare nello spazio) o un uomo con almeno un piede fuori dai vizi nazionali, e perché no tutt’e due.

Lino Aldani è stato, magari senza alcun proposito, il nostro Candido dell’immaginazione scientifica, e ha rivolto il suo sogno, più che alle stelle o alle comete, al fiume e ai boschi, alle città di domani e agli uomini che le abiteranno (come Arno, il protagonista di Quando le radici: altro nome fluviale). Così ha fuso racconto speculativo e romanzo tradizionale, facendo in modo che il contenitore narrativo fosse sempre all’altezza delle aspettative letterarie; il contenuto, quando fosse il caso, si sarebbe fatto introspettivo e analitico, ma in ultima analisi sarebbe sfociato nella descrizione di un generale slittamento: la parafrasi (in un tempo vicino, immediato eppure non presente; un tempo “straniato”) di un’esperienza fondamentale, quella dell’uomo che muta.

Seguendo l’esempio innovatore di Aldani si sono mossi altri autori, fra cui Renato Pestriniero, Vittorio Curtoni e Vittorio Catani (tutti condizionati dalle strettoie di un mercato limitatissimo); mentre altri risultati sono venuti dal cinema, che ha impastato volentieri l’apologo al futuro con la commedia all’italiana; ma già negli anni Settanta quella possibilità tramontava, sopraffatta dai film porno softcore e dai generi tradizionalmente più lucrativi. Agli autori letterari non è restato dunque che rifugiarsi nell’esperimento, nel lavoro tipicamente intellettuale dell’avanguardia, nella poesia “sofferta”; o nel rinnovamento di un genere che forse non era più nemmeno un genere.

Uomo completo e ricco d’inventiva, Aldani trascende a sua volta i limiti di un genere e si colloca tra i romanzieri che hanno saputo interpretare con maggior sensibilità le potenziali trasformazioni della realtà italiana. La sua riflessione all’inizio del nuovo millennio non è per niente consolatoria:

“Gli anni 2000 sono arrivati a vuoto, inutilmente; tante cose che avrebbero dovuto mettersi a posto, invece si sono aggravate. 2002, 2003, 2004, un anno vale l’altro… Qui non si muove niente, è questo il grave. Non so dirlo con precisione, ma non siamo pronti a gestire il futuro. Ci siamo capitati in mezzo e non ce la facciamo. Negli anni Sessanta e Settanta c’è stato un ottimismo della volontà che ci ha fatto sperare, ma col passare degli anni ha avuto la meglio il pessimismo della ragione. A meno di non cambiare radicalmente il nostro atteggiamento in direzione bioetica, il mondo andrà incontro a un’immane distruzione di risorse, capacità e forme di vita. Non vedere questo equivale ad essere perduti. Una delle cose che l’umanità non vuole assolutamente capire è che da quando è iniziato un certo tipo di sviluppo, non abbiamo fatto un momento di pausa. Stiamo continuando ad andare avanti in progressione geometrica, prosciugando tutto quello che avremmo dovuto conservare per il futuro. Le attese socialiste, che condividevamo in tanti, non si sono verificate. Sì, ci ho creduto a lungo, ma ormai l’unica rivoluzione che possiamo fare consiste nel coraggio di sopportare l’attuale situazione. E’ già un pensiero rivoluzionario, perché non vuol dire condividere ma sopportare un certo stato di cose.
Scrivere science fiction ha ancora un senso? Sì, ma solo a patto di mettere in risalto la ‘pars destruens’, non la ‘pars construens’. Altrimenti ci limiteremmo ad andare avanti solo perché siamo nel campo e la conosciamo”.

Una riflessione che racchiude tutta l’opera aldaniana, realistica e visionaria insieme, civilmente impegnata e poetica, mirabolante come può esserlo un’ottava ariostesca e seria come ogni sguardo utopico sul futuro.

Tutti i racconti e romanzi di Lino Aldani sono raccolti nell’edizione uniforme pubblicata dalla Perseo libri di Bologna, oggi Elara: La croce di ghiaccio, Ontalgie, Aria di Roma andalusa, Febbre di Luna e Themoro korik, il suo ultimo romanzo (2007). A questi titoli si può aggiungere la raccolta a quattro mani, firmata con Ugo Malaguti, Millennium

Giuseppe Lippi

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In ricordo di Vittorio Catani

novembre 24th, 2020

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Vittorio Catani

Vittorio Catani

Ci ha lasciati ieri, 23 novembre 2020, l’amato scrittore di fantascienza Vittorio Catani (Lecce, 17 luglio 1940 – Bari, 23 novembre 2020).

Nato a Lecce nel 1940 e vissuto a Bari, è stato una vera e propria colonna della fantascienza italiana, vincitore di numerosi premi, tra cui il primo Premio Urania e diciassette Premi Italia per la fantascienza.

Prolifico autore di racconti, raccolti nel 2007 nel volume “L’essenza del futuro”, dei suoi romanzi ricordiamo: “Il Quinto principio” (Supplemento n. 39 a Urania n. 1533), e “Gli universi di Moras”, quello che gli valse il Premio Urania nell’ormai lontano 1990.

 

Il ricordo di Franco Forte

 

«Vittorio Catani è stato una colonna della science fiction italiana, sia come autore sia come curatore di antologie, ma anche come fan appassionato, che ho avuto modo di conoscere fin da quando, poco più che maggiorenne, frequentavo le Italcon in giro per l’Italia, insieme ad altre centinaia di “fuori di testa che passavano il tempo a trastullarsi con le idiozie della fantascienza”, come qualcuno ci accusava in quegli anni.
Vittorio è stato per me un collega, un amico, un punto di riferimento, grazie alle cose bellissime che ha scritto. Ma c’è soprattutto un particolare che ricordo con forza, e che è stato un vero e proprio punto di svolta per la mia carriera di autore. Devo infatti a Vittorio Catani (e in parte anche a un altro grande della sf come Lino Aldani) se all’improvviso sono riuscito a fare lo scarto che mi ha portato dalla scrittura raffazzonata e dilettantesca che si alimentava di passione ed entusiasmo e poco più, a quella professionale e ponderata che mi ha consentito di arrivare ai massimi livelli dell’editoria.
Il tutto è cominciato quando Vittorio mi rifiutò un racconto per una antologia che stava preparando. Proprio così: il suo rifiuto, anzi, la motivazione del suo rifiuto, mi ha cambiato e mi ha fatto capire molte cose, spalancandomi gli occhi su un errore che commettevo nella mia scrittura, e che non mi consentiva di aprirmi a nuovi orizzonti, per migliorare e rendere i miei scritti più attrattivi per il lettore.
Non starò qui a spiegare di che cosa si trattava, perché dovrei farvi leggere la prima versione di quel racconto, quella rifiutata da Vittorio, e poi la successiva, riscritta dopo la sua motivazione, che mi ha letteralmente folgorato sulla via per Damasco. Dirò solo che si riferiva a quella che è la tecnica più complessa della scrittura (e di cui gli scrittori esordienti sono generalmente all’oscuro), ovvero la gestione del Punto di Vista.
Il rifiuto di Vittorio servì a scaldarmi l’anima: prima con il classico e tronfio atteggiamento dello scrittore esordiente che non accetta i rifiuti e, soprattutto, non vuole sentirsi dire che non sa scrivere come immagina; e poi con l’improvvisa consapevolezza che aveva ragione, eccome, e che da quel momento la mia scrittura poteva evolvere come non avevo mai creduto fosse possibile.
E infatti da quel giorno, da quando ho preso consapevolezza di quanto le bastonate sul coppino di Vittorio fossero corrette, per me le cose sono cambiate, e una dopo l’altra sono arrivate le vere soddisfazioni per chi ambisce a pubblicare a certi livelli.

Lasciatemi dunque ricordare Vittorio Catani non solo come un amico e un compagno d’avventura nel folle mondo della fantascienza, ma anche come uno dei maestri che mi hanno saputo indirizzare sulla strada giusta da percorrere per soddisfare i lettori come da sempre sognavo di fare.

Un retaggio che adesso io cerco di trasmettere agli altri, quando posso, senza mai dimenticare chi è stato il primo ad avermi aperto gli occhi. Ancora grazie, Vittorio…»  

 

Il ricordo di Enzo Verrengia

«Chissà se ora che si è spento nel corpo Vittorio Catani, in un altro stato dell’essere, visiterà Gli universi di Moras, le infinite realtà parallele da lui ipotizzate nel romanzo così intitolato con cui vinse il Premio Urania nel 1989 e l’anno successivo fu il primo italiano a venire pubblicato sulla storica rivista della Mondadori.

Sta di fatto che lui non si fermò mai a scenari riduttivi, inutilmente cervellotici e molto arzigogolati a vuoto di troppa fantascienza italiana del passato. Fin dagli inizi precocissimi, Catani evocò ed esplorò l’inconoscibile. Gli si addicevano fondali stellari o mutamenti epocali degli di Asimov, Clarke, Heinlein e i grandi maestri. Anche quando in una miniatura indimenticabile come “Replay di un amore”, narrava di un’anima trasferita nel computer per consentire a un sentimento di proseguire sotto forma di bit, Catani affrontava il tema con un rigore epistemologico lontanissimo dagli sperimentalismi fini a se stessi e l’azzeramento del linguaggio in gerghi generazionali. Tanto che il suo ultimo romanzo importante, “Il Quinto Principio”, è una summa del suo pensiero avvenirista, profondamente radicato nella speculazione scientifica, che delinea la presenza di una forza termodinamica occulta destinata alla distruzione delle basi stesse del reale.

“Catani è tra i pochi autori che io conosca capace di portare fino alle estreme conseguenze le proprie idee. Come si dice, lo scrittore pugliese è tra i pochi che non hanno mai paura di avere coraggio.” Un riconoscimento etico risolto in straordinario paradosso. Lo scriveva Ugo Malaguti, altro nume tutelare della fantascienza italofona, nell’introduzione a “L’essenza del futuro”, la monumentale antologia dedicata anni fa a Vittorio Catani nella quale interveniva anche un altro padre fondatore della fantascienza italiana, Lino Aldani: “L’aspetto che più colpisce della narrativa di Catani è la costante ricerca di un punto armonico di fusione tra il pessimismo delle sue configurazioni del futuro e la sua commovente speranza, esilissima, sicut parva lucernula, eppure imperitura, in qualcosa che tuttavia può intervenire a modificare tanta paventata negatività.”

A sua volta, lui dichiarò in un’intervista: “In Italia la fantascienza era ferma a modelli ottocenteschi (Verne anzitutto), facilmente slittava verso il fantastico o il soprannaturale. Negli anni ’50 apparvero i vari Asimov, Williamson o Van Vogt, e sembrò che sorgessero dal nulla. Mancava da noi la tradizione americana della narrativa popolare”.

Sì, perché l’intento della migliore fantascienza resta sempre quello di allargare gli orizzonti del pensiero nel più vasto pubblico di lettori possibile. Senza per questo assecondare le cosiddette “tendenze”.

Dietro tutto questo si profilava la figura concreta di Vittorio Catani. Nato a Lecce ma da sempre radicato a Bari, una capitale del meridione differente dalle altre. Avvantaggiata dal trovarsi sulle rotte verso e dal Levante, felice commistione di terziario, commercio e sviluppo. Non a caso, nei suoi dintorni sorge Tecnopolis, la città dell’informatica. Dal suo ufficio di direttore di banca in Viale Unità d’Italia, Catani conciliava l’impegno professionale con la vocazione creativa. Per il suo appartamento nel quartiere di Poggiofranco transitò, fra gli altri, John Brunner. Era l’epoca del fandom. Catani fondò proprio a Bari la rivista amatoriale THX1138, che pubblicò autori poi affermatisi.

E c’erano le convention, dove era possibile fare incontri mirabolanti, come quello che lo scomparso raccontava essere avvenuto una volta a Rimini con Robert Silverberg, che cercava disperatamente un bagno. Senza dimenticare una performance a Montepulciano nel 1986, allorché alla premiazione di un concorso per racconti fantastici, Alberto Moravia redarguì Luce D’Eramo per avere affrontato con il romanzo “Partiranno” un argomento fantascientifico: alieni sulla Terra. Catani guidò la pattuglia indignata che abbandonò la sala.

Una ricaduta importante della vittoria al Premio Urania fu la sua lunga collaborazione al quotidiano La Gazzetta del Mezzogiorno, per il quale, oltre ad articoli di futurologia, curò una rubrica di costume, “Accadde… domani”, in cui si sbizzarriva a sviluppare le derive più originali della scienza, della società e del comportamento collettivo.

Sorprendeva che tanta energia intellettuale albergasse nella sua figura di gentiluomo, esile, contenuto e sobrio, che purtroppo da qualche anno era in dissolvenza terminale.»

 

Il nostro saluto e la nostra solidarietà vanno alla sua famiglia e a tutti gli affezionati di Urania.

Buon viaggio verso il prossimo, misterioso, universo parallelo.

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Diario Vitt

febbraio 28th, 2012

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Oggi, febbraio 2012

Quello che avete fra le mani è tutt’altro che un instant-book o un libro d’occasione. In effetti, dopo essere stato concepito all’inizio dell’anno scorso, ha richiesto una lavorazione che si è protratta per tutta l’estate e rappresenta, in un certo senso, l’ultima fatica editoriale di Vittorio Curtoni. Che ne ha seguito la gestazione passo dopo passo.

 

Primavera-estate 2011

Vittorio ha contribuito idee, ha valutato le necessarie esclusioni (come quella del racconto che avevamo scritto a quattro mani, “Non ho bocca e voglio bere”) e ci ha fornito materiali preziosi. Non a caso il pezzo forte del volume, il romanzo Dove stiamo volando, esce in questa edizione con un capitolo inedito che si situa tra quello intitolato “Il silenzio” e il successivo “Luci d’inverno”, in pratica da pagina 38 in poi della vecchia edizione uscita su “Galassia”. Il capitolo in questione, “Il volto”, era stato scritto nel 1972 insieme a tutto il resto, ma all’ultimo momento Vittorio ne aveva dubitato, finendo per escluderlo. Quando ce lo ha mandato, chiedendoci cosa ne pensassimo, l’abbiamo letto con estremo interesse, trovandovi sorprendenti tracce… pasoliniane. In realtà, quel momento icastico in un romanzo già ricco di tensione umana e non solo umana non avrebbe nulla di sorprendente se non fosse racchiuso in una cornice fantascientifica, cioè dell’unico genere che non può permettersi di stupire con le “semplici” visioni di una Rivelazione. Così com’è, l’apparizione del Volto sulla strada di Nuova Parigi costituisce una bella aggiunta al viaggio dei suoi iniziati, dimostrando che il loro itinerario non può essere ridotto alla pura ricerca del mutante. Dove stiamo volando è qualcosa in più, è il percorso di un uomo che già anela a tutto, persino all’impossibile, e vuole elevarsi sulle disgrazie del suo mondo. Ben lieti, dunque, di aver reinserito nel libro quelle pagine sfuggite alla prima edizione di quarant’anni fa.

 

Settembre 2011

Gli altri testi, disposti cronologicamente, sono dati invece senza interventi: Vittorio ha deciso di non revisionarli e anche a noi è sembrata la scelta migliore. Lo stesso vale per l’autobiografia La mia love story con la fantascienza, pubblicata nel 1999 in appendice a un’altra cospicua raccolta personale e riproposta oggi per la prima volta: anche qui, nessun aggiornamento. Per Vittorio Curtoni la love story termina simbolicamente con il millennio, come se dopo il 2000 niente dovesse essere più come prima e al posto dell’amore, avrebbe detto l’interessato in tono pittoresco, cavoli amari. (Anche se l’amore lui lo aveva in pectore: per la fantascienza, per i suoi amici e soprattutto per la moglie Lucia.)

 

Giovedì 28 luglio 1949

Vittorio nasce a San Pietro in Cerro (Piacenza). Suo padre, segretario comunale, girava per i paesi del piacentino, al di fuori della cui provincia il nostro non ha mai abitato. A parte il militare, il più lungo periodo di semi-esilio è quello compreso tra il 1975 e il 1978, quando ha lavorato come redattore presso Armenia Editore: tre duri anni di pendolarismo, all’insegna del rifiuto di stabilirsi a Milano. Da ragazzo, nella seconda metà degli anni Sessanta, aveva fatto le fanzine come i veri grandi appassionati. Lino Aldani lo ricordava “con i calzoni corti”, quando Vittorio andava a trovarlo da Piacenza a San Cipriano. Da una sponda all’altra del Po, ecco una storia di (stra)ordinaria provincia.

 

1970-1974

A cavallo degli anni universitari – e mentre ha luogo un’importante maturazione all’insegna dell’esistenzialismo, con le letture dell’amato Sartre, Vittorini, Pavese e altri cavalli di battaglia della modernità – Vittorio approda alla direzione di “Galassia” insieme a Gianni Montanari. La casa editrice aveva sede a Piacenza e i due si erano presentati all’editore Mario Vitali della Tribuna senza conoscerlo e senza particolari raccomandazioni, ma come concittadini. Montanari studiava l’inglese per insegnarlo, Curtoni l’avrebbe imparato sui dischi perché a scuola aveva fatto francese. La rivoluzione di “Galassia” portata dal duo Curtoni-Montanari è totale, soprattutto se si pensa che la precedente gestione, affidata a Ugo Malaguti, si era attestata sull’amore dei classici e la riscoperta di alcuni grandi autori dell’avventura. Non solo i classici scompariranno da “Galassia”, salvo una manciata di eccezioni fra cui Dick (un neoclassico non ancora santificato), ma entrerà in pieno l’avanguardia degli anni Settanta: new wave da una parte (Michael Moorcock, Brian W. Aldiss) e nuovi autori dall’altra: Roger Zelazny, K.M. O’Donnell alias Barry Malzberg, Thomas M. Disch, Mark Geston eccetera. Inoltre, usciranno alcuni importanti autori italiani che Vittorio e Gianni pubblicheranno per geniale intuizione o su incitamento del loro mentore Aldani: Mauro Antonio Miglieruolo, il cui capolavoro Come ladro di notte è stato ristampato anche in “Urania collezione”, e Vittorio Catani che tra qualche mese debutterà a sua volta nella nostra collezione di classici. Su “Galassia”, nel 1972,  Vittorio pubblica inoltre il suo primo e unico romanzo, Dove stiamo volando.

 

1975

Ha concluso il servizio militare e vuole sposare Lucia Parietti, da anni sua fidanzata: per farlo ha bisogno di un posto di lavoro stabile e non può accontantarsi della consulenza per Mario Vitali, che lo paga un tanto a lettura e un tanto a traduzione. Vittorio si offre quindi per un posto di redattore, poi caporedattore alla Armenia Editore ed entra nella fucina delle riviste di parapsicologia “Gli arcani” ed “ESP”. Quello stesso anno, accetta l’invito del suo editore di varare una nuova rivista di fantascienza.

 

Aprile 1976

Esce il primo numero di “Robot”, pubblicazione che deve la sua leggendaria fama alla formula aperta con cui è concepita: racconti brevi anziché romanzi, molta agguerrita informazione, rubriche e dibattiti, un ricco apparato iconografico (era la prima volta che una rivista di narrativa aprisse così vistosamente all’immagine); e ancora tutte le idee nuove sotto il cielo, una spruzzata di polemica politica, l’apertura a giovani collaboratori anche sconosciuti. Ma soprattutto il nerbo, la vis carismatica di un direttore che era il contrario dell’accentratore per partito preso e che, anche quando accentrava eccome, lo faceva in nome di un ideale giacobino di egalité, fraternité, fantascié che finiva per sedurre tutti quanti. Grazie a tali straordinarie doti di comunicativa, capacità di dibattito e attenzione alle nuove tecnologie (quelle di allora, si capisce: la televisione, il nascente cinema di effetti speciali, i fumetti, le fanzine), “Robot” è diventato il primo periodico di fantascienza postmoderno. Questa brutta parola ha in fondo un significato semplice: anziché limitarsi a fare la contemporaneità, si discute di ciò che l’ha generata e lo si mitizza; il moderno viene così osservato come un oggetto da laboratorio, in molti casi arrivando a compiacersene. Fino all’avvento delle collane Fanucci – che certo non sono paragonabili a una rivista – non ci risulta che vi siano stati altri tentativi del genere.

In “Robot” Vittorio ha profuso il suo debordante amore per la fantascienza, le sue doti di curatore e redattore forza-della-natura, un talento visionario che chi è amante della carta stampata non può fare a meno di riconoscere a chilometri di distanza dall’edicola. Era la rivista ideale per il fandom, cioè la comunità degli appassionati, che vi si trovava riflessa ed esaminata al microscopio per la prima volta; era la libera rivista, intrisa di polemica quando occorreva, dei lettori militanti. Quello che oggi si fa su internet, “Robot” lo ha prefigurato sulle tavolette di pietra di un book mensile.

 

1977-78

E’ il periodo in cui, per mia fortuna, ho lavorato a stretto contatto con Vittorio nella redazione di “Robot” e “Gli arcani”: penso di essere l’unico al mondo a potermi vantare di aver avuto il Curtoni come capufficio! Con noi c’era anche una bella ragazza bionda, Milena, che faceva da co-redattrice nonché segretaria del Grande, ma la forza fantascientifica era rappresentata dal nostro ilare duo. Ai miei occhi, il capufficio Curtoni è una delle figure veramente indimenticabili della mitologia moderna: eskimo verde (erano i tempi), sigaretta che sbuffava, occhiali sulla testa, una vulcanica e frenetica capacità di fare mille cose a tempo di record. Un uomo solo, eppure un esercito; un irritabile, irriducibile, buonissimo sergente della fanteria spaziale.

Sono stato assunto nel settembre 1977 e abbiamo lavorato insieme fino al luglio ’78. A quel punto, e dopo aver pubblicato l’importante raccolta personale La sindrome lunare, il mio mallevadore si dimette dall’incarico per una serie di ragioni personali e, lasciatemelo dire, esistenziali. Vittorio non è mai stato un tipo facile; si rallegrava con grande semplicità delle cose ma bastava altrettanto poco per farlo incupire e io credo disperare. Era stanco di tre anni di pendolarismo sul Napoli-Milano ma non pensava neanche lontanamente di traslocare nel cittadone lombardo; sua moglie, oltretutto, lavorava nella scuola di via Alberoni e avrebbe dovuto chiedere il trasferimento. A Milano Vittorio aveva vissuto negli anni dell’università, quando frequentava la statale, ma Piacenza era dietro l’angolo e ci si poteva tornare tutti i giorni. Andarsene per sempre? Far trasferire Lucia, costringendola ad allontanarsi dalla famiglia? Non era da Vic. Inoltre, si era progressivamente alienato da un editore che lo aveva sì portato in palmo di mano fino a quel momento, definendolo il suo “migliore acquisto”, ma che aveva il grosso problema di voler fare acquisti perlopiù al discount, pagandoli una miseria. Così, quando Giovanni Armenia gli mostrò i rendiconti di “Robot” (che nel suo terzo anno di vita, il ’78, aveva cominciato a perdere lettori come succede a tutti i periodici partigiani e garibaldini, e anche a qualcuno di quelli più beceri), Vittorio non condivise la scelta di correre ai ripari sfigurando la sua creatura. Armenia voleva ridimensionare le rubriche, ridurne la partigianeria, puntare tutto e solo sui racconti. Dal suo punto di vista, voleva salvare “Robot”; da quello del creatore di “Robot”, voleva ucciderla. Perciò, con un gesto che per me ha tuttora dell’intempestivo – e del nefasto, se ci si pensa bene – nel luglio 1978 Vittorio si dimise dall’Armenia, lasciandomi solo per un altro anno; poi l’avventura sarebbe finita nell’amarezza anche per me. Comunque, in quel breve periodo si è fatto di tutto e di più: due mensili completi che creavamo dal dattiloscritto puteolente all’impaginato pronto per la stampa; una collana di libri del terrore firmata a due; una rivistina dell’horror; più tutto quello che noi stessi scrivevamo per contribuire alle testate. Nel 1978 abbiamo pubblicato una Guida alla fantascienza scritta a quattro mani per l’editore Gammalibri; da solo, Vittorio aveva dato alle stampe la sua tesi di laurea sulla fantascienza italiana, Le frontiere dell’ignoto (Nord).

 

1978-89

E’ un decennio silenzioso, per Curtoni, ma neanche troppo. Internet non c’è ancora eppure lui scrive, traduce, dirige, polemizza a distanza. Chiuso in una stanza di via Scalabrini prima, di via Alberoni poi, fuma una sigaretta dietro l’altra, beve birra e usa la macchina da scrivere con l’invasamento inconfondibile dell’autore, o del traduttore-autore. Dopo aver coodinato la sfortunata reincarnazione di “Robot”, “Aliens” (pubblicata dal gruppo Armenia nel 1980), continua a tradurre per “Urania”, lo stesso Armenia e altri. Traduce ogni cosa, spesso col passare degli anni senza la possibilità di scegliere gli autori e comunque trattando tutti allo stesso modo professionale e coscenzioso. Traduce, fra gli altri, molti romanzi rosa della serie “Harlequin” e scopre che gli danno particolare soddisfazione: “Spesso mi dicono di tagliarli e io mi diverto a fare questo lavoro di cucito, togli qui, riaggancia là, asciuga quello che non è strettamente indispensabile”. Quando passa al computer, è la metà degli anni Ottanta: Curtoni conosceva la videoscrittura già dai tempi di “Robot”, per essere il sistema adoperato dalla nostra tipografia Parmense, e si innamora del nuovo sistema di lavoro. In quegli stessi anni dirige la collana di romanzi di fantascienza “Omicron” (un altro esperimento Armenia per l’edicola) e una collezione del terrore, voluta dall’editore per ritentare l’esperimento dei vecchi “Libri della paura”. Fra gli altri, Vittorio vi accoglie un improbabile Sesso della morte di Ramsey Campbell e il romanzo che aveva ispirato Wolfen, il celebre film. Sul finire degli anni Ottanta, arriva al timone della collana di fantascienza varata da Sperling & Kupfer. Nel 1989, mentre il sottoscritto approda alla direzione di “Urania”, Vittorio gli soffia alcuni dei testi migliori per portarli all’altro editore. E’ forse il periodo di maggior distanza fra noi, e non certo per banali motivi di concorrenza. E’ capitato, non capiterà più.

 

1990-2000

All’arrivo di internet, intorno al 1995, è tra i primi entusiasti dell’intreccio/groviglio che l’email rende possibile. Da allora in poi, niente sarà più come prima: dopo anni di relativa solitudine, Vittorio torna in pieno nel suo ruolo di maître à penser della fantascienza italiana, questa volta grazie all’aiuto delle mailing list e del rinato senso di famiglia che gli appassionati scoprono nell’era digitale. Come sempre, aiuta i giovani e meno giovani che gli chiedono consiglio; riappare alle convention del settore dopo anni di latitanza; ne organizza di proprie (a sfondo librario-mangereccio, con pantagruelica cena finale: dette Piacon perché svolte rigorosamente a Piacenza, sotto casa sua). Come il grande regista ai tempi della serie televisiva Alfred Hitchcock presenta, Curtoni conosce una popolarità straordinaria, pari se non superiore a quella di cui aveva goduto ai tempi di “Robot”, perché adesso è alonata di leggenda. Al congresso annuale della sf italiana, l’Italcon, miete regolarmene premi come miglior traduttore, autore e poi curatore. Nel 1999 corona il millennio pubblicando da Shake la sua prima raccolta personale di racconti in vent’anni, Retrofuturo.

 

Nel nuovo millennio: 2001-2007

Per quanto intimamente pessimista e a tratti depresso (un male cui cercherà di porre rimedio con alcuni anni di psicanalisi), il Vittorio del duemila è però un gran facitore. Come sempre. Se la professione di traduttore, alla lunga, lo stanca e lo lascia svuotato, tanto che è costretto a concedersi intervalli sempre più lunghi fra un lavoro e l’altro, quella di scrittore di racconti e curatore non conosce sosta. Fino a quando, nel 2003, la nuova casa editrice Solid (oggi Delos Books) gli offre l’opportunità di rilanciare “Robot”, facendo rinascere la creatura dalle sue ceneri. Sulle prime Vittorio è perplesso, ma finisce col cedere alla tentazione e si ributta nell’avventura editoriale che ha segnato la sua vita. La nuova “Robot”, che esce tuttora dopo otto anni, è identica alla vecchia nel format e proprio mentre scriviamo vara la propria edizione digitale. Non più venduta in edicola, un canale sempre più difficoltoso, è presente in una rete di librerie ed è diffusa per abbonamento, mentre dal numero 64 del novembre 2011 può essere scaricata sul proprio iPad. La casa editrice promette che arriverà presto anche la versione per Android.

 

2008-2011

Affezionato non solo alla città di Piacenza, ma al quartiere in cui vive ormai da anni, Vittorio finirà per comprare un nuovo appartamento al piano di sotto rispetto al vecchio. La coppia Curtoni vi si trasferisce tra la fine del 2007 e i primi del 2008, l’anno in cui Vittorio scoprirà di essere ammalato di tumore all’intestino. Seguono tre anni di battaglia con la malattia, tre interventi e numerosi cicli di chemioterapia. Abbandona progressivamente il lavoro, decide che comunque vadano le cose non farà più il traduttore professionista. Facendo due conti, si accorge di poter finalmente andare in pensione. Ma i traduttori è destino non ci vadano mai e così è stato anche per lui. Gli amici lo seguono da vicino e da lontano, anche se le festose Piacon sono abolite; a tutti Vittorio ripete parole d’incoraggiamento, dice che sta bene, addirittura – dopo le operazioni riuscite – che non si è mai sentito meglio. Il sollievo dei periodi di non-chemio è tale da farlo rinascere ogni volta da se stesso. Quello che lo ucciderà, da ultimo, non è il male che dall’intestino si è trasferito malignamente al fegato ma il suo cuore. La mattina di martedì 4 ottobre va a piedi all’ospedale di Piacenza per fare un nuovo iniettorato di chemioterapia. Non ne ha nessuna voglia, anche perché la volta precedente, in settembre, durante la seduta si è sentito male e ha subito uno shock anafilattico (notizia che non era trapelata fra gli amici). Il 4 ottobre il cuore, che aveva già denunciato qualche problema alla vigilia dell’ultima operazione, non ha più retto e un infarto massiccio ha avuto ragione di lui. Inutili un’ora e mezza di tentativi in camera di rianimazione.

Con la sua esistenza ricca e tormentata (un’infanzia difficile, rapporti di lavoro contrastati, la grande amicizia poi interrotta con Gianni Montanari, l’avventura di “Robot”, l’amore degli appassionati e dei concittadini quando aveva cominciato a collaborare con il quotidiano “Libertà”), Vittorio ha rappresentato al meglio l’espressione secondo cui lo scrittore è un uomo d’azione. Nel mondo sommerso e tutto sommato poco cosciente della fantascienza italiana, è stato una voce lucida e un’intelligenza per molti versi unica. Non c’è, per quanto mi sforzi di pensare, chi come lui sia stato altrettanto “autore” in tutti i ruoli che ha ricoperto, altrettanto presente in ogni racconto, editoriale, traduzione o proposta. La sua fantascienza non era quella astrale, tecnica o mostruosa, anche se volentieri sconfinava nell’orrore. Era comunque un orrore credibile che nasceva dai tormenti dell’esistenza. La fantascienza nella quale credeva era di stampo umanista, di radici terrene, di un realismo a volte meticoloso. Se nei racconti ha esplorato il buio e la speranza che lottavano dentro se stesso (e che trovano la massima sintesi in Bianco su nero, l’ultima raccolta personale del 2011), in “Robot” e nelle altre collane da lui dirette ha commentato in lungo e in largo ciò che la fantascienza ha rappresentato nella modernità. Una piaga aperta, una bell’avventura nata dai brutti sogni, il tentativo di dare una risposta artistica al tormento di un mondo tecnologico sì, prodigioso all’apparenza, ma profondamente insensibile.

In una parola, Vittorio, tu sei un un magnanimo (perché i lungimiranti questo sono) che tuttavia non è stato ricompensato. Non abbastanza.

 

Giuseppe Lippi

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Alberto Cola: un autoritratto

dicembre 22nd, 2010

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Il vincitore del premio Urania

di quest’anno mette le carte

in tavola con umorismo

Non ho mai amato le interviste. Spesso investono l’autore di un’importanza che, quando mi è capitato, mi ha sempre messo a disagio. Così, davanti alla richiesta di Giuseppe di scrivere un paio di cartelle in alternativa alle domande istituzionali, ho tirato un sospiro di sollievo e accettato. Già sapevo che il mio ego non ne avrebbe troppo sofferto.

Suppongo questo sia il momento in cui ci si aspetti che l’autore dica qualcosa di estremamente interessante. Di mio ho sempre pensato che quello che di interessante l’autore aveva da dire dovrebbe essere già nel romanzo, o almeno spero. Dubito che a qualcuno possa trovare piacevole sapere che sono nato nel ’67, che vivo nelle Marche e pratico la professione di amministratore immobiliare. Ma tant’è…

Sono un po’ confuso. A quarantatré anni mi ritrovo su “Urania”, cioè quindici anni dopo il mio primo racconto pubblicato e addirittura a venti dalla prima, faticosa partecipazione a un premio letterario. Tanto, poco? Non lo so, sono un lento di natura e suppongo ciò rientri nell’ordine delle cose. Delle mie cose. Sta di fatto che dopo tre romanzi, Goliath e Kami per Delos Books e Ultima pelle per Kipple, più un bel po’ di altra roba sparsa, ci si sente quasi in obbligo di tirare le somme, anche se ogni traguardo che si raggiunge è sempre una nuova partenza, solo più subdola della precedente. Che poi, a pensarci bene, arrivare su queste pagine ha comportato un viaggio mica da ridere. Ma perché la fantascienza?, ancora mi chiedono. Eh, facile. Mi sono fatto un’idea in proposito: la fantascienza non si sceglie, è lei, da vecchia signora un po’ suonata con ancora qualche velleità nascosta sotto la gonna, a scegliere noi che ne scriviamo. Io poi arrivo da una famiglia di scarsi lettori, soltanto mia nonna aveva dei libri e da lì ho iniziato a farmi raccontare storie. Che fossero tutti Liala o Barbara Cartland è un altro paio di maniche; chiaro che se un amico, impietosito, alla fine ti dice di provare altro e ti presta un Asimov, come fai a salvarti dal fulmine che di lì a breve sta per colpirti? Per quanto mi riguarda non smetterò mai di ringraziare il Buon Dottore, anche se viene bistrattato e degnato di un sorrisetto di sufficienza da tutti quei lettori che inseguono gli autori del momento, più cool. Isaac fra trent’anni sarà sempre sullo stesso scaffale in libreria, gli altri non so. A me la fantascienza ha fatto soprattutto un dono: la possibilità di vedere le cose in modo differente, di grattare sotto questa patina fasulla di civiltà. Difficilmente le mie storie hanno un lieto fine; preferisco il gusto amaro della rivincita improbabile, ma non impossibile.

E soprattutto la fantascienza mi ha regalato molti amici e amiche. Non posso parlare di me senza pensare a loro perché, in un certo qual modo, è proprio grazie a loro se vi sto annoiando con tutte queste chiacchiere. Da Lino (Aldani) che per primo mi chiese dei racconti, a Franco che ci consumò sopra un intero pennarello rosso. Dal Vic per la storia del tonno e qualche altro miliardo di cose, al mai troppo compianto Ernesto che davanti a quel cool poche righe più sopra avrebbe storto il naso, poco ma sicuro. E tanti altri, troppi, per fortuna. Che poi scrivere fantascienza un po’ masochistico lo è, ammettiamolo. Siamo abituati agli epiteti più strani, alle facce più improbabili, ai “Sì, bravo, pubblicherai con Mondadori? Fantascienza? Be’, fammi sapere quando scriverai altro, ci tengo…”. Niente che già non sappiate. Di recente in un’intervista per Altrisogni mi è stato chiesto come vedessi il mercato italiano. Non so mai bene cosa rispondere a una domanda simile per rendere bene l’idea. Ma qualche giorno fa Michele Piccolino, un carissimo amico e scrittore di fantascienza, mi ha involontariamente fornito la risposta delle risposte. Partecipando alla selezione per un gioco a premi in TV, doveva abbinare il nome a un cognome che gli veniva citato. Quando gli è stato chiesto “Lippi?”, lui ha risposto, d’istinto, “Giuseppe!”, e l’altro “Chi?”. Un esempio che si adatta, direi.

È naturale, a un certo punto, voler anche tentare altro, giusto per mettersi alla prova, per aprire qualche orizzonte e staccare la spina. È capitato anche a me, soprattutto da quando sono entrato a far parte della Carboneria Letteraria, il collettivo di scrittura fondato da Paolo Agaraff. Altri amici e altre storie, diverse, da scrivere. Negli ultimi due anni sono passato dal thriller all’erotico, dal noir all’horror, con racconti apparsi in svariate antologie (“Uomini a pezzi“, “Onda d’abisso“, “365 racconti erotici per un anno”, “NeroMarche”…) ma sempre col gusto e la voglia di raccontare storie, l’aspetto per me più importante. Anche se la fantascienza, quella vecchia signora di cui sopra, ogni tanto torna a farsi sentire.

Ma veniamo al romanzo che avete appena letto (o che dovete leggere, se siete di quelli che amano partire dalla fine). Chi mi conosce avrà scoperto fin dalla prima riga che proviene dritto dritto dal racconto “Mishima Boulevard” che scrissi nel 1999 e che da allora, non chiedetemi il perché, in un certo qual modo e attraverso ripetute pubblicazioni mi ha sempre identificato agli occhi dei lettori (come molti altri racconti di ambientazione orientale o, nello specifico di “roba nippo”, come dice Elena Di Fazio, che spesso scioglie i miei dubbi). È il mio miglior racconto? Non ne ho idea, di certo è il più vissuto per quanto mi riguarda. A volte capita che un racconto vada al di là delle intenzioni dell’autore, e in fondo ho sempre saputo di non aver detto tutto, di non aver dato il respiro che quel racconto mi chiedeva. L’aspetto fastidioso dello scrivere è che non puoi lasciare il lavoro a casa, ti viene dietro, bussa, tira, scalpita e alla fine devi ascoltarlo per forza. Ed è quel che mi è capitato in questo caso. Voglio subito mettere in chiaro una cosa però: quello che avete tra le mani non è un romanzo con chissà quali pretese. È una storia, punto. Che poi mi sia divertito a metterci dentro un personaggio realmente esistito e molto controverso c’entra poco. Per scriverlo non ho letto saggi, trattati, dissertazioni… Ma soltanto i romanzi di Mishima che mi hanno costretto ad appassionarmi alla sua storia. Non era mia intenzione, e non lo è, dare una visione “altra”, rielaborare una figura, provocare dibattiti o chissà cosa. È la mia idea di scrittura: raccontare, prima di tutto. Un’idea deve essere al servizio di un romanzo, non viceversa.

Direi che possiamo anche chiudere qua. Se il romanzo vi è piaciuto, bene. In caso contrario, male, ma ormai è fatta. Ho qualche altro progetto nel cassetto, vorrà dire che ci penserò meglio prima.

Sayonara.

                                                                                                                                                                Alberto Cola

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Nota al “Millemondi” di Novembre

novembre 9th, 2010

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cattura.PNGDa anni il “Millemondi” pubblica un’antologia annuale del meglio della short story fantascientifica e altre raccolte dedicate ai grandi racconti del genere sono apparse in questa collana e su “Urania”. Mancava, tuttavia, una vetrina della grande fantascienza non-anglosassone e abbiamo pensato di ovviare con questa ampia raccolta di storie provenienti dal continente europeo. I selezionatori e gli editori dell’iniziativa sono americani, d’accordo, ma il contenuto proviene rigorosamente dal Vecchio mondo. Vecchio per modo di dire, però: perché le prospettive contenute nel’antologia sono modernissime e, abbastanza naturalmente, proiettate verso il futuro. L’Europa non dovrà mai dimenticare di essere la patria di Jules Verne ed Herbert George Wells, di Hugo Gernsback e Jacques Spitz, del barone di Münchhausen e Perry Rhodan (sì, proprio lui: il teutonico avventuriero degli spazi). Ed è in Europa che sono fioriti Aldous Huxley e George Orwell, Stanislaw Lem e Lino Aldani, Valerio Evangelisti e Doris Lessing.Diciamoci la verità: la sf europea è persino più seria di quella americana. E se allarghiamo il concetto di Europa all’area russa, come pare giusto, ci imbattiamo nei capolavori dei fratelli Strugatskij, di Anatoli Dneprov e nelle delicate satire di Mikhail Bulgakov. In altri termini, in Europa fantascienza e letteratura tout-court coincidono più facilmente, come dimostrano i felici casi italiani di Italo Calvino (Le cosmicomiche, Ti con zero) e Dino Buzzati (La boutique del mistero, Il grande ritratto).Ma lasciamo l’introduzione teorica a James Morrow e facciamoci da parte. A noi non resta che augurare a tutti i lettori un’ottima escursione nei mondi che si aprono appena oltre il cancello di casa. G.L.

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Intervista con Vittorio Catani

dicembre 9th, 2009

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Giuseppe Lippi intervista Vittorio Catani, che torna in questi giorni su “Urania” con il suo ultimo romanzo Il Quinto principio.

Domanda: Vittorio, nei circa 50 anni di frequentazione della fantascienza in veste di autore, tu hai prodotto quasi esclusivamente opere brevi e brevissime. Lo testimonia, fra l’altro, la tua raccolta di racconti L’essenza del futuro edita nel 2007 da Perseo Libri, circa 650 pagine. L’unico tuo romanzo, finora, è stato Gli universi di Moras, che nel 1990 inaugurò la serie dei premi Urania. Come mai ora questo corposo volume, che solo un “Urania” Speciale ha potuto accogliere?

Risposta: È vero, mi sono sempre ritenuto uno scrittore di opere brevi. La mia bibliografia annovera inoltre quattro o cinque titoli intorno al centinaio di pagine ciascuno. Il quinto principio, in verità, è nato quasi per caso. Era la fine degli anni ’90 e Isa, la mia compagna di vita, mi ripeteva con insistenza che racconti ne avevo scritti anche troppi ed era il caso che mi presentassi al pubblico dei lettori con un’opera di maggior respiro. Secondo lei potevo farcela, o almeno tentare. Anche io sentivo il bisogno di esprimermi attraverso un testo più ampio, articolato, d’una maggiore complessità, possibilmente ricco di eventi e situazioni, di umori, e soprattutto che – in accordo con la mia personale visione della fantascienza – ponesse in campo alcuni radicali cambiamenti che stavano avvenendo nel mondo e nella vita di tutti i giorni. Il cyberpunk aveva saputo egregiamente “cantare” la controversa epopea delle nuove telecomunicazioni, era il caso, ora, di romanzare nuovi, spregiudicati portati della globalizzazione e d’una “allegra” gestione della politica, della finanza, dell’economia, dell’ambiente, di nuove tecnologie. Insomma, la vastità della scelta fra questi temi mi appariva davvero allettante.

D.: “Vastità di scelta dei temi?” È un po’ strano sentirlo dire in un momento in cui da molte parti si afferma che la fantascienza “è morta”. E comunque anche se i temi ci sono ancora, secondo i predetti “necrofori” sarebbe anzitutto il genere in sé ad aver fatto il suo tempo. Che ne pensi?

R.: Di questa “morte della fantascienza” io sento parlare fin dagli anni ’70, cioè la fantascienza starebbe morendo da un quarantennio! Se il genere in sé abbia fatto il suo tempo, non so bene: è chiaro che ogni genere narrativo ha un suo, diciamo così, arco di vita fisiologico e alla fine rischia di ripetere se stesso. Ma sotto questo aspetto credo che abbia fatto il suo tempo buona parte di tutto ciò che oggi si pubblica e strapubblica, non solo nella fantascienza. Lo sappiamo, la narrativa è diventata sfacciatamente un’industria in cui sono quasi esclusivamente il numero di copie vendute o l’apparato pubblicitario che premiano. Si lavora non per creare cultura ma per affossarla. In libreria ho provato a leggere il lodatissimo Moccia: ho smesso dopo poche pagine e sono rimasto depresso. De gustibus, ovviamente.
Ma non ho ancora risposto alla domanda sulla “vastità dei temi”.
Confesserò una cosa che ritengo un po’ insolita. Quando cominciai a prendere appunti per quello che poi sarebbe divenuto questo romanzo, era la fine dell’anno 2000, e due dei primissimi temi che mi stimolarono a scrivere furono l’“economia creativa” di Tremonti e l’adiacente “finanza creativa”. Le cartolarizzazioni, il voler “spalmare” i debiti sulle generazioni future (idea peraltro già ironicamente ipotizzata da Sheckley fin dagli anni ’50 nel racconto “Il costo della vita”), la capacità di creare operazioni arzigogolate che parevano risolvere il problema, ma – a guardar bene – sempre a discapito di altri inconsapevoli; il “non detto” dei politici ai cittadini, che diveniva menzogna perché nascondeva una truffa; l’immissione sconsiderata di titoli tossici in qualunque straccio d’operazione bancaria; l’indebitamento di ignari Comuni, nascosto in modo fraudolento da banche elargitrici di prestiti-trappola; le miliardarie parcelle di amministratori insensibili ai loro fallimenti; operatori di Borsa che architettavano diaboliche operazioni danneggiando non migliaia ma miliardi di modesti risparmiatori… Beh, questo non era che un assaggio di ciò che stava venendo fuori. Perché poi si dovrebbe pur dire degli investimenti mafiosi del grosso capitale sotto spoglie legalissime; del ritorno al lavoro schiavizzato; l’aumento vertiginoso del divario ricchi-poveri anche nei cosiddetti Paesi ricchi; lo scempio atroce che la crisi in atto sta compiendo nel Sud del mondo, in un silenzio mediatico quasi assoluto; le nuove ondate di razzismo; la legalizzazione della tortura; il bigottismo fondamentalista; il condizionamento attraverso un’amplificazione abnorme di media nuovi e più pervasivi…
E l’ambiente, e le più recenti tecnologie, le nuove armi e tutto il resto.
La fantascienza è morta? Gente, qui ci sarebbe da scriverne a tonnellate…

D.: La fantascienza quindi per te è quella che prende spunto dal reale per estrapolare sui tempi medio-brevi?

R.: Be’, no, farei un torto anche a me stesso. Ho amato praticamente tutti i filoni della fantascienza: da Jack Williamson a Edmond Hamilton, Van Vogt, Simak, Catherine Moore, Asimov, Dick, la Brackett, Lafferty, Le Guin, Mack Reynolds, Ballard, Moorcock, Malzberg, Ellison, Sheckley, Tenn, Stanislav Lem, Clarke, la Tiptree, Silverberg, via via fino a Sterling, Egan e tantissimi altri. Diciamo che in 50 anni di letture ho dovuto adeguarmi (ma con piacere) ai vari filoni della science fiction: da quella avventurosa a quella hard, dalla social science fiction alla New Wave fino al cyber e successori. Una vitalissima, articolata, rutilante avventura. Tuttavia,  personalmente ho sempre preferito una fantascienza interessata al presente. Forse uno dei motivi per cui la sf sembra in declino, è che – contrariamente a come è sempre stato, che io ricordi – oggi la gente parla solo del presente. Abbiamo perso il futuro, e quando ne accenniamo è in termini foschi. La gente, che ha tantissimi nuovi problemi, preferisce non rattristarsi ulteriormente. D’altronde scrivere una fantascienza ottimista, come alcuni vorrebbero, oggi a me suonerebbe una stonatura, un falso.

D.: Il quinto principio, allora, dovrebbe essere un libro cupo. Triste…

R.: …ma spero non lo sia! Certo nell’insieme il quadro non brilla per allegria, ma mi sono sforzato di metterci dentro un po’ di tutto, anche lampi di ironia o di humour. E anzitutto ho cercato di rendere avventuroso il racconto. Amo molto l’avventura in sé, la considero il Dna della narrativa. Esistono le avventure alla Salgari o alla Edmond Hamilton, ma ci sono anche la Recherche di Proust o l’Ulisse di Joyce, che a loro modo sono sempre avventura: all’interno di se stessi, o all’interno del loro genere in cerca di vie espressive nuove, rivoluzionarie. Nel mio romanzo ho quindi cercato di presentare temi attuali, estrapolandoli in un futuro situato a poco meno di metà secolo e proponendoli, se possibile, in forma di avventura ma – a volte – anche di riflessione. Il mio è un romanzo “corale”, cioè segue le storie di vari personaggi, sebbene vi siano un paio di protagonisti principali, e le storie che si incrociano alla fine confluiscano in un’unica trama, sia pure con diramazioni. Direi che il romanzo, nato per aggregazioni successive,  è soprattutto la costruzione-descrizione di uno scenario a venire.

D.: Il tuo libro affronta temi importanti e si articola in un piano  narrativo complesso. In che modo, secondo te, l’attuale fantascienza italiana può sfuggire alle strettoie dell’imitazione dei modelli stranieri o cinematografici e conquistare un’ampiezza di respiro, un’originalità che sia tutta propria e la tenga al riparo da eventuali riflussi?      

R.: Ai modelli che tu richiami, si potrebbe aggiungere quello dei videogame. Ma stavolta trovo davvero difficile rispondere alla tua domanda. Da un lato, credo che le caratteristiche di un genere non si possano predeterminare a tavolino; dall’altro, un qualcosa occorre pur studiarselo, quindi sarebbe proficuo sperimentare.
Infine, posso portare solo la mia esperienza personale: anche io, come altri in Italia – citerò solo due nomi, Aldani e Curtoni – ho sempre tentato di contribuire a una sf “all’italiana”, che non ne tradisse i canoni di base. Ma ammesso che io sia riuscito nel mio intento, va detto che ogni percorso personale può rivelarsi… troppo personale per essere rappresentativo.
A quanto io ricordi, fui uno dei primissimi autori (anni ’60) a scrivere una fantascienza con protagonisti dal nome italiano. Cosa che altri nostri scrittori e critici – scoprii – dichiaravano addirittura inattuabile. Io vedevo la questione come un modo per obbligarsi a mutare totalmente ambientazione e atmosfera, e architettare storie che fossero plausibili in uno scenario, quello nostrano, decisamente povero di tecnologie e mirabolanti invenzioni. Negli anni ’60 avevo scoperto autori italiani e stranieri (Cesare Pavese, Italo Calvino, Corrado Alvaro, Dino Buzzati, Leonida Repaci, Giovanni Arpino, William Faulkner, William Saroyan, Jack Kerouac, Vladimir Nabokov, Ernest Hemingway, il Drieu La Rochelle di Fuoco fatuo, lo Henry-Pierre Roché di Jules e Jim e tanti altri) che mi avevano affascinato per il loro stile, per le capacità evocative e per tematiche che sentivo molto vicine. Pensai che sarebbe stato molto bello inserire trame fantascientifiche negli scenari realistici, nelle atmosfere e nei sentimenti di questi autori, scenari e atmosfere molto più vicini ai nostri di quelli Usa, usando inoltre un linguaggio che non ricalcasse l’ordinarietà – talora l’estenuante piattezza – che dominava nella narrativa di genere. A posteriori (allora le mie idee non erano così chiare) potrei descrivere così il mio obiettivo: se noi italiani non possedevamo un adeguato immaginario tecnologico – ci mancavano industrie d’avanguardia, ricerca scientifica, laboratori, brevetti, premi Nobel, strutture, mentalità etc. – per poter scrivere una fantascienza all’americana, avevamo però una diversa, inesauribile fonte cui attingere: l’impatto, sulla nostra società e su noi individui, di quelle nuove tecnologie, che ci giungevano dalla riconosciuta Patria della fantascienza moderna.
Era quindi possibile, e credo lo sia tuttora, scrivere una science fiction “umanistica” oltre che, eventualmente, fanta-tecnologica. Si tratterebbe di un semplice adeguamento, delle varie tematiche specifiche, a temi e modalità culturali del Vecchio Mondo. Ciò che d’altronde credo sia avvenuto spontaneamente, in modo fecondo e senza traumi, fin dagli anni ’50, in Francia e poi in Paesi di lingua spagnola. Siamo tuttavia in un momento storico in cui è in atto un vasto rimescolamento dei linguaggi, degli stili, delle tematiche. Mi chiedo anche se e quale senso possa avere, oggi, promuovere una “via italiana alla fantascienza”.

(a cura di G.L.)

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Radici lontane

settembre 13th, 2009

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In occasione della riedizione di Quando le radici in “Urania Collezione”, presentiamo un profilo di Lino Aldani tracciato da Giuseppe Lippi.

Lino Aldani era considerato il principale esponente della fantascienza italiana ed è morto a Pavia sabato 31 gennaio 2009, per un’incurabile malattia a un polmone. Suo genero, il dottor Angelo Corsico, è medico e ci fornisce alcune informazioni sulla patologia: Aldani è stato bene fino all’estate 2008, ma in settembre ha cominciato ad accusare disturbi alla prostata. Fattosi esaminare, ne è uscito con una diagnosi tranquillizzante per quanto riguarda il problema specifico, ma con la scoperta (casuale, a quanto sembra) di un piccolo tumore al polmone. Nonostante le dimensioni ridotte, si trattava di una forma particolarmente aggressiva: adeno-carcinoma. La situazione è precipitata dopo il Capodanno 2009 e l’8 gennaio, in seguito allo spezzarsi del femore, è stato necessario trasportarlo all’ospedale. Qui Aldani è rimasto poco più di tre settimane: prima presente a se stesso e impaziente di essere dimesso (“Sto morendo”, diceva ad Elettra, “fatemi tornare a casa mia”), poi gradualmente più stanco e, negli ultimi giorni, meno lucido. Non c’è stato niente da fare e si è spento la notte tra venerdì 30 e sabato 31 gennaio. Avrebbe compiuto 83 anni il 29 marzo.

Per ricordarlo ancora una volta, ma soprattutto per porgere il suo capolavoro ad una nuova generazione di lettori, abbiamo pensato di ristampare il primo e forse più autobiografico romanzo di Aldani, Quando le radici (1977). La stesura, in realtà, era già cominciata negli anni Sessanta, quando Aldani viveva a Roma e faceva l’insegnante di matematica, in preda ad alcuni dei dubbi e delle angosce che il protagonista del libro, Arno, denuncia nella parte iniziale. Come Aldani, a un certo punto Arno sente di dover tornare dove è nato, oltre il Po, per cercare di dare un senso a un’esistenza spaccata. Non sarà facile perché l’Italia del futuro che immagina il romanzo è un paese pieno di insidie e tranelli: autostrade mostruose, Tir evoluti e minacciosi, strade interrotte e dietro foreste oscure. Ma è un cammino necessario per ritrovare quello che la città di pietra gli ha tolto da tempo, per ricostruire una casa. Del resto Arno, come Aldani, un po’ romano lo è diventato e non solo nella parlata: anche la separazione ha il suo prezzo, l’inizio del viaggio è come la partenza per un’odissea. Ma il senso di una vita è nelle scelte che si fanno e Arno, come il suo autore, scavalca le strade rotte, supera i crepacci, entra nei boschi, lasciandosi alle spalle le tracce di incombente distruzione per vedere se e dove sia possibile rivivere. Arno è un italiano che, nonostante gli intrighi e i veleni, la corruzione e l’assopimento degli ideali, non scappa ai Caraibi o a Puerto Escondido come gli eroi di una generazione dopo, Diego Abatantuono nei film e tanti altri per davvero; anzi, non scappa affatto ma cerca di arrivare. Lì dove intende approdare non è un paese straniero, semmai straniato: ma questo fa parte del quadro. E’ il suo paese irriconoscibile e coperto di spine, lo stesso al quale Aldani aveva dedicato un primo romanzo, inedito, negli anni Cinquanta, affrontando l’odissea della Resistenza. In definitiva, Quando le radici è il romanzo della prossima resistenza: quella che ci sarà da combattere se e quando il paese si scuoterà di dosso il giogo del sonno. La corruzione, l’abuso di potere, l’ingiustizia sono manifestazioni dell’egocentrismo e dunque, in ultima analisi, dell’irrazionale; per nascondere il cadavere della corruttela bisogna distorcere i fatti, nascondere le verità. Il romanzo di Aldani adombra, pur in molto pessimismo, il bisogno di tornare a guardare in faccia la ragione; di scoprire il paese per quello che è. Come spesso accade in fantascienza, anche in questo caso il futuro è il deposito di un segreto che sta invece nelle origini, nella storia: Quando le radici vuol dire, in sostanza, quando riapriremo gli occhi per scoprire chi siamo.

Autore di racconti arrivato al romanzo solo più tardi, Aldani tuttavia ne ha pubblicati diversi, mentre è in attesa di vedere la luce, e ormai uscirà postumo,  uno dei suoi primi libri di narrativa, peraltro di genere realistico. I romanzi di fantascienza apparsi dopo Quando le radici sono: Eclissi 2000 (1979), già ripubblicato in “Urania Collezione” e che l’autore definisce “una professione di fede: l’astronave Terra Madre rappresenta il socialismo e il romanzo poggia sulla tesi che non puoi costituire un governo, anche socialista, senza dire bugie e promettere cose false”. Nel segno della luna bianca (ovvero Febbre di luna, 1980, in collaborazione con Daniela Piegai), è “un fantasy dichiaratamente di sinistra, e come tale fu attaccato da più parti. Questi detrattori lo giudicarono il peggior romanzo sporcaccione prima di Porci con le ali…” La genesi de La croce di ghiaccio (1989) “può essere cercata nel fatto che avevo un amico prete”, raccontava l’autore in un’intervista. “E’ stato quest’amico a introdurmi nel mondo degli zingari, ed è lui che nel romanzo viene ammazzato dai gironiani. In realtà il problema religioso non è pertinente o centrale al mio libro…”. Il suo quinto romanzo, un’avventura tra il popolo rom che si svolge parzialmente a Trieste, si intitola Themoro korik ed è apparso nel 2007 presso la casa editrice Perseo (ora Elara) di Bologna, che ha in catalogo l’opera completa di Aldani, sia per quanto riguarda i romanzi che i bellissimi racconti. Elara ha pubblicato altresì, nel 2007, il vecchio romanzo del 1961 Aleph 3, che Aldani non aveva mai voluto dare prima alle stampe.

G. L.

[Nell’illustrazione, Lino Aldani visto da Giuseppe Festino.]

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