Riprendiamo questa lunga intervista ad Aldani curata da Giuseppe Lippi.
Lino Aldani è ritenuto, a livello internazionale, il maggiore esponente della fantascienza italiana ed è senz’altro il più tradotto. Nell’antologia The Science Fiction Century (1997), il volume a cura di David G. Hartwell che ripropone i capolavori della sf del Novecento, i soli autori italiani inclusi sono Lino Aldani e Dino Buzzati. Il suo successo dipende da tre motivi: la forza dello stile, con cui descrive ambienti straordinari e personaggi reali, estremamente credibili (non di rado si tratta di mature proiezioni dello stesso Aldani); la costante qualità dell’invenzione in un genere che spesso si accontenta di scimmiottare le trovate altrui, per cui si può ben dire che Aldani sa uno dei pochi maestri italiani del fantastico; infine, la tensione ideale, l’intensità che c’è in ognuno dei suoi racconti, sia che descrivano una grottesca Italia del futuro, sia che parlino della necessità di rivoluzionare l’uomo. Autore, in cinquant’anni di carriera, di innumerevoli racconti brevi che spaziano dalla commedia al dramma, dall’avventura psicologica alla profezia sul nostro domani, Aldani ha scritto in tutto sei romanzi fantastici, mentre almeno due di genere realistico non sono mai stati pubblicati. Per onorare i cinque decenni di una carriera così importante, la Perseo Libri di Bologna ha racchiuso l’intero corpus della narrativa di Aldani – racconti e romanzi – in cinque volumi: La croce di ghiaccio, Ontalgie, Aria di Roma andalusa, Febbre di Luna e Themoro korik, cui si può aggiungere la raccolta a quattro mani, firmata con Ugo Malaguti, Millennium. “Urania” ha voluto festeggiare a sua volta il grande scrittore andando a intervistarlo nella sua casa di San Cipriano Po, dove ha ritrovato un geniale narratore, un attivissimo direttore di rivista – la sua “Futuro Europa”, attualmente pubblicata dalla Perseo, è la reincarnazione della storica “Futuro” degli anni Sessanta – e un uomo davvero impeccabile, lombardo di sangue ma romano di spirito oltre che d’adozione… Come si vedrà dalle seguenti battute.
Domanda: Aldani, tu sei nato nel 1926 e hai combattuto molte battaglie del presente, immaginando nelle tue opere quelle del futuro.Come ti senti nello scenario degli anni Duemila, adesso che ci siamo?
Risposta: Abbiamo tutti aspettato quella data, ma nel complesso provo una gran delusione. Gli anni 2000 sono arrivati a vuoto, inutilmente; tante cose che avrebbero dovuto mettersi a posto, invece si sono aggravate.
D.: Ma l’emozione di vivere questo XXI° secolo?
R.: L’emozione? Per dirla alla Gigi Proietti, meno male che ci sono arrivato. 2002, 2003, 2004, un anno vale l’altro… Qui non si muove niente, è questo il grave.
D.: Secondo te, c’è stata una contrazione del senso del futuro?
R.: Sì che c’è stata. Quale senso del futuro ci è rimasto? Lo ha scritto anche Fabio Calabrese ad Antonio Scacco, parlando di prospettive…
D.: E i motivi?
R.: Non lo so con precisione, ma non siamo pronti a gestire il futuro. Ci siamo capitati in mezzo e non ce la facciamo.
D.: Questa situazione è molto diversa dal passato…
R.: Negli anni Sessanta e Settanta c’è stato un ottimismo della volontà che ci ha fatto sperare, ma col passare degli anni ha avuto la meglio il pessimismo della ragione. Guarda quello che scrive Ernst Schumacher, il sociologo tedesco di Piccolo è bello, un libro del 1973: a meno di non cambiare radicalmente il nostro atteggiamento in direzione bioetica, il mondo andrà incontro a un’immane distruzione di risorse, capacità e forme di vita. Non vedere questo equivale ad essere fregati. Una delle cose che l’umanità non vuole assolutamente capire è che da quando è iniziato un certo tipo di sviluppo, non abbiamo fatto un momento di pausa. Stiamo continuando ad andare avanti in progressione geometrica, prosciugando tutto quello che avremmo dovuto conservare per il futuro.
D.: E’ un enorme problema politico. Un tempo c’erano le attese del socialismo, a mitigare il panorama: tu sei stato un militante e ancora nel 1980, in un’intervista concessa a Vittorio Curtoni sulle pagine della rivista “Aliens”, parlavi di rivoluzione….
R.: Le attese socialiste, che condividevamo in tanti, non si sono verificate. Sì, ci ho creduto a lungo, ma ormai l’unica rivoluzione che possiamo fare consiste nel coraggio di sopportare l’attuale situazione. E’ già un pensiero rivoluzionario, perché non vuol dire condividere ma sopportare un certo stato di cose.
D.: Sopportare va bene, ma reagire?
R.: Come si fa? Non è più possibile. Il perché è già contenuto in nuce nelle analisi di André Gorz, ad esempio nel Socialismo difficile del 1968. Noi abbiamo vissuto l’epoca di Stalin, che è stato l’uomo che ha tentato di costruire il socialismo in Russia dopo Lenin…
D.: L’obbiettivo finale di un regime socialista dovrebbe essere l’abbattimento dello stato, naturalmente dopo un periodo transitorio. In passato non hai mancato di sottolinearlo: era questa la tua visione dell’utopia?
R.: Sì, e credo che nonostante tutto si potrebbe ancora arrivare al superamento dello stato…. In effetti è l’unica utopia ancora viva, l’unica che possa stare in piedi. [Sorride, poi]: Peccato che m’hai preso in una giornata in cui non so parlare. Ti rispondo a frasi mozze.
D.: Forse è solo che non hai voglia di teorizzare. Veniamo a cose più concrete, per esempio la tua famiglia e l’ambiente da cui provieni.
R.: Mio padre era uno chef d’albergo originario di San Zenone, mia madre una mondina di San Cipriano Po. Personalmente non ho imparato l’arte culinaria, so fare solo qualche piatto. [La moglie, Mirella, interviene: “Lumache e quaglie le fa benissimo!”]
D.: Quando sei nato, i tuoi genitori vivevano a Roma?
R.: Sì, mio padre ci si era trasferito per lavorare. Per far partorire mia madre erano tornati a San Cipriano, ma avevo quaranta giorni quando siamo andati definitivamente a Roma. [Mirella interviene per aggiungere aneddoti sulla nascita di Lino. Lui, un po’ irritato, la interrompe]: Ma te stai un po’ zitta un momento? Sì, sono spesso irritato perché da infante mi legavano le braccia nelle fasce. Però, in fondo sono una buona pasta.
D.: Mi puoi raccontare qualcos’altro, della tua infanzia?
R.: Sto scrivendo un racconto sull’argomento. Mi ricordo, per esempio, che mia madre mi lasciava solo in casa, dicendo che mi avrebbe tenuto compagnia il bambin Gesù. Però io stavo solo su un seggiolone e mi rodevo… Altro che “la mamma fa presto”! Avevo tre anni e magari, per calmarmi, lei prometteva di portarmi un grammofonino che regolarmente non arrivava. A tre anni già scrivevo e scarabocchiavo, volevo risme di carta. “Tu prega Gesù”, diceva la mamma: ma il mio sogno era possedere una risma di carta! Gesù l’ho cassato, l’ho cancellato da allora. Sono ateo completo, sottolineato. Però combatto sempre con i libri di religione, perché sono alla ricerca di una conferma alle mie conclusioni. Sono una personalità profondamente religiosa perché so vedere, nelle cose della vita, un lato che non è affatto terra-terra.
D.: I tuoi studi, la tua professione?
R.: Ho studiato matematica e filosofia, materie che poi ho insegnato nelle scuole serali. T’a ricordi, Mire’…? Però la scuola l’ho odiata, appena ho potuto sono andato via. Baby pensionato dell’insegnamento, eccomi qua.
D.: Come è cominciata la tua carriera letteraria?
R.: Nell’immediato dopoguerra ho scritto un romanzo senza titolo e diversi racconti di ambientazione partigiana che avrei potuto pubblicare con Lucio Lombardo Radice. Lui dirigeva la rivista di un circolo culturale, “Incontri”, che mi rifiutò un racconto: l’avrebbero accettato solo a patto di cambiare il finale. Lo stesso dicasi per il romanzo, Lombardo Radice pensava che ci fossero problemi ideologici, cose che non andavano. La tesi del libro era che non si può entrare in un’epoca di pace portandosi dietro i vecchi rancori della guerra partigiana. Dopo questi inizi, c’è stato un romanzo esistenziale, Le anatre di sughero. Parlava di un certo Coriolano Mauser, una mia proiezione, e della sua esistenza. Questo signore viveva situazioni tipiche dell’esistenzialismo: si trovava in un cimitero, assisteva alle imprese di un gruppo di vagabondi che scoperchiavano le bare dei morti. Ad un certo punto, andava da un pescatore sul fiume che utilizzava le anatre di sughero: bestiole finte che suggeriscono l’idea di una realtà illusoria.
D.: Sono esperienze autobiografiche anche per quanto riguarda il periodo di guerra?
R.: Durante la Seconda guerra mondiale sono tornato a San Cipriano Po, il paese dove sono nato, per un periodo di quattordici mesi. Ero renitente alla leva e avevo deciso ad andare in collina fra i partigiani, ma nessuno volle accompagnarmici. E’ un paese di cacca, il mio, di confine, di gente che si schisciava (scansava, sottraeva).
D.: Dopo quegli esordi neorealisti, come ti è nata la passione per il fantastico?
R.: Per me è un fatto naturale, di carattere. Sono nato ignorante e sono rimasto ignorante a lungo, son venuto fuori dopo: di conseguenza, all’epoca dei primi racconti non è che avessi tanto riflettuto su problemi di genere o altro. Del resto, da ragazzi, chi aveva il tempo di leggere? I miei primi racconti fantastici li ho scritti dopo aver fatto il militare e letto Sartre, il mio grande amore. Si era verso la metà degli anni Cinquanta, quando mi è venuta l’idea de “L’inseguito”. Più o meno a quell’epoca è uscita “Urania” rivista e mi è dispiaciuto non poco quando ha chiuso dopo quattordici numeri. In seguito ho letto “Planète”, che conteneva altre suggestioni ma sulla stessa onda: il mistero del santo Graal, eccetera…
D.: Come hai cominciato a scrivere fantascienza?
R.: E’ stato un mio alunno, all’epoca in cui insegnavo. Vedendo che avevo con me dei numeri di “Urania” mi ha fatto conoscere un pazzo, certo Polimeni, che si interessava di dischi volanti. In seguito l’alunno mi portò un numero di “Oltre il cielo”, la rivista pubblicata negli anni Cinquanta-Sessanta. Ho cominciato a collaborare, a scrivere racconti per loro e mi sono familiarizzato con la redazione: l’ingegner Armando Silvestri, il direttore, e il suo braccio destro Cesare Falessi, alto quasi due metri, una specie di marziano ma con un buon acume editoriale. E’ stato lui a consigliarmi di passare dal genere satirico, con cui avevo esordito, al racconto “serio” di sf. Per i miei gusti, comunque, in “Oltre il cielo” c’erano troppa avventura e troppa astronautica.
D.: Ed è stato a quell’epoca che hai conosciuto tua moglie.
R.: Ho conosciuto Mirella nel 1955, lavorava nella stessa scuola (dove insegnava matematica) e in occasione degli esami ci siamo frequentati un po’ di più. Il 25 luglio 1957 ci siamo sposati e ricordo che il giorno prima abbiamo fatto un doppio di tennis. Abbiamo vinto noi e gli altri ci hanno chiesto la rivincita, ma dovevamo sposarci ventiquattr’ore dopo e così abbiamo rinunciato. Elettra, nostra figlia, è nata nel 1964.
D.: Un anno prima avevi fondato una tua rivista di fantascienza…
R.: Sì, “Futuro” è nata nel 1963. Ne ero molto soddisfatto, ma si trattava di una visione utopica perché pensavo che se uno publica cose buone, il successo è automaticamente assicurato. Invece mi resi conto che per aver successo te devi appecorona’. Intorno alla rivista lavoravamo in parecchi: a parte me c’erano Massimo Lo Jacono, Giulio Raiola, Sandro Sandrelli e Inìsero Cremaschi; con Lo Jacono non mi ci prendevo, lui era per una rivista commerciale, io per la qualità. Poi arrivò Cremaschi e allora… che vuoi fare più? Lui aveva il pallino della moglie, Gilda Musa, ce la infilava dappertutto.
D.: Quella di “Futuro” è stata un’avventura breve, ai tempi. Anche se poi l’avresti rifondata con Ugo Malaguti e oggi la pubblichi con il titolo “Futuro Europa”.
R.: Sì, la prima “Futuro” è morta nel 1964, dopo il fallimento di un distributore e il subentrare del secondo. Otto numeri usciti e non vedemmo neanche un soldo, proprio perché il distributore fallì. Chiuso quel ciclo, le prospettive per la mia narrativa mi sembravano zero. Non scrivevo più niente. Nel 1975 ho lasciato la scuola, mettendomi in aspettativa; quindi sono andato in pensione. Intanto, già nel 1968 eravamo andati via da Roma e ci siamo trasferiti a San Cipriano Po, il paese dove sono nato: ho insegnato ancora qualche anno in zona e Mirella ha fatto lo stesso. Poi ci siamo ritirati.
D.: Come è stato l’impatto con queste terre?
R.: Appena arrivato da Roma in provincia di Pavia, mi è sembrato di sbarcare su un altro pianeta. Dove fra l’altro comandavano i fascisti. Per due anni non abbiamo avuto neanche una casa, mentre costruivamo questa: poi mi hanno eletto sindaco e ho rivoltato le carte in tavola, sul piano politico. Ho fatto ribattezzare via Gramsci la strada in cui viviamo e ho ripreso a scrivere.
D.: Hai messo subito mano al tuo primo romanzo, Quando le radici?
R.: Guarda, i primi capitoli di Quando le radici li avevo già scritti a Roma nel 1966: ma allora ero troppo occupato a vivere. Alla fine, quando il libro è uscito nello Science Fiction Book Club della Tribuna (1977), rispecchiava abbastanza fedelmente quello che avevo fatto nella realtà, il trasferimento da Roma al Po. In questo paese, San Cipriano, sono successe proprio le cose di cui parlo nel romanzo.
D.: E’ una storia tormentata ma realistica, una profetica visione dell’italia del futuro. Come venne accolta, all’epoca?
R.: Credo che fosse accusata di pavesismo, di eccesso di realismo provinciale, cose del genere. Anche per questo, quando l’editore De Vecchi mi commissionò un secondo romanzo decisi di cambiare registro e il risultato fu Eclissi 2000 del 1979.
D.: Come avevi conosciuto De Vecchi?
R.: Tramite Mario Macario, il figlio di Erminio. Eravamo amici, lui aveva un contatto con De Vecchi e mi chiesero di scrivere un altro libro. Eclissi sembra la storia di un viaggio interstellare, tema popolare ma secondo me insostenibile: tuttavia, negli ultimi anni mi sono convertito all’idea che una cosa del genere puoi scriverla come puro divertissement. Lo stesso vale per i viaggi nel tempo. In un certo senso, però, anche Eclissi 2000 è una professione di fede: l’astronave Terra Madre rappresenta il socialismo e il romanzo poggia sulla tesi che non puoi costituire un governo, anche socialista, senza dire bugie e promettere cose false: è questo il significato dell’astronave che non vola.
D.: Poi, nel 1980, è stata la volta di Nel segno della luna bianca scritto con Daniela Piegai e pubblicato dalla Nord.
R.: Il nostro titolo era Febbre di luna ed è stato restaurato per la riedizione fatta dalla Perseo Libri. L’idea ci è nata per sfatare le tante cavolate sulla Tradizione con la T maiuscola, la destra eccetera. Volevamo fare un fantasy che fosse dichiaratamente di sinistra, e come tale fu attaccato da Gianfranco de Turris e altri. Costoro lo giudicarono il peggior romanzo sporcaccione prima di Porci con le ali…
D.: Come era suddiviso il lavoro tra te e la Piegai?
R.: Il romanzo è prevalentemente mio perché la trama è mia dalla “A” alla “Z”, ma avevo bisogno di una collaboratrice come la Piegai che è esperta in sortilegi, leggende eccetera. Mi ha tolto le castagne dal fuoco in varie occasioni, ma il romanzo lo sento mio.
D.: Così arriviamo alla Croce di ghiaccio del 1989, il romanzo pubblicato dalla Perseo.
R.: Sì, e la sua genesi può essere cercata nel fatto che avevo un amico prete. Costui aveva una gran paura di finire ammazzato da un momento all’altro per mano degli zingari che avrebbe dovuto evangelizzare. E’ stato quest’amico a introdurmi nel mondo degli zingari, è il prete che nel romanzo viene ammazzato dai gironiani. Ma il problema religioso non è pertinente o centrale al mio libro: non sono d’accordo con i critici cattolici come Antonio Scacco, secondo i quali sarebbe un romanzo scritto per fare andare d’accordo scienza e religione.
D.: Nella tua carriera i racconti hanno sempre avuto una posizione predominante. Li preferisci ai romanzi?
R.: Sì, indubbiamente. La fantascienza è un genere che si regge sulla bontà dei suoi racconti o al massimo delle novelette, cioè i racconti lunghi. A chi fosse preoccupato della sorte dei personaggi, posso assicurare che in un racconto è possibile delinearli con la stessa efficacia. Se basta una schioppettata per abbattere un volatile, perché sprecarne tre o quattro? Personalmente, ritengo di aver scritto vari romanzi che hanno la lunghezza di racconti: “La costola di Eva”, “Trentasette centigradi”, eccetera.
D.: Quale consiglio daresti a un giovane aspirante scrittore?
R.: Tu vuoi farmi dire qualche banalità! Non si possono dare consigli, semmai augurare a tutti di avere una gran fortuna, imboccare la strada giusta. In realtà nessuno può dire come si fa, men che meno io. Bisogna avere serietà innanzi tutto.
D.: Cosa ti piace leggere di fantascienza?
R.: Da anni non la seguo più, a parte quello che arriva alla redazione di “Futuro Europa” e che leggo per dovere.
D.: E quali criteri segui, in questo tuo “dovere”?
R.: Colmo con uno sforzo il gap della mia ignoranza.
D.: Secondo te, ha ancora senso scrivere science fiction?
R.: Sì, ma solo a patto di mettere in risalto la “pars destruens”, non la “pars construens”. Altrimenti ci limiteremmo a scriverla solo perché siamo nel campo, la conosciamo e compagnia bella.
(Intervista raccolta da Giuseppe Lippi con il contributo di Mirella Aldani, Ugo Malaguti e Sebastiana Vilia a San Cipriano Po, PV, il 18 settembre 2004. Pubblicata su “Urania” n. 1494 nel gennaio 2005.)