Una conversazione del curatore Giuseppe Lippi con l’autore italiano a cui è dedicato l’Urania Collezione di questo mese.
GIUSEPPE LIPPI: Quando hai cominciato a interessarti di fantascienza? E prima, qual è stata la tua formazione culturale?
MAURO ANTONIO MIGLIERUOLO: Ho deciso che sarei stato lettore di fantascienza molto prima di cominciare a leggerla. È una cosa che mi è nata dentro, un virus extraterrestre presente nell’aria e che probabilmente ho respirato senza accorgermene nelle rare occasioni in cui abbandonavo il mio involontario reclusorio di pre-adolescente in quel di Roma, via Lavinio 20. All’epoca abitavo da certi miei vecchi prozii, preoccupatissimi delle responsabilità che la custodia comportava e che a stento mi concedevano di mettere il naso fuori casa; naso che a me, abituato alla libertà totale di un bambino del profondo sud, neppure andava tanto di mettere fuori, avvilito com’ero dall’ininterrotta distesa di asfalto e cemento con cui mi toccava avere a che fare. La fantascienza rappresentò allora forse l’unica accettabile via di fuga, o di ritorno al contatto con la natura. La natura aliena dei mille mondi e relative mille avventure, in sostituzione di valli, montagne, boschetti, caverne, rovine e fiumare che non mi era più concesso di affrontare direttamente.
Poi un giorno ebbi in tasca il danaro sufficiente per effettuare il mio primo acquisto e decisi che fosse un libro, un fascicolo di “Urania” per l’esattezza: Cittadino dello spazio. Lo comprai all’edicola di via Cerveteri, adiacente via Lavinio (l’edicola, come ho potuto verificare recentemente, è ancora attiva nello stesso cantone che ricordo). Rimasi alquanto deluso dalla lettura del romanzo. Mi aspettavo molto di più di quel che vi trovai. Molto più senso del meraviglioso, molta più invenzione, molta più sospensione dell’incredulità e allontanamento dalla realtà. Poco dopo trovai questo e altro su un carrettino di quelli che pullulavano all’epoca, vicino al cinema Appio. Il carrettino esibiva una gran messe di fascicoli di fantascienza che potevo acquistare (favoloso) a metà del prezzo di copertina. Me ne ingozzai. Da quel momento il mio unico pensiero fu di risparmiare su tutto per mettere da parte l’occorrente per poterne acquistare altri. Mi sobbarcai persino l’onere di farmi a piedi il percorso scuola-casa (all’andata no, non potevo permettermi di far tardi e non era neppure conveniente: il costo del biglietto infatti, anch’esso dimezzato prima delle otto, era di appena dieci lire). Ogni percorso all’uscita da scuola, invece, mi fruttava un risparmio di ben venti lire. Messe insieme, corrispondevano al valore di un paio di “Urania” alla settimana. In questo modo, dunque, potei scoprire la gloria dei famosi primi cento numeri dei “Romanzi di Urania”, nonché i favolosi quattordici di “Urania” rivista. Scoprii il significato della parola felicità, una felicità nella quale mi inoltravo solo una volta alla settimana, ma che riverberava su tutto il resto.
Dal punto di vista culturale occorre si sappia che sono un perfetto autodidatta, avendomi la scuola fornito di una base assolutamente mediocre, non idonea ad affrontare quel che poi sarebbe diventata la mia passione: scrivere racconti. Mi sono formato infatti, come scrittore ma anche come lettore, principalmente sui fascicoli di “Urania”, “Scienza fantastica” e “Oltre il cielo”, moltiplicando le riletture e fantasticando ― dopo aver constatato l’inevitabile rarefarsi dei “capolavori” ― sulla possibilità di scriverne autonomamente. Fortuna ha voluto che frequentassi un altro lettore accanito come me, che divenne destinatario dei miei primi tentativi: un mio conterraneo, tale Franco Adinolfi, dal quale il tempo mi ha separato. È anche per merito suo e dei suoi incoraggiamenti che mi sono ostinato nel perseguire l’ambizioso obiettivo di misurarmi con i grandi della fantascienza (del risultato non dico; dico della spinta che mi portò all’azione…).
I contatti con la grande letteratura vennero molto più tardi, tramite l’assidua frequentazione delle biblioteche pubbliche. Più tardi ancora, quando nel 1963 iniziai l’attività lavorativa e potei disporre di un reddito personale, passando dalle biblioteche alle librerie, i contatti con la cultura contemporanea si intensificarono attraverso il massiccio acquisto di ogni sorta di libro, dei quali riempii in breve la mia vita. Scienza e filosofia, più che la stessa letteratura, divennero gli obiettivi preferiti. Joyce, ad esempio, lo conobbi molto tardi e per esclusivo merito di Lino Aldani che mi fornì il testo e mi sollecitò a leggerlo (Ulisse). In un tempo successivo, dopo i soliti grandi di ogni tempo, a partire dai russi (Dostoevskj, Solgenitsin, Puskin, Tolstoi in testa), incontrai Svevo, Gadda, Marotta, Fenoglio, Levi, Maraini ecc., cioè i grandi della pur grande letteratura italiana. Incontro che mi confortò e sostenne in un certa misura le mie pretese di competere con gli scrittori d’oltreoceano, cosa che allora mi sembrava impresa folle, degna di essere perseguita in ragione proprio della sua follia.
Oggi, al contrario, considererei una diminuzione essere paragonato a uno dei fortunati che ne hanno ricevuto l’eredità; almeno a me, e non credo di essere il solo, la fantascienza americana attuale ha ben poco da dire. Numerosi sono anche gli apporti scientifici, prevalentemente divulgativi, che hanno turato le falle della diseducazione scolastica: Gould, Kamin, Lewontin, Hawking ecc.; nonché quelli filosofici (decisivi) dovuti all’ingegno di Balibar, Lecourt, Althusser, Bettelheim, Lukacs, Havemann, Turchetto, Preve, un’infinita serie di autori. Sono proprio loro ad avermi trasmesso la ricchezza ideologica che mi ha permesso di tornare alla fantascienza con un bagaglio di conoscenze sufficiente ad alimentare la mia ambizione di innovare in un campo in cui l’innovazione è all’ordine del giorno.
GL: Gli interessi sociali e politici sono stati sempre importanti nella tua vita?
MAM: In quanto generico membro della comunità degli italiani sì, certo, lo sono sempre stati. Anche prima che maturassi l’attuale orientamento politico: infatti quando, senza tentare di nascondermi troppo, avrei potuto tranquillamente passare per un democristano di destra, ero mosso da molti dei valori di oggi. La parola solidarietà aveva un senso per me. Così come l’istintiva rivolta contro la sopraffazione, il pregiudizio, la discriminazione, il raggiro, l’abuso del debole e la violenza. Ritengo che questi valori, oggi in pieno declino, dovrebbero far parte di qualsiasi individuo, di destra, centro o sinistra. E che anzi la qualifica di cittadino sia effettivamente meritata quando questi valori costituiscano l’asse della personalità. Il problema è che l’attuale democrazia può funzionare soltanto in presenza di una relativa passività (e disinteresse per la politica) da parte delle masse. Anzi questa è voluta, provocata. Lo stupidario politico, il linguaggio ermetico, il dire detto in modo da sembrare tutt’altro da ciò a cui le parole oscuramente alludono, l’ipocrisia, la disonestà, la chiusura della casta in se stessa, non sono fatti contingenti, errori; ma conseguenza della necessità di provocare disgusto nelle persone e mantenerle lontane dalla gestione della cosa pubblica. Perciò vedo positivamente la presenza in politica delle persone qualsiasi (anche quelle molto distanti idealmente da me). Perché questa presenza costituisce l’unica via per impedire ai potenti, tramite i professionisti della politica, di fare e disfare a modo loro. In assenza delle masse e di molteplici organismi di controllo dal basso, la democrazia si trasforma in un semplice rito. In niente. Il che fa sì che funzioni in effetti come un’oligarchia.
Molto meno interessato sono invece all’attività politica in senso proprio. Essa è del tutto marginale nella mia vita. Ho le mie idee ma non amo agitare bandierine, né servire altre cause che non siano la mia e quella del mio vicino di casa. In effetti il periodo in cui mi sono lasciato coinvolgere è abbastanza limitato. Dal 1967 alla cosiddetta “linea dell’Eur” nel 1975, anno d’inizio di tutto il male che poi si è succeduto [1]. Ho continuato a corrente alternata per qualche altro anno e poi ho definitivamente chiuso. In quel periodo mi sono impegnato a contribuire a rendere il paese migliore di quanto fosse. C’era bisogno di dare una mano e l’ho data, come ho saputo e potuto (senza ipocrisia: credo di aver fatto bene). Ma la mia vocazione non è la politica. La mia vocazione è la letteratura, scrivere, leggere e riflettere sull’attività dello scrittore e del lettore.
GL: Che anno era quando hai avuto l’idea di Come ladro di notte?
MAM: Non ricordo bene, ma la data della concezione deve risalire al 1966. Forse prima, ma non sono sicuro. Certo è che nel 1967 il romanzo non solo era finito, ma anche battuto a macchina. Di più la memoria non mi permette di dire. A parte che dovevo essere molto arrabbiato e amareggiato quando gli ho dato inizio.
GL: Cosa intendi per “marxismo non-marxista”, il concetto che citi nella tua postfazione al romanzo?
MAM: Non è facile rispondere sinteticamente a questa domanda. Ci provo. Parto da ciò che credo sia a tutti noto, che cioè Marx è stato il primo a dichiararsi non marxista. Questo prendere le distanze non riguardava il suo stesso pensiero, che per altro, come avviene per tutti i grandi innovatori, era in costante evoluzione; riguardava le modalità di lettura (con i paraocchi dell’ideologia dominante) e, conseguentemente, le interpretazioni deviate a cui questa modalità dava luogo. Sotto la pressione del pensiero dominante, nel quale erano stati allevati, gli intellettuali invece di sviluppare le novità rintracciabili nel Capitale le riconsegnavano, pur senza rendersene conto, al passato scientista che Marx aveva appena abbandonato (non senza ripensamenti, ritorni indietro ed errori). Su questo punto le parole di Lenin sono non solo inequivocabili, ma del tutto condivisibili. Afferma Lenin che soltanto ponendosi del punto di vista del proletariato la teoria di Marx è intelligibile; e soltanto da quel punto di vista la teoria è applicabile e può vincere. È il punto di vista dell’osservatore che determina i risultati dell’esperimento (su questo punto la concordanza di Marx con la fisica quantica di là da venire è quantomeno sorprendente). Dopo la morte di Marx e Engels, la divaricazione tra il messaggio marxista e il marxismo all’opera nella società aumenta ulteriormente. A parte un riferimento ad alcune generiche parole d’ordine e frettolose formulazioni, il marxismo della Seconda Internazionale ha ben poco del messaggio originale. Esso si caratterizza per un economicismo e uno storicismo che si scontrano frontalmente con la teoria di Marx, teoria che fondamentalmente è non-economicista (Marx ha come riferimento lo studio di un tutto sociale, cioè la società nel suo insieme, non la mera base economica); con Stalin, infine, l’irrigidimento della teoria, la chiusura di ogni spazio di discussione atto a correggere questi orrori teorici, l’equivoco supplementare determinato dallo statalismo, dal dirigismo e dal sostitutismo (l’identificare la volontà delle masse con la volontà del Capo, una lezione che non sembra essere stata ben digerita: gli Stalin imperversano in questi inizi del nuovo millennio), riduce il marxismo a poco più che una giaculatoria. Ecco dunque perché definisco marxismo non-marxista quello vigente fino a pochi decenni fa. Perché non lo è, anche se ai suoi avversari fa comodo far finta che lo sia, onde poter celebrare, dopo la caduta del muro di Berlino, due funerali con una morte sola: il funerale del marxismo sovietico, fondamentalmente antimarxista; e il funerale dei marxisti di oggi che vogliono tornare a Marx per andare oltre Marx (per andare verso il Newton del marxismo che lo trarrà dalle attuali difficoltà teoriche). I quali ultimi “marxisti di oggi”, però, non hanno alcuna intenzione di lasciarsi sotterrare prima di aver detto la loro. E averla detta a voce alta.
GL: In che modo si è arrivati alla pubblicazione di Come ladro di notte? Qual è stato il ruolo di Lino Aldani?
MAM: Ruolo determinante, pari a quello svolto dai due innovatori della fantascienza italiana, Curtoni e Montanari. Devo però riconoscere a Lino Aldani uno speciale diritto di primogenitura. È infatti per sua iniziativa che si è messa in moto la macchina che ha portato alla pubblicazione di Come ladro di notte. Sedotto dal garbo con cui ero stato accolto in casa sua, nonché dalla disponibilità dimostrata, mi offrii (con quanta generosità potete immaginarlo) di portargli il mio primo romanzo per averne un parere. All’immediata risposta positiva da parte sua corrispose un immediato ottemperare da parte mia. Avuto tra le mani il dattiloscritto Aldani si prese “almeno quindici giorni per rispondere”. Io che ero abituato ai tempi biblici in uso tra i curatori delle collane (non mi sono mai spiegato il perché di tanta lentezza), non mi sembrò vero poter avere il suo parere dopo appena due settimane, massimo tre. Mi predisposi quindi all’attesa con animo più che lieto. Il giorno dopo invece la sorpresa. Aldani mi telefona per dirmi che avendo iniziato a scorrere il dattiloscritto la sera stessa, non era più stato capace di staccarsene. Riteneva di poterne decisamente caldeggiare la pubblicazione. Del resto non ho ricordi: come e in quali circostanze il dattiloscritto sia arrivato sui tavoli del duo che stava dando una stagione unica alla fantascienza italiana. Se a consegnarlo nelle mani di Curtoni abbia provveduto Aldani stesso o si sia limitato a esprimere quella valutazione positiva. Quel che ricordo è lo stupore per l’eco che la pubblicazione ebbe, un’eco tale da superare le mie più rosee aspettative.
GL: Ti riconosci ancora nelle parole scritte da Vittorio Curtoni e Gianni Montanari nell’introduzione alla prima edizione su “Galassia”, nel 1972?
MAM: Non solo mi ci riconosco, ma affermo anche che non si poteva dire di più e meglio (del romanzo) con meno parole.
GL: Nell’edizione successivamente approntata dalla rivista “Pulp” (1984) ci sono differenze testuali?
MAM: Nessuna differenza. Non mi è mai stato concesso (forse per fortuna, altrimenti l’avrei stravolto) di metterci sopra effettivamente le mani.
GL: Chi è per te Zanzotto e fino a che punto ti riconosci in lui?
MAM: Zanzotto è sostanza mia di vita allargata, metafora di un Miglieruolo aumentato, simbolo di quel che vorrei essere e, ahimé, non sono. Non ho infatti il suo coraggio, la sua forza interiore, la sua fedeltà a se stesso. Da me ha avuto solo una certa ostinazione, una certa occasionale cupezza e la difficoltà a mantenere buone relazioni anche con coloro con cui vorrebbe averle. Zanzotto fondamentalmente è un isolato, vittima della sua stessa rassegnata disperazione. Non ha amici. Ha collaboratori fedeli all’idea, alla causa, non a lui. Li avesse avuti il suo destino sarebbe stato molto diverso.
GL: Condividi il pessimismo di tanti su questi primi anni del XXI secolo? Era meglio il futuro che immaginavamo di quello che è arrivato?
MAM: Gli scrittori di fantascienza, con tutta la loro (nostra) audacia immaginativa, sono stati vittima dell’ottimistico punto di vista sulle sorti dell’umanità che domina il pensiero di un certo tipo di intellettuale televisivo. Le utopie negative di cui tanto abbiamo letto o erano di maniera, o, nella loro essenza, costituivano una sorta di esorcismo. La stessa fantascienza sociologica ha visto ben poco, di là dall’ovvio, di quel che il domani, diventato ormai oggi, ci riservava. Questo non vale per tutti certamente, ma descrive bene la tendenza di fondo. Oggi che l’indomani ci è addosso con tutto il suo carico di disdetta, possiamo affermare tranquillamente che è al peggio che siamo arrivati. Ho letto proprio in questi giorni, mi sembra su Repubblica, che il ministro Tremonti annunciava con sollievo (immaginatevi il mio) che “abbiamo evitato l’Armaggeddon”. Il mio commento è: bene, molto bene… Ma quando è che siamo stati avvisati dell’incombente pericolo? Una Apocalisse si approssima e nessuno ci dice niente se non quando questa è passata oltre (se pure è vero che sia passata!). Per rispondere alla domanda, non ho allora altra possibilità che formularne una a mia volta: c’è nulla di peggio di questo sfiorare il pericolo senza che neppure lo si sappia? No, non c’è. Questo è il massimo. Il massimo della sfiducia in noi, il massimo della manipolazione, il massimo dell’impotenza nascosta nelle vesti della potenza.
GL: Quale credi debba essere l’obbiettivo, in pieni anni Duemila, di una buona fantascienza italiana?
MAM: Compito degli autori in questi anni di rapidi cambiamenti è fornire risposte agli interrogativi che milioni di esseri umani, dopo il lungo sonno del Reaganismo, iniziano nuovamente a porsi. Che ne sarà del nostro domani? Quali sorprese, quali meraviglie e quali orrori è in grado di riservarci? Si tratta di risposte che soltanto uno scrittore di fantascienza è in grado di fornire, perché sa come fornirle, appropriate e giuste; ed è anche l’unico a volerle fornire. Come mai escludo chiunque non sia uno scrittore di fantascienza, o uno che ne faccia proprie le modalità? A causa delle gabbie ideologiche, le stesse di cui sono prigionieri i tuttologi che imperversano sugli schermi televisivi. Viceversa, l’andare oltre è proprio al nostro mestiere, al nostro DNA intellettuale, la forza che ci sostiene e che nelle avversità letterarie ci permette di sopravvivere. Le risposte che la gente cerca le forniremo noi con la fantascienza, perché nessun altro vorrà darle. Gli altri si accomoderanno nel tran tran di sempre, nelle risposte ben collaudate e gradite a Sua Maestà il Dio Trino e Quattrino.
Si tratta in fondo della medesima operazione spontaneamente avviata negli anni Venti e Trenta da quegli straordinari creatori di futuro che sono stati gli scrittori di fantascienza americani. Sono stati capaci di scavare nella realtà il tanto necessario a estrarre il minerale prezioso delle infinite possibilità che essa nascondeva. Lavorando questo materiale con la fantasia hanno ottenuto, pur senza proporselo, di avere un peso considerevole nello sviluppo dei costumi, e un poco anche nei medesimi avvenimenti. Analoga operazione siamo chiamati a compiere noi oggi, con quel grado in più di consapevolezza atto a renderci diversi eppure, nelle mutate condizioni, altrettanto efficaci. Accenno ad alcune possibili tematiche: i meccanismi di oppressione ideologica e oppressione materiale; i pericoli insiti nella propensione a mettere uno solo al posto di comando (ve l’immaginate un Hitler a cui basta pigiare un tasto per scatenare un Olocausto?); la crescente disumanizzazione nelle relazioni umane; la manipolazione dell’informazione; la guerra quale mezzo ordinario per risolvere le controversie internazionali; le irrazionalità del sistema economico; la giustizia; l’accumulazione, in una società sempre più ricca, di enormi risorse a un polo e di inaudite miserie all’altro polo. Se sapremo farlo, trasfigurando tutto questo materiale con l’aiuto della fantasia, è sicuro che avremo un ruolo negli avvenimenti che si approssimano. Altrimenti resteremo testimoni inascoltati, travolti anche noi, come tutti, da questa resistibilissima discesa verso la ricerca del capro espiatorio, di colui al quale far pagare tutto il fiele che ci fanno bere, del debole da linciare. Nella direzione indicata intendo muovermi. Spero di poterlo fare in numerosa e gradita compagnia.
GL: Torniamo a Come ladro di notte. In che modo sei arrivato alla scelta di uno stile così immaginativo e, al tempo stesso, “sintetico”, in cui praticamente manca il punto di vista onnisciente dell’autore?MAM: Una domanda questa molto impegnativa che mi costringe, per la prima volta, a riflettere sulla mia personale “poetica”. Dubito che riuscirò, considerato il poco tempo a disposizione, a risponderti con la dovuta semplicità e completezza. Comunque ci provo. Anzitutto non si è trattato di una scelta, non almeno della scelta dello scrittore, ma del lento e inesorabile imporsi delle esigenze di lettore. Mi spiego. Essendo per necessità il principale utente di ciò che scrivo, è giocoforza che il me stesso lettore eserciti una notevole, a volte ipercritica, autorità sullo scrittore. Il mio modo di lavorare è infatti del tutto legato all’atteggiamento di un qualsiasi appassionato nel momento in cui si accinge ad aprire un libro. Di quel libro sa poco, a volte niente; ma quel poco e quel niente (un nome illustre, una copertina allettante, la pura e semplice appartenenza a un genere) sono bastati a farglielo acquistare e ora bastano a indurlo a leggere. Egli non sa dove le pagine che va sfogliando lo condurranno. Spera che lo conducano a un approdo positivo, divertente, gradevole; vorrebbe magari trarne un qualche insegnamento, forse arricchirsi con nuovi punti di vista, una nuova visione del mondo.
Nello stesso identico modo io tendo a scrivere. Se mi guardo mentre scrivo, osservo che quasi mai lo faccio in presenza di un punto di approdo, ma non posso fare altro che narrare come viene (una specie di fluire di ricordi futuri che si affacciano al presente). Non posso nemmeno sapere più di quel che sa il lettore, il quale scopre quel che il racconto è mentre lo legge, a differenza di me che lo scopro mentre scrivo. Cosicché all’Io scrittore non spetta altro che far sì che ciò che scrive sia divertente, leggibile, ben detto; che sia l’essenziale di quel che c’è da dire, guardandosi dal tradire la promessa iniziale di leggerezza, di levità. Insomma, ho un sorvegliante interno che un po’ mi aiuta e un po’ mi castiga. Dalla fantascienza ho preso il gusto e forse la sostanza dell’immaginativo cui accenni; e sempre dalla fantascienza quel “pensare grande” , cioè l’articolare le vicende umane all’interno di una visione storica degli avvenimenti (visione che, purtroppo, raramente diventa “pensare epico”) la quale mi sembra una sua caratteristica saliente. Questo modo di concepire le cose è alla base del titanismo che informa Come ladro di notte, e noto di sfuggita che è tale caratteristica a permettere alla narrativa di anticipazione di accedere a un alto livello di significatività, spesso negato alla restante letteratura. L’andare al sodo, la “sinteticità” che noti è presa invece da alcuni autori classici, dai quali è pure arrivata la spinta a caratterizzare il più possibile la pagina.
Per offrire un sommario punto di riferimento degli autori che mi hanno influenzato (diciamo meglio: che mi hanno suggerito il come si scrive) mi limiterò a citarne due: Sheckley per quanto attiene alla fantascienza, Bukowski per quanto attiene alla restante letteratura. Da Sheckley ha ricevuto la leggerezza nell’intonazione, nonché un certo distacco dalla vicenda narrata, che poi consiste in un non prendersi troppo sul serio; da Bukowski, la cui fama negli ultimi anni si è alquanto appannata, la capacità di (o almeno l’aspirazione a) rappresentare un insieme di personaggi e situazioni, nonché l’ambiente in cui l’azione si volge, con pochissime battute, quasi senza descrizioni e comunque nel breve di una sola pagina. Approfitto di questa domanda per ricordare che lo scrittore non può tutto quello che vuole ma, autolimitato come Dio, solo ciò che le creature che ha messo nero su bianco vogliono. Ciò che la storia medesima vuole. Il racconto è un processo in atto, cioè qualcosa che prende forma e si determina mentre procede; e che mal tollera l’intervento del demiurgo che sa o finge di sapere. Ogni intervento del genere costituisce un’alterazione del racconto, un ritorno al di qua della pagina, la sospensione della credibilità, l’interruzione del sogno. Occorre, in questo caso, una grande maestria (che non possiedo) per mantenere inalterato il fascino della lettura. Se posso, cerco di sottrarmi a tale difficoltà. Una volta che la storia ha acquisito uno determinata forma, mi occorre rispettarla, altrimenti finisco in un vicolo cieco.
GL: Vuoi accennare qualcosa sulla dottrina del romanzo, “l’ideale” propugnato dalla Congrega degli Inumani?
MAM: A mio parere il fascino di Come ladro di notte sta anche, se non prima di tutto, nella ideologia che lo informa. Non per la qualità dell’ideologia, che vale quanto qualsiasi altra, ma per il ruolo che è chiamata a svolgere e per il suo funzionamento. Non si tratta, come troppo spesso avviene, dell’intrusione nel romanzo delle personali convinzioni dell’autore, cioè di sovrapposizioni morali o di residui di visioni del mondo astratte, ma di una ideologia organica al romanzo medesimo, della sua pietra angolare. Si tratta inoltre di una ideologia vera, sincera, attiva e viva, coerente nelle sue incoerenze, come sono spesso (sarei tentato di affermare: sempre) le ideologie in ogni circostanza in cui si manifestino. Come esempio di coerenza nell’incoerenza porto quello di Zanzotto, affiliato fedelissimo agli ideali della Congrega. Zanzotto è convinto che l’uomo sia un coacervo di crudeltà, ambizioni, opportunismi, avidità, tradimenti e, di conseguenza, meritevole di essere annientato. Ma non è egli stesso la testimonianza dell’opposto, cioè dell’esistenza di uomini giusti che giustificano l’intera razza della quale fanno parte? Zanzotto è tale che contraddice con il suo essere e le sue battaglie proprio quello in cui crede. Non diversamente da quanto accade all’uomo della strada e alle sue perpetue lamentazioni sulla mediocrità dei politici che puntualmente, votazione dopo votazione, contribuisce a eleggere.
Vediamo ancora. Tipico dell’ideologia è di seminare nella realtà, con le sue pratiche, gli elementi che poi la comproveranno. Sono le pratiche di discriminazione sociale a fondare o accentuare le differenze che ne giustificano la prosecuzione. È la pratica di annientare gli uomini dotati di un’etica (come Elio) che eliminerà i “buoni” dal panorama del mondo: ma in questa maniera emergerà un universo di “cattivi” che giustificheranno gli scopi della Congrega. Occorre aggiungere che un’ideologia come quella della Congrega, del tutto simile alle ideologie che hanno informato il XX secolo, è interna a una visione del mondo determinista, pre-quantistica e direi persino pre-marxiana. Essa implica una concezione unidimensionale dell’umanità (l’uomo egoista, l’uomo consumatore, la cattiveria umana ecc. ecc.) dentro la quale siamo ancora immersi; e una concezione della storia unidirezionale, che cioè non contempla esiti aperti, variabili, stocastici ma che possiamo tranquillamente definire fondamentalista. Questa concezione si articola in un’ampia gamma di posizioni ai cui estremi vi è da una parte quella trionfalistica propria ai cantori del liberismo; e dall’altra una mistica nichilista all’interno della quale è possibile collocare l’ideologia degli affiliati nel romanzo. Per ultimo accennerò che quella della Congrega, in quanto ideologia, è mero strumento di potere, destinata perciò stesso alla corruzione, senza però che venga riconosciuta come tale (il che impedisce che il processo degenerativo possa essere combattuto efficacemente); al contrario, viene definita e vissuta come un necessario “adattamento ai tempi”. Le pratiche di potere, infatti, fin dall’inizio disattivano qualsiasi anticorpo in grado di ostacolare il proprio dispiegamento o di impedirne l’esercizio. Che si tratti di pratiche di potere lo si evince sia dalle modalità con cui funzionano all’interno (conformismo, disciplina militare, repressione del dissenso [Brunico], assenza di vero dibattito ecc.); sia nei rapporti con il mondo esterno, necessariamente descritto come il male assoluto. Senza tale proiezione dell’immaginario primitivo, gli anticorpi potrebbero riattivarsi e mettere in pericolo la sacra struttura che divide gli uomini nelle opposte categorie di coloro che comandano e coloro che obbediscono, cioè il popolo sovrano.
Un’ultima osservazione sul carattere contraddittorio e proprio per questo funzionale dell’ideologia congregazionista: nessun affiliato, neppure Zanzotto, arriva a chiedersi chi, una volta devastata la galassia, provvederà a devastare la Congrega (l’ideologia non pensa: realizza se stessa). Come sarà possibile, specie dopo aver conseguito la grande vittoria, persuadere gli affiliati a sacrificarsi all’idea originale? Loro, i “buoni” della situazione… Nel momento dell’euforia, dei secolari obiettivi acquisiti, dovrebbero autodistruggersi, potendo invece dar luogo a un Nuovo Mondo, a un Uomo Nuovo da collocare nell’universo innocente? Anche in quest’ultimo particolare vedo me stesso in Zanzotto. L’ingenuità sua, la scarsa conoscenza dei reali meccanismi che presiedono la formazione della realtà, la complessità del mondo. Ma da allora, da quando il personaggio è stato concepito, molta acqua è passata sotto i ponti. E di molta ideologia, molta presunzione e innocenza, mi sono liberato!
Roma, aprile 2009.
(a cura di G.L.)
[1] L’autore si riferisce qui a un una revisione del meccanismo della scala mobile – il punto unico di contingenza – che entrò gradualmente in vigore nel 1977 dopo essere stato conquistato dal sindacato due anni prima. In questo modo i salari reali sarebbero stati difesi dall’inflazione, che allora cresceva intorno al 20% su base annua. Le attese sindacali, tuttavia, vennero sostanzialmente deluse perché nessuno degli esecutivi che si formarono in quel periodo realizzò le trasformazioni di fondo chieste dalla classe lavoratrice. Si può dire quindi che la “svolta dell’Eur” non ebbe il seguito sperato (N.d.R.).