Urania Collezione 80: Quando le radici

settembre 2nd, 2009

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Nell’anno in cui Lino Aldani ci ha lasciati, “Urania Collezione” ripropone ai lettori quello che è considerato il suo capolavoro. Un romanzo di forte impegno, la testimonianza migliore della grandezza di questo autore.

Uscito nel 1977, Quando le radici è il primo e forse più innovativo romanzo di Aldani. E’ la storia di Arno, l’uomo che incarna il futuro ma anche la memoria d’Italia, e che pensa di lasciare Roma per tornare dove ha le sue radici: oltre la riva del Po. Ma in un paese irriconoscibile, tra voragini nella terra e mostri della strada, il viaggio presenta molte insidie e Arno sente che la sua vita sta per spezzarsi. Solo alla fine dell’odissea saprà di essere diventato un altro uomo.
La riproposta di un classico nell’anno della scomparsa del suo grande autore.

Nato nel 1926 a San Cipriano Po (CV), dove è da poco scomparso, Lino Aldani è il più famoso scrittore italiano di fantascienza. Ha cominciato a scrivere racconti negli anni Cinquanta e a pubblicare nel 1960, ma solo dal 1977 si è dedicato al romanzo con Quando le radici (1977), Eclissi 2000 (1979, “Urania Collezione” n. 44), Nel segno della luna bianca (ovvero Febbre di luna, 1980, in collaborazione con Daniela Piegai), La croce di ghiaccio (1989). Il suo libro più recente è Themoro Korik, apparso nel 2007 presso Elara. La stessa casa editrice bolognese ha raccolto in quattro volumi l’opera completa di Aldani: La croce di ghiaccio, Ontalgie, Aria di Roma andalusa e Febbre di Luna. Va inoltre ricordata la raccolta Millennium (2001), scritta a quattro mani con Ugo Malaguti.

[Visualizza la quarta di copertina.]

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Mauro Antonio Miglieruolo

giugno 18th, 2009

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Giuseppe Lippi traccia un dettagliato profilo dell’autore italiano di questo mese: Mauro Antonio Miglieruolo.

“Se il padrone sapesse in quale ora della notte viene il ladro…” (Vangelo secondo Matteo, 24, 43)

“Voi stessi infatti sapete benissimo che il giorno del Signore verrà come ladro di notte” (Prima lettera ai tessalonicesi, 5, 2)

“Il futuro viene come un ladro nella notte” (Quarta di copertina, Il dio del 36° piano)

Quando si parla della fantascienza italiana, di solito, lo si fa con un misto di fierezza e timore, di orgoglio e paura della concorrenza, ovviamente quella straniera. E si finisce, il più delle volte, per fare di tutt’erba un fascio. Sarebbe il caso, invece, di parlare meno del genere e più spesso di autori, i singoli scrittori che l’hanno arricchita e che non hanno nulla da invidiare ai più famosi colleghi anglofoni o europei. E’ con questo spirito che abbiamo cominciato a pubblicarli in “Urania collezione”: Mauro Antonio Miglieruolo è il quarto dei classici italiani che ripresentiamo qui, dopo Lino Aldani, Roberta Rambelli e Sandro Sandrelli. Altri seguiranno, ci auguriamo, per documentare il percorso della buona e ottima fantascienza scritta in Italia, ma nel caso di Miglieruolo un chiarimento è necessario: questa terza edizione di Come ladro di notte (concepito nel 1966; pubblicato nel 1972 e riproposto nel 1984) non nasce esclusivamente da intenti storici e tantomeno celebrativi. Benché esca in una collana di classici, il romanzo è così originale da fare l’effetto di un testo nuovo e fresco di concezione. Non è così per l’autore, beninteso, il quale sostiene che molta acqua è passata sotto i ponti e che lui stesso non è più l’uomo di allora; ma per il lettore, soprattutto per chi abbia il piacere di affrontarlo la prima volta, ha l’effetto di una scoperta liberatrice. Di un insegnamento, aggiungiamo a costo di sembrare pedanti, ai molti che ancora oggi vanno cercando una “via” nazionale alla fantascienza.

Questa via Miglieruolo l’aveva già trovata allora, grazie ad alcuni elementi classici del genere (gli “stati e imperi” tra le stelle) uniti a un’analisi impietosa del potere politico e, soprattutto, a un geniale collegamento con il mito. Ma neanche questo esaurisce la carica vitale del romanzo, perché a sua volta il mito cristiano della parusìa, il secondo avvento di Cristo e la fine dei giorni, è abilmente giocato in maniera ironica. Non soltanto ironica, ci affrettiamo ad aggiungere, ma una delle caratteristiche essenziali del libro è la sua leggerezza, l’assoluta mancanza di prosopopea. Che in duecentocinquanta pagine si possa descrivere la preparazione e attuazione dell’Armageddon, completa di cause, concause, istruzioni per l’uso e tribolazioni di una folla di personaggi-chiave, è la dimostrazione che Miglieruolo vanta un’immaginazione di prim’ordine, l’ingrediente base di tutta la fantascienza. In virtù della quale ci offre una sorta di Stranamore cosmico, un’odissea che ha la forza dei più originali racconti di pensiero, perché non può darsi romanzo o narrazione veramente viva senza una robusta impalcatura ideale.

In Miglieruolo l’impalcatura è tanto matura da risultare in una sintesi mitica dove il potere delle immagini e del linguaggio delineano un quadro lucido, e allo stesso tempo visionario, delle forze in gioco dentro e fuori di noi. Le due principali nemiche sullo scacchiere di Come ladro di notte sono la voluttà ― principio onesto del mondo ― e l’ipocrisia, grande forza imbrigliatrice delle energie. Lo scontro si svolge a questi livelli e adopera, come pedine, i classici oggetti della fantascienza barocca: astronavi a milioni e pianeti colossali, velocità fantastiche e pugni di stelle, moltiplicandone il gigantismo e l’indole eccessiva senza che questo turbi minimamente l’ossatura ideale e il piacere ludico dell’insieme. Ed eccone le premesse narrative (attenzione, perché contiene spoiler!). In un futuro molto lontano e che forse potremmo collocare intorno al LXX secolo, l’umanità si è diffusa nell’universo, popolandolo di repubbliche, regni e satrapie che vivono all’insegna dell’odio reciproco, dell’intrigo e dello sfruttamento. Ma il ricordo di un antico insegnamento perdura, sia pur modificato dal tempo e dai costumi: quello del Secondo avvento, la parusìa del Signore, alla quale seguirà il Giudizio Universale. Anziché derivare direttamente dalle parole di Cristo come le riferisce il Vangelo di Matteo (24, 25) o dalla loro ripresa in San Paolo (prima e seconda Lettera ai tessalonicesi), la dottrina della parusìa è ora riferita alle parole del filosofo Calogero, che con essa intende significare la fine dell’uomo, la necessità di cancellare l’intelligenza dall’universo. Solo in questo modo, infatti, potrà tornare la purezza negli elementi, fin qui turbati dalla nostra presenza. Il compito di realizzare l’immane obbiettivo, che comporta la distruzione fisica di tutti i popoli, è affidato alla Congrega degli Inumani, una potenza politica votata al culto della morte e organizzata come una sorta di clero. Fondatore dell’organizzazione è il profeta Còttero, ormai defunto anche lui; oggigiorno gli Inumani sono retti dal Discepolo Pàngolo, che di fatto ha rinunciato a perseguire lo scopo dei suoi predecessori. La parusìa è irrealizzabile, egli ritiene, mentre si possono perseguire più ordinari scopi di conquista e assoggettamento delle potenze galattiche rivali.

In questo quadro si inseriscono ― come lampi e improvvisazioni, cioè senza il tedio del romanzesco convenzionale ― le disavventure di una folla di personaggi, primo tra i quali il coordinatore Zanzotto. Gli eventi precipitano e precipitano anch’essi, donne e uomini, verso la calamità singolare. Da notare che nessun tassello della trama è superfluo, nessuna azione puramente decorativa. La tortura fa male, in questo libro; il desiderio sessuale è palpabile ed eccita anche noi; gli intrighi non ci divertono come se fossimo ragazzi che giocano al Monopoli, ma ci sorprendono nella loro brutalità. E’ probabile che Miglieruolo abbia tenuto presente lo schema di saghe preesistenti come quella di Isaac Asimov, ma è altrettanto sicuro che vi abbia iniettato una dose di verità sconosciuta a gran parte della science fiction americana e di quella italiana. Solo nelle opere dei fantasiarchi inglesi (H.G. Wells e Olaf Stapledon) si coglie una vastità nel disegno paragonabile a quella del Ladro di notte; e il tema è la sorte dell’universo umano.

Durante un’esercitazione condotta dal coordinatore Zanzotto, dunque, quest’ultimo si rende conto che non sarà possibile portare a termine il disegno del filosofo Calogero: i numeri non ci sono, le “astronavi da battaglia” necessarie a cancellare tutte le razze dalla faccia del creato dovrebbero essere infinitamente superiori alle scorte presenti e future, che pure si contano a miliardi. Conclusione, la Congrega degli Inumani deve avere altri scopi che non la semplice estinzione dell’umanità. Bruciante di fuoco iniziatico, Zanzotto (che li ignora) mette nero su bianco le sue scoperte e le affida a un rapporto esplosivo consegnato al generale Cossa, comandante dell’immensa sfera Caligola, una struttura grande quanto un pianeta. Ma Cossa è imbarazzato e consiglia Zanzotto di ritirare il suo rapporto. La satira degli ambienti e del linguaggio burocratico è splendida: Miglieruolo, che all’epoca era un “mezzemaniche” lui stesso, conosce tanto bene la lingua farisaica da farne un più che arguto calco narrativo. Burocrazia è uguale a ipocrisia per uno scopo ben chiaro: la conservazione del potere.

Nel frattempo, un attentato dinamitardo sconvolge alcuni livelli di Caligola: il responsabile è Seele, dignitario dell’Ascensione Retta. L’Ascensione è una delle numerose potenze ostili fra loro e sempre pronte a scatenare flotte per divorarsi a vicenda. Dopo aver organizzato l’attentato, Seele viene catturato e torturato; quindi i suoi aguzzini gli rivelano che sua moglie Lilla si è concessa al giudice Raffaele Senese (alias Rudy), un vizioso seduttore. Umiliato e rimandato al mondo d’origine, Seele finirà per strangolare la moglie, ma essendo Lilla figlia di Lillo, Gran conferenziere della Lega austrina, il gesto avrà per conseguenza la guerra fra Lega e Ascensione, con ripercussioni in tutta la galassia. I fermenti voluti dalla Congrega si moltiplicano: ci si avvia al conflitto finale. Vi è un’ironia, in queste vicende, che di solito la fantascienza ignora; e al tempo stesso vi è una necessità che sentiamo di non poter trascurare. Necessità dettata dagli intrighi della Congrega, ma che nasce altresì dai “moti del cuore”, come si chiamavano una volta: l’episodio di Seele, questo Otello del futuro, non è che un tassello nel mosaico, ma vibra di una violenza e un divertimento tutti propri.

La libidine repressa e il suo complementare, la libidine mercificata, costituiscono un altro tema importante del libro: Zanzotto, che in quanto affiliato alla Congrega degli Inumani è rigidamente condizionato contro le tentazioni carnali, in un momento di libertà dal controllo possiede Silvena, che ritiene in buona fede una sua dipendente. Ma la donna è una spia al soldo della Sublime Coalizione, un’ennesima potenza rivale, e oltre a tramare tresche e trappole erotiche pianifica il sabotaggio della stella Canadis, il quartier generale affiliato. Zanzotto, che ne è all’oscuro, si sente fortificato dall’incontro con Silvena e continua a servire con zelo la Congrega, partecipando a varie azioni di guerra. In particolare, darà man forte alla repressione del movimento profetico di Elio nel sistema dell’Etologia e chiederà la condanna a morte del ribelle. Elio è una figura cristologica che durante il processo passa per le mani del Pilato di turno, ma il suo vero accusatore rimane Zanzotto. E così colui che alla fine del romanzo sarà chiamato come Gesù, qui riveste i panni del persecutore. Nella dialettica della notte che si addensa, niente è ciò che sembra. Il linguaggio dell’episodio è evidentemente biblico, con l’uso di metafore e fraseggi che sono ricalcati su quelli dei vangeli.

Il problema di Zanzotto è che desidera più che mai diffondere il proprio rapporto, divulgando la verità sulla parusìa. Sospettato di sedizione cadrà in disgrazia e verrà lui stesso torturato, come Elio nell’episodio precedente. La riabilitazione gli sarà concessa, ma solo un attimo prima di perdere la ragione. Passato dal ruolo di Caifa a quello dell’accusato innocente, Zanzotto si interrogherà a lungo sul proprio ruolo, in alcune delle pagine più belle del libro. La sua disillusione è totale, l’impossibilità di inoltrare il rapporto è quanto di più frustrante. E benché, a un certo punto, uno spiraglio sembri aprirsi, quando gli viene concesso di tornare nel consesso civile non è più l’uomo di prima.

Poco dopo, un colpo di stato scuote la Congrega. Pàngolo reagisce in tempo e ribalta la situazione: la vendetta contro gli avversari sarà feroce. Intanto su Canadis, la stella centrale degli Inumani, la missione di Silvena e del suo agente arriva al culmine, ma la macchina bellica messa in moto dalla Congrega è davvero inarrestabile. Zanzotto, il cui amore per la verità lo ha reso sospetto e inviso a tutti, si vede accusare nuovamente di tradimento; tenta la fuga ma capisce che è tutto inutile, il futuro non appartiene più ai retti. Ancora una volta la voluttà dei puri sarà repressa e al posto della parusìa trionferanno interessi e sopraffazione. Mentre il coordinatore offre i polsi ai carcerieri come aveva fatto Gesù, la Congrega degli Inumani si prepara a scatenare l’attacco definitivo contro tutti gli stati della galassia, “per mangiarseli in un sol boccone”.

Da un punto di vista ideologico, questa conclusione è molto legata ai tempi in cui il romanzo fu scritto: l’ultima riga, in particolare, sembra una resa dopo tanta ironia, lucidità e combattività. Ma a ben guardare l’intera costruzione del romanzo è pessimistica e centrata intorno all’idea, per dirla alla Pavese o alla Calogero, che “la morte si sconta vivendo”. E’ anche un’idea molto cristiana, per cui la vita è ingiusta e la morte giusta, il mondo è tentazione mentre l’altro mondo riequilibra i pesi. Più volte Miglieruolo ha dichiarato che il finale del libro gli sembrò superato appena finito di scriverlo, superato dagli avvenimenti della vita e dalla sua evoluzione personale. Tuttavia, nel suo notevole fatalismo contiene qualcosa che va al di là di un finale da romanzo. Perché questo, ricordiamolo, non è soltanto un racconto ma un mito e la sua verità riverbera nel profondo, là dove ognuno di noi è prigioniero e ammanettato, soverchiato da forze schiaccianti.La ricchezza del libro è stata notata fin dalla prima edizione, anzi fin dalla prima lettura (fulminante, in una sola notte) da parte di Lino Aldani. Vittorio Curtoni e Gianni Montanari gli dedicarono una scheda memorabile che abbiamo riproposto qui; e la rivista “Pulp” pensò di ristamparlo in un anno chiave come il 1984. Da parte nostra ci sentiamo ancora di sottolineare che la forza del romanzo si deve, oltre che all’originale accumulo di materiali, alla concezione ellittica e libera dai tradizionali schematismi della narrativa a intreccio; a una sintassi rapida e allusiva; infine alla lingua, o meglio ai linguaggi letterari usati. Che sono retti da una fine alternanza di semplicità e passi altisonanti, di umiltà e toni ieratici, questi ultimi regolarmente capovolti da un’invidiabile freschezza terra-terra nel contrappunto. Una scelta stilistica a suo modo rivoluzionaria che mette alla berlina l’oppressore, inficiandone la violenza con una sintassi gentile. La provenienza dei vari modelli è evidente: linguaggio biblico e piccole parabole; lingua oscura delle profezie e gergo burocratese dei documenti; lazzi triviali e pomposa ufficialità (anche l’ufficialità letteraria, beninteso). E poi i dialoghi trasversali, provocatori e ironici.

Dire che la fantascienza italiana non avesse mai espresso qualcosa di simile non è azzardato: spesso non ci è riuscita neanche la narrativa tout-court. I pochi autori che si siano cimentati con sfondi così vasti e con un mito della nostra cultura si sono fermati, in genere, all’ABC del visionario. Miglieruolo, invece, scende nella sua materia, l’allarga e la rende necessaria. E benché oggi siamo nel 2009 e non nel 1966 o ’68, ne rimaniamo colpiti ugualmente perché il romanzo parla una spontanea lingua underground, o forse above the ground di parecchie spanne: come il suono delle trombe annuncerà il gran Giorno, così la pagina “rapisce gli uomini, portandoli nell’aria”.

E’ evidente come Mauro Antonio Miglieruolo sia un narratore del pensiero che affronta scenari immensi con l’umiltà di certi naturalisti all’alba dell’età moderna, i quali studiavano piante e animali dell’orto di casa per trarne conclusioni che richiedevano insieme rigore e immaginazione. Oggi che il savant è stato riassorbito dalla sistemistica e dall’organizzazione, non gli resta ― per guardare oltre il velo dell’ordinarietà ― che abbandonarsi a ipotesi da fantascienza. O fantafilosofia, per chi ci è portato. La cosa va sottolineata in un momento come l’attuale, in cui troppi nuovi autori di SF rinunciano al pensiero e puntano agli effetti, o subordinano il pensiero a formule d’effetto anche quelle. In Miglieruolo no, il pensiero è sbrigliato ma riconoscibile, le fonti sono varie ma agevolmente rintracciabili: siamo di fronte a uno scrittore che non si vergogna di essere un ragionatore e un uomo socialmente consapevole.

La sua avventura personale comincia in Calabria come quella di Tommaso Campanella, l’autore della più drastica utopia italiana: La città del sole. Miglieruolo nasce infatti a Grotteria, in provincia di Reggio, il 6 aprile 1942. All’anagrafe il suo cognome viene trascritto anche come “Migliaruolo”, dando origine a numerose traversie. Spiega lui stesso: “Sia la versione Miglieruolo che la versione Migliaruolo sono autentiche. Sull’estratto dell’atto di nascita risultano ambedue, insieme ad altre possibili soluzioni che leggendo tra le cancellature effettuate (e a rigore proibitissime) la fantasia può inventare. Non faccio alcun commento sul responsabile di quell’obbrobio: per anni mi ha tormentato mandando certificati ora con la ‘a’ ora con la ‘e’ (versioni che i suoi successori tra l’altro contestano), tant’è che per salvarmi dalla burocrazia andavo in giro con la carta d’identità accompagnato da una dichiarazione del comune in cui si affermava essere Miglieruolo Mauro Antonio e Migliaruolo Mauro Antonio la sola e medesima persona, il cui nome veniva però attestato ora in un modo e ora nell’altro, a capriccio dell’estensore. La trappola nella trappola.

“Per dare una soluzione al problema ho cercato di informarmi: sembra che nel comune di nascita mio padre risulti Miglieruolo, mentre al momento di sposarmi colui che ha compilato il certificato ha deciso che facevo Migliaruolo. Per non dover rimandare il matrimonio mi sono rassegnato a utilizzare il cognome Migliaruolo, con cui sono stato assunto all’INPS,  lasciando inalterato il nome di penna ‘Miglieruolo’. Tornare a Migliaruolo anche come scrittore? Si tratta di un’ipotesi affascinante. Potrei essere d’accordo. Bisognerà vedere se il segretario comunale se ne vorrà contentare…”

Problemi di grafia a parte, all’età di dieci anni Mauro Antonio si trasferisce a Roma, in tempo per veder nascere la fantascienza sui periodici specializzati: “Scienza fantastica” e “I romanzi di Urania”. Nella capitale vivrà da allora in poi, tranne una parentesi bellunese dopo aver vinto un concorso statale. Nel 1964 comincia a pubblicare racconti e nel ’66 crea il suo primo, originalissimo romanzo, Come ladro di notte che verrà pubblicato nel 1972 su “Galassia” (la stessa collezione che aveva tenuto a battesimo il suo racconto d’esordio, “Colpo di tacco”). Tra il 1967 e il 1974 si occupa attivamente di politica nelle file della nuova sinistra e poi, fino al 1980, nel  sindacato Cgil-Inps. Pubblica racconti su diverse testate (“Galassia”, “Oltre il cielo”) ed è presente nelle antologie italiane Amore a quattro dimensioni (1971) e Fanta-Italia: sedici mappe del nostro futuro (1972) con celebri racconti come “Ideale” e “Gli arpionatori”. Nel 1975 esce su “Nova sf*” n. 33 il romanzo breve “L’automazione a Detroit” e l’anno successivo, su “Robot” n. 3, il celebre racconto erotico “Circe”. Su “Nova sf* speciale” n. 1 (1976) esce un altro importante romanzo breve, “Oniricon”, mentre dopo la ripresa delle pubblicazioni di “Futuro”, la rivista diretta da Lino Aldani e ora ribattezzata “Futuro Europa”, numerosi racconti e interventi di Miglieruolo vedranno la luce qui: “Golpe 2000”, “Metamorfosi”, “Otto marzo”, “I nostri ideali”, “Libero mercato”, “Conflitto d’interesse”, “Scienza e conoscenza”, “Dio e la scienza”, “L’uccisore di robot”. Attualmente la sua narrativa è sistemata in due raccolte: Assurdo virtuale edito dalla Elara di Bologna e La bottega dell’inquietudine apparso presso le Edizioni della Vigna di Arese (Milano). Esiste un romanzo tuttora inedito cui Miglieruolo tiene in modo particolare: Memorie di massima sicurezza.

Giuseppe Lippi

[Per la bibliografia completa di Mauro Antonio Miglieruolo si rimanda al Catalogo della SF, Fantasy e Horror a cura di Ernesto Vegetti.]

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Come ladro di notte: l’introduzione all’edizione del 1972

giugno 15th, 2009

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Riportiamo l’Introduzione all’edizione 1972 del romanzo Come ladro di notte di Mauro A. Miglieruolo, a firma dei curatori di Galassia Vittorio Curtoni e Gianni Montanari.

Eccoci dunque al terzo romanzo italiano che Galassia presenta ai lettori nella sua nuova veste. Più di un anno e mezzo ci è occorso per ritrovare e accomodare (grazie in special modo a Lino Aldani) quest’opera davvero unica che da parecchio tempo languiva in un cassetto, ma ora possiamo tenerla a battesimo con legittimo orgoglio.

Come ladro di notte (non ‘nella notte’ – vedere Prima Lettera ai tessalonicesi in: Ricciotti – Le lettere di San Paolo – Coletti Editore Roma 1958 – Pag. 14 paragrafo 5 – dizione questa che l’autore preferisce alle altre traduzioni) risale come prima stesura al 1966, pur essendo stato definito l’anno seguente. Come Miglieruolo tiene a sottolineare, e come l’opera stessa rivela chiaramente, il romanzo è stato scritto in un periodo di intensa trasformazione della sua personalità politica. La maturazione definitiva e successiva a quel periodo lo avrebbe poi costretto a rinnegare il tipo di impostazione filosofica e moralisticheggiante data al romanzo, ma fortunatamente non gli avrebbe impedito di conservarlo per tutti noi.

Il carattere che più si presenta evidente alla prima lettura è la davvero enorme mole di elementi che sono stati chiamati a costruirlo: Come ladro di notte è un romanzo che oseremmo chiamare apocalittico, oltre che per la bizzarra operazione di sintesi subita dal linguaggio, per il suo coinvolgere più o meno quasi tutti gli aspetti attuali e futuri del vivere civile. Forse l’unico difetto risiede proprio in questa sua molteplicità di intenti mai portati compiutamente a termine. A questo proposito è Miglieruolo stesso a offrircene una spiegazione.

“Il romanzo” egli dice “ha il difetto inevitabile di ogni opera concepita in periodi di rapida trasformazione. È parziale e spesso superfluo, nella misura in cui accenna o imposta problemi che poi non vengono sviluppati perché hanno perso il sostegno delle forze interiori che li ispiravano, o che rimangono esterne alle esigenze dell’azione e dell’ispirazione complessiva. Vedi per esempio il tema di Elio palesemente incompiuto rispetto agli sviluppi possibili; idem per i rapporti Zanzotto-Silvana e Zanzotto-crisi-Congrega.

Ma ciò che ci spinge soprattutto a non tenere conto di questo difetto è l’incredibile (e meraviglioso) universo che prende vita dalle pagine del romanzo. Mai nulla di simile era stato in precedenza tentato da uno scrittore italiano di fantascienza. Moduli e schemi classici vengono rilevati da Miglieruolo e deformati nella sua alchimia personale della parola, immersi in un bagno misterioso da cui emergono ricoperti di una patina affascinante. L’ideale cosmico di morte che pervade ogni mossa e ogni intento della Congrega appare come il punto fermo di un’intera concezione esistenziale. E il lento germe della corruzione si infiltra silenzioso in questo immenso apparato, mentre tutt’intorno si agitano le patetiche figure che intendono arrestarne o aiutarne la corsa maledetta.

Un grandioso affresco dipinto dagli uomini e da questi incrinato e condotto alla rovina. Una morale, forse? Oppure un atto di accusa?

Vittorio Curtoni e Gianni Montanari

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Intervista con Mauro Antonio Miglieruolo

giugno 15th, 2009

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Una conversazione del curatore Giuseppe Lippi con l’autore italiano a cui è dedicato l’Urania Collezione di questo mese.

GIUSEPPE LIPPI: Quando hai cominciato a interessarti di fantascienza? E prima, qual è stata la tua formazione culturale?

MAURO ANTONIO MIGLIERUOLO: Ho deciso che sarei stato lettore di fantascienza molto prima di cominciare a leggerla. È una cosa che mi è nata dentro, un virus extraterrestre presente nell’aria e che probabilmente ho respirato senza accorgermene nelle rare occasioni in cui abbandonavo il mio involontario reclusorio di pre-adolescente in quel di Roma, via Lavinio 20. All’epoca abitavo da certi miei vecchi prozii, preoccupatissimi delle responsabilità che la custodia comportava e che a stento mi concedevano di mettere il naso fuori casa; naso che a me, abituato alla libertà totale di un bambino del profondo sud, neppure andava tanto di mettere fuori, avvilito com’ero dall’ininterrotta distesa di asfalto e cemento con cui mi toccava avere a che fare. La fantascienza rappresentò allora forse l’unica accettabile via di fuga, o di ritorno al contatto con la natura. La natura aliena dei mille mondi e relative mille avventure, in sostituzione di valli, montagne, boschetti, caverne, rovine e fiumare che non mi era più concesso di affrontare direttamente.
Poi un giorno ebbi in tasca il danaro sufficiente per effettuare il mio primo acquisto e decisi che fosse un libro, un fascicolo di “Urania” per l’esattezza: Cittadino dello spazio. Lo comprai all’edicola di via Cerveteri, adiacente via Lavinio (l’edicola, come ho potuto verificare recentemente, è ancora attiva nello stesso cantone che ricordo). Rimasi alquanto deluso dalla lettura del romanzo. Mi aspettavo molto di più di quel che vi trovai. Molto più senso del meraviglioso, molta più invenzione, molta più sospensione dell’incredulità e allontanamento dalla realtà. Poco dopo trovai questo e altro su un carrettino di quelli che pullulavano all’epoca, vicino al cinema Appio. Il carrettino esibiva una gran messe di fascicoli di fantascienza che potevo acquistare (favoloso) a metà del prezzo di copertina. Me ne ingozzai. Da quel momento il mio unico pensiero fu di risparmiare su tutto per mettere da parte l’occorrente per poterne acquistare altri. Mi sobbarcai persino l’onere di farmi a piedi il percorso scuola-casa (all’andata no, non potevo permettermi di far tardi e  non era neppure conveniente: il costo del biglietto infatti, anch’esso dimezzato prima delle otto, era di appena dieci lire). Ogni percorso all’uscita da scuola, invece, mi fruttava un risparmio di ben venti lire. Messe insieme, corrispondevano al valore di un paio di “Urania” alla settimana. In questo modo, dunque, potei scoprire la gloria dei famosi primi cento numeri dei “Romanzi di Urania”, nonché i favolosi quattordici di “Urania” rivista. Scoprii il significato della parola felicità, una felicità nella quale mi inoltravo solo una volta alla settimana, ma che riverberava su tutto il resto.
Dal punto di vista culturale occorre si sappia che sono un perfetto autodidatta, avendomi la scuola fornito di una base assolutamente mediocre, non idonea ad affrontare quel che poi sarebbe diventata la mia passione: scrivere racconti. Mi sono formato infatti, come scrittore ma anche come lettore, principalmente sui fascicoli di “Urania”, “Scienza fantastica” e “Oltre il cielo”, moltiplicando le riletture e fantasticando ― dopo aver constatato l’inevitabile rarefarsi dei “capolavori” ― sulla possibilità di scriverne autonomamente. Fortuna ha voluto che frequentassi un altro lettore accanito come me, che divenne destinatario dei miei primi tentativi: un mio conterraneo, tale Franco Adinolfi, dal quale il tempo mi ha separato. È anche per merito suo e dei suoi incoraggiamenti che mi sono ostinato nel perseguire l’ambizioso obiettivo di misurarmi con i grandi della fantascienza (del risultato non dico; dico della spinta che mi portò all’azione…).
I contatti con la grande letteratura vennero molto più tardi, tramite l’assidua frequentazione delle biblioteche pubbliche. Più tardi ancora, quando nel 1963 iniziai l’attività lavorativa e potei disporre di un reddito personale, passando dalle biblioteche alle librerie, i contatti con la cultura contemporanea si intensificarono attraverso il massiccio acquisto di ogni sorta di libro, dei quali riempii in breve la mia vita. Scienza e filosofia, più che la stessa letteratura, divennero gli obiettivi preferiti. Joyce, ad esempio, lo conobbi molto tardi e per esclusivo merito di Lino Aldani che mi fornì il testo e mi sollecitò a leggerlo (Ulisse). In un tempo successivo, dopo i soliti grandi di ogni tempo, a partire dai russi (Dostoevskj, Solgenitsin, Puskin, Tolstoi in testa), incontrai Svevo, Gadda, Marotta, Fenoglio, Levi, Maraini ecc., cioè i grandi della pur grande letteratura italiana. Incontro che mi confortò e sostenne in un certa misura le mie pretese di competere con gli scrittori d’oltreoceano, cosa che allora mi sembrava impresa folle, degna di essere perseguita in ragione proprio della sua follia.
Oggi, al contrario, considererei una diminuzione essere paragonato a uno dei fortunati che ne hanno ricevuto l’eredità; almeno a me, e non credo di essere il solo, la fantascienza americana attuale ha ben poco da dire. Numerosi sono anche gli apporti scientifici, prevalentemente divulgativi, che hanno turato le falle della diseducazione scolastica: Gould, Kamin, Lewontin, Hawking ecc.; nonché quelli filosofici (decisivi) dovuti all’ingegno di  Balibar, Lecourt, Althusser, Bettelheim, Lukacs, Havemann, Turchetto, Preve, un’infinita serie di autori. Sono proprio loro ad avermi trasmesso la ricchezza ideologica che mi ha permesso di tornare alla fantascienza con un bagaglio di conoscenze sufficiente ad alimentare la mia ambizione di innovare in un campo in cui l’innovazione è all’ordine del giorno.

GL: Gli interessi sociali e politici sono stati sempre importanti nella tua vita?

MAM: In quanto generico membro della comunità degli italiani sì, certo, lo sono sempre stati. Anche prima che maturassi l’attuale orientamento politico: infatti quando, senza tentare di nascondermi troppo, avrei potuto tranquillamente passare per un democristano di destra, ero mosso da molti dei valori di oggi. La parola solidarietà aveva un senso per me. Così come l’istintiva rivolta contro la sopraffazione, il pregiudizio, la discriminazione, il raggiro, l’abuso del debole e la violenza. Ritengo che questi valori, oggi in pieno declino, dovrebbero far parte di qualsiasi individuo, di destra, centro o sinistra. E che anzi la qualifica di cittadino sia effettivamente meritata quando questi valori costituiscano l’asse della personalità. Il problema è che l’attuale democrazia può funzionare soltanto in presenza di una relativa passività (e disinteresse per la politica) da parte delle masse. Anzi questa è voluta, provocata. Lo stupidario politico, il linguaggio ermetico, il dire detto in modo da sembrare tutt’altro da ciò a cui le parole oscuramente alludono, l’ipocrisia, la disonestà, la chiusura della casta in se stessa, non sono fatti contingenti, errori; ma conseguenza della necessità di provocare disgusto nelle persone e mantenerle lontane dalla gestione della cosa pubblica. Perciò vedo positivamente la presenza in politica delle persone qualsiasi (anche quelle molto distanti idealmente da me). Perché questa presenza costituisce l’unica via per impedire ai potenti, tramite i professionisti della politica, di fare e disfare a modo loro. In assenza delle masse e di molteplici organismi di controllo dal basso, la democrazia si trasforma in un semplice rito. In niente. Il che fa sì che funzioni in effetti come un’oligarchia.
Molto meno interessato sono invece all’attività politica in senso proprio. Essa è del tutto marginale nella mia vita. Ho le mie idee ma non amo agitare bandierine, né servire altre cause che non siano la mia e quella del mio vicino di casa. In effetti il periodo in cui mi sono lasciato coinvolgere è abbastanza limitato. Dal 1967 alla cosiddetta “linea dell’Eur” nel 1975, anno d’inizio di tutto il male che poi si è succeduto [1]. Ho continuato a corrente alternata per qualche altro anno e poi ho definitivamente chiuso. In quel periodo mi sono impegnato a contribuire a rendere il paese migliore di quanto fosse. C’era bisogno di dare una mano e l’ho data, come ho saputo e potuto (senza ipocrisia: credo di aver fatto bene). Ma la mia vocazione non è la politica. La mia vocazione è la letteratura, scrivere, leggere e riflettere sull’attività dello scrittore e del lettore.

GL: Che anno era quando hai avuto l’idea di Come ladro di notte?

MAM: Non ricordo bene, ma la data della concezione deve risalire al 1966. Forse prima, ma non sono sicuro. Certo è che nel 1967 il romanzo non solo era finito, ma anche battuto a macchina. Di più la memoria non mi permette di dire. A parte che dovevo essere molto arrabbiato e amareggiato quando gli ho dato inizio.

GL: Cosa intendi per “marxismo non-marxista”, il concetto che citi nella tua postfazione al romanzo?

MAM: Non è facile rispondere sinteticamente a questa domanda. Ci provo. Parto da ciò che credo sia a tutti noto, che cioè Marx è stato il primo a dichiararsi non marxista. Questo prendere le distanze non riguardava il suo stesso pensiero, che per altro, come avviene per tutti i grandi innovatori, era in costante evoluzione; riguardava le modalità di lettura (con i paraocchi dell’ideologia dominante) e, conseguentemente, le interpretazioni deviate a cui questa modalità dava luogo. Sotto la pressione del pensiero dominante, nel quale erano stati allevati, gli intellettuali invece di sviluppare le novità rintracciabili nel Capitale le riconsegnavano, pur senza rendersene conto, al passato scientista che Marx aveva appena abbandonato (non senza ripensamenti, ritorni indietro ed errori). Su questo punto le parole di Lenin sono non solo inequivocabili, ma del tutto condivisibili. Afferma Lenin che soltanto ponendosi del punto di vista del proletariato la teoria di Marx è intelligibile; e soltanto da quel punto di vista la teoria è applicabile e può vincere. È il punto di vista dell’osservatore che determina i risultati dell’esperimento (su questo punto la concordanza di Marx con la fisica quantica di là da venire è quantomeno sorprendente). Dopo la morte di Marx e Engels, la divaricazione tra il messaggio marxista e il marxismo all’opera nella società aumenta ulteriormente. A parte un riferimento ad alcune generiche parole d’ordine e frettolose formulazioni, il marxismo della Seconda Internazionale ha ben poco del messaggio originale. Esso si caratterizza per un economicismo e uno storicismo che si scontrano frontalmente con la teoria di Marx, teoria che fondamentalmente è non-economicista (Marx ha come riferimento lo studio di un tutto sociale, cioè la società nel suo insieme, non la mera base economica); con Stalin, infine, l’irrigidimento della teoria, la chiusura di ogni spazio di discussione atto a correggere questi orrori teorici, l’equivoco supplementare determinato dallo statalismo, dal dirigismo e dal sostitutismo (l’identificare la volontà delle masse con la volontà del Capo, una lezione che non sembra essere stata ben digerita: gli Stalin imperversano in questi inizi del nuovo millennio), riduce il marxismo a poco più che una giaculatoria. Ecco dunque perché definisco marxismo non-marxista quello vigente fino a pochi decenni fa. Perché non lo è, anche se ai suoi avversari fa comodo far finta che lo sia, onde poter celebrare, dopo la caduta del muro di Berlino, due funerali con una morte sola: il funerale del marxismo sovietico, fondamentalmente antimarxista; e il funerale dei marxisti di oggi che vogliono tornare a Marx per andare oltre Marx (per andare verso il Newton del marxismo che lo trarrà dalle attuali difficoltà teoriche). I quali ultimi “marxisti di oggi”, però, non hanno alcuna intenzione di lasciarsi sotterrare prima di aver detto la loro. E averla detta a voce alta.

GL: In che modo si è arrivati alla pubblicazione di Come ladro di notte? Qual è stato il ruolo di Lino Aldani?

MAM: Ruolo determinante, pari a quello svolto dai due innovatori della fantascienza italiana, Curtoni e Montanari. Devo però riconoscere a Lino Aldani uno speciale diritto di primogenitura. È infatti per sua iniziativa che si è messa in moto la macchina che ha portato alla pubblicazione di Come ladro di notte. Sedotto dal garbo con cui ero stato accolto in casa sua, nonché dalla disponibilità dimostrata, mi offrii (con quanta generosità potete immaginarlo) di portargli il mio primo romanzo per averne un parere. All’immediata risposta positiva da parte sua corrispose un immediato ottemperare da parte mia. Avuto tra le mani il dattiloscritto Aldani si prese “almeno quindici giorni per rispondere”. Io che ero abituato ai tempi biblici in uso tra i curatori delle collane (non mi sono mai spiegato il perché di tanta lentezza), non mi sembrò vero poter avere il suo parere dopo appena due settimane, massimo tre. Mi predisposi quindi all’attesa con animo più che lieto. Il giorno dopo invece la sorpresa. Aldani mi telefona per dirmi che avendo iniziato a scorrere il dattiloscritto la sera stessa, non era più stato capace di staccarsene. Riteneva di poterne decisamente caldeggiare la pubblicazione. Del resto non ho ricordi: come e in quali circostanze il dattiloscritto sia arrivato sui tavoli del duo che stava dando una stagione unica alla fantascienza italiana. Se a consegnarlo nelle mani di Curtoni abbia provveduto Aldani stesso o si sia limitato a esprimere quella valutazione positiva. Quel che ricordo è lo stupore per l’eco che la pubblicazione ebbe, un’eco tale da superare le mie più rosee aspettative.

GL: Ti riconosci ancora nelle parole scritte da Vittorio Curtoni e Gianni Montanari nell’introduzione alla prima edizione su “Galassia”, nel 1972?

MAM: Non solo mi ci riconosco, ma affermo anche che non si poteva dire di più e meglio (del romanzo) con meno parole.

GL: Nell’edizione successivamente approntata dalla rivista “Pulp” (1984) ci sono differenze testuali?

MAM: Nessuna differenza. Non mi è mai stato concesso (forse per fortuna, altrimenti l’avrei stravolto) di metterci sopra effettivamente le mani.

GL: Chi è per te Zanzotto e fino a che punto ti riconosci in lui?

MAM: Zanzotto è sostanza mia di vita allargata, metafora di un Miglieruolo aumentato, simbolo di quel che vorrei essere e, ahimé, non sono. Non ho infatti il suo coraggio, la sua forza interiore, la sua fedeltà a se stesso. Da me ha avuto solo una certa ostinazione, una certa occasionale cupezza e la difficoltà a mantenere buone relazioni anche con coloro con cui vorrebbe averle. Zanzotto fondamentalmente è un isolato, vittima della sua stessa rassegnata disperazione. Non ha amici. Ha collaboratori fedeli all’idea, alla causa, non a lui. Li avesse avuti il suo destino sarebbe stato molto diverso.

GL: Condividi il pessimismo di tanti su questi primi anni del XXI secolo? Era meglio il futuro che immaginavamo di quello che è arrivato?

MAM: Gli scrittori di fantascienza, con tutta la loro (nostra) audacia immaginativa, sono stati vittima dell’ottimistico punto di vista sulle sorti dell’umanità che domina il pensiero di un certo tipo di intellettuale televisivo. Le utopie negative di cui tanto abbiamo letto o erano di maniera, o, nella loro essenza, costituivano una sorta di esorcismo. La stessa fantascienza sociologica ha visto ben poco, di là dall’ovvio, di quel che il domani, diventato ormai oggi, ci riservava. Questo non vale per tutti certamente, ma descrive bene la tendenza di fondo. Oggi che l’indomani ci è addosso con tutto il suo carico di disdetta, possiamo affermare tranquillamente che è al peggio che siamo arrivati. Ho letto proprio in questi giorni, mi sembra su Repubblica, che il ministro Tremonti annunciava con sollievo (immaginatevi il mio) che “abbiamo evitato l’Armaggeddon”. Il mio commento è: bene, molto bene… Ma quando è che siamo stati avvisati dell’incombente pericolo? Una Apocalisse si approssima e nessuno ci dice niente se non quando questa è passata oltre (se pure è vero che sia passata!). Per rispondere alla domanda, non ho allora altra possibilità che formularne una a mia volta: c’è nulla di peggio di questo sfiorare il pericolo senza che neppure lo si sappia? No, non c’è. Questo è il massimo. Il massimo della sfiducia in noi, il massimo della manipolazione, il massimo dell’impotenza nascosta nelle vesti della potenza.

GL: Quale credi debba essere l’obbiettivo, in pieni anni Duemila, di una buona fantascienza italiana?

MAM: Compito degli autori in questi anni di rapidi cambiamenti è fornire risposte agli interrogativi che milioni di esseri umani, dopo il lungo sonno del Reaganismo, iniziano nuovamente a porsi. Che ne sarà del nostro domani? Quali sorprese, quali meraviglie e quali orrori è in grado di riservarci? Si tratta di risposte che soltanto uno scrittore di fantascienza è in grado di fornire, perché sa come fornirle, appropriate e giuste; ed è anche l’unico a volerle fornire. Come mai escludo chiunque non sia uno scrittore di fantascienza, o uno che ne faccia proprie le modalità? A causa delle gabbie ideologiche, le stesse di cui sono prigionieri i tuttologi che imperversano sugli schermi televisivi. Viceversa, l’andare oltre è proprio al nostro mestiere, al nostro DNA intellettuale, la forza che ci sostiene e che nelle avversità letterarie ci permette di sopravvivere. Le risposte che la gente cerca le forniremo noi con la fantascienza, perché nessun altro vorrà darle. Gli altri si accomoderanno nel tran tran di sempre, nelle risposte ben collaudate e gradite a Sua Maestà il Dio Trino e Quattrino.
Si tratta in fondo della medesima operazione spontaneamente avviata negli anni Venti e Trenta da quegli straordinari creatori di futuro che sono stati gli scrittori di fantascienza americani. Sono stati capaci di scavare nella realtà il tanto necessario a estrarre il minerale prezioso delle infinite possibilità che essa nascondeva. Lavorando questo materiale con la fantasia hanno ottenuto, pur senza proporselo, di avere un peso considerevole nello sviluppo dei costumi, e un poco anche nei medesimi avvenimenti. Analoga operazione siamo chiamati a compiere noi oggi, con quel grado in più di consapevolezza atto a renderci diversi eppure, nelle mutate condizioni, altrettanto efficaci. Accenno ad alcune possibili tematiche: i meccanismi di oppressione ideologica e oppressione materiale; i pericoli insiti nella propensione a mettere uno solo al posto di comando (ve l’immaginate un Hitler a cui basta pigiare un tasto per scatenare un Olocausto?); la crescente disumanizzazione nelle relazioni umane; la manipolazione dell’informazione; la guerra quale mezzo ordinario per risolvere le controversie internazionali; le irrazionalità del sistema economico; la giustizia; l’accumulazione, in una società sempre più ricca, di enormi risorse a un polo e di inaudite miserie all’altro polo. Se sapremo farlo, trasfigurando tutto questo materiale con l’aiuto della fantasia, è sicuro che avremo un ruolo negli avvenimenti che si approssimano. Altrimenti resteremo testimoni inascoltati, travolti anche noi, come tutti, da questa resistibilissima discesa verso la ricerca del capro espiatorio, di colui al quale far pagare tutto il fiele che ci fanno bere, del debole da linciare. Nella direzione indicata intendo muovermi. Spero di poterlo fare in numerosa e gradita compagnia.

GL: Torniamo a Come ladro di notte. In che modo sei arrivato alla scelta di uno stile così immaginativo e, al tempo stesso, “sintetico”, in cui praticamente manca il punto di vista onnisciente dell’autore?MAM: Una domanda questa molto impegnativa che mi costringe, per la prima volta, a riflettere sulla mia personale “poetica”. Dubito che riuscirò, considerato il poco tempo a disposizione, a risponderti con la dovuta semplicità e completezza. Comunque ci provo. Anzitutto non si è trattato di una scelta, non almeno della scelta dello scrittore, ma del lento e inesorabile imporsi delle esigenze di lettore. Mi spiego. Essendo per necessità il principale utente di ciò che scrivo, è giocoforza che il me stesso lettore eserciti una notevole, a volte ipercritica, autorità sullo scrittore. Il mio modo di lavorare è infatti del tutto legato all’atteggiamento di un qualsiasi appassionato nel momento in cui si accinge ad aprire un libro. Di quel libro sa poco, a volte niente; ma quel poco e quel niente (un nome illustre, una copertina allettante, la pura e semplice appartenenza a un genere) sono bastati a farglielo acquistare e ora bastano a indurlo a leggere. Egli non sa dove le pagine che va sfogliando lo condurranno. Spera che lo conducano a un approdo positivo, divertente, gradevole; vorrebbe magari trarne un qualche insegnamento, forse arricchirsi con nuovi punti di vista, una nuova visione del mondo.
Nello stesso identico modo io tendo a scrivere. Se mi guardo mentre scrivo, osservo che quasi mai lo faccio in presenza di un punto di approdo, ma non posso fare altro che narrare come viene (una specie di fluire di ricordi futuri che si affacciano al presente). Non posso nemmeno sapere più di quel che sa il lettore, il quale scopre quel che il racconto è mentre lo legge, a differenza di me che lo scopro mentre scrivo. Cosicché all’Io scrittore non spetta altro che far sì che ciò che scrive sia divertente, leggibile, ben detto; che sia l’essenziale di quel che c’è da dire, guardandosi dal tradire la promessa iniziale di leggerezza, di levità. Insomma, ho un sorvegliante interno che un po’ mi aiuta e un po’ mi castiga. Dalla fantascienza ho preso il gusto e forse la sostanza dell’immaginativo cui accenni; e sempre dalla fantascienza quel “pensare grande” , cioè l’articolare le vicende umane all’interno di una visione storica degli avvenimenti (visione che, purtroppo, raramente diventa “pensare epico”) la quale mi sembra una sua caratteristica saliente.  Questo modo di concepire le cose è alla base del titanismo che informa Come ladro di notte, e noto di sfuggita che è tale caratteristica a permettere alla narrativa di anticipazione di accedere a un alto livello di significatività, spesso negato alla restante letteratura. L’andare al sodo, la “sinteticità” che noti è presa invece da alcuni autori classici, dai quali è pure arrivata la spinta a caratterizzare il più possibile la pagina.
Per offrire un sommario punto di riferimento degli autori che mi hanno influenzato (diciamo meglio: che mi hanno suggerito il come si scrive) mi limiterò a citarne due: Sheckley per quanto attiene alla fantascienza, Bukowski per quanto attiene alla restante letteratura. Da Sheckley ha ricevuto la leggerezza nell’intonazione, nonché un certo distacco dalla vicenda narrata, che poi consiste in un non prendersi troppo sul serio; da Bukowski, la cui fama negli ultimi anni si è alquanto appannata, la capacità di (o almeno l’aspirazione a) rappresentare un insieme di personaggi e situazioni, nonché l’ambiente in cui l’azione si volge, con pochissime battute, quasi senza descrizioni e comunque nel breve di una sola pagina. Approfitto di questa domanda per ricordare che lo scrittore non può tutto quello che vuole ma, autolimitato come Dio, solo ciò che le creature che ha messo nero su bianco vogliono. Ciò che la storia medesima vuole. Il racconto è un processo in atto, cioè qualcosa che prende forma e si determina mentre procede; e che mal tollera l’intervento del demiurgo che sa o finge di sapere. Ogni intervento del genere costituisce un’alterazione del racconto, un ritorno al di qua della pagina, la sospensione della credibilità, l’interruzione del sogno. Occorre, in questo caso, una grande maestria (che non possiedo) per mantenere inalterato il fascino della lettura. Se posso, cerco di sottrarmi a tale difficoltà. Una volta che la storia ha acquisito uno determinata forma, mi occorre rispettarla, altrimenti finisco in un vicolo cieco.

GL: Vuoi accennare qualcosa sulla dottrina del romanzo, “l’ideale” propugnato dalla Congrega degli Inumani?

MAM: A mio parere il fascino di Come ladro di notte sta anche, se non prima di tutto, nella ideologia che lo informa. Non per la qualità dell’ideologia, che vale quanto qualsiasi altra, ma per il ruolo che è chiamata a svolgere e per il suo funzionamento. Non si tratta, come troppo spesso avviene, dell’intrusione nel romanzo delle personali convinzioni dell’autore, cioè di sovrapposizioni morali o di residui di visioni del mondo astratte, ma di una ideologia organica al romanzo medesimo, della sua pietra angolare. Si tratta inoltre di una ideologia vera, sincera, attiva e viva, coerente nelle sue incoerenze, come sono spesso (sarei tentato di affermare: sempre) le ideologie in ogni circostanza in cui si manifestino. Come esempio di coerenza nell’incoerenza porto quello di Zanzotto, affiliato fedelissimo agli ideali della Congrega. Zanzotto è convinto che l’uomo sia un coacervo di crudeltà, ambizioni, opportunismi, avidità, tradimenti e, di conseguenza, meritevole di essere annientato. Ma non è egli stesso la testimonianza dell’opposto, cioè dell’esistenza di uomini giusti che giustificano l’intera razza della quale fanno parte? Zanzotto è tale che contraddice con il suo essere e le sue battaglie proprio quello in cui crede. Non diversamente da quanto accade all’uomo della strada e alle sue perpetue lamentazioni sulla mediocrità dei politici che puntualmente, votazione dopo votazione, contribuisce a eleggere.
Vediamo ancora. Tipico dell’ideologia è di seminare nella realtà, con le sue pratiche, gli elementi che poi la comproveranno. Sono le pratiche di discriminazione sociale a fondare o accentuare le differenze che ne giustificano la prosecuzione. È la pratica di annientare gli uomini dotati di un’etica (come Elio) che eliminerà i “buoni” dal panorama del mondo: ma in questa maniera emergerà un universo di “cattivi” che giustificheranno gli scopi della Congrega. Occorre aggiungere che un’ideologia come quella della Congrega, del tutto simile alle ideologie che hanno informato il XX secolo, è interna  a una visione del mondo determinista, pre-quantistica e direi persino pre-marxiana. Essa implica una concezione unidimensionale dell’umanità (l’uomo egoista, l’uomo consumatore, la cattiveria umana ecc. ecc.) dentro la quale siamo ancora immersi; e una concezione della storia unidirezionale, che cioè non contempla esiti aperti, variabili, stocastici ma che possiamo tranquillamente definire fondamentalista. Questa concezione si articola in un’ampia gamma di posizioni ai cui estremi vi è da una parte quella trionfalistica propria ai cantori del liberismo; e dall’altra una  mistica nichilista all’interno della quale è possibile collocare l’ideologia degli affiliati nel romanzo. Per ultimo accennerò che quella della Congrega, in quanto ideologia, è mero strumento di potere, destinata perciò stesso alla corruzione, senza però che venga riconosciuta come tale (il che impedisce che il processo degenerativo possa essere combattuto efficacemente); al contrario, viene  definita e vissuta come un necessario “adattamento ai tempi”. Le pratiche di potere, infatti, fin dall’inizio disattivano qualsiasi anticorpo in grado di ostacolare il proprio dispiegamento o di impedirne l’esercizio. Che si tratti di pratiche di potere lo si evince sia dalle modalità con cui funzionano all’interno (conformismo, disciplina militare, repressione del dissenso [Brunico], assenza di vero dibattito ecc.); sia nei rapporti con il mondo esterno, necessariamente descritto come il male assoluto. Senza tale proiezione dell’immaginario primitivo, gli anticorpi potrebbero riattivarsi e mettere in pericolo la sacra struttura che divide gli uomini nelle opposte categorie di coloro che comandano e coloro che obbediscono, cioè il popolo sovrano.
Un’ultima osservazione sul carattere contraddittorio e proprio per questo funzionale dell’ideologia congregazionista: nessun affiliato, neppure Zanzotto, arriva a chiedersi chi, una volta devastata la galassia, provvederà a devastare la Congrega (l’ideologia non pensa: realizza se stessa). Come sarà possibile, specie dopo aver conseguito la grande vittoria, persuadere gli affiliati a sacrificarsi all’idea originale? Loro, i “buoni” della situazione… Nel momento dell’euforia, dei secolari obiettivi acquisiti, dovrebbero autodistruggersi, potendo invece dar luogo a un Nuovo Mondo, a un Uomo Nuovo da collocare nell’universo innocente? Anche in quest’ultimo particolare vedo me stesso in Zanzotto. L’ingenuità sua, la scarsa conoscenza dei reali meccanismi che presiedono la formazione della realtà, la complessità del mondo. Ma da allora, da quando il personaggio è stato concepito, molta acqua è passata sotto i ponti. E di molta ideologia, molta presunzione e innocenza, mi sono liberato!

Roma, aprile 2009.

(a cura di G.L.)


[1] L’autore si riferisce qui a un una revisione del meccanismo della scala mobile – il punto unico di contingenza – che entrò gradualmente in vigore nel 1977 dopo essere stato conquistato dal sindacato due anni prima. In questo modo i salari reali sarebbero stati difesi dall’inflazione, che allora cresceva intorno al 20% su base annua. Le attese sindacali, tuttavia, vennero sostanzialmente deluse perché nessuno degli esecutivi che si formarono in quel periodo realizzò le trasformazioni di fondo chieste dalla classe lavoratrice. Si può dire quindi che la “svolta dell’Eur” non ebbe il seguito sperato (N.d.R.).

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Avviso ai naviganti (2)

maggio 19th, 2009

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Negli ultimi giorni qualcuno si è divertito a scatenare una guerra segreta contro Urania, la sua redazione e i suoi collaboratori. Da queste parti il livello del confronto è stato solitamente piuttosto alto e ha spesso richiamato l’attenzione del Curatore della collana, intervenuto in prima persona per discutere delle scelte editoriali e delle loro motivazioni, a riprova di quanta considerazione venga riconosciuta al feedback dei lettori. A qualcuno questa apertura non deve essere piaciuta. Approfittando di una mia leggerezza e del mio eccesso di fiducia, il soggetto in questione ha assunto un certo numero di identità diverse per accendere gli animi e inquinare il dibattito. Questo spiacevole episodio è andato a sommarsi a un’azione di trolling ai danni di almeno uno dei nostri utenti più assidui. Dopo la campagna anti-hubbardiana alimentata da un sentimento di intolleranza del tutto fuori luogo rispetto alle offerte proposte da “Urania”, ci siamo così trovati alle prese con il primo significativo caso di attacco sistematico al nostro blog. A dimostrazione che la spazzatura elettronica non viaggia attraverso la rete informatica solo sulle ali dei bot, ma si serve anche di ignari ospiti umani.

Tutti i commenti espressi dal disturbatore sono stati rimossi dalla tavola dei commenti all’articolo dedicato a Urania 1546: Seeker. Per questo non spaventatevi se troverete nelle repliche degli utenti alcuni riferimenti alle parole di tali Alessandra Beni, Tina Marlun, Nenno Baldani e del fantomatico Lettore, di cui non vi sarà invece possibile ritrovare traccia. Abbiamo dato un colpo di scopa e la camera è adesso un po’ meno sporca, per quanto possa apparire comunque disordinata.

Porgo le mie scuse agli utenti del blog che giungono su queste pagine con l’intento di informarsi e discutere sulle uscite di “Urania”. E’ stato un incidente increscioso, di cui tutti ne hanno fatto le spese, a partire da G.L. Staffilano, traduttore del romanzo di McDevitt. L’episodio mi costringe a prestare d’ora in avanti maggiore attenzione agli interventi più acrimoniosi e sospetti di parzialità.

Ringrazio tutti per l’attenzione e mi scuso per la temporanea interruzione. Adesso torniamo pure a parlare di fantascienza.

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Tonani a Tempi Dispari

marzo 13th, 2009

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Il nostro autore di marzo ospite martedì prossimo della trasmissione di Francesco Gatti.

Prosegue l’attenzione dedicata alla fantascienza italiana da Tempi Dispari, il programma di Rainews24 condotto da Francesco Gatti. Martedì prossimo, nel corso del consueto appuntamento settimanale con la letteratura e i libri, il conduttore intervisterà Dario Tonani in collegamento dallo studio di Milano. L’intervento dell’autore è previsto verso le 22.10. Gli spettatori potranno così approfondire la conoscenza del suo Algoritmo bianco e dell’Agoverso che ne fa da sfondo.

Per i più impazienti, invece, è già disponibile sulle frequenze web di Fantascienza.com il booktrailer del libro, ideato e diretto da Antonia Romagnoli. E, sempre nella sezione Video del portale web italiano della fantascienza, i lettori potranno recuperare la scorsa puntata della trasmissione, dedicata a Lino Aldani, con ospiti Giuseppe Lippi e Ugo Malaguti. Buona visione!

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Ciao Lino

gennaio 31st, 2009

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