Per i lettori di Urania Blog, ecco la presentazione del nostro curatore Giuseppe Lippi per il volume di Epix dedicato ai miti di Cthulhu realizzati dai colleghi di H.P. Lovecraft.
Mentre il racconto fantastico del ‘900 andava speditamente verso altre direzioni, con Kafka che sognava scarafoni, i futuristi che sguinzagliavano aerei e locomotive dappertutto e i teloni dei cinematografi che pullulavano di pellirosse o seleniti, nelle roboanti città d’America qualcuno pensò di rispolverare il filone sempre popolare delle storie di spiriti, aggiornandolo alla formula del giornalismo sensazionale. L’intenzione non fu quella di innovare consapevolmente uno stile (raramente un editore punta su un cavallo imprevedibile); ma quando il fantastico alla Poe scese nelle edicole metropolitane, il cambiamento fu inevitabile. Nacque “Weird Tales”, the unique magazine, una specie di dispensa venduta a 25 centesimi e riempita di racconti macabri, di fantascienza e outré che vantavano un’ascendenza almeno simbolica dal bostoniano. Per trent’anni quel periodico mensile, redatto prima a Indianapolis, poi a Chicago e a New York, sfornò in quantità storie terribili… sotto tutti i punti di vista, anche se ben presto tre scrittori primeggiarono sul resto della scuderia e imposero, a loro modo, nuovi standard qualitativi al racconto dei capelli dritti. I tre epigoni di Poe, se così vogliamo considerarli, furono H.P. Lovecraft, Robert E. Howard e Clark Ashton Smith. Insieme diedero vita a quelli che qualcuno ha battezzato miti di Cthulhu, qualcun altro miti di Lovecraft – come fa Robert M. Price, curatore originale del presente volume – ma che si potrebbero chiamare in molti altri modi, ad esempio miti dell’Angst, un’angoscia proiettata sulle brulicanti città degli uomini e rifratta verso lo spazio intergalattico che la rivoluzione einsteniana non aveva finito di svelare.
Il primato spetta a Lovecraft (di qui il tributo all’orrenda creazione di Cthulhu) in senso cronologico e forse inventivo, ma Howard e Smith non furono meno abili nell’ideare inferni terreni, abissi iperspaziali e delizie necrofile impastate di febbrile visionarietà. Né la maledizione delle stelle si limitò ai tre capiscuola. Gli astri erano propizi, dalle dimensioni contigue al reale filtravano orrori non-euclidei e i prodigi astronomici avrebbero scalzato i vecchi ectoplasmi anche dai racconti di numerosi coevi o discepoli. A costoro sono già state dedicate, nel passato, celebri antologie: I miti di Cthulhu per la cura di August Derleth, Sebastiano Fusco e Gianfranco de Turris (1975); Nelle spire di Medusa (1976) e Sfida dall’infinito (1977), sempre ad opera degli stessi curatori e dedicate ai racconti che Lovecraft redasse per meglio instradare i suoi epigoni (una sorta di corso di orrori creativi); più varie antologie tratte dalle pagine di “Weird Tales”. Oggi traduciamo in italiano, non al cento per cento per ragioni di mole, ma con molto del materiale che conta, questa Tales of the Lovecraft Mythos messa insieme dal predicatore Robert M. Price, un bizzarro studioso dell’opera lovecraftiana che è al tempo stesso scrittore di pamphlet religiosi e teorizzatore della Christian Weird Fiction.
Price compie un’operazione apprezzabile perché racchiude nel volume tutti i più importanti contemporanei di H.P. Lovecraft. In Italia si risentirà parlare dopo eoni di scrittori come Duane W. Rimel, Henry Hasse, Carl Jacobi e Richard F. Searight, mentre torneranno alla ribalta beniamini come E. Hoffmann Price, Clark Ashton Smith, il bardo Howard ed Henry Kuttner. Quanto ai più moderni Fritz Leiber e Don A. Wollheim non hanno bisogno di troppe presentazioni fra i lettori, poiché appartengono alla scuola che ha permesso alla fantascienza nera americana di sopravvivere dopo la Seconda guerra mondiale e alla sospensione della rivista “Weird Tales”. Quelli che mancano dalla presente traduzione (un vecchissimo racconto di Robert Bloch, un pastiche di E. Hoffmann Price, i racconti di Mearle Prout, C. Hall Thompson e Bertram Russell, più un paio di contributi di August Derleth) potranno uscire in un secondo volume, se la presente raccolta incontrerà il favore dei lettori di “Epix”.
Crediamo che il materiale qui ospitato sia sufficiente per mostrare i legami tra l’età d’oro del weird tale novecentesco e i tempi attuali, il cui clima è all’apparenza così disincantato. Eppure i cadaveri vezzeggiati dall’horror contemporaneo, le piccole sessioni di necrofilia, gli assassini maniaci che infestano l’ambiente “quotidiano” di tanta scadente produzione seriale, a ben guardare sono i discendenti diretti degli scrittori di “Weird Tales”. Le differenze sono secondarie e non certo di stile: anche oggi siamo abituati agli aggettivi ridondanti e alla frase “secca-che-più-secca-non-si-può” (la quale è un artificio barocco non meno del paragrafo svolazzante alla Love-Poe). Anche oggi ciò che spinge l’appassionato all’acquisto è il lividore della morte, l’occhiaia incavata in cui passeggia il verme; e perfino adesso il gran cadavere gonfio che troneggia in cantina, o fra le candele steariche, o sotto la botola della fattoria è quello del reale, imputridito a causa della mancanza di fede. Non certo la fede cristiana, che nella buona letteratura dell’orrore è ormai superata, ma un ideale, una causa, una ragione di vita. La civiltà americana in cui scriveva Poe era già scarnificata e disossata quanto basta per indurre il poeta al forsennato tentativo di riempirla con arabeschi e grotteschi. L’America degli anni Trenta testimoniata da questi racconti si è spinta oltre, è già America as science fiction, macabra babele, fallito melting pot. Ecco perché tra le ruote degli ingranaggi, nelle città lunari, sotto le viscere delle metropoli il festino degli antichi dei stellari riprende, carnascialescamente, il suo vigore. Si tenta di riempire gli anfratti, colmare il vuoto di senso e di essere che è ciò che veramente atterrisce, nella narrativa del terrore.
Giuseppe Lippi