Cinema

Watchmen: il sogno di celluloide

marzo 18th, 2009

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Non credo nei miracoli: parafrasando il Dr. Manhattan, sono impossibili per definizione. Ma come definire altrimenti la riuscita di un film come la trasposizione dell’opera più complessa (paragonabile, per carica ideologica, solo a V per Vendetta) e incontestabilmente più influente nella storia dei comics?

Watchmen è l’opera di Alan Moore e Dave Gibbons che ha stravolto per sempre l’approccio ai supereroi e questo ne ha fatto di diritto il punto di non ritorno del fumetto contemporaneo. Riprodurne la complessità e la profondità sul grande schermo non era un gioco da ragazzi. Zack Snyder, acclamato dalla critica come il “regista più visionario” di questi tempi (etichetta che ricorda quella appiccicata una trentina d’anni fa addosso a Ridley Scott, quando era evidente a chiunque che la vetta della controversa classifica dovesse in realtà essere spartita tra ben altri autori, quali David Cronenberg, David Lynch o Terry Gilliam), è riuscito nell’impresa e il suo successo ha il sapore del miracolo.

Le riserve su un’operazione del genere erano molteplici, a partire dall’adattamento di un’opera stratificata, caratterizzata dalla sovrapposizione di livelli narrativi, dalla trama fortemente delinearizzata che genera una struttura frattale, con i continui flashback, le divagazioni, gli inserti metanarrativi e il citazionismo estremo che risentono dell’attitudine postmodernista di Moore e della sua passione per la narrativa e le intuizioni di William Burroughs. Ma la visione del film riesce per fortuna a esorcizzare tutte queste riserve e regala due ore e tre quarti di purissimo piacere cognitivo, un distillato delle visioni e delle riflessioni che impreziosiscono la lettura della graphic novel originaria. Quella che poteva rivelarsi la più disastrosa Caporetto hollywoodiana di fronte al potere della scrittura, trova invece la via della riuscita malgrado la scomunica di Alan Moore e la gestazione più che mai travagliata, tra cambi di registi (almeno tre, da Gilliam a Paul “Bourne” Greengrass, passando per Darren Aronofsky) e passaggi di mano alla produzione fino all’atto finale della battaglia tra la Warner Bros e la 20th Century Fox.

Ogni volta che capita di riscontrare una così equilibrata alchimia di tecnica ed estetica è quasi inevitabile una reazione di incredulità. Se si aggiungono le premesse di cui sopra, l’incredulità subisce un’amplificazione esponenziale. Probabilmente la scelta di Snyder e della produzione è stata quella di adottare un approccio riguardoso dell’originale senza lasciarsi sopraffare dall’imponenza dell’impresa. La scelta migliore possibile, come confermano i risultati: l’unica in grado di conservare lo spirito della graphic novel evitando l’integralismo religioso del fan convinto di avere abbracciato il culto di una setta.

L’ironia – insegna il postmoderno – è in fondo il metodo migliore per maneggiare la materia quando essa si combina in forme esotiche rischiando il collasso e la degenerazione. E di ironia Watchmen (il film) è infarcito almeno quanto il fumetto, riuscendo così a replicarne intatta la carica demistificatoria dell’universo dei supereroi e, al contempo, offrire una riflessione sull’uomo e sulla nostra società – riflessione magari meno fantascientifica e maggiormente declinata sul versante del fantastico che volge all’ucronia. Intuizione dello sceneggiatore californiano David Hayter, già apprezzato per il suo ottimo lavoro sui primi due copioni della trilogia dedicata agli X-Men della Marvel e inizialmente associato anche alla regia del film quando era ancora in cantiere per la Universal. Hayter ha lavorato sulla sceneggiatura per un possibile adattamento del fumetto fin dal 2001, realizzandone otto diverse versioni e arrivando, grazie anche all’apporto di Alex Tse, a un distillato delle situazioni, degli snodi e dei dettagli che non a caso nei copioni preliminari gli erano valsi il favore dello stesso Moore, prima che le vicissitudini produttive lo allontanassero da tutti i progetti cinematografici legati alla sua opera.

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Tonani a Tempi Dispari

marzo 13th, 2009

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Il nostro autore di marzo ospite martedì prossimo della trasmissione di Francesco Gatti.

Prosegue l’attenzione dedicata alla fantascienza italiana da Tempi Dispari, il programma di Rainews24 condotto da Francesco Gatti. Martedì prossimo, nel corso del consueto appuntamento settimanale con la letteratura e i libri, il conduttore intervisterà Dario Tonani in collegamento dallo studio di Milano. L’intervento dell’autore è previsto verso le 22.10. Gli spettatori potranno così approfondire la conoscenza del suo Algoritmo bianco e dell’Agoverso che ne fa da sfondo.

Per i più impazienti, invece, è già disponibile sulle frequenze web di Fantascienza.com il booktrailer del libro, ideato e diretto da Antonia Romagnoli. E, sempre nella sezione Video del portale web italiano della fantascienza, i lettori potranno recuperare la scorsa puntata della trasmissione, dedicata a Lino Aldani, con ospiti Giuseppe Lippi e Ugo Malaguti. Buona visione!

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Fantascienza a Tempi Dispari: Lippi ricorda Lino Aldani

marzo 9th, 2009

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Si torna a parlare di fantascienza sulle frequenze di Rainews24, con un ricordo del grande Lino Aldani. 

Domani sera “Urania” tornerà in TV con il suo storico curatore Giuseppe Lippi. L’occasione è rappresentata dall’appuntamento settimanale con la letteratura della trasmissione di Rainews24 Tempi Dispari, condotta da Francesco Gatti. Lippi interverrà intorno alle ore 22.00 per tracciare un profilo e un ricordo di Lino Aldani, il padre della fantascienza italiana scomparso lo scorso 31 gennaio. Alla trasmissione parteciperà, da Bologna, anche l’editore Ugo Malaguti.

L’appuntamento, come di consueto, potrà essere seguito anche on-line, in streaming sul sito web della Rai, a partire dalle ore 21.30.

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L’Editoriale di Giuseppe Lippi: Primavera Illustrata

marzo 5th, 2009

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Torna l’appuntamento con l’editoriale del nostro curatore. Siete pronti per scoprire le prossime novità di “Urania”?

So che non sembra affatto primavera, ma fra pochi giorni lo sarà e ai lettori di “Urania” avrà fatto piacere ritrovare, con le piogge marzoline e i timidi tepori (?) di questo mese, il primo numero illustrato della loro collana dopo parecchi anni. La sorpresa maggiore, però, è che i disegni di Giuseppe Festino non rappresentano un’una tantum ideata per sottolineare il piglio visivo dei due brevi romanzi di Dario Tonani, ma saranno una novità costante, un’aggiunta che si ripeterà di mese in mese. L’idea è nata da un incontro tra il famoso illustratore di “Robot” (ma anche di “Urania”) e il nostro editor Sergio Altieri, che è un appassionato di Festino fin dagli anni Settanta. Quando il progetto è decollato, non ho potuto fare a meno di provare una fitta di nostalgia: per me, che alla redazione di “Robot” ho lavorato per più di due anni, è stato come tornare ai tempi eroici delle riviste. Del resto, Giuseppe non ha illustrato solo periodici ma anche libri: la collana tedesca dell’editore Heyne, per esempio, e diversi numeri di “Urania” e “Classici” all’epoca dell’operazione agli occhi di Karel Thole. Si tratta quindi del ritorno di un amico, e un appuntamento che si ripeterà nei prossimi numeri per arricchire lo spazio della vostra immaginazione. 

Qui sul blog i disegni verranno regolarmente anticipati per il vostro piacere di appassionati, ma dobbiamo fare due avvertenze. La prima è che non potremo pubblicarli ad alta risoluzione perché le regole del web non lo permettono; la seconda è che i disegni appariranno così come sono stati eseguiti dall’artista, senza il lettering (cioè le scritte) che nella versione a stampa riempiranno gli spazi vuoti. Insomma, saranno una “versione originale” su cui potrete cliccare ogni volta che vi piacerà per vederla ingrandita. La risoluzione aumenterà, anche se non al punto da fare concorrenza ai bellissimi risultati della stampa. Insomma, per godere dell’effetto completo non vi resterà che comprare “Urania”…

Al di là della sorpresa illustrata, in aprile arriveranno altre novità con il nuovo mensile “Epix”, dedicato al fantastico. Horror, fantasy, autori italiani e contaminazioni: un carosello che sarà aperto dal più trasgressivo e irregolare degli autori di “Urania”, Valerio Evangelisti, che abbiamo tenuto a battesimo quindici anni fa con il primo romanzo di Nicholas Eymerich. Sembra una storia lontana, invece è solo ieri: e Valerio tornerà sulla nostra corazzata con un’antologia di racconti, il primo dei quali assolutamente inedito. Più avanti seguiranno anche testi classici, da Robert E. Howard ai discepoli di H.P. Lovecraft, mentre stiamo attualmente leggendo una meritevole antologia di F. Paul Wilson. Da subito, invece, avrete i romanzi della serie Doom (ispirata all’omonimo gioco) e varie novità fantasy.

Ma di questo diremo meglio più avanti. Per tornare alla fantascienza, abbiamo in lettura nuovi romanzi di Michael Swanwick, Charles Stross, Peter F. Hamilton e Stephen Baxter. I supplementi di “Urania”, cancellati dalla programmazione normale e sostituiti da “Epix”, torneranno ad apparire eccezionalmente in dicembre con un numero unico che sarà dedicato, con tutta probabilità, a un lungo romanzo italiano. Per ora non riveliamo di più…

Nell’augurare a tutti un mese di buone letture con “Urania” e la Collezione, mando a voi tutti un saluto dallo spazio dove sono parcheggiato in orbita per scampare alla pioggia.

Ad majora!

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In Virginia il 27-6-2009 sarà il Murray Leinster Day

febbraio 27th, 2009

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Una risoluzione congiunta delle camere del parlamento della Virginia ha dedicato il 27 giugno prossimo alla memoria di Murray Leinster, scrittore di fantascienza scomparso nel 1975.

Con una deliberazione che vanta pochi precedenti (si ricorda l’11 novembre 2002 designato dal sindaco di New York Michael Blumberg quale Giornata di Kurt Vonnegut, Jr, in occasione del suo ottantesimo compleanno), il parlamento statale della Virginia, su proposta del Senato e con risoluzione approvata dalla Camera dei Delegati, ha riconosciuto il prossimo 27 giugno come Giornata Nazionale di William Fitzgerald Jenkins. Il Jenkins Day è intitolato alla memoria dello scrittore di Norfolk, noto agli appassionati di fantascienza con lo pseudonimo di Murray Leinster.

Nato nel 1896 e scomparso nel 1975, nel corso della sua carriera Leinster ha attraversato l’intera storia del genere senza disdegnare incursioni nei territori limitrofi della detective story e dell’horror, fino al western. Leinster esordì nel 1916 su “Argosy”, storicamente considerata la prima rivista pulp americana, a soli vent’anni. Sulla stessa testata apparve nel 1919 la sua prima storia di fantascienza, “The Runaway Skyscraper” (tradotta in italiano come “La fuga del grattacielo”) su un palazzo di Manhattan in grado di spostarsi nel tempo, ripubblicata nel 1926 da Hugo Gernsback sulla sua “Amazing Stories” (e oggi disponibile on-line per i curiosi grazie al Progetto Gutenberg). La sua carriera si dispiegò poi attraverso i generi citati, con racconti pubblicati dalle principali riviste, da “Black Mask” a “Weird Tales”.

Nel 1934 Leinster pubblicò su “Astounding Stories” il racconto “Sidewise in Time” (“Bivi nel tempo” nell’edizione italiana), oggi universalmente riconosciuta come la prima storia sui mondi paralleli, ispiratore dell’omonimo premio assegnato ogni anno alla migliore opera sul tema. Nel 1945, con la novella “First Contact” (da noi “Primo contatto”) apparsa su “Astounding SF” introdusse il traduttore universale. All’anno successivo risale “A Logic Named Joe”, un racconto pubblicato sempre su “Astounding SF” con il vero nome di Jenkins, che anticipa prodigiosamente la società integrata e connessa in cui viviamo. Nel racconto una vasta rete di computer (chiamati “logici”, “Un Logico chiamato Joe”) interconnessi permette agli utenti lo scambio di informazioni, l’accesso ai dati e possibilità di intrattenimento.

La risoluzione n. 755 della House of Delegates della Virginia può essere letta sulle pagine on-line del “Richmond Sunlight”.

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Philip José Farmer (1918-2009)

febbraio 26th, 2009

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Il 25 febbraio 2009 è scomparso il Maestro di Riverworld e de Gli amanti di Siddo. Aveva firmato pietre miliari della fantascienza, a partire dal suo esordio capace di infrangere il tabù del sesso. Ma restava soprattutto un grande appassionato degli universi letterari del fantastico e della fantascienza.

La mattina di mercoledì 25 febbraio Philip José Farmer si è spento nel sonno nella sua casa di Peoria, Illinois. Nato il 26 gennaio del 1918 nello stato dell’Indiana, vantava tra i suoi antenati una mezza dozzina di nazionalità diverse (inglese, olandese, irlandese, scozzese, tedesca e cherokee). Il suo secondo nome era un tributo a una nonna materna di origini indiane.

Benché benestante, Farmer non ebbe un’infanzia facile. Crebbe in un ambiente reso rigido dall’educazione puritana impartitagli dal padre e come forma di evasione dal quotidiano maturò presto una forte passione per la letteratura fantastica (i libri di Oz, I viaggi di Gulliver) e fantascientifica (Edgar Rice Burroughs, Jules Verne). Iscrittosi all’università del Missouri nel 1937 con il proposito di diventare giornalista, fu costretto ad abbandonare gli studi a causa della bancarotta dell’azienda diretta dal padre. Per aiutarlo a uscire dai debiti lavorò quindi due anni come operaio in una centrale elettrica. Nel 1939 tornò all’università vincendo una borsa di studio in scrittura creativa e l’anno successivo conobbe Elizabeth Virginia Andre, che avrebbe sposato l’anno successivo. Nel 1941 si arruolò nell’Air Force come cadetto, ma ottenne il congedo quello stesso anno a seguito della notizia dell’attacco di Pearl Harbor.

Nei primi anni in cui Farmer tentò di intraprendere la carriera letteraria, dovette continuamente scontrarsi con una sorte avversa. Il suo esordio nella fantascienza avvenne nel 1952 con il racconto The Lovers (che avrebbe poi ampliato nel 1961 in romanzo, Gli amanti di Siddo, ristampato solo lo scorso anno nel n. 63 di “Urania Collezione”). Il racconto, rifiutato l’anno prima da riviste prestigiose come “Astounding SF” e “Galaxy” probabilmente a causa del tema scabroso dell’amore tra un terrestre e un’aliena, fu pubblicato nel 1952 su “Startling Stories” e guadagnò al suo autore l’attenzione di critici e lettori, meritandogli nel 1953 il premio Hugo per il giovane scrittore più promettente. L’anticonformismo, l’ironia dissacrante e la verve provocatoria si caratterizzano subito come i suoi marchi di fabbrica.

In quegli anni Farmer vinse un concorso indetto dall’editore Shasta, ma il fallimento della casa editrice gli impedì di riscuotere il premio e lo obbligò a tornare in cerca di un lavoro. Cominciò così a viaggiare molto, da Syracuse (New York) fino a Scottsdale (Arizona), occupandosi di documentazione tecnica per diverse imprese nel settore dell’elettronica, senza mai smettere di scrivere. Nella seconda metà degli anni ’50 vide la luce padre John Carmody, che sarebbe poi divenuto la figura centrale di una serie di racconti poi riuniti in romanzo (ripubblicato anche questo, un paio di anni fa, da “Urania Collezione” nel n. 52 della serie, Notte di luce). La fortuna cominciò finalmente ad arridergli e nel 1964 Farmer abbandonò il lavoro per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura.

Nel 1965 pubblicò The Maker of Universes (Il fabbricante di universi, “Urania Collezione” n. 47), all’origine dell’omonimo ciclo, un’opera già concepita ai tempi dei suoi studi e poi congelata dopo la delusione di Shasta. Nel 1971 diede alle stampe To Your Scattered Bodies Go (Il fiume della vita, premio Hugo 1972), primo tassello del grandioso affresco di Riverworld. In questo Ciclo del Mondo del Fiume Farmer tornò ad affrontare temi strettamente attinenti alla religione, come la resurrezione dell’umanità dopo la morte, e questo gli attirò le antipatie degli ambienti del fondamentalismo cristiano. Nei suoi lavori l’autore di Peoria non disdegnò mai l’approccio laterale ai nuclei sensibili del conformismo sociale e religioso: che si trattasse di sesso, di Fede o di rapporti interraziali, Farmer ha sempre dimostrato una totale indipendenza di giudizio dal sentimento consolidato. E forse era anche questo uno dei grandi segreti della carica emotiva della sua scrittura.

Il suo forte dinamismo lo portò anche a rileggere le avventure di personaggi di altri autori (The Wind Whales of Ishmael, sequel non autorizzato del Moby Dick di Melville; Il diario segreto di Phileas FoggThe Other Log of Phileas Fogg, 1973 – pastiche dedicato alle avventure verniane del Giro del mondo in 80 giorni; e ancora i romanzi dedicati al mondo di Oz oppure a eroi dell’età dell’oro del pulp come Tarzan e Doc Savage, o ancora a Sherlock Holmes); Farmer arrivò addirittura a indossare i panni fittizi di Kilgore Trout, eccentrica figura di scrittore modellata da Kurt Vonnegut nei suoi romanzi e racconti di fantascienza sullo stampo di Theodore Sturgeon, con il cui nome firmò nel 1974 Venus on the Half-Shell (Venere sulla conchiglia, “Urania Collezione” n. 15). Sull’onda della stagione di contestazione inaugurata dai movimenti del ’68 Farmer dedicò The Image of the Beast e il suo seguito Blown (L’immagine della bestia e Nelle rovine della mente) a uno stravagante mix di sessualità e viaggi interstellari, portando in scena un altro protagonista della fantascienza americana: il grande appassionato Forrest J. Ackerman, scomparso lo scorso dicembre.

Parafrasando le parole spese per 4SJ, potremmo dire oggi che ancora una volta la fantascienza ha perso un grande appassionato. Che Farmer avesse incidentalmente firmato nel corso della sua prolifica carriera anche alcune delle pietre miliari del genere, non può che renderci ancora più triste la sua dipartita.

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Un astronomo per Greg Egan

febbraio 25th, 2009

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Conseguire un Master parlando di scienza, società e fantascienza.

Il 19 febbraio il giovane astronomo Andrea Bernagozzi ha conseguito il diploma di Master in Comunicazione della Scienza alla SISSA (Scuola internazionale superiore di studi avanzati) di Trieste con il punteggio di 30/30 e lode. Titolo della tesi: Scienza e società nella fantascienza di Greg Egan, con relatore Fabio Pagan e correlatori Daniele Terzoli e Giuseppe Lippi.

Per Andrea, che è autore fra l’altro del divertente volume La fantascienza a test (Alpha Test 2007), è il coronamento di un brillantissimo curriculum nei due anni di corso e delle sue attività extra Master, tra scienza e divulgazione. Ora potrà tornare alle sue ricerche all’Osservatorio astronomico della Valle d’Aosta, arricchito di un’esperienza scientifico/letteraria in più. E continuando naturalmente a coltivare l’antica passione per la fantascienza.

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Segnali di humour

febbraio 23rd, 2009

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Un excursus sulle visioni di Jacques Spitz e il suo background socio-culturale, a firma di Laura Serra.

In Paradiso e potere, un saggio di qualche anno fa, Robert Kagan teorizzava che l’Europa, simboleggiata da Venere, si cullasse in un paradiso di mollezze decadenti quali il welfare, mentre l’America, simboleggiata da Marte, le toglieva le castagne dal fuoco provvedendo virilmente al warfare. La debolezza, per non dire l’impotenza, militare suggeriva al Vecchio Continente una politica di appeasement, mentre la forza dell’arsenale più grande del mondo spingeva gli Stati Uniti a perseguire i propri interessi e punire chiunque li contrastasse. Del resto, argomentava Kagan, qualunque paese, come avevano dimostrato Francia, Gran Bretagna e Germania nei secoli passati, avendone i mezzi tende ad aggredire e conquistare: il pacifismo prospera quando le armi non ci sono.

Che cosa succederebbe se Marte e Venere fossero davvero Marte e Venere dotati di tecnologie avveniristiche e la terra fosse come la vecchia Europa di Kagan, mollacciona e disarmata, pasticciona e viziata, incapace di rispondere al fuoco nemico? E’ l’interrogativo che si pone Jacques Spitz in Les signaux du soleil (1943) e che già H.G. Wells si era rivolto in La guerra dei mondi (1898). Coniugando il realismo bellico del biologo darwiniano e la fantasia distopica del sociologo fabiano, Wells aveva immaginato esseri superiori intenti a osservare gli uomini “con la stessa minuziosa cura con cui questi avrebbero potuto studiare al microscopio le effimere creature che sciamano e proliferano in una goccia d’acqua” e si era figurato che quegli intelletti freddi e calcolatori “guardassero alla terra con occhi invidiosi, elaborando piani per conquistarla”. Spitz lo aveva indubbiamente letto e anzi si può dire che Les signaux du soleil sia la sua Guerra dei mondi come l’Oeil du purgatoire (L’occhio del purgatorio) è la sua Macchina del tempo; ma il suo spirito teso e sintetico è assai diverso da quello analitico dello scrittore britannico. Leggi tutto »

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Segnali di Brambilla

febbraio 13th, 2009

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La vera forma della catastrofe pulp immaginata da Franco Brambilla per la copertina di UC 073, attualmente in edicola.

Come già si discuteva nei giorni scorsi nei commenti del relativo post, la copertina dell’Urania Collezione 073 Segnali dal Sole ha subito qualche mutazione lungo la catena di passaggi dalla tela elettronica del nostro copertinista Franco Brambilla alla carta in uscita dalla stamperia. 

“Per qualche problema di stampa,” comunica Brambilla, “è uscita una cosa molto diversa e poco definita… una pallida fotocopia a colori dell’originale. So che è piaciuta lo stesso e  questo mi fa piacere ma se possibile mi piacerebbe dare la possibilità ai lettori di Urania di scaricare, stamparsi e appendersi in casa la copertina come io l’avevo immaginata.”

E il blog di “Urania” è ben lieto di ospitare la versione originale della sua stupenda illustrazione. Cliccate sull’immagine qui accanto per accedere alla versione in grande formato e ad alta risoluzione.

Avvertenza: i diritti dell’illustrazione restano di proprietà dell’Autore e di Mondadori. E’ vietato qualsiasi utilizzo commerciale, in toto o in parte dell’immagine, per qualsiasi motivo.

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Le ricadute del futuro

febbraio 9th, 2009

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Prende piede la percezione del cambiamento come spirito di questi tempi, a caccia di una prospettiva che consenta di superare l’orizzonte della crisi. Quale funzione può svolgere il racconto dell’avvenire in questo contesto?

Esiste un fraintendimento di fondo per cui dai non addetti ai lavori si guarda alla fantascienza con la sufficienza che si riserverebbe a una persona poco affidabile o del tutto priva di credibilità. L’equivoco scaturisce dall’erronea convinzione nutrita da molti che, essendo letteratura rivolta al futuro, la science fiction abbia facoltà di previsioni e debba esercitare queste doti con una certa infallibilità. In realtà tutti i lettori sanno quanto siano infondate queste credenze, ma questo non ha mancato di alimentare una forma di pregiudizio verso un genere che più di una volta ha «mancato» di cogliere elementi poi entrati nella nostra quotidianità.

La naturale diffidenza verso la sfera del sapere scientifico – da sempre radicata nella cultura italiana – ha fatto il resto, avvalorando la logica della preclusione al futuro e lasciando che un certo umanismo di maniera trascinasse la letteratura italiana nella dimensione sospesa di un passato prossimo senza orizzonti.

Come conseguenza l’autore di fantascienza non ha mai goduto di molta popolarità qui da noi, e meno di tutti l’autore italiano di fantascienza. Se non altro è possibile da qualche tempo cogliere il giusto tributo della stampa e dell’editoria ai cyberpunk come precursori dell’attuale cultura della rete, oppure ai new waver britannici e americani come interpreti di una stagione autentica di avanguardia. Ma non crediamo che sia un caso se, mentre all’estero autori come Ken MacLeod e Charles Stross ricevono l’attenzione di ricercatori, scienziati e sviluppatori dell’ICT (Information and Communication Technology, il settore che coinvolge l’elaborazione e la trasmissione dell’informazione e il progetto degli strumenti hardware e software per la loro implementazione), qui da noi siano autori completamente estranei al circuito della speculative fiction a raccogliere credito nelle già rarissime occasioni di confronto e dibattito sul futuro.

Un caso emblematico è rappresentato dalla recente iniziativa organizzata da Nòva24 Il Sole 24 Ore e Telecom Italia, un think tank tenutosi il 27 novembre scorso a Venezia per discutere di futuro e del racconto delle sue conseguenze, come si può estrapolare dal sito web dedicato alle Venice Sessions. Sempre sul sito, che raccoglie gli interventi dei protagonisti di quella giornata, è possibile catturare un’istantanea di quel pregiudizio di cui parlavo in apertura in merito al fallimento dei futurologi e ai loro tentativi di «controllare» il futuro (due cose: la prima, nell’opinione generale esiste un’interscambiabilità di fondo tra la figura vaghissima del futurologo e quella decisamente più definita dello scrittore di fantascienza, allo stesso modo in cui illustri esponenti della vita politica di questo paese continuano a confondere astrologi ed astronomi; la seconda, segnatevi la parola “controllo”, ci torneremo più avanti).

Nel suo editoriale sul numero di Nòva24 uscito in allegato al Sole 24 Ore del 2 gennaio scorso, Luca De Biase riprende i temi del suo intervento al workshop e affronta con cognizione di causa l’impatto che il “racconto dell’avvenire” produce sul nostro mondo. De Biase fa giustamente notare come ci sia una tendenza diffusa a parlare di cause ma una ritrosia generalizzata a considerarne le conseguenze. In un contesto ad altissimo grado di integrazione com’è diventato il mondo in cui viviamo, dove le esperienze in un numero considerevole di settori tecnologici interagiscono reciprocamente influenzando il tasso di progresso della storia, isolare le cause può diventare proibitivo e condurre a risultati fuorvianti. Ma quello che giustamente possiamo fare è basarci sulle condizioni del presente in relazione al modo in cui esso era stato disegnato nelle pagine o immaginato nel lavoro degli scrittori e ricercatori che sono stati i principali artefici del nostro mondo. Dopotutto è stato proprio William Gibson a sostenere che “ogni presente è inevitabilmente più complesso di qualunque futuro riusciamo a immaginare”.

“Oggi”, scrive De Biase, “le frontiere del possibile sono in movimento da troppi punti di vista: ecologia, internet, nanotecnologie, robotica, genetica, neuroscienze, biotecnologia – insieme alle loro conseguenze sociali, economiche e culturali – offrono un’immagine del futuro di una complessità tale da rendere irragionevole ogni interpretazione lineare”. L’autore parte da queste considerazioni per domandarsi se sia ancora possibile in un simile contesto “un racconto del futuro che catalizzi le forze innovative”. La risposta, come suggerisce l’esperienza di Gibson, è nell’uso della letteratura come «modello matematico» per il mondo e la storia, in grado di semplificare la realtà senza banalizzarla. E qui torniamo al discorso delle conseguenze. Il futuro è per definizione relegato nella sfera delle possibilità, ma esiste “il modo in cui lo si racconta, lo si disegna, lo si progetta”. Questo non è privo di impatto.

Gli anglofoni hanno un’espressione per indicare le conseguenze dell’immaginario sul reale: self-fulfilling prophecy. Indica la situazione per cui, nell’atto stesso della sua formulazione, una certa ipotesi ottiene un riscontro e un’accettazione che contribuiscono alla sua realizzazione. Le “profezie che si autoavverano” sono tenute in altissimo conto dagli analisti dei mercati finanziari, ma non sono poi così lontane dall’idea del paradosso della predestinazione esplorato dalla letteratura dei viaggi nel tempo e per questo familiare a ogni lettore di fantascienza. Ma possiamo ricondurre in qualche misura allo stesso contesto anche l’evoluzione della Rete e il suo successo.

Tim Berners-Lee, co-fondatore di Internet e  tra i massimi esperti mondiali di web science, non esita a dichiarare che, tra il 1989 e il 1990, mentre erano intenti a immaginare il futuro gettando le basi per il World Wide Web, lui e i suoi colleghi non disponevano ancora del vocabolario adatto per descriverlo. Oggi quel vocabolario è entrato nell’uso comune e prosegue incessantemente il flusso di compenetrazione tra il linguaggio della strada e il gergo tecnico degli specialisti. Non c’è bisogno che ricordi come questo panorama di profonda integrazione fosse già stato perfettamente delineato negli scenari di Neuromante, nel 1984. Dal suo avvento a oggi il web ha continuato a evolvere e, nel suo sviluppo, ha stravolto le nostre abitudini, il nostro stesso modo di rapportarci al mondo attraverso lo spazio e il tempo. È in questo che risiede l’importanza della Rete.

“È un mezzo di comunicazione,” spiega Berners-Lee, “e non più, a mio avviso, un network di pagine. È una rete di persone. In una parola è l’umanità. […] Pensiamo al web come a una cosa grande e importante. Quando lo si considera un mezzo di comunicazione per l’umanità, e improvvisamente l’umanità si trova a dover affrontare questo enorme problema economico, ci si rende conto che c’è bisogno di comprenderlo a fondo: sviluppare la web science, assicurarsi che il web sia utile per l’umanità”.

Le parole di Berners-Lee richiamano alla memoria “l’allucinazione consensuale condivisa da milioni di operatori legali, in ogni parte del mondo” evocata da Gibson nelle sue pagine. È notizia dei giorni scorsi che a dicembre gli utenti connessi alla Rete hanno sfondato la quota epocale del miliardo di navigatori. Ma al di là degli orizzonti richiamati dal cyberpunk, la nuova frontiera fa gola a governi e compagnie perché, se oggi c’è un posto da cui siamo ragionevolmente certi che passi il futuro, quel posto è Internet. Australia e Regno Unito stanno studiando delle misure che limitino l’accesso alla Rete e la fruizione dei suoi contenuti. Periodicamente, disegni di legge analoghi si manifestano anche in Italia, sollevano dibattiti agguerriti e poi si perdono nella discussione parlamentare. Ma c’è una preoccupante tendenza verso il controllo di Internet che continua a raccogliere consensi tanto dal fronte della politica quanto da quello della magistratura. E la visione dei dirigenti delle grandi compagnie del settore, specie quelle in qualche modo legate agli interessi dei governi attraverso la rete delle partecipazioni statali, entra sempre più spesso in conflitto con la prospettiva di ricercatori e sviluppatori.

È evidente la contrapposizione tra una visione gerarchica e rigidamente regolamentata e l’immagine romantica di una frontiera libera e anarchica, completamente decentralizzata. La ricerca, per fortuna, è sempre meno influenzata dalla prospettiva del controllo. Questa è una conseguenza dell’evoluzione che si è prodotta negli ambienti scientifici a partire soprattutto dalla caduta della Cortina di Ferro, con lo smarcamento progressivo (benché non definitivo) della tecnologia dagli interessi militari.

E questo è solo uno dei tanti esempi che dimostrano come ancora una volta le conseguenze dell’atto di immaginare il futuro potrebbero incidere sulla distribuzione delle probabilità tra i futuri possibili. E la fantascienza, continuando a essere chiamata in causa per parlarci attraverso l’immagine del futuro dei cambiamenti che hanno luogo attorno a noi, non può ancora permettersi di prescindere dalle conseguenze.

[gdm]

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