Prende piede la percezione del cambiamento come spirito di questi tempi, a caccia di una prospettiva che consenta di superare l’orizzonte della crisi. Quale funzione può svolgere il racconto dell’avvenire in questo contesto?
Esiste un fraintendimento di fondo per cui dai non addetti ai lavori si guarda alla fantascienza con la sufficienza che si riserverebbe a una persona poco affidabile o del tutto priva di credibilità. L’equivoco scaturisce dall’erronea convinzione nutrita da molti che, essendo letteratura rivolta al futuro, la science fiction abbia facoltà di previsioni e debba esercitare queste doti con una certa infallibilità. In realtà tutti i lettori sanno quanto siano infondate queste credenze, ma questo non ha mancato di alimentare una forma di pregiudizio verso un genere che più di una volta ha «mancato» di cogliere elementi poi entrati nella nostra quotidianità.
La naturale diffidenza verso la sfera del sapere scientifico – da sempre radicata nella cultura italiana – ha fatto il resto, avvalorando la logica della preclusione al futuro e lasciando che un certo umanismo di maniera trascinasse la letteratura italiana nella dimensione sospesa di un passato prossimo senza orizzonti.
Come conseguenza l’autore di fantascienza non ha mai goduto di molta popolarità qui da noi, e meno di tutti l’autore italiano di fantascienza. Se non altro è possibile da qualche tempo cogliere il giusto tributo della stampa e dell’editoria ai cyberpunk come precursori dell’attuale cultura della rete, oppure ai new waver britannici e americani come interpreti di una stagione autentica di avanguardia. Ma non crediamo che sia un caso se, mentre all’estero autori come Ken MacLeod e Charles Stross ricevono l’attenzione di ricercatori, scienziati e sviluppatori dell’ICT (Information and Communication Technology, il settore che coinvolge l’elaborazione e la trasmissione dell’informazione e il progetto degli strumenti hardware e software per la loro implementazione), qui da noi siano autori completamente estranei al circuito della speculative fiction a raccogliere credito nelle già rarissime occasioni di confronto e dibattito sul futuro.
Un caso emblematico è rappresentato dalla recente iniziativa organizzata da Nòva24 Il Sole 24 Ore e Telecom Italia, un think tank tenutosi il 27 novembre scorso a Venezia per discutere di futuro e del racconto delle sue conseguenze, come si può estrapolare dal sito web dedicato alle Venice Sessions. Sempre sul sito, che raccoglie gli interventi dei protagonisti di quella giornata, è possibile catturare un’istantanea di quel pregiudizio di cui parlavo in apertura in merito al fallimento dei futurologi e ai loro tentativi di «controllare» il futuro (due cose: la prima, nell’opinione generale esiste un’interscambiabilità di fondo tra la figura vaghissima del futurologo e quella decisamente più definita dello scrittore di fantascienza, allo stesso modo in cui illustri esponenti della vita politica di questo paese continuano a confondere astrologi ed astronomi; la seconda, segnatevi la parola “controllo”, ci torneremo più avanti).
Nel suo editoriale sul numero di Nòva24 uscito in allegato al Sole 24 Ore del 2 gennaio scorso, Luca De Biase riprende i temi del suo intervento al workshop e affronta con cognizione di causa l’impatto che il “racconto dell’avvenire” produce sul nostro mondo. De Biase fa giustamente notare come ci sia una tendenza diffusa a parlare di cause ma una ritrosia generalizzata a considerarne le conseguenze. In un contesto ad altissimo grado di integrazione com’è diventato il mondo in cui viviamo, dove le esperienze in un numero considerevole di settori tecnologici interagiscono reciprocamente influenzando il tasso di progresso della storia, isolare le cause può diventare proibitivo e condurre a risultati fuorvianti. Ma quello che giustamente possiamo fare è basarci sulle condizioni del presente in relazione al modo in cui esso era stato disegnato nelle pagine o immaginato nel lavoro degli scrittori e ricercatori che sono stati i principali artefici del nostro mondo. Dopotutto è stato proprio William Gibson a sostenere che “ogni presente è inevitabilmente più complesso di qualunque futuro riusciamo a immaginare”.
“Oggi”, scrive De Biase, “le frontiere del possibile sono in movimento da troppi punti di vista: ecologia, internet, nanotecnologie, robotica, genetica, neuroscienze, biotecnologia – insieme alle loro conseguenze sociali, economiche e culturali – offrono un’immagine del futuro di una complessità tale da rendere irragionevole ogni interpretazione lineare”. L’autore parte da queste considerazioni per domandarsi se sia ancora possibile in un simile contesto “un racconto del futuro che catalizzi le forze innovative”. La risposta, come suggerisce l’esperienza di Gibson, è nell’uso della letteratura come «modello matematico» per il mondo e la storia, in grado di semplificare la realtà senza banalizzarla. E qui torniamo al discorso delle conseguenze. Il futuro è per definizione relegato nella sfera delle possibilità, ma esiste “il modo in cui lo si racconta, lo si disegna, lo si progetta”. Questo non è privo di impatto.
Gli anglofoni hanno un’espressione per indicare le conseguenze dell’immaginario sul reale: self-fulfilling prophecy. Indica la situazione per cui, nell’atto stesso della sua formulazione, una certa ipotesi ottiene un riscontro e un’accettazione che contribuiscono alla sua realizzazione. Le “profezie che si autoavverano” sono tenute in altissimo conto dagli analisti dei mercati finanziari, ma non sono poi così lontane dall’idea del paradosso della predestinazione esplorato dalla letteratura dei viaggi nel tempo e per questo familiare a ogni lettore di fantascienza. Ma possiamo ricondurre in qualche misura allo stesso contesto anche l’evoluzione della Rete e il suo successo.
Tim Berners-Lee, co-fondatore di Internet e tra i massimi esperti mondiali di web science, non esita a dichiarare che, tra il 1989 e il 1990, mentre erano intenti a immaginare il futuro gettando le basi per il World Wide Web, lui e i suoi colleghi non disponevano ancora del vocabolario adatto per descriverlo. Oggi quel vocabolario è entrato nell’uso comune e prosegue incessantemente il flusso di compenetrazione tra il linguaggio della strada e il gergo tecnico degli specialisti. Non c’è bisogno che ricordi come questo panorama di profonda integrazione fosse già stato perfettamente delineato negli scenari di Neuromante, nel 1984. Dal suo avvento a oggi il web ha continuato a evolvere e, nel suo sviluppo, ha stravolto le nostre abitudini, il nostro stesso modo di rapportarci al mondo attraverso lo spazio e il tempo. È in questo che risiede l’importanza della Rete.
“È un mezzo di comunicazione,” spiega Berners-Lee, “e non più, a mio avviso, un network di pagine. È una rete di persone. In una parola è l’umanità. […] Pensiamo al web come a una cosa grande e importante. Quando lo si considera un mezzo di comunicazione per l’umanità, e improvvisamente l’umanità si trova a dover affrontare questo enorme problema economico, ci si rende conto che c’è bisogno di comprenderlo a fondo: sviluppare la web science, assicurarsi che il web sia utile per l’umanità”.
Le parole di Berners-Lee richiamano alla memoria “l’allucinazione consensuale condivisa da milioni di operatori legali, in ogni parte del mondo” evocata da Gibson nelle sue pagine. È notizia dei giorni scorsi che a dicembre gli utenti connessi alla Rete hanno sfondato la quota epocale del miliardo di navigatori. Ma al di là degli orizzonti richiamati dal cyberpunk, la nuova frontiera fa gola a governi e compagnie perché, se oggi c’è un posto da cui siamo ragionevolmente certi che passi il futuro, quel posto è Internet. Australia e Regno Unito stanno studiando delle misure che limitino l’accesso alla Rete e la fruizione dei suoi contenuti. Periodicamente, disegni di legge analoghi si manifestano anche in Italia, sollevano dibattiti agguerriti e poi si perdono nella discussione parlamentare. Ma c’è una preoccupante tendenza verso il controllo di Internet che continua a raccogliere consensi tanto dal fronte della politica quanto da quello della magistratura. E la visione dei dirigenti delle grandi compagnie del settore, specie quelle in qualche modo legate agli interessi dei governi attraverso la rete delle partecipazioni statali, entra sempre più spesso in conflitto con la prospettiva di ricercatori e sviluppatori.
È evidente la contrapposizione tra una visione gerarchica e rigidamente regolamentata e l’immagine romantica di una frontiera libera e anarchica, completamente decentralizzata. La ricerca, per fortuna, è sempre meno influenzata dalla prospettiva del controllo. Questa è una conseguenza dell’evoluzione che si è prodotta negli ambienti scientifici a partire soprattutto dalla caduta della Cortina di Ferro, con lo smarcamento progressivo (benché non definitivo) della tecnologia dagli interessi militari.
E questo è solo uno dei tanti esempi che dimostrano come ancora una volta le conseguenze dell’atto di immaginare il futuro potrebbero incidere sulla distribuzione delle probabilità tra i futuri possibili. E la fantascienza, continuando a essere chiamata in causa per parlarci attraverso l’immagine del futuro dei cambiamenti che hanno luogo attorno a noi, non può ancora permettersi di prescindere dalle conseguenze.
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