Non-A, ovvero L’utopia del ragionare corretto

aprile 16th, 2010

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Pubblichiamo un intervento del traduttore e critico Riccardo Valla sul Non-A e i meccanismi narrativi adottati da A.E. van Vogt nei suoi romanzi. 

Più che nella fantascienza, Non-A andrebbe collocato tra i romanzi utopici, dato che è una delle ultime utopie scritte nel Ventesimo secolo (epoca in cui si sono scritte soprattutto anti-utopie).

Naturalmente, come per le altre utopie, la sua forma segue quella del romanzo della sua epoca, e infatti Non-A non è privo di componenti avventurose e di spunti fantascientifici come gli imperi galattici, le macchine pensanti e i viaggi tra i pianeti. ovvero, per dirla con alcune parole dello stesso van Vogt, è uno di quei “romanzi aristotelici in cui vince sempre l’eroe” (cap. 4). Ma anche Il mondo nuovo era più vicino al romanzo dei suoi tempi – nel suo caso abbiamo il romanzo dello sviluppo della personalità del Selvaggio – che ai lunghi fervorini delle utopie del Settecento, le quali, da parte loro, appartenendo a un’epoca in cui gli scrittori filosofeggiavano a ogni pie’ sospinto, sono diverse dai racconti di viaggio che costituivano la forma delle prime utopie. Quindi non c’è da stupirsi di trovare un’utopia nella forma del romanzo fantascientifico anni Quaranta, con tutte le componenti “pulp” o “space opera” ereditate dal quindicennio precedente. Del resto, il patrimonio di immagini sviluppato dalla fantascienza fino a quel momento – astronavi, pianeti alieni abitati, nuove scienze dell’elettrone e dell’atomo, intelligenze artificiali, mutanti, androidi – è ancora valido oggi, dopo settant’anni, come dimostra il successo di Guerre stellari.

A detta dell’autore, Non-A è il suo libro di maggiore successo. Nella introduzione all’edizione riveduta del 1970, van Vogt scriveva: 

Dopo la seconda guerra mondiale, è stato il primo romanzo di fantascienza scelto da uno dei più importanti editori americani per essere pubblicato in volume.

Ha vinto il premio del Manuscripters Club.

L’Associazione delle Biblioteche di New York l’ha incluso tra i migliori romanzi del 1948.

In Francia, Jacques Sadoul afferma che il romanzo, quando ne comparve la prima edizione, creò virtualmente da solo il mercato francese della fantascienza. Quella prima edizione vendette più di 25.000 copie.

La pubblicazione del romanzo ha richiamato un forte interesse sulla Semantica generale. Numerosi studenti, per merito suo, sono affluiti all’Istituto di Semantica generale di Lakeville, nel Connecticut, per studiare con il conte Alfred Korzybski; lo stesso Korzybski si è fatto fotografare mentre legge il romanzo.

È stato tradotto in nove lingue.

E in realtà, con la sua scusa di ritrarre un futuro mondo basato sulla Semantica generale – un’utopia, dunque – il romanzo è davvero un’efficace presentazione di quella scuola. Leggi tutto »

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Mauro Antonio Miglieruolo

giugno 18th, 2009

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Giuseppe Lippi traccia un dettagliato profilo dell’autore italiano di questo mese: Mauro Antonio Miglieruolo.

“Se il padrone sapesse in quale ora della notte viene il ladro…” (Vangelo secondo Matteo, 24, 43)

“Voi stessi infatti sapete benissimo che il giorno del Signore verrà come ladro di notte” (Prima lettera ai tessalonicesi, 5, 2)

“Il futuro viene come un ladro nella notte” (Quarta di copertina, Il dio del 36° piano)

Quando si parla della fantascienza italiana, di solito, lo si fa con un misto di fierezza e timore, di orgoglio e paura della concorrenza, ovviamente quella straniera. E si finisce, il più delle volte, per fare di tutt’erba un fascio. Sarebbe il caso, invece, di parlare meno del genere e più spesso di autori, i singoli scrittori che l’hanno arricchita e che non hanno nulla da invidiare ai più famosi colleghi anglofoni o europei. E’ con questo spirito che abbiamo cominciato a pubblicarli in “Urania collezione”: Mauro Antonio Miglieruolo è il quarto dei classici italiani che ripresentiamo qui, dopo Lino Aldani, Roberta Rambelli e Sandro Sandrelli. Altri seguiranno, ci auguriamo, per documentare il percorso della buona e ottima fantascienza scritta in Italia, ma nel caso di Miglieruolo un chiarimento è necessario: questa terza edizione di Come ladro di notte (concepito nel 1966; pubblicato nel 1972 e riproposto nel 1984) non nasce esclusivamente da intenti storici e tantomeno celebrativi. Benché esca in una collana di classici, il romanzo è così originale da fare l’effetto di un testo nuovo e fresco di concezione. Non è così per l’autore, beninteso, il quale sostiene che molta acqua è passata sotto i ponti e che lui stesso non è più l’uomo di allora; ma per il lettore, soprattutto per chi abbia il piacere di affrontarlo la prima volta, ha l’effetto di una scoperta liberatrice. Di un insegnamento, aggiungiamo a costo di sembrare pedanti, ai molti che ancora oggi vanno cercando una “via” nazionale alla fantascienza.

Questa via Miglieruolo l’aveva già trovata allora, grazie ad alcuni elementi classici del genere (gli “stati e imperi” tra le stelle) uniti a un’analisi impietosa del potere politico e, soprattutto, a un geniale collegamento con il mito. Ma neanche questo esaurisce la carica vitale del romanzo, perché a sua volta il mito cristiano della parusìa, il secondo avvento di Cristo e la fine dei giorni, è abilmente giocato in maniera ironica. Non soltanto ironica, ci affrettiamo ad aggiungere, ma una delle caratteristiche essenziali del libro è la sua leggerezza, l’assoluta mancanza di prosopopea. Che in duecentocinquanta pagine si possa descrivere la preparazione e attuazione dell’Armageddon, completa di cause, concause, istruzioni per l’uso e tribolazioni di una folla di personaggi-chiave, è la dimostrazione che Miglieruolo vanta un’immaginazione di prim’ordine, l’ingrediente base di tutta la fantascienza. In virtù della quale ci offre una sorta di Stranamore cosmico, un’odissea che ha la forza dei più originali racconti di pensiero, perché non può darsi romanzo o narrazione veramente viva senza una robusta impalcatura ideale.

In Miglieruolo l’impalcatura è tanto matura da risultare in una sintesi mitica dove il potere delle immagini e del linguaggio delineano un quadro lucido, e allo stesso tempo visionario, delle forze in gioco dentro e fuori di noi. Le due principali nemiche sullo scacchiere di Come ladro di notte sono la voluttà ― principio onesto del mondo ― e l’ipocrisia, grande forza imbrigliatrice delle energie. Lo scontro si svolge a questi livelli e adopera, come pedine, i classici oggetti della fantascienza barocca: astronavi a milioni e pianeti colossali, velocità fantastiche e pugni di stelle, moltiplicandone il gigantismo e l’indole eccessiva senza che questo turbi minimamente l’ossatura ideale e il piacere ludico dell’insieme. Ed eccone le premesse narrative (attenzione, perché contiene spoiler!). In un futuro molto lontano e che forse potremmo collocare intorno al LXX secolo, l’umanità si è diffusa nell’universo, popolandolo di repubbliche, regni e satrapie che vivono all’insegna dell’odio reciproco, dell’intrigo e dello sfruttamento. Ma il ricordo di un antico insegnamento perdura, sia pur modificato dal tempo e dai costumi: quello del Secondo avvento, la parusìa del Signore, alla quale seguirà il Giudizio Universale. Anziché derivare direttamente dalle parole di Cristo come le riferisce il Vangelo di Matteo (24, 25) o dalla loro ripresa in San Paolo (prima e seconda Lettera ai tessalonicesi), la dottrina della parusìa è ora riferita alle parole del filosofo Calogero, che con essa intende significare la fine dell’uomo, la necessità di cancellare l’intelligenza dall’universo. Solo in questo modo, infatti, potrà tornare la purezza negli elementi, fin qui turbati dalla nostra presenza. Il compito di realizzare l’immane obbiettivo, che comporta la distruzione fisica di tutti i popoli, è affidato alla Congrega degli Inumani, una potenza politica votata al culto della morte e organizzata come una sorta di clero. Fondatore dell’organizzazione è il profeta Còttero, ormai defunto anche lui; oggigiorno gli Inumani sono retti dal Discepolo Pàngolo, che di fatto ha rinunciato a perseguire lo scopo dei suoi predecessori. La parusìa è irrealizzabile, egli ritiene, mentre si possono perseguire più ordinari scopi di conquista e assoggettamento delle potenze galattiche rivali.

In questo quadro si inseriscono ― come lampi e improvvisazioni, cioè senza il tedio del romanzesco convenzionale ― le disavventure di una folla di personaggi, primo tra i quali il coordinatore Zanzotto. Gli eventi precipitano e precipitano anch’essi, donne e uomini, verso la calamità singolare. Da notare che nessun tassello della trama è superfluo, nessuna azione puramente decorativa. La tortura fa male, in questo libro; il desiderio sessuale è palpabile ed eccita anche noi; gli intrighi non ci divertono come se fossimo ragazzi che giocano al Monopoli, ma ci sorprendono nella loro brutalità. E’ probabile che Miglieruolo abbia tenuto presente lo schema di saghe preesistenti come quella di Isaac Asimov, ma è altrettanto sicuro che vi abbia iniettato una dose di verità sconosciuta a gran parte della science fiction americana e di quella italiana. Solo nelle opere dei fantasiarchi inglesi (H.G. Wells e Olaf Stapledon) si coglie una vastità nel disegno paragonabile a quella del Ladro di notte; e il tema è la sorte dell’universo umano.

Durante un’esercitazione condotta dal coordinatore Zanzotto, dunque, quest’ultimo si rende conto che non sarà possibile portare a termine il disegno del filosofo Calogero: i numeri non ci sono, le “astronavi da battaglia” necessarie a cancellare tutte le razze dalla faccia del creato dovrebbero essere infinitamente superiori alle scorte presenti e future, che pure si contano a miliardi. Conclusione, la Congrega degli Inumani deve avere altri scopi che non la semplice estinzione dell’umanità. Bruciante di fuoco iniziatico, Zanzotto (che li ignora) mette nero su bianco le sue scoperte e le affida a un rapporto esplosivo consegnato al generale Cossa, comandante dell’immensa sfera Caligola, una struttura grande quanto un pianeta. Ma Cossa è imbarazzato e consiglia Zanzotto di ritirare il suo rapporto. La satira degli ambienti e del linguaggio burocratico è splendida: Miglieruolo, che all’epoca era un “mezzemaniche” lui stesso, conosce tanto bene la lingua farisaica da farne un più che arguto calco narrativo. Burocrazia è uguale a ipocrisia per uno scopo ben chiaro: la conservazione del potere.

Nel frattempo, un attentato dinamitardo sconvolge alcuni livelli di Caligola: il responsabile è Seele, dignitario dell’Ascensione Retta. L’Ascensione è una delle numerose potenze ostili fra loro e sempre pronte a scatenare flotte per divorarsi a vicenda. Dopo aver organizzato l’attentato, Seele viene catturato e torturato; quindi i suoi aguzzini gli rivelano che sua moglie Lilla si è concessa al giudice Raffaele Senese (alias Rudy), un vizioso seduttore. Umiliato e rimandato al mondo d’origine, Seele finirà per strangolare la moglie, ma essendo Lilla figlia di Lillo, Gran conferenziere della Lega austrina, il gesto avrà per conseguenza la guerra fra Lega e Ascensione, con ripercussioni in tutta la galassia. I fermenti voluti dalla Congrega si moltiplicano: ci si avvia al conflitto finale. Vi è un’ironia, in queste vicende, che di solito la fantascienza ignora; e al tempo stesso vi è una necessità che sentiamo di non poter trascurare. Necessità dettata dagli intrighi della Congrega, ma che nasce altresì dai “moti del cuore”, come si chiamavano una volta: l’episodio di Seele, questo Otello del futuro, non è che un tassello nel mosaico, ma vibra di una violenza e un divertimento tutti propri.

La libidine repressa e il suo complementare, la libidine mercificata, costituiscono un altro tema importante del libro: Zanzotto, che in quanto affiliato alla Congrega degli Inumani è rigidamente condizionato contro le tentazioni carnali, in un momento di libertà dal controllo possiede Silvena, che ritiene in buona fede una sua dipendente. Ma la donna è una spia al soldo della Sublime Coalizione, un’ennesima potenza rivale, e oltre a tramare tresche e trappole erotiche pianifica il sabotaggio della stella Canadis, il quartier generale affiliato. Zanzotto, che ne è all’oscuro, si sente fortificato dall’incontro con Silvena e continua a servire con zelo la Congrega, partecipando a varie azioni di guerra. In particolare, darà man forte alla repressione del movimento profetico di Elio nel sistema dell’Etologia e chiederà la condanna a morte del ribelle. Elio è una figura cristologica che durante il processo passa per le mani del Pilato di turno, ma il suo vero accusatore rimane Zanzotto. E così colui che alla fine del romanzo sarà chiamato come Gesù, qui riveste i panni del persecutore. Nella dialettica della notte che si addensa, niente è ciò che sembra. Il linguaggio dell’episodio è evidentemente biblico, con l’uso di metafore e fraseggi che sono ricalcati su quelli dei vangeli.

Il problema di Zanzotto è che desidera più che mai diffondere il proprio rapporto, divulgando la verità sulla parusìa. Sospettato di sedizione cadrà in disgrazia e verrà lui stesso torturato, come Elio nell’episodio precedente. La riabilitazione gli sarà concessa, ma solo un attimo prima di perdere la ragione. Passato dal ruolo di Caifa a quello dell’accusato innocente, Zanzotto si interrogherà a lungo sul proprio ruolo, in alcune delle pagine più belle del libro. La sua disillusione è totale, l’impossibilità di inoltrare il rapporto è quanto di più frustrante. E benché, a un certo punto, uno spiraglio sembri aprirsi, quando gli viene concesso di tornare nel consesso civile non è più l’uomo di prima.

Poco dopo, un colpo di stato scuote la Congrega. Pàngolo reagisce in tempo e ribalta la situazione: la vendetta contro gli avversari sarà feroce. Intanto su Canadis, la stella centrale degli Inumani, la missione di Silvena e del suo agente arriva al culmine, ma la macchina bellica messa in moto dalla Congrega è davvero inarrestabile. Zanzotto, il cui amore per la verità lo ha reso sospetto e inviso a tutti, si vede accusare nuovamente di tradimento; tenta la fuga ma capisce che è tutto inutile, il futuro non appartiene più ai retti. Ancora una volta la voluttà dei puri sarà repressa e al posto della parusìa trionferanno interessi e sopraffazione. Mentre il coordinatore offre i polsi ai carcerieri come aveva fatto Gesù, la Congrega degli Inumani si prepara a scatenare l’attacco definitivo contro tutti gli stati della galassia, “per mangiarseli in un sol boccone”.

Da un punto di vista ideologico, questa conclusione è molto legata ai tempi in cui il romanzo fu scritto: l’ultima riga, in particolare, sembra una resa dopo tanta ironia, lucidità e combattività. Ma a ben guardare l’intera costruzione del romanzo è pessimistica e centrata intorno all’idea, per dirla alla Pavese o alla Calogero, che “la morte si sconta vivendo”. E’ anche un’idea molto cristiana, per cui la vita è ingiusta e la morte giusta, il mondo è tentazione mentre l’altro mondo riequilibra i pesi. Più volte Miglieruolo ha dichiarato che il finale del libro gli sembrò superato appena finito di scriverlo, superato dagli avvenimenti della vita e dalla sua evoluzione personale. Tuttavia, nel suo notevole fatalismo contiene qualcosa che va al di là di un finale da romanzo. Perché questo, ricordiamolo, non è soltanto un racconto ma un mito e la sua verità riverbera nel profondo, là dove ognuno di noi è prigioniero e ammanettato, soverchiato da forze schiaccianti.La ricchezza del libro è stata notata fin dalla prima edizione, anzi fin dalla prima lettura (fulminante, in una sola notte) da parte di Lino Aldani. Vittorio Curtoni e Gianni Montanari gli dedicarono una scheda memorabile che abbiamo riproposto qui; e la rivista “Pulp” pensò di ristamparlo in un anno chiave come il 1984. Da parte nostra ci sentiamo ancora di sottolineare che la forza del romanzo si deve, oltre che all’originale accumulo di materiali, alla concezione ellittica e libera dai tradizionali schematismi della narrativa a intreccio; a una sintassi rapida e allusiva; infine alla lingua, o meglio ai linguaggi letterari usati. Che sono retti da una fine alternanza di semplicità e passi altisonanti, di umiltà e toni ieratici, questi ultimi regolarmente capovolti da un’invidiabile freschezza terra-terra nel contrappunto. Una scelta stilistica a suo modo rivoluzionaria che mette alla berlina l’oppressore, inficiandone la violenza con una sintassi gentile. La provenienza dei vari modelli è evidente: linguaggio biblico e piccole parabole; lingua oscura delle profezie e gergo burocratese dei documenti; lazzi triviali e pomposa ufficialità (anche l’ufficialità letteraria, beninteso). E poi i dialoghi trasversali, provocatori e ironici.

Dire che la fantascienza italiana non avesse mai espresso qualcosa di simile non è azzardato: spesso non ci è riuscita neanche la narrativa tout-court. I pochi autori che si siano cimentati con sfondi così vasti e con un mito della nostra cultura si sono fermati, in genere, all’ABC del visionario. Miglieruolo, invece, scende nella sua materia, l’allarga e la rende necessaria. E benché oggi siamo nel 2009 e non nel 1966 o ’68, ne rimaniamo colpiti ugualmente perché il romanzo parla una spontanea lingua underground, o forse above the ground di parecchie spanne: come il suono delle trombe annuncerà il gran Giorno, così la pagina “rapisce gli uomini, portandoli nell’aria”.

E’ evidente come Mauro Antonio Miglieruolo sia un narratore del pensiero che affronta scenari immensi con l’umiltà di certi naturalisti all’alba dell’età moderna, i quali studiavano piante e animali dell’orto di casa per trarne conclusioni che richiedevano insieme rigore e immaginazione. Oggi che il savant è stato riassorbito dalla sistemistica e dall’organizzazione, non gli resta ― per guardare oltre il velo dell’ordinarietà ― che abbandonarsi a ipotesi da fantascienza. O fantafilosofia, per chi ci è portato. La cosa va sottolineata in un momento come l’attuale, in cui troppi nuovi autori di SF rinunciano al pensiero e puntano agli effetti, o subordinano il pensiero a formule d’effetto anche quelle. In Miglieruolo no, il pensiero è sbrigliato ma riconoscibile, le fonti sono varie ma agevolmente rintracciabili: siamo di fronte a uno scrittore che non si vergogna di essere un ragionatore e un uomo socialmente consapevole.

La sua avventura personale comincia in Calabria come quella di Tommaso Campanella, l’autore della più drastica utopia italiana: La città del sole. Miglieruolo nasce infatti a Grotteria, in provincia di Reggio, il 6 aprile 1942. All’anagrafe il suo cognome viene trascritto anche come “Migliaruolo”, dando origine a numerose traversie. Spiega lui stesso: “Sia la versione Miglieruolo che la versione Migliaruolo sono autentiche. Sull’estratto dell’atto di nascita risultano ambedue, insieme ad altre possibili soluzioni che leggendo tra le cancellature effettuate (e a rigore proibitissime) la fantasia può inventare. Non faccio alcun commento sul responsabile di quell’obbrobio: per anni mi ha tormentato mandando certificati ora con la ‘a’ ora con la ‘e’ (versioni che i suoi successori tra l’altro contestano), tant’è che per salvarmi dalla burocrazia andavo in giro con la carta d’identità accompagnato da una dichiarazione del comune in cui si affermava essere Miglieruolo Mauro Antonio e Migliaruolo Mauro Antonio la sola e medesima persona, il cui nome veniva però attestato ora in un modo e ora nell’altro, a capriccio dell’estensore. La trappola nella trappola.

“Per dare una soluzione al problema ho cercato di informarmi: sembra che nel comune di nascita mio padre risulti Miglieruolo, mentre al momento di sposarmi colui che ha compilato il certificato ha deciso che facevo Migliaruolo. Per non dover rimandare il matrimonio mi sono rassegnato a utilizzare il cognome Migliaruolo, con cui sono stato assunto all’INPS,  lasciando inalterato il nome di penna ‘Miglieruolo’. Tornare a Migliaruolo anche come scrittore? Si tratta di un’ipotesi affascinante. Potrei essere d’accordo. Bisognerà vedere se il segretario comunale se ne vorrà contentare…”

Problemi di grafia a parte, all’età di dieci anni Mauro Antonio si trasferisce a Roma, in tempo per veder nascere la fantascienza sui periodici specializzati: “Scienza fantastica” e “I romanzi di Urania”. Nella capitale vivrà da allora in poi, tranne una parentesi bellunese dopo aver vinto un concorso statale. Nel 1964 comincia a pubblicare racconti e nel ’66 crea il suo primo, originalissimo romanzo, Come ladro di notte che verrà pubblicato nel 1972 su “Galassia” (la stessa collezione che aveva tenuto a battesimo il suo racconto d’esordio, “Colpo di tacco”). Tra il 1967 e il 1974 si occupa attivamente di politica nelle file della nuova sinistra e poi, fino al 1980, nel  sindacato Cgil-Inps. Pubblica racconti su diverse testate (“Galassia”, “Oltre il cielo”) ed è presente nelle antologie italiane Amore a quattro dimensioni (1971) e Fanta-Italia: sedici mappe del nostro futuro (1972) con celebri racconti come “Ideale” e “Gli arpionatori”. Nel 1975 esce su “Nova sf*” n. 33 il romanzo breve “L’automazione a Detroit” e l’anno successivo, su “Robot” n. 3, il celebre racconto erotico “Circe”. Su “Nova sf* speciale” n. 1 (1976) esce un altro importante romanzo breve, “Oniricon”, mentre dopo la ripresa delle pubblicazioni di “Futuro”, la rivista diretta da Lino Aldani e ora ribattezzata “Futuro Europa”, numerosi racconti e interventi di Miglieruolo vedranno la luce qui: “Golpe 2000”, “Metamorfosi”, “Otto marzo”, “I nostri ideali”, “Libero mercato”, “Conflitto d’interesse”, “Scienza e conoscenza”, “Dio e la scienza”, “L’uccisore di robot”. Attualmente la sua narrativa è sistemata in due raccolte: Assurdo virtuale edito dalla Elara di Bologna e La bottega dell’inquietudine apparso presso le Edizioni della Vigna di Arese (Milano). Esiste un romanzo tuttora inedito cui Miglieruolo tiene in modo particolare: Memorie di massima sicurezza.

Giuseppe Lippi

[Per la bibliografia completa di Mauro Antonio Miglieruolo si rimanda al Catalogo della SF, Fantasy e Horror a cura di Ernesto Vegetti.]

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Intervista a Lino Aldani

febbraio 2nd, 2009

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 Riprendiamo questa lunga intervista ad Aldani curata da Giuseppe Lippi.

Lino Aldani è ritenuto, a livello internazionale, il maggiore esponente della fantascienza italiana ed è senz’altro il più tradotto. Nell’antologia The Science Fiction Century (1997), il volume a cura di David G. Hartwell che ripropone i capolavori della sf del Novecento, i soli autori italiani inclusi sono Lino Aldani e Dino Buzzati. Il suo successo dipende da tre motivi: la forza dello stile, con cui descrive ambienti straordinari e personaggi reali, estremamente credibili (non di rado si tratta di mature proiezioni dello stesso Aldani); la costante qualità dell’invenzione in un genere che spesso si accontenta di scimmiottare le trovate altrui, per cui si può ben dire che Aldani sa uno dei pochi maestri italiani del fantastico; infine, la tensione ideale, l’intensità che c’è in ognuno dei suoi racconti, sia che descrivano una grottesca Italia del futuro, sia che parlino della necessità di rivoluzionare l’uomo. Autore, in cinquant’anni di carriera, di innumerevoli racconti brevi che spaziano dalla commedia al dramma, dall’avventura psicologica alla profezia sul nostro domani, Aldani ha scritto in tutto sei romanzi fantastici, mentre almeno due di genere realistico non sono mai stati pubblicati. Per onorare i cinque decenni di una carriera così importante, la Perseo Libri di Bologna ha racchiuso l’intero corpus della narrativa di Aldani – racconti e romanzi – in cinque volumi: La croce di ghiaccio, Ontalgie, Aria di Roma andalusa, Febbre di Luna e Themoro korik, cui si può aggiungere la raccolta a quattro mani, firmata con Ugo Malaguti, Millennium. “Urania” ha voluto festeggiare a sua volta il grande scrittore andando  a intervistarlo nella sua casa di San Cipriano Po, dove ha ritrovato un geniale narratore, un attivissimo direttore di rivista – la sua “Futuro Europa”, attualmente pubblicata dalla Perseo, è la reincarnazione della storica “Futuro” degli anni Sessanta – e un uomo davvero impeccabile, lombardo di sangue ma romano di spirito oltre che d’adozione… Come si vedrà dalle seguenti battute. 

Domanda: Aldani, tu sei nato nel 1926 e hai combattuto molte battaglie del presente, immaginando nelle tue opere quelle del futuro.Come ti senti nello scenario degli anni Duemila, adesso che ci siamo?

Risposta: Abbiamo tutti aspettato quella data, ma nel complesso provo una gran delusione. Gli anni 2000 sono arrivati a vuoto, inutilmente; tante cose che avrebbero dovuto mettersi a posto, invece si sono aggravate.

D.: Ma l’emozione di vivere questo XXI° secolo?

R.: L’emozione? Per dirla alla Gigi Proietti, meno male che ci sono arrivato. 2002, 2003, 2004, un anno vale l’altro… Qui non si muove niente, è questo il grave.

D.: Secondo te, c’è stata una contrazione del senso del futuro?

R.: Sì che c’è stata. Quale senso del futuro ci è rimasto? Lo ha scritto anche Fabio Calabrese ad Antonio Scacco, parlando di prospettive…

D.: E i motivi?

R.: Non lo so con precisione, ma non siamo pronti a gestire il futuro. Ci siamo capitati in mezzo e non ce la facciamo.

D.: Questa situazione è molto diversa dal passato…

R.: Negli anni Sessanta e Settanta c’è stato un ottimismo della volontà che ci ha fatto sperare, ma col passare degli anni ha avuto la meglio il pessimismo della ragione. Guarda quello che scrive Ernst Schumacher, il sociologo tedesco di Piccolo è  bello, un libro del 1973: a meno di non cambiare radicalmente il nostro atteggiamento in direzione bioetica, il mondo andrà incontro a un’immane distruzione di risorse, capacità e forme di vita. Non vedere questo equivale ad essere fregati. Una delle cose che l’umanità non vuole assolutamente capire è che da quando è iniziato un certo tipo di sviluppo, non abbiamo fatto un momento di pausa. Stiamo continuando ad andare avanti in progressione geometrica, prosciugando tutto quello che avremmo dovuto conservare per il futuro.

D.: E’ un enorme problema politico. Un tempo c’erano le attese del socialismo, a mitigare il panorama: tu sei stato un militante e ancora nel 1980, in un’intervista concessa a Vittorio Curtoni sulle pagine della rivista “Aliens”, parlavi di rivoluzione….

R.: Le attese socialiste, che condividevamo in tanti, non si sono verificate. Sì, ci ho creduto a lungo, ma ormai l’unica rivoluzione che possiamo fare consiste nel coraggio di sopportare l’attuale situazione. E’ già un pensiero rivoluzionario, perché non vuol dire condividere ma sopportare un certo stato di cose.

D.: Sopportare va bene, ma reagire?

R.: Come si fa? Non è più possibile. Il perché è già contenuto in nuce nelle analisi di André Gorz, ad esempio nel Socialismo difficile del 1968. Noi abbiamo vissuto l’epoca di Stalin, che è stato l’uomo che ha tentato di costruire il socialismo in Russia dopo Lenin…

D.: L’obbiettivo finale di un regime socialista dovrebbe essere l’abbattimento dello stato, naturalmente dopo un periodo transitorio. In passato non hai mancato di sottolinearlo: era questa la tua visione dell’utopia?

R.: Sì, e credo che nonostante tutto si potrebbe ancora arrivare al superamento dello stato…. In effetti è l’unica utopia ancora viva, l’unica che possa stare in piedi. [Sorride, poi]: Peccato che m’hai preso in una giornata in cui non so parlare. Ti rispondo a frasi mozze.

D.: Forse è solo che non hai voglia di teorizzare. Veniamo a cose più concrete, per esempio la tua famiglia e l’ambiente da cui provieni.

R.: Mio padre era uno chef d’albergo originario di San Zenone, mia madre una mondina di San Cipriano Po. Personalmente non ho imparato l’arte culinaria, so fare solo qualche piatto. [La moglie, Mirella, interviene: “Lumache e quaglie le fa benissimo!”]

D.: Quando sei nato, i tuoi genitori vivevano a Roma?

R.: Sì, mio padre ci si era trasferito per lavorare. Per far partorire mia madre erano tornati a San Cipriano, ma avevo quaranta giorni quando siamo andati definitivamente a Roma. [Mirella interviene per aggiungere aneddoti sulla nascita di Lino. Lui, un po’ irritato, la interrompe]: Ma te stai un po’ zitta un momento? Sì, sono spesso irritato perché da infante mi legavano le braccia nelle fasce. Però, in fondo sono una buona pasta.

D.: Mi puoi raccontare qualcos’altro, della tua infanzia?

R.: Sto scrivendo un racconto sull’argomento.  Mi ricordo, per esempio, che mia madre mi lasciava solo in casa, dicendo che mi avrebbe tenuto compagnia il bambin Gesù. Però io stavo solo su un seggiolone e mi rodevo… Altro che “la mamma fa presto”! Avevo tre anni e magari, per calmarmi, lei prometteva di portarmi un grammofonino che regolarmente non arrivava. A tre anni già scrivevo e scarabocchiavo, volevo risme di carta. “Tu prega Gesù”, diceva la mamma: ma il mio sogno era possedere una risma di carta! Gesù l’ho cassato, l’ho cancellato da allora. Sono ateo completo, sottolineato. Però combatto sempre con i libri di religione, perché sono alla ricerca di una conferma alle mie conclusioni. Sono una personalità profondamente religiosa perché so vedere, nelle cose della vita, un lato che non è affatto terra-terra.

D.: I tuoi studi, la tua professione?

R.: Ho studiato matematica e filosofia, materie che poi ho insegnato nelle scuole serali. T’a ricordi, Mire’…? Però la scuola l’ho odiata, appena ho potuto sono andato via. Baby pensionato dell’insegnamento, eccomi qua.

D.: Come è cominciata la tua carriera letteraria?

R.: Nell’immediato dopoguerra ho scritto un romanzo senza titolo e diversi racconti di ambientazione partigiana che avrei potuto pubblicare con Lucio Lombardo Radice. Lui dirigeva la rivista di un circolo culturale, “Incontri”, che mi rifiutò un racconto: l’avrebbero accettato solo a patto di cambiare il finale. Lo stesso dicasi per il romanzo, Lombardo Radice pensava che ci fossero problemi ideologici, cose che non andavano. La tesi del libro era che non si può entrare in un’epoca di pace portandosi dietro i vecchi rancori della guerra partigiana. Dopo questi inizi, c’è stato un romanzo esistenziale, Le anatre di sughero. Parlava di un certo Coriolano Mauser, una mia proiezione, e della sua esistenza. Questo signore viveva situazioni tipiche dell’esistenzialismo: si trovava in un cimitero, assisteva alle imprese di un gruppo di vagabondi che scoperchiavano le bare dei morti. Ad un certo punto, andava da un pescatore sul fiume che utilizzava le anatre di sughero: bestiole finte che suggeriscono l’idea di una realtà illusoria.

D.: Sono esperienze autobiografiche anche per quanto riguarda il periodo di guerra?

R.: Durante la Seconda guerra mondiale sono tornato a San Cipriano Po, il paese dove sono nato, per un periodo di quattordici mesi. Ero renitente alla leva e avevo deciso ad andare in collina fra i partigiani, ma nessuno volle accompagnarmici. E’ un paese di cacca, il mio, di confine, di gente che si schisciava (scansava, sottraeva).

D.: Dopo quegli esordi neorealisti, come ti è nata la passione per il fantastico?

R.: Per me è un fatto naturale, di carattere. Sono nato ignorante e sono rimasto ignorante a lungo, son venuto fuori dopo: di conseguenza, all’epoca dei primi racconti non è che avessi tanto riflettuto su problemi di genere o altro. Del resto, da ragazzi, chi aveva il tempo di leggere? I miei primi racconti fantastici li ho scritti dopo aver fatto il militare e letto Sartre, il mio grande amore. Si era verso la metà degli anni Cinquanta, quando mi è venuta l’idea de “L’inseguito”. Più o meno a quell’epoca è uscita “Urania” rivista e mi è dispiaciuto non poco quando ha chiuso dopo quattordici numeri. In seguito ho letto “Planète”, che conteneva altre suggestioni ma sulla stessa onda: il mistero del santo Graal, eccetera…

D.: Come hai cominciato a scrivere fantascienza?

R.: E’ stato un mio alunno, all’epoca in cui insegnavo. Vedendo che avevo con me dei numeri di “Urania” mi ha fatto conoscere un pazzo, certo Polimeni, che si interessava di dischi volanti. In seguito l’alunno mi portò un numero di “Oltre il cielo”, la rivista pubblicata negli anni Cinquanta-Sessanta. Ho cominciato a collaborare, a scrivere racconti per loro e mi sono familiarizzato con la redazione: l’ingegner Armando Silvestri, il direttore, e il suo braccio destro Cesare Falessi, alto quasi due metri, una specie di marziano ma con un buon acume editoriale. E’ stato lui a consigliarmi di passare dal genere satirico, con cui avevo esordito, al racconto “serio” di sf. Per i miei gusti, comunque, in “Oltre il cielo” c’erano troppa avventura e troppa astronautica.

D.: Ed è stato a quell’epoca che hai conosciuto tua moglie.

R.: Ho conosciuto Mirella nel 1955, lavorava nella stessa scuola (dove insegnava matematica) e in occasione degli esami ci siamo frequentati un po’ di più. Il 25 luglio 1957 ci siamo sposati e ricordo che il giorno prima abbiamo fatto un doppio di tennis. Abbiamo vinto noi e gli altri ci hanno chiesto la rivincita, ma dovevamo sposarci ventiquattr’ore dopo e così abbiamo rinunciato. Elettra, nostra figlia, è nata nel 1964.

D.: Un anno prima avevi fondato una tua rivista di fantascienza…

R.: Sì, “Futuro” è nata nel 1963. Ne ero molto soddisfatto, ma si trattava di una visione utopica perché pensavo che se uno publica cose buone, il successo è automaticamente assicurato. Invece mi resi conto che per aver successo te devi appecorona’. Intorno alla rivista lavoravamo in parecchi: a parte me c’erano Massimo Lo Jacono, Giulio Raiola, Sandro Sandrelli e Inìsero Cremaschi; con Lo Jacono non mi ci prendevo, lui era per una rivista commerciale, io per la qualità. Poi arrivò Cremaschi e allora… che vuoi fare più? Lui aveva il pallino della moglie, Gilda Musa, ce la infilava dappertutto.

D.: Quella di “Futuro” è stata un’avventura breve, ai tempi. Anche se poi l’avresti rifondata con Ugo Malaguti e oggi la pubblichi con il titolo “Futuro Europa”.

R.: Sì, la prima “Futuro” è morta nel 1964, dopo il fallimento di un distributore e il subentrare del secondo. Otto numeri usciti e non vedemmo neanche un soldo, proprio perché il distributore fallì. Chiuso quel ciclo, le prospettive per la mia narrativa mi sembravano zero. Non scrivevo più niente. Nel 1975 ho lasciato la scuola, mettendomi in aspettativa; quindi sono andato in pensione. Intanto, già nel 1968 eravamo andati via da Roma e ci siamo trasferiti a San Cipriano Po, il paese dove sono nato: ho  insegnato ancora qualche anno in zona e Mirella ha fatto lo stesso. Poi ci siamo ritirati.

D.: Come è stato l’impatto con queste terre?

R.: Appena arrivato da Roma in provincia di Pavia, mi è sembrato di sbarcare su un altro pianeta. Dove fra l’altro comandavano i fascisti. Per due anni non abbiamo avuto neanche una casa, mentre costruivamo questa: poi mi hanno eletto sindaco e ho rivoltato le carte in tavola, sul piano politico. Ho fatto ribattezzare via Gramsci la strada in cui viviamo e ho ripreso a scrivere.

D.: Hai messo subito mano al tuo primo romanzo, Quando le radici?

R.: Guarda, i primi capitoli di Quando le radici li avevo già scritti a Roma nel 1966: ma allora ero troppo occupato a vivere. Alla fine, quando il libro è uscito nello Science Fiction Book Club della Tribuna (1977), rispecchiava abbastanza fedelmente quello che avevo fatto nella realtà, il trasferimento da Roma al Po. In questo paese, San Cipriano, sono successe proprio le cose di cui parlo nel romanzo.

D.: E’ una storia tormentata ma realistica, una  profetica visione dell’italia del futuro. Come venne accolta, all’epoca?

R.: Credo che fosse accusata di pavesismo, di eccesso di realismo provinciale, cose del genere. Anche per questo, quando l’editore De Vecchi mi commissionò un secondo romanzo decisi di cambiare registro e il risultato fu Eclissi 2000 del 1979.

D.: Come avevi conosciuto De Vecchi?

R.: Tramite Mario Macario, il figlio di Erminio. Eravamo amici, lui aveva un contatto con De Vecchi e mi chiesero di scrivere un altro libro. Eclissi sembra la storia di un viaggio interstellare, tema popolare ma secondo me insostenibile: tuttavia, negli ultimi anni mi sono convertito all’idea che una cosa del genere puoi scriverla come puro divertissement. Lo stesso vale per i viaggi nel tempo. In un certo senso, però, anche Eclissi 2000 è una professione di fede: l’astronave Terra Madre rappresenta il socialismo e il romanzo poggia sulla tesi che non puoi costituire un governo, anche socialista, senza dire bugie e promettere cose false: è questo il significato dell’astronave che non vola.

D.: Poi, nel 1980, è stata la volta di Nel segno della luna bianca scritto con Daniela Piegai e pubblicato dalla Nord.

R.: Il nostro titolo era Febbre di luna ed è stato restaurato per la riedizione fatta dalla Perseo Libri. L’idea ci è nata per sfatare le tante cavolate sulla Tradizione con la T maiuscola, la destra eccetera. Volevamo fare un fantasy che fosse dichiaratamente di sinistra, e come tale fu attaccato da Gianfranco de Turris e altri. Costoro lo giudicarono il peggior romanzo sporcaccione prima di Porci con le ali

D.: Come era suddiviso il lavoro tra te e la Piegai?

R.: Il romanzo è prevalentemente mio perché la trama è mia dalla “A” alla “Z”, ma avevo bisogno di una collaboratrice come la Piegai che è esperta in sortilegi, leggende eccetera. Mi ha tolto le castagne dal fuoco in varie occasioni, ma il romanzo lo sento mio.

D.: Così arriviamo alla Croce di ghiaccio del 1989, il romanzo pubblicato dalla Perseo.

R.: Sì, e la sua genesi può essere cercata nel fatto che avevo un amico prete. Costui aveva una gran paura  di finire ammazzato da un momento all’altro per mano degli zingari che avrebbe dovuto evangelizzare. E’ stato quest’amico a introdurmi nel mondo degli zingari, è il prete che nel romanzo viene ammazzato dai gironiani. Ma il problema religioso non è pertinente o centrale al mio libro: non sono d’accordo con i critici cattolici come Antonio Scacco, secondo i quali sarebbe un romanzo scritto per fare andare d’accordo scienza e religione.

D.: Nella tua carriera i racconti hanno sempre avuto una posizione predominante. Li preferisci ai romanzi?

R.: Sì, indubbiamente. La fantascienza è un genere che si regge sulla bontà dei suoi racconti o al massimo delle novelette, cioè i racconti lunghi. A chi fosse preoccupato della sorte dei personaggi, posso assicurare che in un racconto è possibile delinearli con la stessa efficacia. Se basta una schioppettata per abbattere un volatile, perché sprecarne tre o quattro? Personalmente, ritengo di aver scritto vari romanzi che hanno la lunghezza di racconti: “La costola di Eva”, “Trentasette centigradi”, eccetera.

D.: Quale consiglio daresti a un giovane aspirante scrittore?

R.: Tu vuoi farmi dire qualche banalità! Non si possono dare consigli, semmai augurare a tutti di  avere una gran fortuna, imboccare la strada giusta. In realtà nessuno può dire come si fa, men che meno io. Bisogna avere serietà innanzi tutto.

D.: Cosa ti piace leggere di fantascienza?

R.: Da anni non la seguo più, a parte quello che arriva alla redazione di “Futuro Europa” e che leggo per dovere.

D.: E quali criteri segui, in questo tuo “dovere”?

R.: Colmo con uno sforzo il gap della mia ignoranza.

D.: Secondo te, ha ancora senso scrivere science fiction? 

R.: Sì, ma solo a patto di mettere in risalto la “pars destruens”, non la “pars construens”. Altrimenti ci limiteremmo a scriverla solo perché siamo nel campo, la conosciamo e compagnia bella.

(Intervista raccolta da Giuseppe Lippi con il contributo di Mirella Aldani, Ugo Malaguti e Sebastiana Vilia a San Cipriano Po, PV, il 18 settembre 2004. Pubblicata su “Urania” n. 1494 nel gennaio 2005.)

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Sandro Sandrelli

novembre 21st, 2008

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Il lungo testo che segue costituisce un capitolo del saggio Le frontiere dell’ignoto. Pubblicato nel 1978 dall’Editrice Nord, rappresentava un ampliamento della tesi di laurea di Vittorio Curtoni sulla fantascienza italiana negli anni Sessanta. Trattandosi di un documento di grande interesse, abbiamo deciso di offrirne i primi due capitoli in anteprima ai lettori di Urania Blog. Il testo integrale è incluso nel volume Caino dello spazio, attualmente in edicola.

1. Caratteristiche generali

Dal 1949 (anno in cui appare il suo primo racconto, Le ultime trentasei ore di Charlie Malgol) al 1963 (quando esce il secondo volume della serie «Interplanet»), Sandro Sandrelli ci ha dato una serie di racconti e romanzi che hanno come base comune il gusto della situazione avventurosa, continuamente riproposta in forme di grande vivacità. Con «Interplanet 3» la sua vena tende ad interiorizzarsi, a creare vicende in cui la trama è ridotta al minimo e generalmente ancorata ad una precisa realtà storica. Quest’ultimo periodo, sfortunatamente, è anche il piú breve della sua carriera letteraria: nel 1965 esce l’ultimo volume di «Interplanet» e da allora Sandrelli ha smesso di scrivere, fatta eccezione per qualche episodio (d’altronde di scarso rilievo) su «Oltre il Cielo».

Dovendo affrontare il discorso critico sul vasto materiale che Sandrelli ha prodotto dal 1949 al 1965, occorrerà subito premettere che il suo interesse principale va al divertimento del lettore: di qui, appunto, nasce quel gusto per l’avventura che mi sembra l’elemento piú tipico della sua produzione. Il paesaggio extraterrestre, la pazzesca invenzione scientifica, l’avvenimento paradossale, temi che si ritrovano con puntualità nei suoi lavori, diventano occasione per procedere secondo moduli narrativi di carattere sostanzialmente ludico. Il che non impedisce di poter leggere sotto le righe un preciso discorso sulla realtà dell’uomo e dei suoi tempi, ma è un discorso che si sviluppa in modo indiretto, senza interventi attivi da parte dell’autore. In altre parole: Sandrelli rifiuta costantemente di esporre al lettore, bell’e pronte, le sue consideraziomi etico-ideologiche, preferendo lasciarle nascere quasi di soppiatto, come inevitabile conseguenza degli avvenimenti narrati. Le opere di Sandrelli soddisfano pienamente il pubblico in cerca di divertimento e gli forniscono l’occasione di riflettere sommessamente, senza fanfare altisonanti, sui  motivi dell’esistenza umana. Leggi tutto »

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