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Per un ritratto (sanguigno) dello scrittore da giovane

luglio 14th, 2012

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Parliamo di fantascienza come altri, al bar, parlano di sport. Autori, critici e lettori discettano di quello che è sacro e profano nella science fiction, e con l’avvento di blog e forum la cosa ha assunto il carattere di una piena. Senza il dibattito, l’anima stessa del genere sembra avvizzire, la pratica insterilire. Fiorirà l’aspidistra, diceva Orwell, ma bisogna pur darle un poco di luce indiretta e terriccio drenato!

Minore attenzione sembra ricevere la pratica della fantascienza, cioè la sua produzione come lavoro indefesso da parte degli autori-demandati. Il lettore e l’appassionato medio ignorano quello che la sf rappresenta per chi ne ha fatto una professione. E’ un privilegio? E’ un’attività estatica, o almeno rasserenante, che in cambio di un fascio di novelle ambientate sotto le lune di Giove ci consenta ampi guadagni, il diritto a una pensione federale (nel senso di Federazione dei pianeti) e una casa al mare per le vacanze? Le opinioni divergono. C’è chi si aggrappa alla favola dell’Età d’oro, secondo cui chiunque pubblichi opere narrative sia un ricco e affermato professonista della creatività. C’è chi, al contrario, disprezza le umili cure del romanziere di ghetto, ricordando che da sempre litterae non dant panem. Per trarre un esempio dai tempi nostri, un dibattito ospitato di recente nei forum italiani si è proposto il compito speculativo di scoprire quanto guadagnasse un “curatore” di collane fantascientifiche, al lordo e al netto delle ritenute. Il curatore, come si sa, è la persona che mette insieme i pezzi di una collezione di libri come “Urania”: seleziona racconti, compila note biografiche, fornisce i necessari apparati e così via. Non è necessariamente il direttore responsabile, non sempre è l’editor (benché questa bella definizione latina significhi appunto “chi unisce le varie cose [per pubblicarle]”), ma viene identificato con la parte contenutistica della collana. Ebbene, si chiedevano ansiosi al forum, si può vivere di un’attività tanto immateriale? Prendendo a esempio alcuni specialisti che all’attività editoriale avevano dovuto affiancare qualcos’altro (per esempio la professione di traduttore, insegnante o giornalista), gli indagatori ne avevano concluso che fosse impossibile ricavarne uno stipendio. E che, se qualcuno ci avesse provato, sarebbe rientrato automaticamente in uno dei due casi: ricco di famiglia o morto di fame.

Ma a prescindere dall’aspetto più sordido, il problema scottante rimane quello degli autori in rapporto alla propria funzione. Che senso ha scrivere queste cose? Che tipo di soddisfazione fornisce, come condiziona la vita? A queste domande risponde Il mondo di Herovit (Herovit’s World, 1973), terzo romanzo di recursive sf o fantascienza auto-referenziale scritto da Barry Malzberg negli anni Settanta. Gli altri due, Dwellers of the Deep (1970) e Gather in the Hall of the Planets (1971), inediti in Italia, affrontano rispettivamente la nevrosi di un “fan” e gli improbabili fatti avvenuti durante un congresso di sf; entrambi sono stati pubblicati con lo pseudonimo K.M. O’Donnell, allora usatissimo dall’autore.

Ciò che i tre libri – e un pugno di racconti, più tardi riuniti nella compilazione The Passage of the Light (1994) – vogliono dipingere al lettore è l’esercizio della fantascienza. La sua laboriosità e travaglio sotto il triplice aspetto di impiego creativo, negotium commerciale e specchio della più generale tribolazione del vivere. Infatti, non basta dire che “si scrive per vivere”, intendendo con ciò il mantenimento della prole più che lo sfogo di una spiritualità imbottigliata. E’ vero che il romanziere-professo paga l’affitto con la space opera e le bollette con quella sociologica, ma è altrettanto dimostrato che potrebbe soddisfare tali necessità con altro mestiere o capacità professionale. Ergo, dobbiamo supporre che nella scelta della science fiction come mezzo per guadagnarsi pane e companatico, vi siano ragioni più profonde (probabilmente masochiste) che il Malzberg indaga con spettrale verosimiglianza.

La conclusione provvisoria sembra essere che l’artista o artigiano della fantascienza sia prigioniero di una passione/ossessione. La passione, magari di vecchia data, per un genere letterario comunque “fantastico”; unita alla coazione a ripetere il rituale delle sue convenzioni, nella segreta consapevolezza di non saper fare altro nella vita. Ma questo auto-confinamento, questa rinuncia a più alte mete può innescare un conflitto nella personalità, soprattutto se è vittima di mai sopite aspirazioni all’onnipotenza. E’ precisamente quanto accade all’eroe dei paperback che prende vita nel Mondo di Herovit: martire da una parte e sognatore di sogni furiosi dall’altra, al quale comincia a manifestarsi (in una serie di visioni che hanno il sapore dell’invasione ma anche quello della dolce vendetta) il suo eroe di carta, il superman spaziale Mack Miller. Perché quell’impavido astronauta si materializza nei momenti di stress? C’è da fidarsi, quando gli promette la soluzione di tutti i problemi? E in che modo mette in discussione le scelte di Herovit? A quest’ultima domanda possiamo rispondere subito: le mette in discussione in modo radicale e definitivo, suggerendogli che la fantascienza bisogna viverla, non scriverla. Vuoi andare sulla luna, vacci! Vuoi strangolare mostri e possedere donne in reggipetto d’ottone, fallo! Diventa il tuo eroe, non imbrattare fogli di carta (all’epoca si usava la carta). Ecco il motivo del blocco di Herovit, che non riesce a finire l’ultimo romanzo e deve anzi una somma al suo agente, il quale gliel’ha incautamente anticipata. Non può finirlo perché anziché scrivere vorrebbe vivere: ma per il momento egli non sa fare altro che vivere-attraverso-lo-scrivere. Un dramma sordido, lacerante.

Qui o siamo nella schizofrenia o nella science fiction, il che già dimostra l’affinità tra i due generi. Certo si tratta di comedy sf, ma non era stato Fredric Brown, il gran predecessore di Malzberg, a dimostrare come la commedia, la situazione grottesca e paradossale, non fosse meno pericolosa di qualunque dramma letale? Herovit, l’antieroe del libro, era un tempo appassionato di fantascienza e l’aveva scritta con amore e fervore. Ora, i lettori ipercritici che circolano nelle convention hanno preso a disprezzarlo e nel profondo del cuore Herovit sa che hanno ragione, perché da tempo i suoi libri non hanno il sapore dell’originalità. Egli è insomma un has-been, un “ex” sospeso fra due mondi, e questo si riprecuote – dalla sfera dell’idea e delle sacre scritture – su quella formidabile della vita quotidiana. A New York, non sulla luna, Herovit è un ex-marito amato, e quel che è peggio, un ex-marito amante. Sua moglie non lo vuole più, per fare l’amore deve pregarla e supplicarla. “Dovevo farmi strada”, dirà con un’efficace espressione, “ogni volta dentro di lei”, alludendo non solo all’esercizio del coito ma all’antefatto necessario e spesso umiliante. Mack Miller, il personaggio galattico, non ha problemi di questo genere, anzi non ha problemi di sorta e la sua voce risuona sempre più sicura nel cervello di Herovit. Quanto allo pseudonimo che il nostro romanziere usa per pubblicare le sue avventure – Kirk Poland – è a metà strada fra i due: Kirk è un nome epico come quello del comandante dell’ Enterprise, Poland è un bel cognome ebreo con tutta una storia dietro. Il messaggio di Mack Miller all’ebreo è: cedimi il comando e avrai chiuso con dubbi e sofferenze.

C’è un genere di fantascienza paradigmatico, l’invasione della Terra con strumenti mentali, che ci ha familiarizzati con questa situazione: vengono, prendono possesso di noi, dall’esterno sembriamo gli stessi ma intimamente siamo “loro”. In questo romanzo la formula rischia di essere aggiornata in modo preoccupante: vengono, siamo in fondo sempre noi, c’impossessiamo di noi stessi. Come? Spossessando quello che c’era prima, l’altro io dei racconti di Hoffmann e Dostoevskij. In una celebre storia di Maupassant, “L’Horla”, il doppio che ci insidia è addirittura invisibile; quello di Herovit assume fattezze da cartolina perché è un personaggio pulp, ma le sue sembianze non ingannano nessuno. Egli è sangue strappato al suo creatore, è i pensieri di lui, è la sua repressa e sconfessata volontà di potenza. In questo senso, Mack è altrettanto invisibile dell’Horla, meno che nei momenti in cui succhia l’anima del suo alter ego.

In sostanza Mack è il superuomo, l’animus aggressivo e vendicativo del romanziere (il cui cognome potrebbe suggerire la frase Hero-victim, vittimadel complesso dell’eroe, se non fosse che è di origine polacca e nelle mitologie slave esiste una divinità della fertilità nota come Herovit, lat. Gerovitus, il cui suffisso –vit indica la vita.) Il conflitto che si instaura è spaziale e temporale insieme, perché Mack vuole emergere a tutti i livelli, conquistando un corpo che ha una sua fallimentare diacronicità e conducendolo sulla via della gloria.

Siamo consapevoli che qualche lettore, tra coloro che spendono contanti per leggere un romance, cioè un racconto d’immaginazione, potrà domandarsi: Che ci fa quest’intrusione del novel nella mia edicola? Perché prendersi il disturbo di leggere, e tantomeno scrivere, l’avventura di un povero terrestre, sia pure resa in bello stile americano da Barry Malzberg? Tentiamo una risposta dedicata a questi amici: la narrativa moderna è tanto novel che romance, e soprattutto nei Tempi Passati (gli eoni ante-presidenza Reagan, per esempio) la forma realistica prevaleva addirittura su quella romanzesca. Ma è lo stesso realismo che ci piaceva in Sheckley, nel suo collega ebreo Asimov, in Pohl, in Sturgeon. Guardate bene e ritroverete, in queste pagine, tutto il mondo – anzi, tutti i mondi – della tormentata sf. Malzberg, uno dei grandi innovatori della fantascienza americana negli anni Settanta e Ottanta, non ha fatto altro che affrontare il tema del doppio in chiave di fantascienza. Fredric Brown l’aveva, in qualche modo, anticipato in Assurdo universo e Marziani, andate a casa!, due romanzi del primo dopoguerra, ma in essi vigevano ancora le regole dell’arte per l’arte, della sf matura, mentre qui siamo a un passo dalla “dissoluzione” del genere, almeno metaforica. In romanzi come Oltre Apollo, Galassie e Il giorno del cosmo Malzberg ha descritto le più grande impresa umana (il volo nello spazio) in chiave di fragilità e ossessione, perché vissuta non da uomini completi e soddisfatti ma da uomini sconfitti, esasperati e alienati; ora, nel Mondo di Herovit, trasferisce ironicamente il fardello sulle spalle degli autori di fantascienza, cioè sui profeti stessi del sogno. La lotta di Herovit, quest’uomo dall’apparenza perdente e dalla fibra di piccolo eroe quotidiano, è il nerbo del romanzo: riuscirà a conservare la testa al suo posto, a garantire l’illusoria unicità del suo essere?

Interrogativo che ci riporta a una efficace dichiarazione di Nietzsche, esperto non solo di superuomini ma anche di follia, secondo cui “di tutto quanto è scritto, amo solo quello che uno scrive col proprio sangue”. Il mondo di Herovit, che non è solo un romanzo ma una vita, è scritto proprio così.

Giuseppe Lippi

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Plutone e l’astronomia di H. P. Lovecraft

giugno 30th, 2012

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, questo saggio dell’astronomo valdostano su alcune ricerche eterodosse intorno a Plutone che interesseranno anche i lettori di fantascienza

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Il 13 marzo 1930 veniva annunciata al mondo la scoperta del nono pianeta del Sistema Solare: Plutone. Occorre precisare che, a partire dal 24 agosto 2006, Plutone ha perso il suo status di pianeta e ora è compreso nell’elenco dei pianeti nani. Tuttavia, anche in questi giorni di grandi telescopi, sonde spaziali e metodi di analisi raffinati, questo remoto avamposto del Sistema Solare racchiude ancora parecchi segreti, primi fra tutti quelli relativi alla sua origine e alla sua rarefattissima atmosfera stagionale.

Ma è la storia stessa della scoperta di Plutone ad essere intrigante, eco di un’epoca non tanto distante da noi ma che, nondimeno, ci appare remota. La vicenda è ben nota: a causa delle deviazioni orbitali di Urano e Nettuno, all’inizio del XX secolo si sospettava l’esistenza di un ulteriore pianeta che doveva trovarsi oltre l’orbita di Nettuno. Furono in particolare gli astronomi statunitensi Percival Lowell (1855-1916) e William Henry Pickering (1858-1938) a sostenere questa tesi. Plutone fu scoperto proprio dall’osservatorio astronomico fondato da Lowell a Flagstaff in Arizona, grazie all’infaticabile opera di Clyde Tombaugh. In un’era senza computer, la ricerca di un nuovo corpo celeste appartenente al Sistema Solare era un processo lungo e faticoso: per prima cosa bisognava riprendere una serie di fotografie di campi stellari preferibilmente attorno alla zona dell’eclittica (il piano dell’orbita terrestre), a distanza di alcuni giorni l’una dall’altra. In seguito, le lastre di campi stellari identici, ma riprese in tempi diversi, dovevano essere esaminate visualmente con il comparatore di immagini, un macchinario in grado di evidenziare se c’era qualche debole puntino di luce che si fosse spostato in cielo da una posa a quella successiva. Fu proprio esaminando migliaia di lastre fotografiche che Tombaugh trovò Plutone, nella costellazione dei Gemelli, in immagini riprese il 23 e il 29 gennaio 1930. Tuttavia, passata l’euforia della scoperta, fu presto chiaro che Plutone era troppo poco massiccio per provocare perturbazioni gravitazionali apprezzabili sulle orbite di Urano e Nettuno, infatti il suo disco non era risolvibile neanche usando il maggiore telescopio dell’epoca, il riflettore da 2,55 metri di diametro di Monte Wilson. Per questo motivo, anche dopo la scoperta di Plutone, proseguì la “caccia” ad un ulteriore nuovo pianeta che venne chiamato Pianeta X, dove la “X” indica sia il numero romano 10, sia la lettera per l’incognita.

Ma non erano solo gli astronomi dell’epoca a pensare che dovesse esistere un ulteriore pianeta oltre Nettuno. La pensava così anche Howard Phillips Lovecraft (1890-1937), uno dei maggiori scrittori di letteratura horror e precursore della moderna fantascienza. Lovecraft nacque il 20 agosto 1890 a Providence (capitale dello stato del Rhode Island). Come diceva lui stesso fu un bambino molto particolare, che preferiva la compagnia degli adulti al posto di quella dei coetanei e che amava leggere qualunque parola fosse stampata su carta. A cinque anni aveva già imparato a leggere e scrivere. Ad iniziare Lovecraft all’astronomia fu la nonna materna, o meglio, la sua obsoleta collezione di testi astronomici [1, 2]. E’ leggendo questi volumi ammuffiti che Lovecraft si appassionò alla scienza di Urania, che rimase sempre la sua preferita (in età giovanile si interessò anche di chimica…). Nel gennaio 1903 Lovecraft cominciò ad essere molto assorbito dall’astronomia, tanto che la madre gli regalò un piccolo telescopio rifrattore da 63 mm di diametro con il quale iniziò ad osservare il cielo. Come ben sa chiunque abbia avuto la fortuna di osservare per un certo periodo attraverso un telescopio, prima o poi la voglia di fissare sulla carta quello che si vede all’oculare diventa irresistibile, ed è probabile che anche Lovecraft abbia fatto qualche schizzo dei crateri lunari e dei pianeti, anche se il disegno non era il suo forte. In particolare, i suoi soggetti astronomici preferiti erano la Luna e Venere. Non trascorreva una sola notte senza osservare e le conoscenze empiriche che acquisì gli furono molto utili nella stesura degli articoli di astronomia che scrisse in seguito. Nell’agosto 1903 Lovecraft osserva la sua prima cometa, la 19P/Borrelly (scoperta il 28 dicembre 1904 dall’astronomo francese Alphonse Louis Nicolas Borrelly), e inizia a pubblicare, scrivendolo a mano, un periodico di astronomia amatoriale, il “The Rhode Island Journal of Astronomy”. La pubblicazione andò avanti per ben quattro anni, prima con periodicità settimanale, poi mensile. Fra l’altro, il nostro, grazie all’interessamento del Prof. Upton, aveva anche libero accesso ad un osservatorio universitario (il Ladd Observatory della Brown University), dotato di un telescopio da 30,6 cm di diametro e situato su una collina a meno di 2 km da casa. Nell’agosto 1906 Lovecraft iniziò a scrivere una serie di articoli mensili su fenomeni astronomici per il “The Providence Tribune”. Da notare come sia proprio con l’astronomia che ebbe l’esordio sulla carta stampata! Nel 1907 Lovecraft conobbe anche il famoso Percival Lowell, presentatogli dal Prof. Brown, in occasione di una conferenza che tenne a Providence. Lovecraft non sopportava l’astrologia e in diverse occasioni portò avanti delle vere e proprie campagne stampa contro questa pseudo-scienza. In realtà, anche se non frequentò mai la Brown University per problemi di salute (stava per entrarci nel 1908 ma dovette desistere), le conoscenze astronomiche di Lovecraft dovevano essere ben più approfondite di quelle richieste per la stesura di un articolo di giornale o le contestazioni all’astrologia. Prova ne è una sua lettera del 16 luglio 1906 diretta all’Editor della rivista di divulgazione scientifica “Scientific American”, e pubblicata il 25 agosto 1906. Per apprezzare quanto abbia “osato” Lovecraft è necessario ricordare che Scientific American è una delle più antiche e prestigiose riviste di divulgazione scientifica, nata negli Stati Uniti nell’agosto 1845. Inoltre “Scientific American”, anche se non ha il sistema dei referee tipico delle riviste scientifiche come “Nature” o “Science”, è comunque molto rigorosa nell’esposizione.

In questa lettera a “Scientific American” [3] Lovecraft ricorda che ci sono sette comete conosciute che hanno l’afelio (il punto più distante dal Sole della loro orbita) a circa 100 UA (una unità astronomica è la distanza media Terra-Sole e vale circa 150 milioni di km) e che gli astronomi pensano che questo sia dovuto alla presenza di un pianeta avente un raggio orbitale attorno alle 100 UA. Dopo questa introduzione, spiega che lui stesso ha trovato un addensamento degli afeli per diverse comete attorno alle 50 UA dal Sole e che anche questo potrebbe essere dovuto all’azione gravitazionale di un pianeta sconosciuto. Scrive Lovecraft: <<Chi scrive ha notato che ci sono molte comete che con i loro afeli si addensano attorno alle 50 UA, dove potrebbe orbitare un pianeta di massa apprezzabile. Se i grandi matematici del nostro tempo cercassero di calcolare l’orbita da questi afeli dubito che possano avere successo; >> Naturalmente Lovecraft non aveva i mezzi tecnici per verificare la sua ipotesi, ma invitava gli astronomi suoi contemporanei a cercare un nuovo pianeta lungo la fascia dell’eclittica, impiegando la stessa tecnica utilizzata per gli asteroidi. Evidentemente, aveva a disposizione un elenco delle comete allora conosciute, con tanto di elementi orbitali, e aveva tracciato un diagramma con la posizione dei perieli in funzione della distanza dal Sole. In effetti la concentrazione di afeli a 50 UA è davvero presente. Tutto sommato, niente male per una persona che detestava la matematica e la geometria.

Ma Lovecraft e l’ipotetico pianeta trans-nettuniano erano destinati ad incrociare ancora le loro storie. Nel febbraio 1930, circa un mese prima che venisse resa nota la scoperta di Plutone, Lovecraft inizia a scrivere uno dei suoi racconti più belli, “The Whisperer in Darkness” (tradotto in italiano con il titolo: Colui che sussurrava nelle tenebre, [4]). Il racconto si suddivide in due parti. Nella prima, il protagonista (Albert N. Wilmarth, docente di letteratura inglese e appassionato studioso del folklore locale alla Miskatonic University di Arkham, Massachusetts) ha un rapporto epistolare con Henry Akeley, un gentiluomo di Townshend nel Vermont, che sostiene di essere entrato in contatto con una razza aliena che si nasconde nelle foreste e nelle montagne attorno alla sua fattoria. A supporto della sua tesi Akeley invia a Wilmarth la registrazione fonografica di una conversazione fra umani e alieni e alcune foto delle impronte delle misteriose creature. Nella seconda parte Wilmarth, impressionato dal materiale ricevuto, va a fare visita ad Akeley e si rende conto che è tutto vero! Quando arriva, Akeley è già stato rapito dagli alieni ed è pronto per essere mandato sul loro pianeta di provenienza, Yuggoth. Lo stesso Wilmarth si salva a stento dal fare la stessa fine, con una roccambolesca fuga dalla fattoria infestata dagli alieni. Il racconto venne concluso nel settembre 1930 e pubblicato sulla rivista di racconti horror e fantastici “Weird Tales” (Strani Racconti) nell’agosto 1931. In The Whisperer in Darkness, Lovecraft identifica Yuggoth con Plutone che, appunto, era stato appena scoperto. Narra infatti Wilmarth, alla fine della sua avventura [4]: <<Quelle colline selvagge sono certamente l’avamposto di una terribile razza cosmica: non ho più il minimo dubbio, dopo avere letto della scoperta di un nono pianeta più lontano di Nettuno, evento questo predetto esattamente da quei mostri. Gli astronomi, senza rendersi affatto conto di quanto sia appropriato quel nome, lo hanno chiamato Plutone. Sento, senza nutrire il minimo dubbio, che di altro non si tratta se non di Yuggoth, il mondo avvolto nelle tenebre….>>. Da questo racconto è stato tratto un omonimo film che ha visto la luce nel 2011, prodotto da Sean Branney, Andrew Leman e David Robertson, distribuito dalla HP Lovecraft Historical Society [5]. Quello che Lovecraft non poteva sapere è che in realtà Plutone è un corpo celeste troppo piccolo e inospitale per essere il mondo di una civiltà aliena, a meno che questa non provenga da un sistema extrasolare che possegga un pianeta abitabile e Plutone funga semplicemente da “base di appoggio”. Tutto sommato, forse Wilmarth è stato un po’ precipitoso ad identificare Plutone con Yuggoth!

The Whisperer in Darkness è un racconto scritto senza fronzoli o divagazioni e, nel complesso, è abbastanza plausibile. L’Universo non viene visto come un luogo da esplorare ricco di opportunità, ma come sede di alieni che perseguono i loro scopi incuranti dell’umanità, da cui stare il più possibile alla larga. L’annuncio della scoperta di Plutone, il cui nome venne ufficialmente conferito il 1° maggio 1930, deve avere molto colpito Lovecraft se decise di inserirlo nel suo racconto. Certamente, dovette ricordarsi della sua lettera scritta 24 anni prima all’Editor di “Scientific American”. In effetti l’utilizzo della concentrazione degli afeli delle comete per la ricerca di pianeti trans-nettuniani è una tecnica utilizzata tuttora. Le comete sono corpi di piccola massa, soggetti alle perturbazioni gravitazionali di tutti i corpi del Sistema Solare e quindi dei “marcatori” molto promettenti per la ricerca di eventuali nuovi pianeti sufficientemente massicci eventualmente presenti oltre Nettuno. Purtroppo, la presenza di un certo numero di comete con afelio a circa 50 UA non può essere dovuta ad un corpo planetario sconosciuto. Infatti, a circa 50 UA termina bruscamente la Fascia di Kuiper (la cui scoperta risale al 1992 quando fu individuato l’asteroide 1992 QB1), l’insieme dei corpi trans-nettuniani di cui Plutone è uno dei membri maggiori. Se ci fosse un pianeta di massa apprezzabile la fascia ne risulterebbe fortemente perturbata e avrebbe un confine posto a distanze inferiori dal Sole. Un corpo di taglia planetaria, delle dimensioni di Marte o della Terra, è invece ancora possibile per distanze superiori, attorno alle 100 UA dal Sole [6]. Nel 1999 due gruppi di ricercatori hanno sostenuto di avere la prova della presenza di un pianeta sconosciuto nel Sistema Solare grazie all’allineamento su un arco di cerchio delle direzioni degli afeli delle comete di lungo periodo. Tuttavia, le comete scoperte sono soggette ad effetti di selezione (bias). Questi includono anomalie dovute all’eccesso di osservatori nell’emisfero nord rispetto a quello sud, bias stagionali e diurni, effetti direzionali che rendono più difficile scoprire comete in alcune regioni del cielo. Per questo motivo è difficile analizzare i dati odierni e vi è quindi la necessità di avere un campione di comete di lungo periodo che sia libero da effetti di selezione. Dati completi di questo tipo potranno essere forniti dal satellite Gaia dell’Agenzia Spaziale Europea che verrà lanciato nella primavera del 2013. Gaia dovrebbe permettere la scoperta di circa 1000 comete di lungo periodo nel corso della sua missione di 5 anni. Dall’analisi della distribuzione degli afeli cometari uscirà qualche indicazione sull’esistenza del vero Yuggoth? Sarebbe veramente simbolico chiamare con questo nome, uscito dalla fervida fantasia di Lovecraft, l’ipotetico corpo planetario trans-nettuniano che gli astronomi dovessero trovare ai confini del Sistema Solare.

Bibliografia

[1] De Turris G., Fusco S. (a cura di), L’orrore della realtà (lettere 1915-1937), Ed. Mediterranee, Roma (2007).

[2] H.P. Lovecraft’s Interest in Astronomy, http://www.hplovecraft.com/life/interest/astrnmy.asp

[3] Lettera di Lovecraft a Scientific American: http://4.bp.blogspot.com/_QKWok61IOLw/TAUVjiMuwHI/AAAAAAAAKNc/uROnCWuPaxw/s1600/Lovecraft+Scientific+American+2.jpg

[4] Pilo G., Fusco S. (a cura di), I miti di Cthulhu, Newton, Roma (1995).

[5] Sito Web del film “The Whisperer in Darkness”, http://cthulhulives.org/Whisperer/trailer.html

[6] Schilling G., Caccia al Pianeta X, Springer-Verlag Italia, Milano (2010)

Albino Carbognani

Laureato in fisica con il massimo dei voti, ha conseguito il dottorato in fisica del plasma presso l’Università “La Sapienza” di Roma nel 1994. Ricercatore astronomo all’Osservatorio Astronomico della Regione Autonoma Valle d’Aosta, è responsabile della ricerca scientifica astrometrica e fotometrica sugli asteroidi. Collabora con l’Osservatorio Astronomico della Costa Azzurra alla missione spaziale Gaia dell’ESA e con il DLR di Berlino e l’Osservatorio di Torino all’osservazione ed analisi dei Troiani di Giove. È autore/coautore di decine di pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali e di centinaia di articoli di divulgazione astronomica su Coelum, Nuovo Orione e Le Stelle. Insieme a Luigi Foschini è autore del libro “Meteore – dalle stelle cadenti alla catastrofe di Tunguska” (CUEN, 1999).

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Maestro del passato e del presente

giugno 7th, 2012

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Raphael Aloysius Lafferty (1914-2002) è vissuto in Oklahoma e prima di dedicarsi completamente alla narrativa (1970), è stato un ingegnere elettrotecnico con l’hobby delle lingue straniere. Cominciò a scrivere nel ’60 ed è uno degli autori più apprezzati dalla vecchia generazione di lettori – sebbene lui stesso sia tutt’altro che “uno scrittore per vecchi” – per il semplice fatto che solo gli appassionati di una certa esperienza hanno avuto la possibilità di leggerlo, in un’epoca in cui anche in Italia fioccavano traduzioni di ogni genere. Oggi è amabilmente ricordato da molti, cordialmente evitato da pochi (per le sue idee narrative radicali) ma non ha mai lasciato indifferente nessuno. E a tanti anni di distanza dalle prime pubblicazioni nella nostra lingua, possiamo tranquillamente evitare di presentarlo come uno scrittore d’essai, da circuito culturale insomma, perché le sue ardite soluzioni romanzesche e il suo umorismo filosofico non risultano più ermetici di un film di Woody Allen (quelli del filone “europeo”, diciamo), né più indigeste di un romanzo di hard sf dell’ultimo decennio. Riteniamo, invece, che sia uno scrittore straordinariamente attuale e completo: certo, uno scrittore e non un semplice conta-storie, ammesso che i conta-storie siano semplici o che siano scrittori; insomma, pensiamo che la lettura di un Lafferty abbia un effetto positivo sul lettore anche quando pare giocare con le iperboli e a qualcuno potrà sembrare, di primo acchito, un po’ ellittico. Non erano un po’ ellittici, nelle prime pagine, i romanzi di J.G. Ballard, di Thomas Disch, di Michael Moorcock e Ursula K. Le Guin? E non erano spiazzanti certe trovate di Farmer, che pur avendo cominciato a scrivere solo una decina d’anni prima di Lafferty, sembra il suo più probabile antenato fantascientifico? Il lettore non può essere che spronato dagli interessi mitologici di Raphael Aloysius, dal suo acuto scavo nel contemporaneo e nel rimosso, nelle pieghe della cultura e della narrativa. E non può che seguirlo, andando a leggere poi le sue fonti, i suoi ispiratori, persino i suoi libri sacri. Del resto, il romanzo che abbiamo scelto i presentare oggi, Maestro del passato (1968), non è che l’atteso verbale dell’utopia che da anni aspettavamo la sf americana ci desse una buona volta. Gli atti di quel processo alla società perfetta che sarebbe continuato nei Reietti dell’altro pianeta di Ursula K. Le Guin, anche se su un piano meno paradossale. Detto ciò, lasciamo la parola all’autore e al prefatore originale di questo romanzo, Riccardo Valla, che elegantemente (siamo ancora all’ombra del ’68!) ce lo presenta come un guru, un autore da circuiti raffinati. Un guru lo è senz’altro, ma rassicuriamo i perplessi: accessibile a tutti i fantascientisti di sana e robusta costituzione.

G.L.

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«Dopo avere frequentato assiduamente i bar», racconta Lafferty stesso, «a un certo punto smisi. Queste decisioni lasciano un vuoto: quando lasciate gli interessanti personaggi dei bar perdete una parte del fantastico e del pittoresco. Per sostituirla incominciai a scrivere fantascienza». Si dichiara «cattolico del tipo fuori moda, vale a dire conservatore», e politicamente dice: «Sono l’unico iscritto al Partito Centrista d’America, di cui esporrò la dottrina in qualche racconto ironico-utopico, una volta o l’altra».

Per vari anni ha scritto solo racconti, poi, nel 1967, incominciarono ad apparire anche suoi romanzi. I primi, Cantata spaziale e Le scogliere della Terra, destarono un certo interesse, che si accrebbe notevolmente con il presente Past Master, giunto in finale all’Hugo e al Nebula nel 1968. L’anno successivo anche Quarta fase fu nominato per l’Hugo. Più tardi è stato molto apprezzato Il diavolo è morto (1971).

Parlando di Lafferty, la critica cita il suo humor bizzarro, la sua fantasia libera e colorita, il suo stile evocativo, la sua forza poetica. Si è detto che le sue opere sono romanzi dell’assurdo, che ricordano Il circo del dottor Lao di Charles G. Finney e una certa atmosfera joyceana. Blish parla di lui come di un autore di «fantasie araldiche dal contenuto religioso». E in effetti le opere di Lafferty sono completamente diverse dalla fantascienza tradizionale, quella dal significato preciso e univoco. Lafferty è obliquo, molteplice; ama mettere sulla falsa pista il lettore con bisticci verbali, scene e descrizioni subito dimenticate e demolite con noncuranza: per questo molti parlano di lui come di un meraviglioso, affascinante bugiardo.

Lafferty intende la fantascienza per il suo pittoresco e il suo fantastico, e vuole ottenere effetti particolarissimi, interessanti e oltraggiosi: lo vediamo collegare parole comuni per costruire veri mostri verbali, e poi scopriamo che quei mostri hanno una loro vita. Le trame di Lafferty sono sempre perfettamente intenzionali, sono tenute sotto controllo, e sono perfino economiche, nonostante i suoi ritorni e le sue divagazioni (lo si nota alle successive riletture, che rivelano nuovi livelli e nuovi legami: non ci sono parti superflue, ciascuna parola si riscatta e si spiega nell’economia generale dell’opera), ma si ha l’impressione, di fronte alla singola scena, alla frase isolata, che la parola domini sulla narrazione, che le situazioni siano aperte, irrisolte, concluse falsamente e provvisoriamente solo per mezzo di un’affermazione paradossale. Ma il primo a credere a ciò che sta scrivendo è Lafferty stesso: una specie di credo quia absurdum, o meglio di «ci credo, visto che posso scriverlo».

I personaggi ambigui, obliqui e incostanti di Lafferty sono all’opposto di quelli della fantascienza tradizionale. Vengono alla mente sia certi romanzi di Delany e di Zelazny, sia, soprattutto, Cordwainer Smith. Tanto Lafferty quanto Smith sono giunti alla fantascienza nella maturità; entrambi, di fronte alla tecnologia, sono attratti dal tema della «riscoperta dell’umanità», e hanno lo stesso gusto per i giochi verbali, per i prodigi costruiti di sole parole, per rivivere a proprio modo la Storia, la leggenda, le opere letterarie altrui. Il Bateau ivre di Smith non è quello di Rimbaud, la sua Giovanna d’Arco non è quella storica, eppure in un certo senso lo sono.

Maestro del passato è molte cose. Con le parole del protagonista, potrebbe essere «tutto per tutti» (e a volte le affermazioni che More fa su se stesso sembrano trasferibili al rapporto tra l’autore e quel suo alter ego che è il romanzo che sta scrivendo). È una riflessione di metafisica della storia; è un’allegoria della società moderna (si veda a p. 122); è un romanzo cattolico «conservatore»; è la ripresa di un’idea di Luciano che poneva Platone come unico abitante della sua Repubblica; è una difesa della forza dell’irrazionale contro la ragione esclusiva. Ed è anche una personalissima interpretazione della figura storica di Thomas More: il personaggio di Lafferty non è certo quel Thomas More, Cavaliere e prigioniero, che fu decapitato il 6 luglio 1535 in base a una testimonianza falsa di Richard Rich, Procuratore generale di Enrico VIII… e in parte lo è.

Volendo definire questo romanzo, le parole migliori sono forse quelle che scriveva Alexei Panshin su un’altra opera di Lafferty, Quarta fase: «È un libro scatenato, ed è pieno dì bugie prodigiose. Probabilmente lo rileggerò molte volte».

Riccardo Valla

(Introduzione alla prima edizione italiana, 1972)

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Robert J. Sawyer

giugno 7th, 2012

L’autore canadese più amato

dopo van Vogt, torna con il

secondo romanzo del ciclo “WWW”

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Robert J. Sawyer, nato a Ottawa nel 1960, è considerato uno degli autori di punta della sf di lingua inglese ed è anche l’unico scrittore canadese di sf a tempo pieno; vive a Tornhill, nell’Ontario, con la moglie Carolyne. Di lui “Urania” ha pubblicato numerosi romanzi, tra cui Apocalisse su Argo (Golden Fleece, 1990), Starplex (id. 1996, giunto in finale al Premio Nebula), Mutazione pericolosa (Frameshift, 1997), I transumani (Factoring Humanity, 1998), Mindscan (2005) e Rollback (2008).

Apocalisse su Argo, il suo primo libro, è stato proclamato da Orson Scott Card “miglior romanzo del 1990″ (su “Fantasy and Science Fiction”). Starplex è giunto in finale al Premio Nebula. Anche Mutazione pericolosa ha vinto un premio, questa volta in Spagna. Tra i suoi romanzi segnaliamo ancora Illegal Alien (1997), Far Seer (1992), Fossil Hunter (1993), Foreigner (1994), End of an Era (1994). Sono in opzione i diritti cinematografici di Illegal Alien e The Terminal Experiment, che, come anche Golden Fleece, sono una mescolanza di giallo e fantascienza. Far-Seer, Fossil Hunter e Foreigner compongono la cosiddetta “Quintaglio Ascension Trilogy” e raccontano rispettivamente le storie degli equivalenti extraterrestri di Galileo, Darwin e Freud. Dal romanzo Flashforward (Avanti nel tempo) è stata tratta l’omonima serie televisiva. Il brillante ciclo del Neanderthal Parallax, una delle opere più acclamate della produzione di Sawyer, è uscito su “Urania”in tre volumi: La genesi della specie (Hominids, 2002, premio Hugo 2003; Urania n. 1536), Fuga dal pianeta degli umani (Humans, 2003; Urania n. 1542) e Hybrids (2004) . WWW: Wake, che abbiamo pubblicato l’anno scorso con il titolo WWW 1: Risveglio , è uscito in lingua inglese nel 2009 ed ha inaugurato la trilogia WWW, una straordinaria serie di ipotesi sui misteri del Web che “Urania” presenterà nella sua interezza. WWW: In guardia (WWW : Watch, 2010, che qui si presenta) è il secondo appuntamento della serie.

Il “New York Times” ha detto di lui: “Robert J. Sawyer è uno scrittore di grande fiducia nei propri mezzi e un abile estrapolatore scientifico”. “Mystery News” aggiunge: “Al pari di giganti come Asimov ed Heinlein, Robert J. Sawyer ha capito, forse più di qualunque scrittore contemporaneo, che la fantascienza è letteratura di idee”.

Il sito online di Robert J. Sawyer è all’indirizzo http://www.sfwriter.com/index.htm

La sua bibliografia italiana è sul Catalogo della fantascienza, fantasy e horror: http://www.fantascienza.com/catalogo/A0738.htm#4719

(a cura di G.L.)

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Joe Haldeman: Il nuovo romanzo di Dula, un omaggio ai classici della sf americana

maggio 21st, 2012

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Nato nel 1943, Joseph William Haldeman si è diplomato in fisica e astronomia e ha combattuto in Vietnam tra il 1967 e il 1969 come geniere, rimanendo gravemente ferito. Da questa esperienza ha ricavato un’onorificenza (il Purple Heart) e un primo romanzo, uscito nel 1972, che parla di quella guerra (War Year). Il suo primo libro di fantascienza, The Forever War (Guerra eterna, 1974), vinse i premi Hugo e Nebula. Quel celebre testo – costituito dalla fusione di più racconti apparsi in precedenza sulla rivista “Analog” – rappresenta una trasposizione in chiave fantascientifica della guerra, esperienza umana e letteraria che per Haldeman parve concludersi nel 1975 con un altro testo breve, “You Can Never Go Back”.

Se il più famoso romanzo di fantascienza militare era stato, fino a quei tempi, Starship Troopers (Fanteria dello spazio, 1959) di Robert A. Heinlein, Guerra eterna si presentò fin dall’inizio come un anti-Fanteria, permeato da una visione decisamente più disincantata e dolorosa del conflitto, e interessante proprio come resoconto traslato delle esperienze dell’autore nel Sud-est asiatico.

Negli anni seguenti Haldeman si è riconfermato autore di un’interessante serie di romanzi e racconti, perlopiù di genere tecnologico: Ponte mentale (Mindbridge, 1976), Al servizio del TB II (All My Sins Remembered, 1977), l’avventura di Star Trek Il pianeta del giudizio (Planet of Judgement, 1977), Mondo senza fine (World Without End, 1979), Scuola di sopravvivenza (There Is No Darkness, 1983), Fondazione Stileman (Buying Time, 1989), Il paradosso Hemingway (The Hemingway Hoax, 1992) e l’ambizioso 1968.

Per molti anni Haldeman ha giurato che non avrebbe mai scritto un seguito di The Forever War. La decisione di pubblicare un nuovo, ampio romanzo che si ricollegasse idealmente al suo capolavoro è venuta molti anni dopo e non è stata di Haldeman – come egli stesso ha dichiarato – ma degli editori. The Forever Peace (1997, che abbiamo pubblicato come Pace eterna nel n. 1336 di “Urania” e quindi, ritradotto, in “Urania collezione”), non era un classico sequel ma riprendeva alcuni motivi del libro più famoso e, soprattutto, alcune preoccupazioni. A Pace eterna seguirà, nel 1999, l’autentica seconda parte di The Forever War, che Haldeman accetterà di scrivere nel giro di poco più di due anni e intitolata Forever Free (Missione eterna, in “Urania” n. 1413, quindi “Urania collezione”). Qui non solo i temi di fondo sono quelli del romanzo originale, ma vi compaiono, impensabilmente trasformati, anche i personaggi di The Forever War: in particolare il veterano Mandella.

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Al ciclo di Guerra eterna si ricollega anche il racconto A Separate War del 2006, da noi incluso nella raccolta personale Guerra eterna: ultimo atto (“Urania” n. 1543). Con i suoi racconti e romanzi Joe Haldeman rimane un solido punto di riferimento della fantascienza nell’ultimo quarto di secolo. I nostri lettori l’hanno particolarmente apprezzato anche con L’astronave immortale (Old Twentieth, un denso romanzo centrato sul tema della memoria e delle missioni spaziali a lungo termine uscito nel n. 1523) e con I protomorfi, tradotto da nel numero 1530. Con Dula di Marte (Marsbound, 2008, da noi pubblicato esattamente un anno fa), Haldeman rendeva omaggio alla celebre protagonista di un romanzo di Heinlein, il suo “rivale” in questioni di guerra e punti di vista politici: alludiamo a Una famiglia marziana. La storia segnava una sorta di riconciliazione postuma fra i due grandi, degna della buona fantascienza avventurosa americana. Verso le stelle (Starbound, 2010) ne amplia l’orizzonte e proietta la protagonista Dula, insieme ai suoi amici, verso il pianeta originario degli Altri, gli esseri che sono apparsi nel sistema solare suscitando non poche inquietudini. La questione diventa, perciò, interstellare: non può essere risolta con il “provincialismo” dei nostri pianeti o, peggio ancora, della sola Terra impaurita. La soluzione di Haldeman è tipica del suo pensiero liberal, della sua fiducia nella convivenza e del suo anti-militarismo: anche se, per carità, i pericoli non devono essere sottovalutati. Mai.

                                                                                                                  G.L.

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Ian Watson

aprile 11th, 2012

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Ian Watson (n. 1943) è uno tra i maggiori autori inglesi di fantascienza. Notissimo per aver scritto il soggetto cinematografico di A.I. Iintelligenza artificiale (il film di Steven Spielberg tratto dal racconto di Brian W. Aldiss), è stato più volte tradotto nella nostra lingua. Dopo aver esordito, con un racconto, nel 1969 – “Roof Garden Under Saturn”, apparso su “New Worlds” – questo ex-insegnante d’inglese ed ex- professore di futurologia al Politecnico di Birmingham (con annessi corsi sulla fantascienza) si è dedicato alla letteratura a tempo pieno dal 1976. Diversi romanzi e molti racconti sono apparsi anche in italiano, dove la sua opera è stata costantemente seguita da “Urania”, ma molto resta da fare per presentarlo degnamente ai lettori del nostro paese. Il romanzo d’esordio di Watson, The Embedding (1973), è uscito – con il titolo Il grande anello, 1979 – nella collana “Sigma” di Moizzi, che presentò diverse opere notevoli degli anni Settanta; mentre quello stesso anno vede l’inizio delle traduzioni di Watson nella nostra collana, che fa uscire Miracle Visitors del ’78 come La doppia faccia degli UFO. L’anno successivo, 1980, è sempre “Urania” a proporre un’importante antologia apparsa in Inghilterra nel ’79, The Very Slow Time Machine (Cronomacchina molto lenta). Come autore di racconti Watson è originale e prolifico: ne ha scritti oltre cento.
Benché le sue brillanti short stories continuino ad apparire in appendice a “Urania” e su altre pubblicazioni – una per tutte, la pluriristampata “Convention mondiale del 2080″ – bisogna aspettare il 1986 prima di vedere un altro romanzo di Watson nella nostra lingua. E’ Il libro del fiume (The Book of the River, 1983), compendio di quattro parti uscite originariamente sul “Magazine of Fantasy and Science Fiction” e seguito poi da Il libro delle stelle (The Book of Stars, 1984; tr. it. 1988) e Il libro delle Creature (The Book of Being, 1985; tr. it. 1988), tutti apparsi sulle nostre pagine nella traduzione di Laura Serra. E’ il tentativo di Watson di comporre un vasto affresco a metà tra la fantascienza e il fantastico, e gli conquista le simpatie di un pubblico più vasto. Nel 1990 la “Biblioteca di Nova SF” della Perseo Libri recupera God’s World del 1979 (Il pianeta di Dio), un romanzo a sfondo metafisico in cui la nostra razza riceve in dono la propulsione interstellare, ma solo un gruppo ristretto di individui viene scelto per raggiungere il pianeta dei donatori e incamminarsi sulla strada di un’imprevedibile trasformazione. Nel 1997 appare su “Urania” L’ultima domanda (Hard Question, 1996), un thriller tecnologico ricco di sorprese, e nel 2000 Superuomo legittimo (Converts). Intanto, nel 1999 l’Editrice Nord ristampa, nelle proprie collane, Il grande anello e La doppia faccia degli UFO, cambiando i titoli a entrambi: diventano rispettivamente Riflusso e L’enigma dei visitatori. Nel 2002 esce su Urania Il mistero dei Kyber (Under Heaven’s Bridge, un romanzo del 1981 scritto in collaborazione con Michael Bishop). Nel 2004 Hobby & Work fa uscire Draco (id., 2002) e Harlequin (id., 2004). Nel 2005 replica “Urania” con L’anno dei dominatori (Mockymen, 2003), mentre Hobby & Work presenta I figli del caos (Caos Child, 2004).
Tra i romanzi ancora inediti di Watson in Italia, segnaliamo: The Fire Worm (1988) che tradurremo prossimamente; The Jonah Kit (1975), vincitore del premio British Science Fiction; The Gardens of Delight (1980), Deathhunter (1981), Chekhov’s Journey (1983), Queenmagic, Kingmagic (1986), Whores of Babylon (1988) e The Flies of Memory (1990).
Nel giudizio di John Clute e Peter Nicholls, forse i migliori studiosi contemporanei della fantascienza inglese, “la narrativa di Ian Watson, a volte obbiettivamente difficile per la sua complessità, può essere vista come una vivace rivolta contro l’oppressione intellettuale e politica, ma anche come una dichiarazione dei limiti – almeno per quanto riguarda gli esseri umani – del concetto di realtà. Quest’ultimo, essendo stato creato su misura dei nostri ristretti canali percettivi, risulta soggettivo e parziale; il tentativo umano di accedere a realtà più complesse, attraverso metodi che vanno dalle droghe alle discipline linguistiche, dalla meditazione a un’educazione radicalmente innovata, non sarà mai completamente coronato dal successo. L’umanità è troppo limitata, troppo poca cosa per afferrare la realtà nel suo complesso. Ian Watson è forse lo scrittore di fantascienza contemporaneo che meglio sintetizza questi temi, e il meno illuso”.

Giuseppe Lippi

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Un maestro di idee (ma quali?)

aprile 11th, 2012

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Si deve a Michel Moorcock la riscoperta di Charles Harness, il cui capolavoro The Rose (1953, in italiano L’odissea del superuomo) era uscito soltanto su un’oscura rivista inglese, “Authentic SF”. Per uno scrittore americano il fatto era davvero insolito, e se tra i lettori della rivista il romanzo aveva fatto scalpore, nonostante la complessità del tema di fondo (se l’arte e la scienza potessero fondersi, dando luogo a un nuovo genere di esperienza), il testo non era mai uscito in volume. Di conseguenza, in America restava sconosciuto. Verso la metà degli anni Sessanta Moorcock lo fece ripubblicare e nel 1970 arrivò anche in Italia sulle pagine di “Galassia”, forse per gli uffici di Antonio Bellomi che a quel tempo leggeva e traduceva per la collana piacentina, insieme ai neo-arrivati Curtoni e Montanari. A Bellomi, conoscendolo, Harness sarà sembrato un bravo emulo di van Vogt e questo avrà raddoppiato il suo interesse, ma a rileggere oggi la sua pagina introduttiva si vede che ne aveva compreso il significato recondito (del resto ben illustrato dall’intervento di Michael Moorcock che segue immediatamente quello del traduttore, e presente anche nell’edizione italiana).
Per una coincidenza, nel 1970 sarebbe arrivato in Italia anche l’altro importante romanzo di Harness, Paradosso cosmico. La prima versione era apparsa con il titolo Flight into Yesterday nel 1949 su “Startling Stories”, la seconda in volume con lo stesso titolo (1953) e la terza, infine, come The Paradox Men (1955). Come poi Ritornello (The Ring of Ritornel, 1968), un romanzo dalle tematiche affini pubblicato in volume solo nel 1968, Paradosso cosmico “mette in scena vasti cicli del tempo ed eroi che vanno incontro a metamorfosi trascendenti per meglio manipolare il proprio destino e quello dell’intera razza umana” (The Encyclopedia of Science Fiction).

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Edgar Rice Borroughs

marzo 20th, 2012

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Due dei più esperti critici italiani del settore – Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco – hanno scritto a proposito di Burroughs: “Tutta questa massa di letteratura, che pure ha fatto vendere più di cinquanta milioni di libri, è quasi completamente priva di ogni valore artistico. Burroughs stesso attribuiva la sua popolarità al fatto che le sue storie non imponevano al lettore il minimo sforzo intellettuale. Non vi è caratterizzazione, eccetto che i Buoni sono buoni e i Cattivi cattivi… I suoi libri sono ottime opere per ragazzi, al livello, per fare un esempio italiano, del miglior Salgari” (nel dizionario Arcana, Sugar 1969). Burroughs appartiene insomma a quella sorta di Legione straniera della narrativa che, pur avendo avuto la capacità di influenzare le fantasie di alcune generazioni di lettori, non possiederebbe virtù estetiche al di là di quelle che servono ad ammaliare i lettori più giovani e meno provveduti. Esempi illustri non mancano nel XIX secolo ma anche nel XX secolo: Salgari stesso, Frank Reade, Edgar Wallace. Se oggi nessuno legge più le avventure degli Hardy Boys, non si vede perché bisognerebbe istruire un processo a favore del loro recupero, o di quello di ERB (come lo chiamavano familiarmente gli appassionati, usando le sole iniziali).
Il motivo di un’eventuale indulgenza, nel caso di Burroughs, va ricercato in due nomi: Barsoom e Tarzan. Il primo è l’appellativo del pianeta rosso secondo il linguaggio dei suoi antichi abitanti. Con Barsoom, lo scrittore che a volte si firmava con lo pseudonimo di Normal Bean (“Testa a posto”), creò in un colpo solo il genere della fantascienza escapista e avventurosa, quella che si sarebbe evoluta più tardi nella space opera. Quanto alla seconda invenzione, l’uomo della giungla, va oltre le innocenti fantasie di poteri e avventure esotiche per entrare nel terreno dell’antropologia, dell’insofferenza psicologica verso un mondo sempre più tecnico e spersonalizzato, cui Burroughs contrappone un mito autosufficiente. Al “libero servaggio” del lavoro salariato, Tarzan preferisce la figura del libero selvaggio, non il primo ma il più celebre di una serie che troverà altre icarnazioni nel XX secolo.

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George R.R. Martin e Gardner Dozois

marzo 20th, 2012

Due antologisti moderni
per un omaggio speciale
alla fantasia di  Jack Vance

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Ecco la seconda parte della grande antologia dedicata alla Terra morente: la prima è uscita nel n. 1567 del febbraio 2011, mentre la terza e ultima apparirà nei primi mesi dell’anno prossimo. Songs of the Dying Earth: Stories in Honour of Jack Vance (uscito in America nel settembre 2009) presenta una tematica che appartiene per più versi alla storia della fantascienza. Gli autori sono cari al pubblico dei classici come a quello moderno, mentre il mondo del futuro immaginato da Jack Vance, e che è all’origine dell’operazione, non ha quasi bisogno di presentazione.
Crepuscolo di un mondo (Tales of the Dying Earth, 1950) è il testo che ha virtualmente fondato la science fantasy moderna e resta un capolavoro. Oggi, a più di sessant’anni di distanza, George R.R.Martin e Gardner Dozois hanno pensato di invitare una serie di eccellenti scrittori contemporanei a infondere nuova linfa in quel concetto cupo e grandoso: un mondo irriconoscibile, collocato centinaia di migliaia d’anni nel futuro, dove il sole ha cominciato la sua parabola verso l’estinzione. La magia è tornata ad essere una forza operante ma gli abitanti della Terra non hanno dimenticato la scienza: piuttosto, quest’ultima si è evoluta in sapienza arcana, culto dell’occulto, dedita com’è a studiare i misteri del macrocosmo e le pieghe nascoste dello spazio-tempo (ciò che la scienza positiva dei nostri tempi non ha avuto ancora il modo di fare). E se a qualcuno sembrerà troppo antrpomorfica una concezione della storia remota della Terra che veda l’umanità ancora presente sulla scena, bisogna ricordare che si tratta, anche qui, di un’umanità trasfigurata, come alcuni degli autori presenti nella raccolta non tarderanno a dimostrare. Trasfigurata e transumanata non solo grazie alle nuove discipline maturate nei secoli – stavamo per dire: alle nuove tecnologie – ma soprattutto grazie all’opera stessa del tempo. Questa razza decrepita e sfuggente deve qualcosa al grandioso scenario della Macchina del tempo wellsiana, nel cui finale la nostra specie scomparirà del tutto ma che nei capitoli precedenti è destinata a conoscere un’ambigua evoluzione. Idee e visioni che potrebbero aver ispirato i moderni cronachisti della scienza fantastica, e che senz’altro li hanno sintonizzati sul mito della morte planetaria.

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George R.R. Martin, grande autore di fantascienza e fantasy in prima persona, deve aver sentito profondamente i temi trattati da Jack Vance: di qui il desiderio di continuarli in un nuovo volume. Martin è oggi popolarissimo in Italia grzie alle Cronache del ghiaccio e del fuoco, di cui Il trono di spade è il romanzo capostipite. Nato nel 1948, lo scrittore ha esordito con un serie di racconti e romanzi di fantascienza che hanno vinto i principali premi americani: “Canzone per Lya” (premio Hugo 1975) e Il pianeta dei venti (1981) sono tra i più celebri.
Gardner Dozois, nato nel 1947, è un autore di ottima fantascienza ma il suo nome resta legato soprattutto alla carriera di editor per la “Isaac Asimov’s Science Fiction Magazine”. Nel 2009, insieme a Martin, ha deciso di pubblicare un monumentale tributo all’arte di JackVance, Songs of he Dying Earth. Il volume che avete tra le mani ne costituisce il risultato.

G.L.

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Diario Vitt

febbraio 28th, 2012

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Oggi, febbraio 2012

Quello che avete fra le mani è tutt’altro che un instant-book o un libro d’occasione. In effetti, dopo essere stato concepito all’inizio dell’anno scorso, ha richiesto una lavorazione che si è protratta per tutta l’estate e rappresenta, in un certo senso, l’ultima fatica editoriale di Vittorio Curtoni. Che ne ha seguito la gestazione passo dopo passo.

 

Primavera-estate 2011

Vittorio ha contribuito idee, ha valutato le necessarie esclusioni (come quella del racconto che avevamo scritto a quattro mani, “Non ho bocca e voglio bere”) e ci ha fornito materiali preziosi. Non a caso il pezzo forte del volume, il romanzo Dove stiamo volando, esce in questa edizione con un capitolo inedito che si situa tra quello intitolato “Il silenzio” e il successivo “Luci d’inverno”, in pratica da pagina 38 in poi della vecchia edizione uscita su “Galassia”. Il capitolo in questione, “Il volto”, era stato scritto nel 1972 insieme a tutto il resto, ma all’ultimo momento Vittorio ne aveva dubitato, finendo per escluderlo. Quando ce lo ha mandato, chiedendoci cosa ne pensassimo, l’abbiamo letto con estremo interesse, trovandovi sorprendenti tracce… pasoliniane. In realtà, quel momento icastico in un romanzo già ricco di tensione umana e non solo umana non avrebbe nulla di sorprendente se non fosse racchiuso in una cornice fantascientifica, cioè dell’unico genere che non può permettersi di stupire con le “semplici” visioni di una Rivelazione. Così com’è, l’apparizione del Volto sulla strada di Nuova Parigi costituisce una bella aggiunta al viaggio dei suoi iniziati, dimostrando che il loro itinerario non può essere ridotto alla pura ricerca del mutante. Dove stiamo volando è qualcosa in più, è il percorso di un uomo che già anela a tutto, persino all’impossibile, e vuole elevarsi sulle disgrazie del suo mondo. Ben lieti, dunque, di aver reinserito nel libro quelle pagine sfuggite alla prima edizione di quarant’anni fa.

 

Settembre 2011

Gli altri testi, disposti cronologicamente, sono dati invece senza interventi: Vittorio ha deciso di non revisionarli e anche a noi è sembrata la scelta migliore. Lo stesso vale per l’autobiografia La mia love story con la fantascienza, pubblicata nel 1999 in appendice a un’altra cospicua raccolta personale e riproposta oggi per la prima volta: anche qui, nessun aggiornamento. Per Vittorio Curtoni la love story termina simbolicamente con il millennio, come se dopo il 2000 niente dovesse essere più come prima e al posto dell’amore, avrebbe detto l’interessato in tono pittoresco, cavoli amari. (Anche se l’amore lui lo aveva in pectore: per la fantascienza, per i suoi amici e soprattutto per la moglie Lucia.)

 

Giovedì 28 luglio 1949

Vittorio nasce a San Pietro in Cerro (Piacenza). Suo padre, segretario comunale, girava per i paesi del piacentino, al di fuori della cui provincia il nostro non ha mai abitato. A parte il militare, il più lungo periodo di semi-esilio è quello compreso tra il 1975 e il 1978, quando ha lavorato come redattore presso Armenia Editore: tre duri anni di pendolarismo, all’insegna del rifiuto di stabilirsi a Milano. Da ragazzo, nella seconda metà degli anni Sessanta, aveva fatto le fanzine come i veri grandi appassionati. Lino Aldani lo ricordava “con i calzoni corti”, quando Vittorio andava a trovarlo da Piacenza a San Cipriano. Da una sponda all’altra del Po, ecco una storia di (stra)ordinaria provincia.

 

1970-1974

A cavallo degli anni universitari – e mentre ha luogo un’importante maturazione all’insegna dell’esistenzialismo, con le letture dell’amato Sartre, Vittorini, Pavese e altri cavalli di battaglia della modernità – Vittorio approda alla direzione di “Galassia” insieme a Gianni Montanari. La casa editrice aveva sede a Piacenza e i due si erano presentati all’editore Mario Vitali della Tribuna senza conoscerlo e senza particolari raccomandazioni, ma come concittadini. Montanari studiava l’inglese per insegnarlo, Curtoni l’avrebbe imparato sui dischi perché a scuola aveva fatto francese. La rivoluzione di “Galassia” portata dal duo Curtoni-Montanari è totale, soprattutto se si pensa che la precedente gestione, affidata a Ugo Malaguti, si era attestata sull’amore dei classici e la riscoperta di alcuni grandi autori dell’avventura. Non solo i classici scompariranno da “Galassia”, salvo una manciata di eccezioni fra cui Dick (un neoclassico non ancora santificato), ma entrerà in pieno l’avanguardia degli anni Settanta: new wave da una parte (Michael Moorcock, Brian W. Aldiss) e nuovi autori dall’altra: Roger Zelazny, K.M. O’Donnell alias Barry Malzberg, Thomas M. Disch, Mark Geston eccetera. Inoltre, usciranno alcuni importanti autori italiani che Vittorio e Gianni pubblicheranno per geniale intuizione o su incitamento del loro mentore Aldani: Mauro Antonio Miglieruolo, il cui capolavoro Come ladro di notte è stato ristampato anche in “Urania collezione”, e Vittorio Catani che tra qualche mese debutterà a sua volta nella nostra collezione di classici. Su “Galassia”, nel 1972,  Vittorio pubblica inoltre il suo primo e unico romanzo, Dove stiamo volando.

 

1975

Ha concluso il servizio militare e vuole sposare Lucia Parietti, da anni sua fidanzata: per farlo ha bisogno di un posto di lavoro stabile e non può accontantarsi della consulenza per Mario Vitali, che lo paga un tanto a lettura e un tanto a traduzione. Vittorio si offre quindi per un posto di redattore, poi caporedattore alla Armenia Editore ed entra nella fucina delle riviste di parapsicologia “Gli arcani” ed “ESP”. Quello stesso anno, accetta l’invito del suo editore di varare una nuova rivista di fantascienza.

 

Aprile 1976

Esce il primo numero di “Robot”, pubblicazione che deve la sua leggendaria fama alla formula aperta con cui è concepita: racconti brevi anziché romanzi, molta agguerrita informazione, rubriche e dibattiti, un ricco apparato iconografico (era la prima volta che una rivista di narrativa aprisse così vistosamente all’immagine); e ancora tutte le idee nuove sotto il cielo, una spruzzata di polemica politica, l’apertura a giovani collaboratori anche sconosciuti. Ma soprattutto il nerbo, la vis carismatica di un direttore che era il contrario dell’accentratore per partito preso e che, anche quando accentrava eccome, lo faceva in nome di un ideale giacobino di egalité, fraternité, fantascié che finiva per sedurre tutti quanti. Grazie a tali straordinarie doti di comunicativa, capacità di dibattito e attenzione alle nuove tecnologie (quelle di allora, si capisce: la televisione, il nascente cinema di effetti speciali, i fumetti, le fanzine), “Robot” è diventato il primo periodico di fantascienza postmoderno. Questa brutta parola ha in fondo un significato semplice: anziché limitarsi a fare la contemporaneità, si discute di ciò che l’ha generata e lo si mitizza; il moderno viene così osservato come un oggetto da laboratorio, in molti casi arrivando a compiacersene. Fino all’avvento delle collane Fanucci – che certo non sono paragonabili a una rivista – non ci risulta che vi siano stati altri tentativi del genere.

In “Robot” Vittorio ha profuso il suo debordante amore per la fantascienza, le sue doti di curatore e redattore forza-della-natura, un talento visionario che chi è amante della carta stampata non può fare a meno di riconoscere a chilometri di distanza dall’edicola. Era la rivista ideale per il fandom, cioè la comunità degli appassionati, che vi si trovava riflessa ed esaminata al microscopio per la prima volta; era la libera rivista, intrisa di polemica quando occorreva, dei lettori militanti. Quello che oggi si fa su internet, “Robot” lo ha prefigurato sulle tavolette di pietra di un book mensile.

 

1977-78

E’ il periodo in cui, per mia fortuna, ho lavorato a stretto contatto con Vittorio nella redazione di “Robot” e “Gli arcani”: penso di essere l’unico al mondo a potermi vantare di aver avuto il Curtoni come capufficio! Con noi c’era anche una bella ragazza bionda, Milena, che faceva da co-redattrice nonché segretaria del Grande, ma la forza fantascientifica era rappresentata dal nostro ilare duo. Ai miei occhi, il capufficio Curtoni è una delle figure veramente indimenticabili della mitologia moderna: eskimo verde (erano i tempi), sigaretta che sbuffava, occhiali sulla testa, una vulcanica e frenetica capacità di fare mille cose a tempo di record. Un uomo solo, eppure un esercito; un irritabile, irriducibile, buonissimo sergente della fanteria spaziale.

Sono stato assunto nel settembre 1977 e abbiamo lavorato insieme fino al luglio ’78. A quel punto, e dopo aver pubblicato l’importante raccolta personale La sindrome lunare, il mio mallevadore si dimette dall’incarico per una serie di ragioni personali e, lasciatemelo dire, esistenziali. Vittorio non è mai stato un tipo facile; si rallegrava con grande semplicità delle cose ma bastava altrettanto poco per farlo incupire e io credo disperare. Era stanco di tre anni di pendolarismo sul Napoli-Milano ma non pensava neanche lontanamente di traslocare nel cittadone lombardo; sua moglie, oltretutto, lavorava nella scuola di via Alberoni e avrebbe dovuto chiedere il trasferimento. A Milano Vittorio aveva vissuto negli anni dell’università, quando frequentava la statale, ma Piacenza era dietro l’angolo e ci si poteva tornare tutti i giorni. Andarsene per sempre? Far trasferire Lucia, costringendola ad allontanarsi dalla famiglia? Non era da Vic. Inoltre, si era progressivamente alienato da un editore che lo aveva sì portato in palmo di mano fino a quel momento, definendolo il suo “migliore acquisto”, ma che aveva il grosso problema di voler fare acquisti perlopiù al discount, pagandoli una miseria. Così, quando Giovanni Armenia gli mostrò i rendiconti di “Robot” (che nel suo terzo anno di vita, il ’78, aveva cominciato a perdere lettori come succede a tutti i periodici partigiani e garibaldini, e anche a qualcuno di quelli più beceri), Vittorio non condivise la scelta di correre ai ripari sfigurando la sua creatura. Armenia voleva ridimensionare le rubriche, ridurne la partigianeria, puntare tutto e solo sui racconti. Dal suo punto di vista, voleva salvare “Robot”; da quello del creatore di “Robot”, voleva ucciderla. Perciò, con un gesto che per me ha tuttora dell’intempestivo – e del nefasto, se ci si pensa bene – nel luglio 1978 Vittorio si dimise dall’Armenia, lasciandomi solo per un altro anno; poi l’avventura sarebbe finita nell’amarezza anche per me. Comunque, in quel breve periodo si è fatto di tutto e di più: due mensili completi che creavamo dal dattiloscritto puteolente all’impaginato pronto per la stampa; una collana di libri del terrore firmata a due; una rivistina dell’horror; più tutto quello che noi stessi scrivevamo per contribuire alle testate. Nel 1978 abbiamo pubblicato una Guida alla fantascienza scritta a quattro mani per l’editore Gammalibri; da solo, Vittorio aveva dato alle stampe la sua tesi di laurea sulla fantascienza italiana, Le frontiere dell’ignoto (Nord).

 

1978-89

E’ un decennio silenzioso, per Curtoni, ma neanche troppo. Internet non c’è ancora eppure lui scrive, traduce, dirige, polemizza a distanza. Chiuso in una stanza di via Scalabrini prima, di via Alberoni poi, fuma una sigaretta dietro l’altra, beve birra e usa la macchina da scrivere con l’invasamento inconfondibile dell’autore, o del traduttore-autore. Dopo aver coodinato la sfortunata reincarnazione di “Robot”, “Aliens” (pubblicata dal gruppo Armenia nel 1980), continua a tradurre per “Urania”, lo stesso Armenia e altri. Traduce ogni cosa, spesso col passare degli anni senza la possibilità di scegliere gli autori e comunque trattando tutti allo stesso modo professionale e coscenzioso. Traduce, fra gli altri, molti romanzi rosa della serie “Harlequin” e scopre che gli danno particolare soddisfazione: “Spesso mi dicono di tagliarli e io mi diverto a fare questo lavoro di cucito, togli qui, riaggancia là, asciuga quello che non è strettamente indispensabile”. Quando passa al computer, è la metà degli anni Ottanta: Curtoni conosceva la videoscrittura già dai tempi di “Robot”, per essere il sistema adoperato dalla nostra tipografia Parmense, e si innamora del nuovo sistema di lavoro. In quegli stessi anni dirige la collana di romanzi di fantascienza “Omicron” (un altro esperimento Armenia per l’edicola) e una collezione del terrore, voluta dall’editore per ritentare l’esperimento dei vecchi “Libri della paura”. Fra gli altri, Vittorio vi accoglie un improbabile Sesso della morte di Ramsey Campbell e il romanzo che aveva ispirato Wolfen, il celebre film. Sul finire degli anni Ottanta, arriva al timone della collana di fantascienza varata da Sperling & Kupfer. Nel 1989, mentre il sottoscritto approda alla direzione di “Urania”, Vittorio gli soffia alcuni dei testi migliori per portarli all’altro editore. E’ forse il periodo di maggior distanza fra noi, e non certo per banali motivi di concorrenza. E’ capitato, non capiterà più.

 

1990-2000

All’arrivo di internet, intorno al 1995, è tra i primi entusiasti dell’intreccio/groviglio che l’email rende possibile. Da allora in poi, niente sarà più come prima: dopo anni di relativa solitudine, Vittorio torna in pieno nel suo ruolo di maître à penser della fantascienza italiana, questa volta grazie all’aiuto delle mailing list e del rinato senso di famiglia che gli appassionati scoprono nell’era digitale. Come sempre, aiuta i giovani e meno giovani che gli chiedono consiglio; riappare alle convention del settore dopo anni di latitanza; ne organizza di proprie (a sfondo librario-mangereccio, con pantagruelica cena finale: dette Piacon perché svolte rigorosamente a Piacenza, sotto casa sua). Come il grande regista ai tempi della serie televisiva Alfred Hitchcock presenta, Curtoni conosce una popolarità straordinaria, pari se non superiore a quella di cui aveva goduto ai tempi di “Robot”, perché adesso è alonata di leggenda. Al congresso annuale della sf italiana, l’Italcon, miete regolarmene premi come miglior traduttore, autore e poi curatore. Nel 1999 corona il millennio pubblicando da Shake la sua prima raccolta personale di racconti in vent’anni, Retrofuturo.

 

Nel nuovo millennio: 2001-2007

Per quanto intimamente pessimista e a tratti depresso (un male cui cercherà di porre rimedio con alcuni anni di psicanalisi), il Vittorio del duemila è però un gran facitore. Come sempre. Se la professione di traduttore, alla lunga, lo stanca e lo lascia svuotato, tanto che è costretto a concedersi intervalli sempre più lunghi fra un lavoro e l’altro, quella di scrittore di racconti e curatore non conosce sosta. Fino a quando, nel 2003, la nuova casa editrice Solid (oggi Delos Books) gli offre l’opportunità di rilanciare “Robot”, facendo rinascere la creatura dalle sue ceneri. Sulle prime Vittorio è perplesso, ma finisce col cedere alla tentazione e si ributta nell’avventura editoriale che ha segnato la sua vita. La nuova “Robot”, che esce tuttora dopo otto anni, è identica alla vecchia nel format e proprio mentre scriviamo vara la propria edizione digitale. Non più venduta in edicola, un canale sempre più difficoltoso, è presente in una rete di librerie ed è diffusa per abbonamento, mentre dal numero 64 del novembre 2011 può essere scaricata sul proprio iPad. La casa editrice promette che arriverà presto anche la versione per Android.

 

2008-2011

Affezionato non solo alla città di Piacenza, ma al quartiere in cui vive ormai da anni, Vittorio finirà per comprare un nuovo appartamento al piano di sotto rispetto al vecchio. La coppia Curtoni vi si trasferisce tra la fine del 2007 e i primi del 2008, l’anno in cui Vittorio scoprirà di essere ammalato di tumore all’intestino. Seguono tre anni di battaglia con la malattia, tre interventi e numerosi cicli di chemioterapia. Abbandona progressivamente il lavoro, decide che comunque vadano le cose non farà più il traduttore professionista. Facendo due conti, si accorge di poter finalmente andare in pensione. Ma i traduttori è destino non ci vadano mai e così è stato anche per lui. Gli amici lo seguono da vicino e da lontano, anche se le festose Piacon sono abolite; a tutti Vittorio ripete parole d’incoraggiamento, dice che sta bene, addirittura – dopo le operazioni riuscite – che non si è mai sentito meglio. Il sollievo dei periodi di non-chemio è tale da farlo rinascere ogni volta da se stesso. Quello che lo ucciderà, da ultimo, non è il male che dall’intestino si è trasferito malignamente al fegato ma il suo cuore. La mattina di martedì 4 ottobre va a piedi all’ospedale di Piacenza per fare un nuovo iniettorato di chemioterapia. Non ne ha nessuna voglia, anche perché la volta precedente, in settembre, durante la seduta si è sentito male e ha subito uno shock anafilattico (notizia che non era trapelata fra gli amici). Il 4 ottobre il cuore, che aveva già denunciato qualche problema alla vigilia dell’ultima operazione, non ha più retto e un infarto massiccio ha avuto ragione di lui. Inutili un’ora e mezza di tentativi in camera di rianimazione.

Con la sua esistenza ricca e tormentata (un’infanzia difficile, rapporti di lavoro contrastati, la grande amicizia poi interrotta con Gianni Montanari, l’avventura di “Robot”, l’amore degli appassionati e dei concittadini quando aveva cominciato a collaborare con il quotidiano “Libertà”), Vittorio ha rappresentato al meglio l’espressione secondo cui lo scrittore è un uomo d’azione. Nel mondo sommerso e tutto sommato poco cosciente della fantascienza italiana, è stato una voce lucida e un’intelligenza per molti versi unica. Non c’è, per quanto mi sforzi di pensare, chi come lui sia stato altrettanto “autore” in tutti i ruoli che ha ricoperto, altrettanto presente in ogni racconto, editoriale, traduzione o proposta. La sua fantascienza non era quella astrale, tecnica o mostruosa, anche se volentieri sconfinava nell’orrore. Era comunque un orrore credibile che nasceva dai tormenti dell’esistenza. La fantascienza nella quale credeva era di stampo umanista, di radici terrene, di un realismo a volte meticoloso. Se nei racconti ha esplorato il buio e la speranza che lottavano dentro se stesso (e che trovano la massima sintesi in Bianco su nero, l’ultima raccolta personale del 2011), in “Robot” e nelle altre collane da lui dirette ha commentato in lungo e in largo ciò che la fantascienza ha rappresentato nella modernità. Una piaga aperta, una bell’avventura nata dai brutti sogni, il tentativo di dare una risposta artistica al tormento di un mondo tecnologico sì, prodigioso all’apparenza, ma profondamente insensibile.

In una parola, Vittorio, tu sei un un magnanimo (perché i lungimiranti questo sono) che tuttavia non è stato ricompensato. Non abbastanza.

 

Giuseppe Lippi

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