Cinema

Oscar Vault – Un Atlante per le Nuvole

agosto 26th, 2024

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Oscar Vault

a cura di Beppe Roncari

Un Atlante per le Nuvole

 

David Mitchell, “Cloud Atlas – L’Atlante delle nuvole”

David Mitchell, “Cloud Atlas – L’Atlante delle nuvole”

Sono passati vent’anni dalla pubblicazione (2004–2024) del capolavoro di David Mitchell, “Cloud Atlas – L’Atlante delle nuvole”, portato nei cinema dalle sorelle Wachowski nel 2012 con un cast stellare e ora riproposto sugli Oscar Cult.

Nella postfazione dell’autore, scritta a Hiroshima in occasione di questo importante anniversario, Mitchell ci spiega la storia del titolo del romanzo, nata con il ritrovamento di un CD di musica giapponese per pianoforte. Uno dei brani si chiamava “Cloud Atlas parti 1–111” di Toshi Ichiyanagi…

L’associazione mi si è imposta. “Atlante delle nuvole”? Non ha senso. Gli atlanti sono permanenti. Le nuvole effimere. Le nuvole non stanno nei libri, come l’inchiostro non è in cielo. C’era qualcosa però in quel paradosso di due parole. Un sentimento simile a quelle rare volte in cui incontro una persona per la prima volta e sento l’illogica certezza che la conosco da sempre. Non sai come. Lo sai e basta.

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Un altro autore di Urania opzionato per il cinema

ottobre 10th, 2023

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Giovanni De Matteo, "Corpi spenti"

Giovanni De Matteo, “Corpi spenti”

Abbiamo aspettato la firma dei contratti, prima di dare l’annuncio ufficiale, e adesso che Giovanni De Matteo ci ha dato conferma di avere siglato le carte, possiamo diffondere un’altra ottima notizia per gli appassionati di fantascienza, che fa onore agli autori di Urania.

Dopo l’opzione per la trasposizione in una serie televisiva dell’opera “Aquarius” di Claudio Vastano, adesso altri due romanzi vengono messi sotto contratto dall’industria cinematografica e televisiva, per l’esattezza “Sezione π²”, vincitore del premio Urania nel 2007, e il suo seguito “Corpi spenti”, di Giovanni De Matteo.

Giovanni De Matteo, "Sezione π²"

Giovanni De Matteo, “Sezione π²”

L’opzione è stata siglata con la casa di produzione cinematografica Fast Film, e noi non possiamo che fare i complimenti a Giovanni per questa affermazione, che conferma le qualità degli autori italiani di fantascienza e soprattutto quanto Urania sia sempre in grado di dare agli scrittori la miglior vetrina possibile per farsi leggere e conoscere a tutti i livelli.

Non lasciatevi sfuggire la vostra occasione di mettervi in luce: partecipate al premio Urania e cercate la consacrazione nell’olimpo della science fiction del nostro Paese.

Qui trovate il bando per partecipare.

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Urania Collezione 211: Richard Matheson, “Tre millimetri al giorno”

luglio 27th, 2020

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Richard Matheson, “Tre millimetri al giorno”, Urania Collezione n.211, agosto 2020

Richard Matheson, “Tre millimetri al giorno”, Urania Collezione n.211, agosto 2020

Richard Matheson, “Tre millimetri al giorno”, Urania Collezione 211, agosto 2020

 

Tutta colpa di una strana ondata di schiuma bianca, arrivata a tradimento mentre era in barca con il fratello.

La vita di Scott Carey non è più la stessa da quando, in seguito alla collisione con una nube radioattiva, ha iniziato a rimpicciolirsi di tre millimetri al giorno.

E se all’inizio a sbiadire inesorabilmente è il suo ruolo di padre e di marito, ben presto Scott si rende conto di come sia la sopravvivenza stessa a diventare giorno dopo giorno sempre più difficiltosa. L’ansia cresce di pari passo alla diminuzione di statura: a ogni mostruoso ragno che incontra sul proprio cammino, a ogni gradino troppo grande, in quelle che diventano le sfide sempre più insormontabili di un processo inesorabile.

Cosa succederà quando avrà raggiunto gli zero millimetri?

Scomparirà per sempre? O forse… esiste qualcosa di ancora più piccolo oltre lo zero?

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Voci e SKermi

giugno 5th, 2012

Fant’à Cannes

Son sorpreso e indignato, a dir poco. Non me l’aspettavo proprio che dei miei cosiddetti ‘fan’, in Room 237, si spingessero così in là nel ‘decodificare i segreti’ del mio film Shining. Ipotizzando che vi avrei celato un’indagine sullo sterminio dei pellirossa o sull’Olocausto perpetrato dai nazisti, e addirittura che lì avrei confessato d’aver messo in scena io, per conto della NASA, le immagini della discesa sulla Luna dell’Apollo 11! Basta! Ho deciso di tirar fuori dal cassetto 237 spezzoni inediti girati proprio dentro quella tanto discussa stanza numero 237 dell’Overlook Hotel, ove avevo fatto interpretare 237 personaggi differenti a Peter Sellers: Zeus, Napoleon, JFK, Rin Tin Tin, Sophia Loren ecc ecc ecc”. Così afferma Stanley Kubrick in un twitter da località segretissima, in reazione alle polemiche che ha suscitato al Festival di Cannes (e prima ancora a quello di Sundance) il film di Rodney Ascher Room 237. Un pamphlet che rimonta ad hoc Shining onde illustrare nei minimi dettagli le teorie deliranti/illuminanti di cinque illustri ignoti ossessionati dai “segreti” celati nei meandri del capolavoro kubrickiano. Poco importa che abbiano ragione o torto. Il “saggio visuale” firmato da Ascher si allinea perfettamente a quelli dovuti a studiosi eminenti dell’infinito spazio kubrickiano, da Alexander Walker a Michel Ciment, Giuseppe Lippi & Co.

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Al 65° Festival di Cannes è apparso un altro imperituro fantamaker, il nostro caro vecchio Dario Argento. Presentando a mezzanotte, in sezione ufficiale fuori concorso, il suo Dario Argento Dracula. Limpidamente fotografata in 3D da Luciano Tovoli, questa ennesima rilettura del mito vampiresco ad alcuni è apparsa una gustosa parodia autoironica, ad altri un gelido esercizio di stile anni ’70. Certo DAD appare più smagliante e convinta rispetto alle precedenti pellicole argentee. La duplice presenza a Cannes dell’autore dell’intramontabile Per favore non mordermi sul collo magari non ha giocato a favore dei morsi di Dario. Eccolo infatti introdurre sia il restauro del suo glorioso mélo Tess – presto disponibile in DVD Pathé – , sia Roman Polanski: A Film Memoir (apparso fugacemente nelle sale italiane distribuito dalla Bim). Un “portrait” diretto da Laurent Bouzereau in cui, durante la sua carcerazione domiciliare a Gstaad, il vecchio commilitone e produttore Andrew Braunsberg va a interrogarlo a lungo sulle sue tante tragedie del passato e del presente. La performance polanskiana risulta imperdibile, tra risate, lacrime e confessioni spudorate.

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Edgar Rice Borroughs

marzo 20th, 2012

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Due dei più esperti critici italiani del settore – Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco – hanno scritto a proposito di Burroughs: “Tutta questa massa di letteratura, che pure ha fatto vendere più di cinquanta milioni di libri, è quasi completamente priva di ogni valore artistico. Burroughs stesso attribuiva la sua popolarità al fatto che le sue storie non imponevano al lettore il minimo sforzo intellettuale. Non vi è caratterizzazione, eccetto che i Buoni sono buoni e i Cattivi cattivi… I suoi libri sono ottime opere per ragazzi, al livello, per fare un esempio italiano, del miglior Salgari” (nel dizionario Arcana, Sugar 1969). Burroughs appartiene insomma a quella sorta di Legione straniera della narrativa che, pur avendo avuto la capacità di influenzare le fantasie di alcune generazioni di lettori, non possiederebbe virtù estetiche al di là di quelle che servono ad ammaliare i lettori più giovani e meno provveduti. Esempi illustri non mancano nel XIX secolo ma anche nel XX secolo: Salgari stesso, Frank Reade, Edgar Wallace. Se oggi nessuno legge più le avventure degli Hardy Boys, non si vede perché bisognerebbe istruire un processo a favore del loro recupero, o di quello di ERB (come lo chiamavano familiarmente gli appassionati, usando le sole iniziali).
Il motivo di un’eventuale indulgenza, nel caso di Burroughs, va ricercato in due nomi: Barsoom e Tarzan. Il primo è l’appellativo del pianeta rosso secondo il linguaggio dei suoi antichi abitanti. Con Barsoom, lo scrittore che a volte si firmava con lo pseudonimo di Normal Bean (“Testa a posto”), creò in un colpo solo il genere della fantascienza escapista e avventurosa, quella che si sarebbe evoluta più tardi nella space opera. Quanto alla seconda invenzione, l’uomo della giungla, va oltre le innocenti fantasie di poteri e avventure esotiche per entrare nel terreno dell’antropologia, dell’insofferenza psicologica verso un mondo sempre più tecnico e spersonalizzato, cui Burroughs contrappone un mito autosufficiente. Al “libero servaggio” del lavoro salariato, Tarzan preferisce la figura del libero selvaggio, non il primo ma il più celebre di una serie che troverà altre icarnazioni nel XX secolo.

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La Matrice ha dieci anni

marzo 31st, 2009

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In occasione dell’anniversario dell’uscita nelle sale di Matrix, pubblichiamo un intervento di Dario Tonani.

Tu pensi che siamo nel 1999. Saremo almeno nel 2199. Non posso dirti con esattezza l’anno perché sinceramente non lo so neanch’io. E qualunque mia spiegazione non ti basterebbe. Vieni con me. Guarda tu stesso. Sei sulla mia nave, la Nabucodonosor. E’ un hovercraft. Sei in plancia, adesso. E’ il nostro cuore operativo dal quale lanciamo il segnale d’ingresso pirata in Matrix”. Sono le parole di Morpheus a uno straniato Neo, il momento della rivelazione nel film destinato a cambiare per sempre i canoni della fantascienza cinematografica: Matrix. L’anno, come spiega l’anfitrione Morpheus, è il 1999, esattamente una decade fa. Il luogo: una città qualunque del nostro presente, ricostruita – per questioni di budget – all’altro capo del mondo, a Sidney, in Australia.

Ed ecco la prima di una serie spropositata di “anomalie”, di specchi contrapposti che fanno di Matrix il primo vero prodotto da sala per il nuovo millennio e il più “poliedrico e filosofico” tra i film di fantascienza dai tempi di 2001 Odissea nello SpazioBlade Runner: l’azione è qui oggi, ma a generarla è la terra bruciata di un domani lontanissimo. Presente e futuro s’intrecciano, a fare da tramite una linea telefonica: da una parte la finzione, il sogno, il mondo posticcio generato dalle macchine, dall’altra la cruda realtà di un domani che – manipolo di “resistenti” a parte – non ha più nulla di umano.

Per passare da un piano all’altro non c’è che un modo: aprire gli occhi. “Wake up, Neo” compare sul computer del protagonista in una delle scene iniziali. Un invito che i due registi, Andy e Larry Wachowski, sembrano voler fare proprio rigirandolo, in modo assai meno garbato, agli spettatori in sala: “Wake up, guys”. Come dire: nulla di quanto vedrete con Matrix è stato pensato/realizzato/mostrato prima. Vero solo in parte, diremo noi (penso per esempio al film di animazione Ghost in the Shell di Mamoru Oshii, del 1995), ma indubbiamente un proposito sostenuto da argomentazioni più che valide sia sul piano visuale, sia su quello strettamente realizzativo.

Il film è un orgia di effetti speciali, azione pura, pittoriche coreografie e dialoghi pseudoesistenziali. Mette insieme e frulla abilmente kung-fu movies, fumetti, videogames, videoclip e cyberpunk, il tutto abbondantemente condito di citazioni consce (le più evidenti, Alice nel paese delle meraviglie, lo gnosticismo, il buddismo, le storie di Philip K. Dick, i fumetti di Grant Morrison) e probabilmente inconsce, espressione di quel debito di riconoscenza che i fratelli Wachowski affermano di avere nei confronti dei manga e dei grandi maestri del cinema d’animazione giapponese (tanto da voler incontrare questi ultimi nel corso della tappa a Tokyo del tour di presentazione del secondo film, Matrix Reloaded).

Un conto, però, è riconoscersi nel taglio narrativo di manga e anime, tutt’altro è voler riportare quello stesso modo di raccontare sul piano della realtà, con attori in carne e ossa. Chiamati a fare cose praticamente impossibili, con la naturalezza di chi deve dare l’illusione allo spettatore in sala di compierle quasi tutti i giorni. E a poco serve il fatto che la storyboard venga disegnata (e mostrata sul set prima di girare ogni scena) proprio secondo gli stilemi del fumetto giapponese o riprendendo certi “quadri” in stile Frank Miller. L’idea dei Wachowski, del resto, è proprio quella di prendere un cartone animato e consegnarlo al mondo delle tre dimensioni. Senza sconti. Una straordinaria sfida immaginifica ancor prima che tecnica…

Sul set, tra cavi e pallottole

Che sul set di Matrix qualcosa di effettivamente mai visto stia prendendo forma lo si capisce da numerosi indizi: la troupe si allontana da Hollywood, preferendo per questioni di costi delocalizzare la produzione a Sidney, ciò nonostante si premura di reclutare il meglio del meglio delle singole professionalità in tema di effetti speciali, computer grafica, fotografia, scenografia, sonoro. Sul set si utilizzano tecniche di ripresa di assoluta avanguardia e, non contenti, se ne sperimenta di nuove: su tutte il cosiddetto bullet time, al quale si devono gli straordinari ralenti a 360 gradi delle scene di combattimento, che obbliga gli attori a recitare appesi a cavi, circondati da qualcosa come 120 fotocamere e due macchine da presa. Dal lontano oriente scende, poi, in forze una squadra di istruttori di kung fu, alla guida di Woo Ping Yuen (regista e coreografo del primo successo di Jackie Chan, Drunken Master, maestro della cosiddetta Drunken Boxing), che ha il compito di trasformare in quattro mesi attori completamente a digiuno di arti marziali in “combattenti” credibili quanto meno davanti alla macchina da presa…

Alla Warner Bros sembra che abbiano un’idea ancora approssimativa di quello che stanno combinando sul set i due ragazzi terribili di Chicago, che al loro attivo come registi hanno solo un film – Bound, Torbido inganno, del 1996 – tanto che la luce verde alla pellicola viene data solo in fase di pre-produzione. Il cast, per il quale si fanno via via i nomi anche di Johnny Depp, Brad Pitt, Will Smith e Val Kilmer per la parte di Neo, è un amalgama perfetto: gli attori si sentono già da subito parte di un progetto senza eguali e sviluppano tra loro e la troupe un cameratismo paragonabile solo a quello nato sul set della trilogia de “Il signore degli anelli”. Si assoggettano volentieri a sfiancanti sedute di allenamento per familiarizzare con le tecniche di fighting e coi cavi che li sosterranno durante le evoluzioni più acrobatiche. Questa, quanto meno, è la parte che amano ricordare “a cose fatte”, forti dei numeri che danno ragione alla loro scelta di sudare su un tatami per parecchie ore al giorno: “Matrix” infatti, uscito nelle sale statunitensi il 31 marzo 1999  e in Italia il 7 maggio, incassa al botteghino la bellezza di 456,3 milioni di dollari (43 in più del primo Batman e, sempre per restare in tema di fantascienza, quasi 100 in più di Minority report del binomio stellare Dick/Spielberg) e si colloca al 74 posto nella classifica degli incassi di tutti i tempi, una piazza davanti a Il gladiatore, dieci davanti a L’ultimo samurai e addirittura 176 davanti a The Truman Show, altra pellicola cult sul rapporto finzione/realtà.

Nel 2000 arrivano anche quattro Oscar, seppur minori (“miglior montaggio”, “migliori effetti speciali”, “miglior montaggio sonoro” e “miglior sonoro”) e tre MTV Awards (“miglior film”, “miglior performance maschile” a Keanu Reeves, “miglior combattimento” per il duello tra Keanu Reeves e Laurence Fishburne). Matrix diventa un mito, i suoi protagonisti osannati come artefici di un nuovo modo di produrre/girare/interpretare un film. Le citazioni e le parodie più o meno serie non si contano: un centinaio, tra lungometraggi e spot pubblicitari, ma probabilmente molti sfuggono alla conta. Tra le più ricordate, quelle de La tigre e il dragone (Ang Lee, 2000) e di Shrek (Andrew Adamson e Vicky Jenson, 2001). In soli tre anni, fino al 2002, si è calcolato che la famosa sequenza del bullet time sia stata riproposta in una ventina di film diversi.

Manca qualcosa?

Contrapposizioni forti, dicevamo. Matrix vive e si alimenta di opposti: bene/male, amore/odio, realtà/sogno, umanità/macchine, spiritualità/scienza, Neo/agente Smith, Oracolo/Architetto, pillola rossa/pillola blu… Ma è anche un esempio per certi versi unico di interdisciplinarietà, di incontro e fusione di strumenti espressivi. Al primo film si aggiungono quattro anni dopo, nel 2003, altri due capitoli: Matrix Reloaded (735,6 milioni di dollari d’incasso, 29° nella classifica di tutti i tempi) e, a soli sei mesi di distanza, Matrix Revolutions (appena, si fa per dire, 424 milioni, 91° posto), di fatto la seconda metà del precedente.

Sempre nel 2003 arriva Animatrix, una raccolta di nove cortometraggi a cavallo tra cinema d’animazione, computer grafica e anime giapponesi, realizzati da quei maestri dell’animazione del Sol Levante che tanta parte ebbero nell’immaginario dei fratelli Wachowski. Animatrix costituisce una sorta di prequel e getta le basi per la realizzazione di una serie di videogames per diverse piattaforme ludiche, come Enter the Matrix, The Matrix, Path of Neo e Matrix Online, al cui interno sono presenti spezzoni della trilogia cinematografica, con tanto di scene inedite.

Film, cartone animato, videogame. Un’articolazione in sette titoli, quasi 8 ore di visione, senza contare i contenuti speciali dei DVD e la “longevità” dei videogiochi. Manca qualcosa? Appare fin troppo chiaro che il tavolo si regge su tre sole gambe. Sorge spontanea la domanda: “E il libro?”. Risposta: “Non c’è nessun libro!”. Che un film nasca da un soggetto originale anziché da un volume non è affatto raro, anzi. L’ultima “anomalia” di “Matrix” sta semmai nel fatto che nel corso degli anni nessuno si sia cimentato con una novelization ufficiale della trilogia. Insomma, un “dopo”, da rileggersi sulla pagina…

L’ipotesi ampiamente condivisa è che Matrix sia nato sotto mille forme, eccetto che come storia da raccontare per iscritto: film, fumetto, cartone animato, videogioco, videoclip. E, a dispetto di certi suoi dialoghi filosofeggianti e pseudoesistenziali un po’ ambiziosi, fonda il suo perché soprattutto sulle immagini. Pur con le sue pause e qualche lungaggine, è fruizione immediata, creatura da vedere, tutt’al più da ascoltare o con cui giocare. Ma non da leggere. Insomma, quando si è visto di tutto e di più, suona assai difficile aspettarsi ancora qualcosa da una descrizione per sua natura sequenziale, parola per parola. Come scrittore mi duole ammetterlo, ma dopo l’orgia visiva, il tartagliare di una pagina scritta sarebbe ben poca cosa. Sarebbe come tenere gli occhi chiusi. E questo con Matrix equivarrebbe a perdersi praticamente tutto.

Wake up, Neo”.

Buon compleanno, Matrix!

[Dario Tonani]

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Watchmen: il sogno di celluloide

marzo 18th, 2009

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Non credo nei miracoli: parafrasando il Dr. Manhattan, sono impossibili per definizione. Ma come definire altrimenti la riuscita di un film come la trasposizione dell’opera più complessa (paragonabile, per carica ideologica, solo a V per Vendetta) e incontestabilmente più influente nella storia dei comics?

Watchmen è l’opera di Alan Moore e Dave Gibbons che ha stravolto per sempre l’approccio ai supereroi e questo ne ha fatto di diritto il punto di non ritorno del fumetto contemporaneo. Riprodurne la complessità e la profondità sul grande schermo non era un gioco da ragazzi. Zack Snyder, acclamato dalla critica come il “regista più visionario” di questi tempi (etichetta che ricorda quella appiccicata una trentina d’anni fa addosso a Ridley Scott, quando era evidente a chiunque che la vetta della controversa classifica dovesse in realtà essere spartita tra ben altri autori, quali David Cronenberg, David Lynch o Terry Gilliam), è riuscito nell’impresa e il suo successo ha il sapore del miracolo.

Le riserve su un’operazione del genere erano molteplici, a partire dall’adattamento di un’opera stratificata, caratterizzata dalla sovrapposizione di livelli narrativi, dalla trama fortemente delinearizzata che genera una struttura frattale, con i continui flashback, le divagazioni, gli inserti metanarrativi e il citazionismo estremo che risentono dell’attitudine postmodernista di Moore e della sua passione per la narrativa e le intuizioni di William Burroughs. Ma la visione del film riesce per fortuna a esorcizzare tutte queste riserve e regala due ore e tre quarti di purissimo piacere cognitivo, un distillato delle visioni e delle riflessioni che impreziosiscono la lettura della graphic novel originaria. Quella che poteva rivelarsi la più disastrosa Caporetto hollywoodiana di fronte al potere della scrittura, trova invece la via della riuscita malgrado la scomunica di Alan Moore e la gestazione più che mai travagliata, tra cambi di registi (almeno tre, da Gilliam a Paul “Bourne” Greengrass, passando per Darren Aronofsky) e passaggi di mano alla produzione fino all’atto finale della battaglia tra la Warner Bros e la 20th Century Fox.

Ogni volta che capita di riscontrare una così equilibrata alchimia di tecnica ed estetica è quasi inevitabile una reazione di incredulità. Se si aggiungono le premesse di cui sopra, l’incredulità subisce un’amplificazione esponenziale. Probabilmente la scelta di Snyder e della produzione è stata quella di adottare un approccio riguardoso dell’originale senza lasciarsi sopraffare dall’imponenza dell’impresa. La scelta migliore possibile, come confermano i risultati: l’unica in grado di conservare lo spirito della graphic novel evitando l’integralismo religioso del fan convinto di avere abbracciato il culto di una setta.

L’ironia – insegna il postmoderno – è in fondo il metodo migliore per maneggiare la materia quando essa si combina in forme esotiche rischiando il collasso e la degenerazione. E di ironia Watchmen (il film) è infarcito almeno quanto il fumetto, riuscendo così a replicarne intatta la carica demistificatoria dell’universo dei supereroi e, al contempo, offrire una riflessione sull’uomo e sulla nostra società – riflessione magari meno fantascientifica e maggiormente declinata sul versante del fantastico che volge all’ucronia. Intuizione dello sceneggiatore californiano David Hayter, già apprezzato per il suo ottimo lavoro sui primi due copioni della trilogia dedicata agli X-Men della Marvel e inizialmente associato anche alla regia del film quando era ancora in cantiere per la Universal. Hayter ha lavorato sulla sceneggiatura per un possibile adattamento del fumetto fin dal 2001, realizzandone otto diverse versioni e arrivando, grazie anche all’apporto di Alex Tse, a un distillato delle situazioni, degli snodi e dei dettagli che non a caso nei copioni preliminari gli erano valsi il favore dello stesso Moore, prima che le vicissitudini produttive lo allontanassero da tutti i progetti cinematografici legati alla sua opera.

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