Introduzione a “Il mondo degli showboat”
Pubblichiamo l’introduzione all’Urania Collezione di questo mese, firmata dal nostro Curatore Giuseppe Lippi.
Showboat World ci riporta sul Pianeta Gigante, una delle prime e più fortunate creazioni di Jack Vance, l’immenso mondo povero di metalli dove hanno trovato asilo i paria e i senza-regola della Terra, i quali hanno dato vita a un groviglio di civiltà anacronistiche e post-tecnologiche. Come tutti ricorderanno, il pianeta faceva mirabilmente da sfondo a uno dei romanzi più famosi dell’autore californiano, Big Planet appunto (L’odissea di Glystra, 1952), e il suo ritorno in Showboat World, un romanzo del 1975, indica in Vance il bisogno di un ambiente fantastico del tutto eccentrico rispetto alle correnti mode fantascientifiche.
E infatti la vasta regione del fiume Vissel, dove Showboat è ambientato, coi suoi colori, le sue brezze, i suoi vascelli e i gonfaloni, le strane tribù e i desueti costumi, i cappellacci ornati di piume, stivali, sciabole e schioppi è più prossimo a Salgari che a John Campbell; e ciò che di più fantascientifico possiede è l’humor culturale, quello strizzar l’occhio alle sinistre abitudini che talora così da presso parodiano le nostre (anche se la maestria di Vance giunge al punto da passare quasi con negligenza queste osservazioni, da farne solo uno spunto del suo merletto più ricco).
Come è chiaro nel romanzo, ciò che interessa Vance è anzi tutto l’esotica avventura; un’avventura non tanto vissuta nei modi amari e romantici di Conrad, di Melville, dei metafisici del mare insomma; ma in quelli più scanzonati, e leggeri, d’un immaginario operettista. Potremmo anzi dire con una certa dose di verosimiglianza che Showboat sia una River Opera e che dell’operetta Vance fornisca, lungo il romanzo, la ricetta ideale attraverso le simpatiche teorizzazioni di Apollon Zamp, Garth Ashgale e Throdorus Gassoon.
Sebbene un tono leggiadro non sia mai assente dalle sue opere, in Showboat World lo troviamo più accentuato che altrove. Vance, quando vuole, sa raggiungere risultati di totale drammaticità anche con altri mezzi; ma vorrei riflettere un momento su come il risultato artistico sia qui raggiunto proprio grazie al clima d’avanspettacolo, come insomma l’operetta venga felicemente alzata ai vertici della creatività fantascientifica. Il che mi pare comunque un bel risultato, a tutto beneficio del divertimento del lettore.
Quella del fiume Vissel è una regione di povertà e sospetto, di gelosia e miseria; la violenza impera nelle steppe circostanti e l’immensità d’un pianeta cronicamente povero di metalli lascia poco sperare nella fuga tecnologica. Dati questi elementi, si capisce che siamo calati in un mondo autentico, dove il fantascientifico è appunto che non ci si può aspettare alcun deus-ex-machina fantascientifico. La conferma la troviamo visitando, con la Miraldra Incantata di Apollon Zamp, i vari porti del circondario: uno più becero dell’altro, uno più tristo del precedente. Sotto il velo leggiadro d’un’ambientazione all’apparenza escapista, troviamo quindi segni di nevrosi e d’innegabile pessimismo, quello stesso che non promette fuga, o futuri dorati, agli abitanti del pianeta.
Nondimeno, in questa cornice realistica veleggiano gli showboat, navi fantastiche che portano i loro spettacoli vivi nei paesi di fango e nelle oscure cittadelle commerciali. Sugli showboat si rappresenta un tipo d’opera che è destinato a restituire la vita – per pochi momenti – ai truci spettatori del fiume. È il varietà, è l’entertainment di cui si cantavano le lodi in un famoso film di Vincente Minnelli e qui si riassumono i pregi nelle enfatiche avventure di Apollon Zamp, nelle sue litigate memorabili col pedante classicista Throdorus Gassoon e, naturalmente, nelle scene di spettacolo che prendono la vita in più d’un capitolo sotto i nostri occhi.
Se nella maggior parte della sua opera Jack Vance imposta le storie avventurose in modo da far sì che risultino un’odissea del raziocinio a confronto con enigmatici machiavelli culturali, in questo caso il problema è parallelo ma non dissimile. I due poli che si fronteggiano sono l’aspra desolazione, il rigido convenzionalismo dei popoli del fiume con le loro maschere impenetrabili; e i lazzi sovversivi, direi anarchici, del varietà. In più d’un’occasione quest’antinomia è quella stessa tra vita e morte.
Il problema così impostato diventa un problema di comunicazione (l’altro motivo centrale della narrativa di Jack Vance): le operette date a bordo degli showboat sono, appunto, il tentativo di stabilire un codice fra il mondo vivo e il mondo chiuso, tra le due sponde antinomiche del fiume.
Una felice intuizione, senza dubbio, che riguarda anche il mondo esterno al romanzo: abbiamo tutti più bisogno di fantasia, stravaganza ed eccentricità di quel che siamo disposti ad ammettere… Ma, per tornare al punto: l’operetta è dunque il mezzo espressivo per superare la crisi, per battere la morte nel bacino del Vissel. Sarebbe superficiale illudersi, tuttavia, che anche il più leggiadro dei generi non svelasse la sua propria amarezza; ed ecco quindi, alla fine dell’odissea, un varietà inatteso sconvolgere tutti i piani della compagnia: il numero di Damigella Blanche-Aster, l’assurda favola del Tabarro cui ella dà vita, che svelano l’insensatezza dell’intera queste, in un ironico e amarissimo finale dove il pessimismo di Vance si prende più d’una rivincita.
Damigella Blanche-Aster incarna solidamente la belle dame sans merci: il suo chiuso disinteresse, la scostante freddezza, il gusto di repulsione di cui si compiace ne fanno un personaggio memorabile ma dei più raggelanti che si siano incontrati in fantascienza. Vance, ricordiamolo, ha un debole per le eroine eccezionali e scostanti: basti ricordare, per fare un paragone, l’avventuriera del racconto “Stazione Abercrombie”, Jean Panier. Bisogna concludere che l’entertainment ha fallito, che nella lotta tra gli estremi di vita e morte il secondo senz’altro prevale? Questo no, ma il gioco resta aperto e del resto, ciò che meglio risalta dall’opera di Vance è che anche l’intrattenimento ha un lato spiacente. Che, insomma, il buon divertimento non cessa mai di fissare il dramma. Non è solo Vance a dircelo ma tutto il cinema «leggero» americano, il varietà coi suoi abissi e i generi letterari oggi fuori di moda. La miglior fantascienza epica non si stanca di tornare sull’argomento e Showboat World, con il suo ironico élan, è un buon promemoria di tutto questo.
Giuseppe Lippi
Posted in Cronourania, Orizzonti, Urania Collezione
luglio 16th, 2009 at 11:45
Possibile che nemmeno a Trieste sia uscito?
luglio 16th, 2009 at 14:38
@luciano / idefix
Mi sembra strano…
Da noi è uscito puntualmente il 15.
luglio 17th, 2009 at 11:19
Strange tale: di solito a Trieste le uscite sono abbastanza puntuali. Eppure stavolta in edicola c’è ancora il volumetto di Miglieruolo.
luglio 17th, 2009 at 12:58
Manco da me è arrivato.
Ciao ragazzi.
luglio 17th, 2009 at 14:48
triste Trieste… la bora labora…