Dispacci

Ernesto Vegetti (1943-2010): una vita al servizio della fantascienza

gennaio 18th, 2010

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Ernesto Vegetti, il grande bibliografo della fantascienza, è morto in ospedale la notte del 17 gennaio 2010. Apprendiamo la notizia da Vittorio Curtoni, che l’ha saputa nella mattinata di domenica, e da Piergiorgio Nicolazzini che nel pomeriggio era già sul luogo, nella casa dei Vegetti a Borgomanero (NO). Le cause sono da ricercare, a quanto sembra, in complicazioni cardiache seguite a un’operazione di calcoli alla cistifellea che Ernesto aveva subito in dicembre. Con la sua scomparsa la fantascienza italiana perde la sua memoria e “Urania” un grande amico personale. Rimane l’opera immane del creatore del Catalogo generale della fantascienza, fantasy e horror, una fatica unica al mondo per ampiezza e complessità, ma il mondo della sf senza Ernesto Vegetti non sarà più lo stesso. Alla moglie Stefania e al figlio tutto il cordoglio della nostra redazione.

Giuseppe Lippi

[Foto via Fantascienza.com]

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Il cantore perduto

gennaio 9th, 2010

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Pubblichiamo un intervento di Gianni Montanari su Walter M. Miller, Jr e sul suo capolavoro, Un cantico per Leibowitz.

Per buone e valide ragioni personali, Walter Miller jr. si è ritirato come scrittore.” Con queste parole, incluse nel breve cappello introduttivo a un racconto di Miller ristampato nell’antologia A Wilderness of Stars pubblicata nel 1971, si sanciva la scomparsa dal campo della fantascienza (e della letteratura) di uno dei suoi talenti più ricchi e singolari. A dire il vero, più che di una sanzione si trattava di una tardiva spiegazione, poiché la “scomparsa” era avvenuta qualcosa come undici anni prima, nel 1960, in coincidenza con la pubblicazione del capolavoro indiscusso di Miller, Un cantico per Leibowitz. Autore di quelle brevi righe era il curatore dell’antologia, William F. Nolan, che probabilmente sapeva in proposito più di quanto volesse scrivere, ma i lettori dovettero accontentarsi: Walter Miller aveva deciso di sparire dal mondo della fantascienza e nessuno poteva convincerlo a ripensarci.

Quali potevano essere i suoi motivi? Perfino David N. Samuelson, autore del più esauriente saggio critico su questo autore, The Lost Canticles of Walter M. Miller, Jr., apparso su Science-Fiction Studies n. 8 (marzo 1976), si limita ad accennare a motivi di ordine letterario: forse il suo romanzo lo ossessionava, prosciugandolo di ogni attività creativa; forse gli imponeva un termine di paragone il cui livello era troppo difficile mantenere; o ancora, forse il romanzo esprimeva così bene i temi cari a Miller che il suo completamento lo lasciava senza altro da dire. Ma si tratta sempre e soltanto di forse. L’unica cosa certa, ancora oggi, è che Un cantico per Leibowitz rimane un’opera difficilmente eguagliabile, e che nella produzione di Miller non costituisce un’eccezione fortunata ma il risultato finale di una continua ricerca durata quasi un decennio.

Nato il 23 gennaio 1923 in Florida, da genitori cattolici, Walter Michael Miller jr. interrompe agli inizi della Seconda guerra mondiale gli studi di ingegneria per arruolarsi in aviazione; partecipa così a più di cinquanta missioni di volo sui Balcani e sull’Italia, e assiste alla distruzione dell’abbazia di Montecassino. Finita la guerra, si laurea all’Università del Texas e inizia a scrivere durante un periodo di convalescenza provocato da un incidente automobilistico. Il suo esordio avviene con il racconto “Secret of the Death Dome” sulle pagine di “Amazing Stories” nel gennaio 1951, e nei sette anni seguenti la sua intera produzione viene ospitata da riviste come “Astounding”, “Fantastic Stories”, “Galaxy”. Sono anni in cui l’America, emersa poco prima vittoriosa dalla guerra, incomincia a perdere la sua sicurezza e il suo ottimismo euforico alle prese con la guerra di Corea e con il maccartismo, e sono gli anni in cui la fantascienza americana sembra finalmente voler abbandonare tanti stereotipi avventurosi per prestare un po’ di attenzione anche allo sviluppo dei personaggi e al loro contesto ambientale. Le storie di Miller cominciano subito a lasciare il segno, con il loro piglio estremamente sicuro fin dall’inizio e la loro capacità di mettere in scena, oltre a personaggi dotati di un insolito spessore psicologico, temi che di lì a poco sarebbero diventati di bruciante attualità: il relativismo culturale di razze diverse, la solitudine urbana, il controllo delle nascite, l’alienazione tecnologica, per citarne alcuni.

In tutto, Miller pubblica quarantuno fra racconti e romanzi brevi, in un arco di tempo compreso tra il 1951 e il 1957. Una di queste, The Darfsteller (“Il mattatore”), gli fa conquistare un premio Hugo nel 1956: è il magistrale ritratto di un attore del futuro che sabotando un “collega” elettronico riesce a tornare un’ultima volta sulle scene. Ma ci sono altri tre romanzi brevi, apparsi fra il 1955 ed il 1957 su “The Magazine of Fantasy & SF” (A Canticle for Leibowitz, And the Light is Risen e The Last Canticle), che sembrano assorbire Miller in un infaticabile lavoro di revisione e di ampliamento. Sono le tre storie che nel 1960 appaiono finalmente in volume come Un cantico per Leibowitz, meritando a Miller un premio Hugo per il miglior romanzo dell’anno.

In quest’opera, concedendo finalmente spazio a un interesse in precedenza solo sfiorato in alcuni racconti, Miller ha modo di affrontare in modo diretto e globale un tema che gli sta a cuore: Ia religione. Per la precisione, quella cattolico romana. E nel dipingere le tre pale del suo romanzo imperniato attorno all’abbazia del Beato Leibowitz, dove i monaci dell’ordine omonimo custodiscono (seicento anni dopo la terza guerra mondiale) documenti e progetti scientifici del passato come memorabilia, senza minimamente comprenderne il significato, Miller si mantiene al largo da qualsiasi tono apologetico. Le sue figure minuziosamente connotate servono anche a intavolare discussioni sulla legittimità di certi usi del progresso scientifico, sulla validità delle vocazioni e su altri temi religiosi, ma l’occhio che le osserva crescere mantiene un garbato tono ironico, conscio del fatto che sotto un saio o sotto gli stracci di un mutante si trovano gli stessi uomini. Uomini che cercano di conservare al genere umano la stessa dignità che può valere per un credente o un brigante di strada, anche sotto gli occhi delle poiane che ormai formano un’inamovibile eredità del passato atomico.

Gianni Montanari

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Un capolavoro ritrovato

gennaio 9th, 2010

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Giuseppe Lippi ci parla della riedizione di questo classico immortale di Walter M. Miller, Jr, in uscita tra qualche giorno in tutta Italia con il numero 84 di “Urania Collezione”.

Un cantico per Leibowitz costituisce uno dei migliori esempi della fantascienza americana moderna, aggettivo che usiamo volentieri perché da allora (1960) non ha perduto un grammo della sua potenza e originalità. È anche uno dei pochi romanzi di SF che si farebbero leggere a chiunque, per il suo intrinseco piacere letterario: non un’opera di genere ma trans-genere, come tutti i capolavori cui calzi la definizione. Averlo ritrovato non è un merito, vista la sua fama da cinque decenni: il merito, semmai, consisterebbe nel conservarlo, dandogli di nuovo la dignità di un’edizione libraria come all’epoca della prima apparizione nello Science Fiction Book Club. Leggendolo si assiste alla nascita di una nuova forma d’espressione che fiorisce sì nelle riviste di settore (in questo caso, “Fantasy and Science Fiction” diretta da Anthony Boucher) ma va ben al di là dello scopo di queste ultime: è la speculative fiction americana che, a partire dagli anni Sessanta, comincia a produrre capolavori maturi come da sempre accadeva in quella inglese, dai tempi di H.G. Wells ad Aldous Huxley, da Olaf Stapledon a George Orwell. È allora, quando il genere cessa di essere semplicemente “un genere” e l’immaginazione si allea alla capacità di scrittura e all’originalità del pensiero, che il risultato può essere un quadro del mondo come quello contenuto nel Leibowitz, apocalittico ma non desolato, avveniristico ma mai scontato. E nel futuro di cui parla Miller si avvertono gli echi di un passato nient’affatto sepolto, un passato come quello custodito nell’abbazia di Montecassino che, bombardata dagli alleati alla fine della Seconda guerra mondiale, resiste persino alle esplosioni aeree, alla furia della guerra tecnologica, preservando il suo alone di simbolica sapienza. Walter Miller partecipò al bombardamento, vi assisté: e l’operazione destruens gliene ispirò una construens, Un cantico per Leibowitz appunto. L’opera di una vita, cui stava per dare un seguito quando morì nel 1996. Poco dopo un altro romanziere, Terry Bisson, avrebbe dato alle stampe una propria versione del romanzo che Miller non era riuscito a completare, ma che aveva già abbozzato e a cui mancava la parte finale: si tratta di Saint Leibowitz and the Wild Horse Woman, lunghissimo seguito del capolavoro originale. In Italia, vista la sua mole debordante e la natura sempre un po’ spuria di certe operazioni editoriali, è parso impubblicabile; ma il lettore può consolarsi andando a leggere i racconti del nostro geniale autore, una selezione dei quali è apparsa nel n. 150 dei “Classici Urania” con il titolo Visioni dal futuro.

G.L.

[L’illustrazione che accompagna questa scheda è di John Picacio, pluripremiato artista americano che ha realizzato questa copertina per l’edizione HarperCollins di A canticle for Leibowitz. La bibliografia italiana di Walter M. Miller, Jr è reperibile sul Catalogo SF, Fantasy e Horror a cura di Ernesto Vegetti.]

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Urania: la musa del cinema

dicembre 1st, 2009

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Durante il festival internazionale della fantascienza Science + Fiction che si è svolto a Trieste dal 22 al 28 novembre scorsi, “Urania” ha avuto il piacere di assegnare l’annuale premio alla carriera a due grandissime star del cinema fantastico: l’attore Sir Christopher Lee e il regista Roger Corman. Il premio, che consiste in una scultura d’argento ricavata da un bozzetto di Karel Thole, è stato attribuito a Corman il 23 novembre e a Sir Christopher il 26. Inoltre, durante gli incontri “Arte/scienza” coordinati da Fabio Pagan della SISSA, il nostro curatore Giuseppe Lippi ha incontrato l’altro ospite d’onore della manifestazione, il romanziere americano Bruce Sterling. Il premio “Urania d’argento” viene attribuito da molti anni con la collaborazione della nostra testata, della famiglia Thole e dell’agenzia che la rappresenta: PNLA, Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency. Nelle precedenti edizioni è stato attribuito a Dario Argento, Pupi Avati, Terry Gilliam, Lamberto Bava e altri numi tutelari del cinema fantasy o fantascientifico. La galleria fotografica completa di Science + Fiction edizione 09 si trova al seguente indirizzo.

Qui pubblichiamo soltanto alcune immagini dei momenti “clou”.

Trieste, 26 novembre 2009. Sir Christopher Lee con il premio Urania d’argento alla carriera.

Trieste, 26 novembre 2009. Giuseppe Lippi tra Bruce Sterling e Andrea Bernagozzi.

Trieste, 22 novembre 2009. Da sinistra: Martina Begov, Roger Corman, Lorenzo Codelli e Giuseppe Lippi.

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90° compleanno per Frederik Pohl

novembre 26th, 2009

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Trieste, 26 novembre. – Mentre il festival di Trieste, Science + Fiction, onora ancora una volta il fantascientifico puro con un incontro al Museo Revoltella con Bruce Sterling (oggi alle 17,00), Frederik Pohl festeggia tranquillamente il suo 90° compleanno. La redazione di “Urania” si associa ai più calorosi auguri, divulgando tempestivamente la notizia che sarà il mensile mondadoriano a tradurre l’ultima fatica scritta a quattro mani da Fred Pohl e Arthur C. Clarke, The Last Theorem. L’attesissimo romanzo vedrà la luce da noi nel 2011, ben al riparo quindi dalle profezie maya. Happy Birthday from Italy, Fred!!!

Giuseppe Lippi

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Le avventure del bracchetto spaziale

novembre 24th, 2009

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Pubblichiamo la postfazione di Riccardo Valla a Crociera nell’infinito, il volume di “Urania Collezione” attualmente in edicola. 

1. All’inizio: la Nave di Sua Maestà “Beagle”

Il 27 dicembre 1831, dopo estesi lavori voluti dal nuovo capitano Robert FitzRoy e dopo vari ritardi dovuti all’inclemenza del tempo, il brigantino Beagle (“bracchetto”, nel senso della razza canina) lasciava il porto di Plymouth per la crociera che in sei anni l’avrebbe portato non solo a compiere il giro del mondo, ma anche a divenire una delle più famose navi della marina britannica, alla pari con la Victory di Nelson se non con il Bounty.

Infatti iniziava allora il viaggio in cui Charles Darwin raccolse le osservazioni naturalistiche e le testimonianze fossili che gli avrebbero permesso di enunciare la sua teoria dell’evoluzione delle specie attraverso il meccanismo della selezione naturale.

Non era il primo viaggio della nave, che aveva già in corso da alcuni anni una ricognizione delle coste del Sudamerica per tracciarne le carte geografiche a uso della marina inglese, ma il lavoro si era interrotto e la nave era ritornata a Plymouth perché il capitano Pringle Stokes, sopraffatto dalla solitudine e dalla nostalgia di casa, si era ucciso in un momento di depressione.

Il ventisettenne capitano FitzRoy, che prese il posto di Stokes, aveva già condotto la nave nel viaggio di ritorno e non sembrava soggetto a crisi di depressione – era il figlio illegittimo di un nobile e compensava con la pignoleria e la religiosità l’imbarazzo della nascita irregolare – ma gli organizzatori del viaggio pensarono bene di assegnargli un gentiluomo di compagnia che non gli facessse rimpiangere troppo l’assenza di altri membri della sua classe sociale. La scelta cadde su un naturalista, il ventitreenne Charles Darwin, che oltre ad avere dato buona prova di sé come classificatore, discendeva da una illustre famiglia che vantava già un famoso studioso, Erasmus Darwin, il nonno di Charles.

Il viaggio non fu certo movimentato come quello dell’astronave Space Beagle di questo romanzo di van Vogt – nessun kraken attentò alla solidità del fasciame e nessuna balena bianca cercò di sterminare l’equipaggio per regnare sull’intero universo dei pesciolini – ma non fu privo dei suoi lati bizzarri, soprattutto nei rapporti tra i due gentiluomini e nell’incidente dei “fuegini”.

Per quel che riguarda i rapporti tra i due, FitzRoy non intendeva rinunciare all’onore di ospitare nella propria cabina un gentiluomo come Darwin, appartenente alla miglior nobiltà della scienza, ma il coscienzioso naturalista gli riempiva l’intera cabina di vasi e boccette contenenti i suoi campioni, e il loro disordine era fonte di continui attriti. Quando il capitano protestava, Darwin per ripicca si trasferiva in un’altra cabina e il capitano dopo qualche giorno andava a scusarsi e lo richiamava. Leggi tutto »

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Alfred Elton van Vogt

novembre 18th, 2009

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Un profilo di A.E. van Vogt e della sua fantascienza tracciato dal nostro curatore Giuseppe Lippi. 

Scrittore canadese naturalizzato americano, Alfred Elton van Vogt è nato a Winnipeg nel 1912. Prolifico autore di drammi radiofonici e racconti sentimentali — le true confessions pubblicate prima della guerra sulle riviste popolari — van Vogt si accosta alla fantascienza relativamente tardi (1939), grazie alla rivista “Astounding” diretta John W. Campbell che accetta e pubblica con successo il suo primo racconto, “Black Destroyer”. Si tratta del capitolo iniziale di quella che diventerà una delle serie più acclamate della fantascienza dell’Età d’oro, The Voyage of the “Space Beagle”, nota in Italia con il titolo Crociera nell’infinito. Su “Astounding” van Vogt continuerà a pubblicare per anni; anche Slan, uno dei suoi testi più celebri, appare per la prima volta sulle pagine della famosa rivista (dal settembre 1940, in quattro puntate). Nel 1946 il romanzo viene raccolto in volume dalla Arkham House, ma nel 1951 Simon & Schuster pubblica l’edizione riveduta dall’autore, la stessa che oggi si usa per le traduzioni del romanzo (e che “Urania” ha seguito fin dal 1953, anno della prima edizione italiana).

Buona parte dei romanzi e racconti di van Vogt appartiene all’“Età d’oro” della fantascienza americana: Slan, The Voyage of the “Space Beagle” (Crociera nell’infinito, 1939-1943 su “Astounding”; 1950 in volume), Le armi di Isher (The Weapon Shops of Isher, 1941-43 “Astounding”; 1951), Il libro di Ptath (Ptath, 1943 “Unknown Worlds”; 1947), Non-Ā (The World of Ā, 1945-49 “Astounding”; 1948 e 1956). La guerra contro i Rull (The War Against the Rull, 1959) deriva da un gruppo di racconti pubblicati su “Astounding” fra il 1942 e il 1949, mentre il ciclo dell’Impero dell’atomo (Empire of the Atom e The Wizard of Linn, raccolti in volume rispettivamente nel 1956 e 1962) aveva visto la luce come una serie di episodi separati fra il 1946-47 e il 1950. Dopo aver tentato di propagandare, in Non-A, le virtù della “semantica generale” di Korzybski (autore del curioso saggio Science and Sanity, 1953), nella seconda metà degli anni Cinquanta van Vogt si è fatto paladino delle non meno dubbie virtù della dianetica sostenute da L. Ron Hubbard, fondatore della “scientologia” (dottrina che si propone di ottimizzare il nostro apparato psichico).

Affascinato dalle potenzialità della mente, van Vogt sfrutta il tema delle facoltà intellettuali secondo uno schema ricorrente: un personaggio situato in un futuro più  meno lontano sembra aver perso la sua identità, oppure, come in Slan, ogni traccia del ceppo cui appartiene; ma si trova catapultato in una situazione di crisi la cui soluzione è legata alla scoperta di facoltà eccezionali (telepatia, controllo assoluto sulla materia, addirittura l’immortalità). Preoccupato dalla dilagante “follia” dell’umanità, sia su un piano storico che su quello psichico e organico, per uscire dalla crisi del presente van Vogt non conosce alternativa che non passi attraverso una trasformazione della razza umana, la quale smetterà di essere tale e diventerà una specie nuova, l’homo superior teorizzato da tanta fantascienza. Solo raggiungendo questa meta “trascendente” si potranno liberare le forze vitali compresse da un’organizzazione sociale troppo primitiva: da qui le figure di imperatori, guerrieri e superuomini che incarnano i suoi desideri di indipendenza e di grandezza.

Questo eclettico romanziere ha conosciuto un ritorno di fiamma a partire dagli anni Sessanta, e sebbene i romanzi di tale periodo (The Beast o Moonbeast, 1963: La città immortale; The Silkie, 1969: Il segreto dell’ultrauomo; Children of Tomorrow, 1970: Figli del domani; Darkness on Diamondia, 1972: Diamondia, ecc.) non abbiano sempre trovato d’accordo gli appassionati, con l’eccezione di The Battle of Forever del 1971 (Battaglia per l’eternità), hanno tuttavia alimentato i dibattiti intorno alla tecnica di uno scrittore che in passato era stato oggetto di feroci attacchi da parte della critica radicale. In “Cosmic Jerrybuilder”, uno dei saggi raccolti nel volume In Search of Wonder, Damon Knight ne aveva dimostrato, fra l’altro, le contraddizioni logiche, condannando proprio quell’andamento onirico che tanto aveva affascinato il pubblico francese, da cui van Vogt è stato ritenuto per anni il massimo autore di science fiction (come da noi Asimov).

Dopo una prolifica carriera e molti riconoscimenti, van Vogt ha scritto un’autobiografia-pamphlet (Reflections, 1975) e qualche anno più tardi ha ravvisato nel film di Ridley Scott Alien (1979) un plagio del suo “Space Beagle”. Inutilmente ha intentato causa alla produzione del film: la corte avrebbe dato ragione a quest’ultima. Ritenuto uno dei tre grandi della sf tecnologica (insieme ad Asimov ed Heinlein), van Vogt è rimasto a lungo un mito per migliaia di lettori. E’ scomparso a Los Angeles nel gennaio 2000.

Crociera nell’infinito è il capolavoro di un certo tipo di avventura spaziale dove quel che conta non è tanto l’avventura fine a sé quanto le immagini e i misteri che, più o meno ingegnosamente, si nascondono nella trama: una sorta di sense of weird, oltre che sense of wonder, dove la meraviglia va a braccetto col terrore. Proprio quello che non succede nei film ad esso ispirati, a partire dal primo Alien, dove il terrore c’è ma è troppo viscerale per lasciare spazio all’elemento speculativo e il meraviglioso è di qualità inferiore. Ma il libro di van Vogt è anche, alla lontana, l’ispiratore di un importante movimento dei nostri giorni: il cosiddetto Connettivismo italiano, la risposta al cyberpunk di autori come Giovanni De Matteo, Francesco Verso, Sandro Battisti e numerosi loro colleghi. Le somiglianze, tuttavia, si fermano qui: a un concept universale – i mostri che si annidano nello spazio – e una disciplina super-scientifica che, nella visuione vanvogtiana, serviva a unificare tutte le conoscenze (un po’ come avrebbe voluto fare, ai suoi tempi, Giordano Bruno). In Crociera nell’infinito ogni episodio, ogni avventura contro i diabolici abitatori dello spazio sconosciuto è anche una partita a scacchi giocata con l’aiuto della scienza e dell’immaginazione e vissuta da un’astronave, la “Beagle”, e un equipaggio (Elliott Grosvenor e compagni) che si battono sfruttando una disciplina cognitiva d’avanguardia quale è il connettivismo. E sarà proprio il connettivismo – unione metalogica di tutte le scienze e tutti i saperi – a dare una possibilità di scampo ai terrestri dopo una serie di scontri durissimi contro il mostruoso felino Coeurl, gli agghiaccianti e alati Riim, il terribile Ixtl e l’immenso, insondabile Anabis che neppure vive su un pianeta, ma, simile a un Moby Dick celeste, permea della sua essenza distruttrice il cosmo stesso. 

Giuseppe Lippi

[La bibliografia italiana di A.E. van Vogt è reperibile sul Catalogo SF, Fantasy e Horror a cura di Ernesto Vegetti.]

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Millemondi 49: Il meglio della SF / II

ottobre 31st, 2009

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Torna l’antologia del meglio della fantascienza degli ultimi 20 anni, con il secondo volume a cura di Gardner Dozois.

Il meglio della SF è una vera e propria summa della science fiction scritta dalla metà degli anni Ottanta in avanti, un’epoca di straordinari fermenti. Se un lettore di fantascienza ambisse a veder riuniti, in un’unica antologia, tutti i capolavori della narrativa breve, la presente antologia diventerebbe la sua pietra angolare. In questa seconda parte presentiamo racconti che “hanno fatto la SF” d’oggi di maestri come Robert Silverberg, Terry Bisson, Connie Willis, Robert Reed, Greg Egan, Brian M. Stableford, Michael Swanwick e Ian McDonald. Un ventaglio di idee assolutamente superlative, all’incrocio tra questo e gli altri mondi del nostro futuro.

Indice del volume: Millemondi n. 49

AA.VV.
Il meglio della SF / II

5 Introduzione di Robert Silverberg
13 Prefazione di Gardner Dozois

19 Racconti dalle foreste di Venia di Robert Silverberg
41 Quando gli orsi scoprirono il fuoco di Terry Bisson
55 Anche la Regina di Connie Willis
77 Ospite d’onore di Robert Reed
113 Storia della morte di Mortimer Gray di Brian Stableford
181 Il treno di Lincoln di Maureen F. McHugh
197 I tappeti di Wang di Greg Egan
235 Diventare adulti in Karhide di Ursula K. LeGuin
257 Morti di Michael Swanwick
271 Angelo registratore di Ian McDonald
287 Un’arida guerra tranquilla di Tony Daniel
311 Sconosciuto di William Sanders
339 Seconda pelle di Paul J. McAuley
365 Storia della tua vita di Ted Chang
419 Gente venuta dalla Terra di Stephen Baxter
433 Album di nozze di David Marusek
491 1 x 10^-16 di James Patrick Kelly
517 Il mondo di papà di Walter Jon Williams
547 Il mondo reale di Steven Utley
577 Avere non avere di Geoff Ryman
601 Aragoste di Charles Stross
631 Muschiorespiro di Ian R. MacLeod
705 La stagione degli agnelli di Molly Gloss

Nato nel 1947, Gardner Dozois è uno dei più famosi editor americani di fantascienza. Ha diretto per anni la “Isaac Asimov’s Science Fiction Magazine”, facendole vincere più premi Hugo di qualunque altra rivista. Best of the Best, la cui prima parte è apparsa recentemente in “Urania” (supplemento n. 38 al numero 1541), è una selezione tratta dall’annuale panoramica dei migliori racconti del genere, un appuntamento con i lettori che Dozois mantiene da oltre vent’anni.

[Vai alla quarta di copertina.]

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Il futuro che è già cominciato

ottobre 14th, 2009

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Giuseppe Lippi ci accompagna nella conoscenza di Walter S. Tevis e dell’Urania Collezione che arriva in edicola in questi giorni: Futuro in trance.

Walter S. Tevis – un professore di università dell’Ohio, come il Bentley di questo romanzo – è noto ai lettori di fantascienza per un paio di opere, non di più: L’uomo che cadde sulla Terra (1963), il romanzo portato sullo schermo da Nicolas Roeg, e A pochi passi dal sole, un romanzo del 1983. In mezzo sta questo Mockingbird (1980) che in Italia è apparso anche con il titolo Solo il mimo canta al limitare del bosco. Tuttavia ha pubblicato diversi racconti brevi – facendo il suo esordio nel genere su “Galaxy”, nel 1957 – e una raccolta che li traduce in italiano è Lontano da casa, in “Urania” n. 1162. Gli appassionati di cinema lo ricordano per aver fornito il soggetto de Lo spaccone di Robert Rossen (1961), l’amaro film interpretato da Paul Newman e George C. Scott tratto dal suo romanzo.

L’uomo che cadde sulla Terra si era già segnalato per l’ambiguo e affascinante tratteggio del protagonista, un extraterrestre potentissimo ma “fragile”; l’uscita nel 1980 di Mockingbird, il romanzo che qui si presenta, conferma in Tevis un ottimo narratore, uno dei più sensibili su cui possa contare la fantascienza americana. Il libro, diciamolo subito, ci sembra felicemente estraneo agli abituali canoni fantascientifici e s’inserisce nel panorama con un’autorità tutta propria, perfino un po’ anomala. È un’utopia dalla non comune forza visionaria; è forse uno dei pochi romanzi “psicologici” (vedremo che il termine ha un senso più ampio) che valga la pena di leggere ancora e che la fantascienza abbia prodotto.

Mockingbird  è costruito su uno sfondo da utopia negativa, ma la sua natura è piuttosto quella dello psicodramma. Siamo di tre o quattro secoli nel futuro, dopo la prevedibile Morte del Petrolio, dopo l’Incidente di Denver e altre complicazioni; ma tutto questo è brusio sullo sfondo e viene a galla lentamente, attraverso i dialoghi dei personaggi e le loro considerazioni. I personaggi principali sono tre: Spofforth, il robot Serie Nove, Bentley (il professore dell’Ohio) e una ragazza strana ed enigmatica di nome Mary Lou.

Mary Lou dorme al giardino zoologico, davanti alla gabbia di un serpente (che non è un serpente, ma solo un’imitazione meccanica). Si sottrae alle pillole condizionanti da cui dipende la pace nervosa dell’umanità, non lavora: ruba i sandwich dalla macchina distributrice approfittando che il robot-fornitore è troppo stupido per accorgersene. È inquieta ed è simile a un risvegliato in un paese di sonnambuli.

Bentley per qualche verso le assomiglia: è un uomo che sa leggere (nessuno sa leggere in questo mondo, nemmeno i robot più perfezionati; alle università si insegnano tecniche di “rilassamento” e “sviluppo interiore”, non letteratura o scienza); è un sentimentale, uno che scopre – attraverso l’esperienza della lettura, del cinema muto e poi della prigione – di desiderare l’amore e la comunicazione come opposto all’isolamento dei sogni autistici. (La professione di Bentley consiste nell’insegnare ai giovani l’arte di produrre e controllare certe visioni psichedeliche, e la cosa è interessante se si tien conto che in seguito svilupperà un amore profondo per la letteratura e per tutto ciò che è conoscenza. La conoscenza, in altre parole, deve sempre metterci in rapporto con il mondo, non spingerci a rifuggire da esso. Dopo aver imparato a leggere, Bentley balza a una nuova coscienza di sé e del prossimo, e Tevis pone il problema sia in termini di comunicazione che in termini di salute morale).

Il terzo personaggio è Spofforth, il robot Serie Nove, il demiurgo di questo mondo in decadenza (non giureremmo che sia l’unico, ma certo è uno dei pochi androidi “di colore” della fantascienza). Spofforth è immortale, è quasi onnisciente: pure, una delle prime cose che ha imparato a desiderare è la morte. Non è uno di quegli irritanti robopatetici che a tutti i costi vogliono sangue invece che olio, nelle vene: lui probabilmente il sangue ce l’ha, è stato clonato da tessuto vivente. È l’incarnazione, plausibile e convincente, del desiderio di morte non solo individuale, ma di un’intera specie. Forse i robot sono la personificazione di quelle che gli psicologi chiamano “proiezioni”: su Spofforth il genere umano ha “proiettato” il suo disamore per se stesso, costruendosi un feticcio da venerare e odiare.

Il mondo in cui vivono Bentley, Mary Lou e Spofforth è un mondo senza storia. “Da bambino” scrive a un certo punto Bentley “mi hanno insegnato che prima della Seconda Era tutte le cose erano violente e distruttive perché nessuno rispettava i diritti umani, ma niente di più specifico. Non abbiamo mai sviluppato un vero e proprio senso della storia; tutto quel che sapevamo, sempre che ci soffermassimo a riflettere, era che prima di noi c’erano stati gli altri e che noi eravamo migliori di loro. Ma nessuno veniva mai incoraggiato a pensare al mondo esterno.”

“Non fare domande: rilassati”: è questo il comandamento del mondo senza storia. Tevis potrebbe fare sue le dichiarazioni del regista inglese John Boorman, rese parecchi anni fa: “In America c’è l’inquietante tendenza a non tener conto della storia, nemmeno la più recente. L’americano medio non si pone domande sulla scatoletta che ha appena comprato al supermercato, e io trovo che sia pericoloso esser tagliati fuori dalle fonti di ciò che usiamo e consumiamo. È sano interrogarsi sull’origine delle cose”. Ma per interrogarsi bisogna fare una scelta e accettare delle responsabilità.

“Non fare domande: rilassati” diventa il suggerimento che permette di evitarle. Molto di più: diventa la parola d’ordine di un vero e proprio condizionamento. Ora, la fantascienza ci ha abituati in varia misura alle società totali e condizionanti: ma questa di Tevis s’impone perché è essa stessa un’immagine della psiche, e il suo prodotto è un essere umano trasformato.

Pochi romanzi sono altrettanto visionari nell’immaginare una razza che, rinunciando a ogni funzione vitale, si è murata nel proprio egocentrismo e si è votata così all’estinzione. Trionfa il mito della self-reliance, l’autosufficienza, che sconfina in ottuso egoismo da una parte e in schiavitù dall’altra. L’umanità dei giorni di Bentley, infatti, è schiava. E non solo dei robot e delle pratiche di self-fulfilment, ma di se stessa.

Quello che colpisce in questo bel romanzo, man mano che si procede, è che il “caso clinico” di cui è vittima la razza potrebbe corrispondere benissimo a quello di un sol paziente: ne emerge il ritratto di una nevrosi che è reale sia sul piano collettivo sia su quello individuale. Affidatasi all’inorganico (macchine, droghe sintetiche) la razza può proteggere la sua parvenza di vita solo a prezzo dell’ignoranza: e infatti insegnare a leggere è vietato, parlare agli altri per più di qualche minuto è vietato, convivere è vietato. Questo rifiuto della realtà è un rifiuto della responsabilità, ed è l’equivalente dell’autoinganno a cui si sottopone il nevrotico per proteggere la sua particolare costruzione difensiva.

Gli autoinganni immaginati da Tevis a livello sociale sono numerosi: il principale obiettivo da raggiungere è la inwardness, o “crescita verso l’interiorità”; questo mito maschera in realtà la paura di comunicare, e infatti i contatti umani sono ridotti a zero (il più stretto, prevedibilmente, è il “sesso veloce” che si fa in condizioni di stupore). Per raggiungere questo affinamento dell’introversione, che è una parodia dello sviluppo interiore autentico, è necessaria la solitudine: ma nel mondo di Bentley le cose non vengono mai chiamate col loro nome, sicché il comandamento di star soli viene mascherato dietro il mito della privacy. Abolita la famiglia, i pochissimi bambini sono allevati in appositi dormitori dove vien loro insegnato a “stare insieme per ignorarsi”. È un esercizio fondamentale, nelle scuole di questo mondo: si riempie una stanza di ragazzini e li si condiziona a dimenticare l’esistenza degli altri. È un’esperienza importante, che da adulti sfocerà nel fenomeno del privacy withdrawal (il ritiro nella privacy, manifestazione automatica di difesa che scatta se un altro individuo ci parla per più di un minuto o se ci rivolge una specifica domanda, fatto imbarazzante oltre che sempre perseguibile).

D’altra parte, la facciata dietro cui cova questa morte dello spirito va salvata: ecco dunque l’altro comandamento, quello della mandatory politeness, la cortesia obbligatoria, a ricordare – se ce ne fosse bisogno – che la vita psichica del singolo e della comunità è regolata da una serie di dettami coattivi. Come in molte nevrosi, la cortesia obbligatoria ha lo scopo di porre i rapporti su un piano idealizzato e rispecchia la fondamentale scissione del soggetto.

Una celebre psicanalista americana, Karen Horney, ha paragonato la nevrosi a un patto col diavolo: è una maniera mitica per visualizzare il problema, e ci pare particolarmente adatta su un terreno – come quello della fantascienza – che fa ricorso volentieri a termini mitici. Ma chi è il “diavolo” della situazione? Forse Spofforth, il super-automa? Crediamo proprio di no: il diavolo resta il diavolo, e Spofforth è al massimo la conseguenza dei suoi servigi, che portano al disamore e quindi all’estinzione. Ma i termini del paragone reggono: stipulato il patto per liberarsi della responsabilità, la razza umana deve rinunciare al senso della realtà e alle sue stesse funzioni vitali.

Perché non nascono più bambini, nel mondo di Bentley e Mary Lou? Perché nessuno osa reggere lo sguardo degli altri? Perché lo “sviluppo interiore” culmina, per molti, nell’orrenda pratica di darsi fuoco vivi?

Il libro di Tevis, tuttavia, non è un sermone: e non vorremmo averne dato qui l’impressione, anticipando alcuni motivi e alcuni argomenti con troppa enfasi. È un romanzo costruito con scioltezza, dalla scrittura elegante e mossa, che tocca momenti intensamente lirici. È un romanzo che affronta con levità uno dei veri motivi di declino della nostra civiltà, e riesce a trarne un quadro agile e realistico. Il motivo in questione è il “ritiro”, il ritiro della mente in una para-realtà e in una rete di para-comunicazioni che sono menzognere, che defraudano in umanità la specie.

Tutto è cominciato con l’automobile, osserva ironicamente Tevis, che in essa vede una monade impenetrabile. Poi è venuta la televisione, e infine le droghe: oggi si potrebbero aggiungere i personal computer, ma il discorso non cambia. Il processo di alienazione consiste nel distacco dal mondo e dal vero sé.

Tuttavia, persino nella nevrosi esiste un dualismo che può portare il paziente a emergerne e a guarire: l’attaccamento alla propria identità e l’amore sono le armi più efficaci. Bentley, umanisticamente, è “l’uomo risanato” per via intellettuale oltre che emotiva, e alla fine del romanzo osserva nel suo diario:

Ripensandoci, ora, capisco che non ho più paura di Spofforth, né della prigione, né di alcun impedimento, e nemmeno di profanare la privacy di chicchessia. E ora, mentre procedo sulle antiche autostrade verdi cosparse di buche, con l’oceano alla destra e i campi vuoti alla sinistra, sotto il luminoso sole primaverile, mi sento libero e forte. Se non avessi letto dei libri, non potrei sentirmi così. Qualsiasi cosa mi succeda, grazie a Dio, so leggere, e ho veramente preso contatto con la mente di altre persone. Vorrei tanto poter scrivere queste parole, invece di dettarle. Perché scrivendo, oltre che leggendo, ho trovato il senso del mio nuovo io.

E poco più avanti:

Avere la mia Privacy e la mia Auto-sufficienza e la mia Libertà: cosa contava, se mi sentivo così? Ero in uno stato di “struggimento”, e lo ero da anni. Non ero felice… Non lo ero quasi mai stato… Quel che avevo desiderato e voluto anche allora era essere amato. E amare. E loro non mi avevano nemmeno insegnato la parola.

La scoperta dell’amore porta alla guarigione; la sua mancanza, o la sua impossibilità, porta alla morte: questo spiega il destino di Spofforth. E proprio il robot, che per ragioni biologiche ne è escluso, ne dà una delle immagini più toccanti. “Che cosa intendi, tu, per amore?” gli domanda Mary Lou.

Aspettò a lungo prima di rispondermi. Poi disse: “Un senso di agitazione nel petto. Palpitazioni. Il desiderio che tu sia felice. Un’ossessione di te, il piacere di guardarti piegare il mento, di scrutare lo sguardo intenso dei tuoi occhi. Ammirazione per il modo in cui tieni quella tazzina di caffè. Il sentirti russare, la notte, mentre io sono sveglio”.

Così dicendo, Spofforth rivela la centralità dell’amore. Nella sua imperfetta capacità di viverlo sta il suo interesse come personaggio, oltre che come specchio e come fantasma. Quando parla d’amore, tuttavia, Tevis non intende solo quello romantico, ma in genere l’amore per la vita e per la continuazione della specie. Il romanzo è la storia di una guarigione individuale – quella di Bentley e Mary Lou –, di una guarigione collettiva e della distruzione di un feticcio ossessivo. Per questo, in apertura, l’abbiamo definito “psicodramma”; ma la lettura dimostrerà che Tevis è più sottile, sfumato e acuto di quanto qui si sia riusciti a dire.

E nel romanzo, limpido e fluente, parola viene dietro parola come una benedizione.

Giuseppe Lippi

La bibliografia italiana è reperibile sul Catalogo SF, Fantasy e Horror a cura di Ernesto Vegetti.

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Urania Collezione 79: La fortezza di Farnham

luglio 25th, 2009

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Il ritorno di un controverso classico degli anni ’60, arricchito da una copertina allucinata dell’inesauribile Franco Brambilla: tra incubo e apologo, Robert A. Heinlein ci presenta La fortezza di Farnham.

“Da Farnham . Emporio, ristorante, bar. Attenzione! Procedete a mani alzate. Restate sul percorso. Evitate le mine. La settimana scorsa abbiamo perso tre clienti. Non possiamo permetterci di perdere VOI!” Questo cartello campeggia davanti alla fattoria dei Farnham, una famiglia americana d’oggi che dallo scoppio della guerra totale vive asserragliata come in un bunker. Ora la guerra è finita, ma il tempo è passato troppo in fretta e i nuovi padroni della Terra sono gli ex diseredati di una volta. Per i Farnham comincia l’odissea della sopravvivenza, nel cuore del problema razziale americano. Solo che, stavolta, i termini della questione sono letteralmente capovolti.

Nato nel 1907 e scomparso nel 1988, Robert A. Heinlein è autore di romanzi e racconti che si inquadrano in una complessa storia futura, da Requiem a La luna è una severa maestra, da Universo ai Figli di Matusalemme. Al cinema ha fornito la sceneggiatura di Destinazione Luna (1950) e il soggetto di due adattamenti postumi dei suoi celebri romanzi Il terrore della sesta luna (1994) e Fanteria dello spazio (1997).

[Visualizza la quarta di copertina.]

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