Alberto Cola: un autoritratto

dicembre 22nd, 2010 by Moderatore

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Il vincitore del premio Urania

di quest’anno mette le carte

in tavola con umorismo

Non ho mai amato le interviste. Spesso investono l’autore di un’importanza che, quando mi è capitato, mi ha sempre messo a disagio. Così, davanti alla richiesta di Giuseppe di scrivere un paio di cartelle in alternativa alle domande istituzionali, ho tirato un sospiro di sollievo e accettato. Già sapevo che il mio ego non ne avrebbe troppo sofferto.

Suppongo questo sia il momento in cui ci si aspetti che l’autore dica qualcosa di estremamente interessante. Di mio ho sempre pensato che quello che di interessante l’autore aveva da dire dovrebbe essere già nel romanzo, o almeno spero. Dubito che a qualcuno possa trovare piacevole sapere che sono nato nel ’67, che vivo nelle Marche e pratico la professione di amministratore immobiliare. Ma tant’è…

Sono un po’ confuso. A quarantatré anni mi ritrovo su “Urania”, cioè quindici anni dopo il mio primo racconto pubblicato e addirittura a venti dalla prima, faticosa partecipazione a un premio letterario. Tanto, poco? Non lo so, sono un lento di natura e suppongo ciò rientri nell’ordine delle cose. Delle mie cose. Sta di fatto che dopo tre romanzi, Goliath e Kami per Delos Books e Ultima pelle per Kipple, più un bel po’ di altra roba sparsa, ci si sente quasi in obbligo di tirare le somme, anche se ogni traguardo che si raggiunge è sempre una nuova partenza, solo più subdola della precedente. Che poi, a pensarci bene, arrivare su queste pagine ha comportato un viaggio mica da ridere. Ma perché la fantascienza?, ancora mi chiedono. Eh, facile. Mi sono fatto un’idea in proposito: la fantascienza non si sceglie, è lei, da vecchia signora un po’ suonata con ancora qualche velleità nascosta sotto la gonna, a scegliere noi che ne scriviamo. Io poi arrivo da una famiglia di scarsi lettori, soltanto mia nonna aveva dei libri e da lì ho iniziato a farmi raccontare storie. Che fossero tutti Liala o Barbara Cartland è un altro paio di maniche; chiaro che se un amico, impietosito, alla fine ti dice di provare altro e ti presta un Asimov, come fai a salvarti dal fulmine che di lì a breve sta per colpirti? Per quanto mi riguarda non smetterò mai di ringraziare il Buon Dottore, anche se viene bistrattato e degnato di un sorrisetto di sufficienza da tutti quei lettori che inseguono gli autori del momento, più cool. Isaac fra trent’anni sarà sempre sullo stesso scaffale in libreria, gli altri non so. A me la fantascienza ha fatto soprattutto un dono: la possibilità di vedere le cose in modo differente, di grattare sotto questa patina fasulla di civiltà. Difficilmente le mie storie hanno un lieto fine; preferisco il gusto amaro della rivincita improbabile, ma non impossibile.

E soprattutto la fantascienza mi ha regalato molti amici e amiche. Non posso parlare di me senza pensare a loro perché, in un certo qual modo, è proprio grazie a loro se vi sto annoiando con tutte queste chiacchiere. Da Lino (Aldani) che per primo mi chiese dei racconti, a Franco che ci consumò sopra un intero pennarello rosso. Dal Vic per la storia del tonno e qualche altro miliardo di cose, al mai troppo compianto Ernesto che davanti a quel cool poche righe più sopra avrebbe storto il naso, poco ma sicuro. E tanti altri, troppi, per fortuna. Che poi scrivere fantascienza un po’ masochistico lo è, ammettiamolo. Siamo abituati agli epiteti più strani, alle facce più improbabili, ai “Sì, bravo, pubblicherai con Mondadori? Fantascienza? Be’, fammi sapere quando scriverai altro, ci tengo…”. Niente che già non sappiate. Di recente in un’intervista per Altrisogni mi è stato chiesto come vedessi il mercato italiano. Non so mai bene cosa rispondere a una domanda simile per rendere bene l’idea. Ma qualche giorno fa Michele Piccolino, un carissimo amico e scrittore di fantascienza, mi ha involontariamente fornito la risposta delle risposte. Partecipando alla selezione per un gioco a premi in TV, doveva abbinare il nome a un cognome che gli veniva citato. Quando gli è stato chiesto “Lippi?”, lui ha risposto, d’istinto, “Giuseppe!”, e l’altro “Chi?”. Un esempio che si adatta, direi.

È naturale, a un certo punto, voler anche tentare altro, giusto per mettersi alla prova, per aprire qualche orizzonte e staccare la spina. È capitato anche a me, soprattutto da quando sono entrato a far parte della Carboneria Letteraria, il collettivo di scrittura fondato da Paolo Agaraff. Altri amici e altre storie, diverse, da scrivere. Negli ultimi due anni sono passato dal thriller all’erotico, dal noir all’horror, con racconti apparsi in svariate antologie (“Uomini a pezzi“, “Onda d’abisso“, “365 racconti erotici per un anno”, “NeroMarche”…) ma sempre col gusto e la voglia di raccontare storie, l’aspetto per me più importante. Anche se la fantascienza, quella vecchia signora di cui sopra, ogni tanto torna a farsi sentire.

Ma veniamo al romanzo che avete appena letto (o che dovete leggere, se siete di quelli che amano partire dalla fine). Chi mi conosce avrà scoperto fin dalla prima riga che proviene dritto dritto dal racconto “Mishima Boulevard” che scrissi nel 1999 e che da allora, non chiedetemi il perché, in un certo qual modo e attraverso ripetute pubblicazioni mi ha sempre identificato agli occhi dei lettori (come molti altri racconti di ambientazione orientale o, nello specifico di “roba nippo”, come dice Elena Di Fazio, che spesso scioglie i miei dubbi). È il mio miglior racconto? Non ne ho idea, di certo è il più vissuto per quanto mi riguarda. A volte capita che un racconto vada al di là delle intenzioni dell’autore, e in fondo ho sempre saputo di non aver detto tutto, di non aver dato il respiro che quel racconto mi chiedeva. L’aspetto fastidioso dello scrivere è che non puoi lasciare il lavoro a casa, ti viene dietro, bussa, tira, scalpita e alla fine devi ascoltarlo per forza. Ed è quel che mi è capitato in questo caso. Voglio subito mettere in chiaro una cosa però: quello che avete tra le mani non è un romanzo con chissà quali pretese. È una storia, punto. Che poi mi sia divertito a metterci dentro un personaggio realmente esistito e molto controverso c’entra poco. Per scriverlo non ho letto saggi, trattati, dissertazioni… Ma soltanto i romanzi di Mishima che mi hanno costretto ad appassionarmi alla sua storia. Non era mia intenzione, e non lo è, dare una visione “altra”, rielaborare una figura, provocare dibattiti o chissà cosa. È la mia idea di scrittura: raccontare, prima di tutto. Un’idea deve essere al servizio di un romanzo, non viceversa.

Direi che possiamo anche chiudere qua. Se il romanzo vi è piaciuto, bene. In caso contrario, male, ma ormai è fatta. Ho qualche altro progetto nel cassetto, vorrà dire che ci penserò meglio prima.

Sayonara.

                                                                                                                                                                Alberto Cola

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