Mauro Antonio Miglieruolo
Giuseppe Lippi traccia un dettagliato profilo dell’autore italiano di questo mese: Mauro Antonio Miglieruolo.
“Se il padrone sapesse in quale ora della notte viene il ladro…” (Vangelo secondo Matteo, 24, 43)
“Voi stessi infatti sapete benissimo che il giorno del Signore verrà come ladro di notte” (Prima lettera ai tessalonicesi, 5, 2)
“Il futuro viene come un ladro nella notte” (Quarta di copertina, Il dio del 36° piano)
Quando si parla della fantascienza italiana, di solito, lo si fa con un misto di fierezza e timore, di orgoglio e paura della concorrenza, ovviamente quella straniera. E si finisce, il più delle volte, per fare di tutt’erba un fascio. Sarebbe il caso, invece, di parlare meno del genere e più spesso di autori, i singoli scrittori che l’hanno arricchita e che non hanno nulla da invidiare ai più famosi colleghi anglofoni o europei. E’ con questo spirito che abbiamo cominciato a pubblicarli in “Urania collezione”: Mauro Antonio Miglieruolo è il quarto dei classici italiani che ripresentiamo qui, dopo Lino Aldani, Roberta Rambelli e Sandro Sandrelli. Altri seguiranno, ci auguriamo, per documentare il percorso della buona e ottima fantascienza scritta in Italia, ma nel caso di Miglieruolo un chiarimento è necessario: questa terza edizione di Come ladro di notte (concepito nel 1966; pubblicato nel 1972 e riproposto nel 1984) non nasce esclusivamente da intenti storici e tantomeno celebrativi. Benché esca in una collana di classici, il romanzo è così originale da fare l’effetto di un testo nuovo e fresco di concezione. Non è così per l’autore, beninteso, il quale sostiene che molta acqua è passata sotto i ponti e che lui stesso non è più l’uomo di allora; ma per il lettore, soprattutto per chi abbia il piacere di affrontarlo la prima volta, ha l’effetto di una scoperta liberatrice. Di un insegnamento, aggiungiamo a costo di sembrare pedanti, ai molti che ancora oggi vanno cercando una “via” nazionale alla fantascienza.
Questa via Miglieruolo l’aveva già trovata allora, grazie ad alcuni elementi classici del genere (gli “stati e imperi” tra le stelle) uniti a un’analisi impietosa del potere politico e, soprattutto, a un geniale collegamento con il mito. Ma neanche questo esaurisce la carica vitale del romanzo, perché a sua volta il mito cristiano della parusìa, il secondo avvento di Cristo e la fine dei giorni, è abilmente giocato in maniera ironica. Non soltanto ironica, ci affrettiamo ad aggiungere, ma una delle caratteristiche essenziali del libro è la sua leggerezza, l’assoluta mancanza di prosopopea. Che in duecentocinquanta pagine si possa descrivere la preparazione e attuazione dell’Armageddon, completa di cause, concause, istruzioni per l’uso e tribolazioni di una folla di personaggi-chiave, è la dimostrazione che Miglieruolo vanta un’immaginazione di prim’ordine, l’ingrediente base di tutta la fantascienza. In virtù della quale ci offre una sorta di Stranamore cosmico, un’odissea che ha la forza dei più originali racconti di pensiero, perché non può darsi romanzo o narrazione veramente viva senza una robusta impalcatura ideale.
In Miglieruolo l’impalcatura è tanto matura da risultare in una sintesi mitica dove il potere delle immagini e del linguaggio delineano un quadro lucido, e allo stesso tempo visionario, delle forze in gioco dentro e fuori di noi. Le due principali nemiche sullo scacchiere di Come ladro di notte sono la voluttà ― principio onesto del mondo ― e l’ipocrisia, grande forza imbrigliatrice delle energie. Lo scontro si svolge a questi livelli e adopera, come pedine, i classici oggetti della fantascienza barocca: astronavi a milioni e pianeti colossali, velocità fantastiche e pugni di stelle, moltiplicandone il gigantismo e l’indole eccessiva senza che questo turbi minimamente l’ossatura ideale e il piacere ludico dell’insieme. Ed eccone le premesse narrative (attenzione, perché contiene spoiler!). In un futuro molto lontano e che forse potremmo collocare intorno al LXX secolo, l’umanità si è diffusa nell’universo, popolandolo di repubbliche, regni e satrapie che vivono all’insegna dell’odio reciproco, dell’intrigo e dello sfruttamento. Ma il ricordo di un antico insegnamento perdura, sia pur modificato dal tempo e dai costumi: quello del Secondo avvento, la parusìa del Signore, alla quale seguirà il Giudizio Universale. Anziché derivare direttamente dalle parole di Cristo come le riferisce il Vangelo di Matteo (24, 25) o dalla loro ripresa in San Paolo (prima e seconda Lettera ai tessalonicesi), la dottrina della parusìa è ora riferita alle parole del filosofo Calogero, che con essa intende significare la fine dell’uomo, la necessità di cancellare l’intelligenza dall’universo. Solo in questo modo, infatti, potrà tornare la purezza negli elementi, fin qui turbati dalla nostra presenza. Il compito di realizzare l’immane obbiettivo, che comporta la distruzione fisica di tutti i popoli, è affidato alla Congrega degli Inumani, una potenza politica votata al culto della morte e organizzata come una sorta di clero. Fondatore dell’organizzazione è il profeta Còttero, ormai defunto anche lui; oggigiorno gli Inumani sono retti dal Discepolo Pàngolo, che di fatto ha rinunciato a perseguire lo scopo dei suoi predecessori. La parusìa è irrealizzabile, egli ritiene, mentre si possono perseguire più ordinari scopi di conquista e assoggettamento delle potenze galattiche rivali.
In questo quadro si inseriscono ― come lampi e improvvisazioni, cioè senza il tedio del romanzesco convenzionale ― le disavventure di una folla di personaggi, primo tra i quali il coordinatore Zanzotto. Gli eventi precipitano e precipitano anch’essi, donne e uomini, verso la calamità singolare. Da notare che nessun tassello della trama è superfluo, nessuna azione puramente decorativa. La tortura fa male, in questo libro; il desiderio sessuale è palpabile ed eccita anche noi; gli intrighi non ci divertono come se fossimo ragazzi che giocano al Monopoli, ma ci sorprendono nella loro brutalità. E’ probabile che Miglieruolo abbia tenuto presente lo schema di saghe preesistenti come quella di Isaac Asimov, ma è altrettanto sicuro che vi abbia iniettato una dose di verità sconosciuta a gran parte della science fiction americana e di quella italiana. Solo nelle opere dei fantasiarchi inglesi (H.G. Wells e Olaf Stapledon) si coglie una vastità nel disegno paragonabile a quella del Ladro di notte; e il tema è la sorte dell’universo umano.
Durante un’esercitazione condotta dal coordinatore Zanzotto, dunque, quest’ultimo si rende conto che non sarà possibile portare a termine il disegno del filosofo Calogero: i numeri non ci sono, le “astronavi da battaglia” necessarie a cancellare tutte le razze dalla faccia del creato dovrebbero essere infinitamente superiori alle scorte presenti e future, che pure si contano a miliardi. Conclusione, la Congrega degli Inumani deve avere altri scopi che non la semplice estinzione dell’umanità. Bruciante di fuoco iniziatico, Zanzotto (che li ignora) mette nero su bianco le sue scoperte e le affida a un rapporto esplosivo consegnato al generale Cossa, comandante dell’immensa sfera Caligola, una struttura grande quanto un pianeta. Ma Cossa è imbarazzato e consiglia Zanzotto di ritirare il suo rapporto. La satira degli ambienti e del linguaggio burocratico è splendida: Miglieruolo, che all’epoca era un “mezzemaniche” lui stesso, conosce tanto bene la lingua farisaica da farne un più che arguto calco narrativo. Burocrazia è uguale a ipocrisia per uno scopo ben chiaro: la conservazione del potere.
Nel frattempo, un attentato dinamitardo sconvolge alcuni livelli di Caligola: il responsabile è Seele, dignitario dell’Ascensione Retta. L’Ascensione è una delle numerose potenze ostili fra loro e sempre pronte a scatenare flotte per divorarsi a vicenda. Dopo aver organizzato l’attentato, Seele viene catturato e torturato; quindi i suoi aguzzini gli rivelano che sua moglie Lilla si è concessa al giudice Raffaele Senese (alias Rudy), un vizioso seduttore. Umiliato e rimandato al mondo d’origine, Seele finirà per strangolare la moglie, ma essendo Lilla figlia di Lillo, Gran conferenziere della Lega austrina, il gesto avrà per conseguenza la guerra fra Lega e Ascensione, con ripercussioni in tutta la galassia. I fermenti voluti dalla Congrega si moltiplicano: ci si avvia al conflitto finale. Vi è un’ironia, in queste vicende, che di solito la fantascienza ignora; e al tempo stesso vi è una necessità che sentiamo di non poter trascurare. Necessità dettata dagli intrighi della Congrega, ma che nasce altresì dai “moti del cuore”, come si chiamavano una volta: l’episodio di Seele, questo Otello del futuro, non è che un tassello nel mosaico, ma vibra di una violenza e un divertimento tutti propri.
La libidine repressa e il suo complementare, la libidine mercificata, costituiscono un altro tema importante del libro: Zanzotto, che in quanto affiliato alla Congrega degli Inumani è rigidamente condizionato contro le tentazioni carnali, in un momento di libertà dal controllo possiede Silvena, che ritiene in buona fede una sua dipendente. Ma la donna è una spia al soldo della Sublime Coalizione, un’ennesima potenza rivale, e oltre a tramare tresche e trappole erotiche pianifica il sabotaggio della stella Canadis, il quartier generale affiliato. Zanzotto, che ne è all’oscuro, si sente fortificato dall’incontro con Silvena e continua a servire con zelo la Congrega, partecipando a varie azioni di guerra. In particolare, darà man forte alla repressione del movimento profetico di Elio nel sistema dell’Etologia e chiederà la condanna a morte del ribelle. Elio è una figura cristologica che durante il processo passa per le mani del Pilato di turno, ma il suo vero accusatore rimane Zanzotto. E così colui che alla fine del romanzo sarà chiamato come Gesù, qui riveste i panni del persecutore. Nella dialettica della notte che si addensa, niente è ciò che sembra. Il linguaggio dell’episodio è evidentemente biblico, con l’uso di metafore e fraseggi che sono ricalcati su quelli dei vangeli.
Il problema di Zanzotto è che desidera più che mai diffondere il proprio rapporto, divulgando la verità sulla parusìa. Sospettato di sedizione cadrà in disgrazia e verrà lui stesso torturato, come Elio nell’episodio precedente. La riabilitazione gli sarà concessa, ma solo un attimo prima di perdere la ragione. Passato dal ruolo di Caifa a quello dell’accusato innocente, Zanzotto si interrogherà a lungo sul proprio ruolo, in alcune delle pagine più belle del libro. La sua disillusione è totale, l’impossibilità di inoltrare il rapporto è quanto di più frustrante. E benché, a un certo punto, uno spiraglio sembri aprirsi, quando gli viene concesso di tornare nel consesso civile non è più l’uomo di prima.
Poco dopo, un colpo di stato scuote la Congrega. Pàngolo reagisce in tempo e ribalta la situazione: la vendetta contro gli avversari sarà feroce. Intanto su Canadis, la stella centrale degli Inumani, la missione di Silvena e del suo agente arriva al culmine, ma la macchina bellica messa in moto dalla Congrega è davvero inarrestabile. Zanzotto, il cui amore per la verità lo ha reso sospetto e inviso a tutti, si vede accusare nuovamente di tradimento; tenta la fuga ma capisce che è tutto inutile, il futuro non appartiene più ai retti. Ancora una volta la voluttà dei puri sarà repressa e al posto della parusìa trionferanno interessi e sopraffazione. Mentre il coordinatore offre i polsi ai carcerieri come aveva fatto Gesù, la Congrega degli Inumani si prepara a scatenare l’attacco definitivo contro tutti gli stati della galassia, “per mangiarseli in un sol boccone”.
Da un punto di vista ideologico, questa conclusione è molto legata ai tempi in cui il romanzo fu scritto: l’ultima riga, in particolare, sembra una resa dopo tanta ironia, lucidità e combattività. Ma a ben guardare l’intera costruzione del romanzo è pessimistica e centrata intorno all’idea, per dirla alla Pavese o alla Calogero, che “la morte si sconta vivendo”. E’ anche un’idea molto cristiana, per cui la vita è ingiusta e la morte giusta, il mondo è tentazione mentre l’altro mondo riequilibra i pesi. Più volte Miglieruolo ha dichiarato che il finale del libro gli sembrò superato appena finito di scriverlo, superato dagli avvenimenti della vita e dalla sua evoluzione personale. Tuttavia, nel suo notevole fatalismo contiene qualcosa che va al di là di un finale da romanzo. Perché questo, ricordiamolo, non è soltanto un racconto ma un mito e la sua verità riverbera nel profondo, là dove ognuno di noi è prigioniero e ammanettato, soverchiato da forze schiaccianti.La ricchezza del libro è stata notata fin dalla prima edizione, anzi fin dalla prima lettura (fulminante, in una sola notte) da parte di Lino Aldani. Vittorio Curtoni e Gianni Montanari gli dedicarono una scheda memorabile che abbiamo riproposto qui; e la rivista “Pulp” pensò di ristamparlo in un anno chiave come il 1984. Da parte nostra ci sentiamo ancora di sottolineare che la forza del romanzo si deve, oltre che all’originale accumulo di materiali, alla concezione ellittica e libera dai tradizionali schematismi della narrativa a intreccio; a una sintassi rapida e allusiva; infine alla lingua, o meglio ai linguaggi letterari usati. Che sono retti da una fine alternanza di semplicità e passi altisonanti, di umiltà e toni ieratici, questi ultimi regolarmente capovolti da un’invidiabile freschezza terra-terra nel contrappunto. Una scelta stilistica a suo modo rivoluzionaria che mette alla berlina l’oppressore, inficiandone la violenza con una sintassi gentile. La provenienza dei vari modelli è evidente: linguaggio biblico e piccole parabole; lingua oscura delle profezie e gergo burocratese dei documenti; lazzi triviali e pomposa ufficialità (anche l’ufficialità letteraria, beninteso). E poi i dialoghi trasversali, provocatori e ironici.
Dire che la fantascienza italiana non avesse mai espresso qualcosa di simile non è azzardato: spesso non ci è riuscita neanche la narrativa tout-court. I pochi autori che si siano cimentati con sfondi così vasti e con un mito della nostra cultura si sono fermati, in genere, all’ABC del visionario. Miglieruolo, invece, scende nella sua materia, l’allarga e la rende necessaria. E benché oggi siamo nel 2009 e non nel 1966 o ’68, ne rimaniamo colpiti ugualmente perché il romanzo parla una spontanea lingua underground, o forse above the ground di parecchie spanne: come il suono delle trombe annuncerà il gran Giorno, così la pagina “rapisce gli uomini, portandoli nell’aria”.
E’ evidente come Mauro Antonio Miglieruolo sia un narratore del pensiero che affronta scenari immensi con l’umiltà di certi naturalisti all’alba dell’età moderna, i quali studiavano piante e animali dell’orto di casa per trarne conclusioni che richiedevano insieme rigore e immaginazione. Oggi che il savant è stato riassorbito dalla sistemistica e dall’organizzazione, non gli resta ― per guardare oltre il velo dell’ordinarietà ― che abbandonarsi a ipotesi da fantascienza. O fantafilosofia, per chi ci è portato. La cosa va sottolineata in un momento come l’attuale, in cui troppi nuovi autori di SF rinunciano al pensiero e puntano agli effetti, o subordinano il pensiero a formule d’effetto anche quelle. In Miglieruolo no, il pensiero è sbrigliato ma riconoscibile, le fonti sono varie ma agevolmente rintracciabili: siamo di fronte a uno scrittore che non si vergogna di essere un ragionatore e un uomo socialmente consapevole.
La sua avventura personale comincia in Calabria come quella di Tommaso Campanella, l’autore della più drastica utopia italiana: La città del sole. Miglieruolo nasce infatti a Grotteria, in provincia di Reggio, il 6 aprile 1942. All’anagrafe il suo cognome viene trascritto anche come “Migliaruolo”, dando origine a numerose traversie. Spiega lui stesso: “Sia la versione Miglieruolo che la versione Migliaruolo sono autentiche. Sull’estratto dell’atto di nascita risultano ambedue, insieme ad altre possibili soluzioni che leggendo tra le cancellature effettuate (e a rigore proibitissime) la fantasia può inventare. Non faccio alcun commento sul responsabile di quell’obbrobio: per anni mi ha tormentato mandando certificati ora con la ‘a’ ora con la ‘e’ (versioni che i suoi successori tra l’altro contestano), tant’è che per salvarmi dalla burocrazia andavo in giro con la carta d’identità accompagnato da una dichiarazione del comune in cui si affermava essere Miglieruolo Mauro Antonio e Migliaruolo Mauro Antonio la sola e medesima persona, il cui nome veniva però attestato ora in un modo e ora nell’altro, a capriccio dell’estensore. La trappola nella trappola.
“Per dare una soluzione al problema ho cercato di informarmi: sembra che nel comune di nascita mio padre risulti Miglieruolo, mentre al momento di sposarmi colui che ha compilato il certificato ha deciso che facevo Migliaruolo. Per non dover rimandare il matrimonio mi sono rassegnato a utilizzare il cognome Migliaruolo, con cui sono stato assunto all’INPS, lasciando inalterato il nome di penna ‘Miglieruolo’. Tornare a Migliaruolo anche come scrittore? Si tratta di un’ipotesi affascinante. Potrei essere d’accordo. Bisognerà vedere se il segretario comunale se ne vorrà contentare…”
Problemi di grafia a parte, all’età di dieci anni Mauro Antonio si trasferisce a Roma, in tempo per veder nascere la fantascienza sui periodici specializzati: “Scienza fantastica” e “I romanzi di Urania”. Nella capitale vivrà da allora in poi, tranne una parentesi bellunese dopo aver vinto un concorso statale. Nel 1964 comincia a pubblicare racconti e nel ’66 crea il suo primo, originalissimo romanzo, Come ladro di notte che verrà pubblicato nel 1972 su “Galassia” (la stessa collezione che aveva tenuto a battesimo il suo racconto d’esordio, “Colpo di tacco”). Tra il 1967 e il 1974 si occupa attivamente di politica nelle file della nuova sinistra e poi, fino al 1980, nel sindacato Cgil-Inps. Pubblica racconti su diverse testate (“Galassia”, “Oltre il cielo”) ed è presente nelle antologie italiane Amore a quattro dimensioni (1971) e Fanta-Italia: sedici mappe del nostro futuro (1972) con celebri racconti come “Ideale” e “Gli arpionatori”. Nel 1975 esce su “Nova sf*” n. 33 il romanzo breve “L’automazione a Detroit” e l’anno successivo, su “Robot” n. 3, il celebre racconto erotico “Circe”. Su “Nova sf* speciale” n. 1 (1976) esce un altro importante romanzo breve, “Oniricon”, mentre dopo la ripresa delle pubblicazioni di “Futuro”, la rivista diretta da Lino Aldani e ora ribattezzata “Futuro Europa”, numerosi racconti e interventi di Miglieruolo vedranno la luce qui: “Golpe 2000”, “Metamorfosi”, “Otto marzo”, “I nostri ideali”, “Libero mercato”, “Conflitto d’interesse”, “Scienza e conoscenza”, “Dio e la scienza”, “L’uccisore di robot”. Attualmente la sua narrativa è sistemata in due raccolte: Assurdo virtuale edito dalla Elara di Bologna e La bottega dell’inquietudine apparso presso le Edizioni della Vigna di Arese (Milano). Esiste un romanzo tuttora inedito cui Miglieruolo tiene in modo particolare: Memorie di massima sicurezza.
Giuseppe Lippi
[Per la bibliografia completa di Mauro Antonio Miglieruolo si rimanda al Catalogo della SF, Fantasy e Horror a cura di Ernesto Vegetti.]
Posted in Profili
giugno 24th, 2009 at 22:02
L’ho sfogliato un pò questo romanzo in edicola e non attira molto
giugno 25th, 2009 at 13:06
Ho e ho letto l’edizione (quasi) originale uscita in Bigalassia, ed ho un buon ricordo della lettura. Varrebbe la pena ridargli un’occhiata.
Antonio Folli
luglio 1st, 2009 at 18:29
E’ un capolavoro! E non lo dico “pro domo mea”…
luglio 4th, 2009 at 17:54
E’ vero, è un capolavoro. Affrontatelo senza pregiudizi e lasciatevi travolgere… se entrate in sintonia vi catturerà!
luglio 16th, 2009 at 22:21
Assolutamente un capolavoro. Ed e’ stato bello, alla presentazione romana, scoprire quanta gente, di diverse generazioni e gusti letterari, avesse la stessa opinione.
luglio 17th, 2009 at 09:00
Posso chiedervi come mai lo considerate un capolavoro?
luglio 18th, 2009 at 08:10
E’ un po’ accennato nel documento in appendice al romanzo, ma detto in breve: ha un’idea originalissima che affonda le radici in un mito importante (quello della fine del mondo e il giudizio universale, qui però ironicamente sovvertito); ha un linguaggio straordinariamente duttile e inventivo; è estremamente divertente; infine, niente di così vasto, acuto e originale si era visto – o si sarebbe visto – per molti e molti anni nella sf italiana!
luglio 22nd, 2009 at 11:57
Ho letto la postfazione, ma i miei dubbi rimangono (fermo restando che ognuno è libero di ritenere un capolavoro ciò che più gli aggrada).
In breve: è sufficiente un’idea per fare grande un romanzo, a prescindere dalla coerenza di trama, situazioni e personaggi?
Il valore storico di un romanzo (ed è indubbio che in questo senso “Come ladro di notte” ha i suoi meriti, peccato semmai che Miglieruolo non abbia avuto epigoni), è sufficiente a renderlo una lettura consigliabile, qui e ora?
E infine il punto per me più dolente: il linguaggio. A te la lingua di Miglieruolo è parsa duttile e inventiva, a me (copio/incollo dal mio blog, dove se hai voglia puoi approfondire) “è parsa esageratamente barocca e leziosa, talmente finta, teatrale e altisonante che arrivare a fine romanzo è stata davvero una fatica”.
Non so se esiste una regola per giudicare lo stile di un romanzo, ma se mi devo basare sulla mia esperienza di lettore raramente ne ho trovato uno che suonasse più sbagliato.
maggio 9th, 2011 at 21:25
sono incuriosita, vorrei leggerlo.