Jack Williamson o il trapasso del meraviglioso

marzo 24th, 2014 by Moderatore

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La morte di Jack Williamson, avvenuta il 10 novembre 2006, ha privato la fantascienza di uno degli ultimi narratori che ne hanno vissuto la storia completa in quanto genere specializzato, dalla nascita delle prime riviste al XXI secolo. Un autore che ha continuato a scrivere prolificamente e che “Urania” ha seguito con attenzione fino ai suoi più recenti successi.

Nato il 29 aprile 1908 a Brisbee, in Arizona, Williamson è uno dei fondatori della sf formatasi sui pulp magazine tra le due guerre mondiali. Ha vissuto un’infanzia rurale in una regione degli Stati Uniti che da pochi anni aveva smesso di essere “frontiera” e i suoi ricordi di questo periodo sono molto suggestivi (come all’epoca di un trasloco con tutta la famiglia su un carro da pionieri). Il lettore può trovarli nella convincente autobiografia Wonder’s Child: My life in Science Fiction (1984), premiata con lo Hugo. Sensibile e piuttosto nervoso, si è sottoposto fin da giovane a un trattamento psicoanalitico, ma ha finito per trovare la sua autentica “cura” nell’amore per la fantascienza e nelle salde amicizie che quest’ambiente gli ha permesso di stringere: con Edmond Hamilton, più tardi con Frederik Pohl e James Gunn. All’inizio della carriera Williamson ha collaborato con “Weird Tales” e altre riviste del soprannaturale: storie fantastiche come quelle raccolte nell’antologia del 1975 The Early Williamson o il romanzo Golden Blood (Il popolo d’oro, 1933). Molti anni dopo tornerà alla fantasy, ma in chiave più matura, con il romanzo Reign of Wizardry (L’impero dell’oscuro, 1965, una rievocazione del mito di Teseo). Laureato con una tesi su H.G. Wells, autore cui nel 1973 ha dedicato un saggio (H.G. Wells, Critic of Progress), Williamson ha insegnato per gran parte della vita letteratura inglese all’University of Eastern New Mexico. In campo fantascientifico ha esordito su “Amazing Stories” e per molti anni ha continuato a collaborare con le riviste, fornendo racconti d’avventura basati sul cosiddetto “sense of wonder”: esempio classico ne è il famoso ciclo della Legione dello spazio (1934-39). All’avventura spaziale ha dedicato una matura riflessione in The Moon Children (I figli della luna, 1972), romanzo scritto dopo i primi sbarchi dell’uomo sul nostro satellite.

In un saggio contenuto nel volume bibliografico Anatomy of Wonder: Science Fiction (1976), Ivor A. Rogers tenta una spiegazione di questa locuzione tanto elusiva quanto famosa tra gli appassionati: “Il sense of wonder, o senso del meraviglioso, è composto da numerosi elementi che agiscono in modo diverso sui lettori a seconda del momento. Ne sono caratteristici temi e personaggi archetipici e l’uso inconscio di vari meccanismi psicologici, specie per quel che riguarda l’evasione dalla realtà e l’appagamento dei desideri. Comunque la si voglia definire, la fantascienza è un sottogenere della letteratura fantastica e quindi è normale aspettarsi un’ampia zona di coincidenza fra le normali fantasie di appagamento e le trame di racconti e romanzi fantascientifici. Nonostante questo, uno dei pochi critici che abbiano prestato una certa attenzione al problema è Robert Plank (nel suo Emotional Significance of Imaginary Beings, 1968). Fra i temi e gli argomenti presenti in fantascienza e che richiamano fantasie comuni, ricordo innanzi tutto il desiderio sessuale represso, che fornisce ottimi spunti per colpi di scena e situazioni assortite. Ciò per due ottime ragioni: primo, perché sui vecchi pulp non si poteva parlare esplicitamente di sesso e, secondo, perché la maggioranza dei lettori era composta da adolescenti maschi, molti dei quali abbastanza introversi da non riuscire a incanalare i propri impulsi erotici. Ciò spiega il frequente uso di immagini come quella della città sepolta, di caverne e cavità segrete della terra, ecc… Quanto alle donne che popolavano i primi racconti, vestite erano abbastanza androgine da poter passare per uomini negli angusti confini di un’astronave (ma abbastanza femmine da suscitare l’istinto di protezione maschile); svestite, o semi-celate da veli diafani e reggipetti metallizzati, erano un elemento fondamentale delle copertine del periodo: magari strette nella morsa di un mostro dagli occhi d’insetto o di qualche altro orrendo extraterrestre. Tutti sapevano quel che il mostro aveva in mente: l’interrogativo principale non era il ‘cosa’, ma il ‘come’… Tra le altre fantasie, quelle edipiche giocano un ruolo costante nella fantascienza: il tema comune a molti racconti è quello che potremmo riassumere con l’espressione colorita ‘adesso faccio vedere a papà quanto sono forte’.

“Ma c’è un altro elemento importante cui dobbiamo prestare attenzione per comprendere il sense of wonder. La fantascienza, in particolar modo dopo Wells, si è configurata essenzialmente come ‘letteratura di idee’, concetto che è difficile far accettare alla critica esterna al genere per il semplice fatto che tutta la letteratura, e tanto più quella importante, è sempre stata un mezzo per esprimere idee… Ciò che gli scrittori degli anni Venti fecero in America, tuttavia, è questo: usare idee scientifiche, presentandole perlopiù sotto una luce favorevole, come perno d’un intero genere narrativo. Wells e altri l’avevano già fatto, ma si trattava di scrittori isolati in una produzione letteraria che oscillava, all’inizio del secolo, tra i residui del pessimismo romantico e la disperazione del naturalismo. A partire dal secondo quarto del XX secolo, si affacciò alla scena letteraria un genere che avrebbe negato sia le vecchie istanze del romanticismo che quelle del naturalismo.

“Attenzione, però: le idee che producevano sense of wonder all’epoca di Gernsback erano di seconda o terza mano, e nel tempo che impiegavano a raggiungere l’edicola all’angolo sapevano già di stantio… Nel 1926 l’idea di un sole azzurro bastava di per sé a creare meraviglia; per questo erano accettate soltanto le più semplici, mentre quelle complesse venivano respinte insieme al racconto che le conteneva”.

Anche Williamson si serve abbondantemente di queste immagini del desiderio e di questi primi, elementari stereotipi fortunati della fantascienza anni Venti. Che non è orientata solo verso le “idee” (senza considerare quelle che ormai facevano parte del bagaglio comune), ma piuttosto verso la rappresentazione, come in sogno, di temi inconsci: di qui la qualità onirica di alcuni fra i suoi romanzi migliori. Con gli anni lo stile e le tematiche di Williamson si sono notevolmente affinati. Nel 1940 esce uno dei suoi romanzi più noti, Darker Than You Think (Il figlio della notte), buon racconto di suspense dove il tema della licantropia viene affrontato in chiave scientifica. Nel 1949 appare The Humanoids (Gli umanoidi), celebre romanzo sull’automazione in cui una stirpe di robot perfetti, nati per servire l’uomo, lo riducono di fatto a un’impotente marionetta. Numerosi sono i romanzi che il nostro ha scritto in collaborazione con altri autori, a partire dal Ponte tra le stelle (Star Bridge, 1955), con James Gunn. I più celebri sono forse Le scogliere dello spazio (The Reefs of Space, 1963), Il fantasma dello spazio (Starchild, 1965) e Stella solitaria (Rogue Star, 1969), in collaborazione con Frederik Pohl. Quest’ultima trilogia unisce lo spirito della miglior fantascienza tecnologica – non più, ormai, quella avventurosa cara al Williamson dei primordi – alla macabra analisi di una società del futuro, totale più ancora che totalitaria, nella tradizione dell’utopia negativa.

In anni recenti è tornato a scrivere prolificamente e ha pubblicato vari romanzi, tutti tradotti da Mondadori: Missione nello spazio (Lifeburst, 1984), La figlia del fuoco (Firechild, 1986), L’ombra del futuro (Mazeway, 1990), I cantori del tempo (The Singers of Time, 1991), Il sole nero (The Black Sun, 1997), Servocittà (The Silicon Dagger, 1999). Ha anche ricominciato a collaborare con Frederik Pohl, proprio come ai vecchi tempi, producendo interessanti opere di monito ecologico  (L’estate dell’ozono/Land’s End, 1988). Il suo ultimo romanzo, The Stonehenge Gate, è uscito nel 2005.

 

G.L.

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One Response

  1. Giuseppe Pinto

    Un bel ritratto di Jack Williamson con tantissime notizie.

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