Edmond Hamilton tra due mondi

novembre 18th, 2013 by Moderatore

“Com’è bella l’avventura,

Un cavallo e una chitarra

Ogni punto della terra

per fermarsi o per andar.

 

Com’è bella questa vita,

senza ieri e né domani,

tutto il mondo fra le mani

e una voglia di cantar.

 

E se l’amore verrà

sono qui.

Io gli offrirò

tutto quello che ho.

 

Ma è più bella l’avventura,

senza ieri e né domani,

tutto il mondo fra le mani

per fermarsi o per andar.”

 

Domenico Modugno

 

Edmond Hamilton (1904–1977) è stato uno dei primi scrittori a portare l’avventura nella fantascienza, e in due forme: avendo partecipato alla nascita del genere con le rutilanti space opera degli anni Venti e Trenta, una parte della sua produzione è pervasa dai toni del weird, l’arcano che si presume debb trasudare dallo spazio incognito. La prosa s’imporpora, le immagini sprizzano colori ultraterreni (o terreni ma rivestiti dei nomi più poetici), le stelle sono chiamate “soli” per fare più effetto. «Milioni di soli» popolano un ammasso galattico letterario, «milioni di stelle» soltanto un atlante astronomico. Ma questo è ancora nulla: i soli hanno seminato pianeti e i pianeti fertili come uteri hanno prodotto razze variegate, quale a forma di stella, quale di medusa, comunque una figliolanza molto strana. Gli extraterrestri brillano di tutti i colori dell’arcobaleno e hanno un fegato ipertrofico che travasa bile nel sangue verde, invelenendoli contro di noi. Noi la norma, i begli esseri umani, i civili esploratori di un cosmo pulito e non tentacolato. La fantascienza weird, che pigia sul pedale dello straordinario e l’extramondano come certe storie di spettri – non dovrebbe accadere ma è accaduto – ha un unico problema: non è sostenibile troppo a lungo, perché il lettore si assuefà mentre l’autore esaurisce la scorta di wonder e terror. Ecco, allora, la necessità di inventare una seconda e più pratica forma di narrativa: meno mostri, meno fanghiglia verde, meno inspiegabili putrescenze sulle paratie delle astronavi e più muscoli, disintegratori, battaglie e cannoni a raggi.

Benvenuti a Star Wars!

In teoria nel secondo genere c’è meno senso poetico, ma in pratica quello che sembrava uno svantaggio finisce per tramutarsi in un atout, perché il gusto dei mostri, delle bave e degli extraterrestri a forma di stella marina è appannaggio di una minoranza di esteti; al contrario, quello delle scazzottate cosmiche e degli alien più o meno antropomorfi è universale e si ricongiunge agli schemi dell’avventura tout-court, permettendo un grado d’immedesimazione più immediato e un profitto elevato in termini di mercanzia. Ebbene, Edmond Hamilton è inventore anche del secondo tipo di avventura fantascientifica, in compagnia di luminari come E.E. Doc Smith, Jack Williamson e il decano di tutti, Murray Leinster (che però si mantiene, soprattutto all’inizio della carriera, su un gradino più alto). Le fortune della fantascienza orripilante si esauriranno nel giro di un decennio o poco più, culminando negli episodi di Crociera dell’infinito di A.E. van Vogt con le sue superbestie. Certo, ogni tanto i vampiri di Venere o le meduse di Antares faranno capolino di nuovo, e gli inglesi saranno maestri nel popolare di mostri qesta nostra terra, anche se in forme più sottili, fino agli anni Ottanta; ma in tal caso, è evidente, si esorbita dal campo dell’avventura per ricongiungersi al nobile lignaggio dell’outré, il sentimento per cui inizialmente ci eravamo avvicinati alla science fiction.

Al contrario l’avventura per l’avventura, il genere space opera di guerra, continuerà a prosperare soprattutto al cinema, dove, dopo la gloriosa stagione degli anni Cinquanta (tutta all’insegna del weird) e Sessanta (in cui l‘orripilante diventa di casa, quasi familiare), arrivano nuovi e sofisticati effetti computerizzati che permettono di disegnare letteralmente sullo schermo, riducendo sensibilmente i rischi di perdite umane quando si filma una battaglia nel cosmo. Di conseguenza, come negli anni Sessanta si erano realizzate le pellicole più realistiche sul tema dei viaggi nello spazio, così nei due decenni successivi il realismo verrà abbandonato a favore delle fiabe e dell’avventura per ragazzi, con la lunga saga di Guerre stellari in testa agli incassi e le lunghissime serie di Star Trek, Battlestar Galactica e via silurando che l’accompagneranno sui teleschermi.

Nella serie dedicata a Morgan Chane, il Lupo dei cieli, Edmond Hamilton getta le fondamenta di questo tipo di scorribande (siamo intorno al 1968), non potendo immaginare che in un futuro prossimo, e coincidente con la sua morte (1977), la space opera mercenaria diventerà un caposaldo dell’intrattenimento di massa. Da parte sua, il nostro si mantiene fedele fino alla fine alla vecchia ispirazione, facendo balenare qua e là un profumo d’infinito che evoca non banali nostalgie: vedi, nel romanzo intitolato I mondi chiusi,  la scena ambientata a Carnarvon, il paese originario dei Chane sulla terra, o il lungo volo disincarnato nello spazio per provare l’ebbrezza del Libero passaggio. Nonostante tutto, non è alle macchine né ai caricatori che Hamilton strizza l’occhio ma, ancora una volta, all’uomo, alla donna e al senso epico che si respira ancora in certa fantascienza. Morgan Chane è un barbaro dello spazio, un lottatore che deve qualcosa ai personaggi di Robert E. Howard, ma che ricorda il Charlton Heston del Pianeta delle scimmie (1968), uno dei migliori esempi di science fiction cinematografica giocata sul corpo, i peli e i muscoli degli attori anziché sulle fredde equazioni. Insieme a Il Lupo dei cieli (The Weapon from Beyond, 1967) e a I mondi chiusi (The Closed Worlds, 1968, qui offerto in una nuova e più moderna traduzione), un terzo romanzo d’azione concluderà l’epica di Morgan Chane:  Le stelle del silenzio (World of the Starvolwes, 1968) che presenteremo prossimamente in un volume all–Hamilton comprensivo anche dei suoi racconti brevi.

 

                                                       II

 

Secondo alcuni appassionati, non c’è autore che incarni meglio di Hamilton l’avventura classica. Un autore il quale, dopo aver cominciato a scrivere nella vena horror cara a “Weird Tales” – rivista sulla quale aveva esordito nel 1928 – e dopo essersi specializzato nella fantascienza spaziale, ha dato importanti contributi non solo al genere epico ma anche al campo del fumetto. Dagli anni Quaranta agli anni Sessanta Edmond Hamilton è stato uno dei più attivi sceneggiatori della DC Comics, per la quale ha scritto molte avventure di Superman. Quando, all’inizio degli anni Sessanta, la gestione dei fumetti DC è passata al migliore editor del dopoguerra, Julius Schwartz – anche lui proveniente dall’ambito della sf – la qualità delle storie è migliorata e molti ricordano un’avventura di Superman scritta da Hamilton e disegnata dal grande Curt Swan, Superman Under the Red Sun (1963) che sembra una variante a fumetti del suo romanzo Agonia della terra (1951). In italiano l’episodio è apparso come L’ultimo dei terrestri nel “Superalbo Nembo Kid” Mondadori n. 38 ed è disponibile online, in versione inglese, all’indirizzo http://superman.ws/tales2/redsun/?page=1

In Agonia della terra  l’esplosione di una testata atomica scaraventa una piccola città americana nel lontano futuro, un’epoca in cui il nostro pianeta è diventato un luogo morente e gelido e l’umanità si è trasferita tra le stelle. Ora la federazione vorrebbe evacuare su un altro mondo anche la popolazione venuta dal XX secolo. La città tuttavia si ribella e sceglie un’altra strada: la Terra morente verrà “curata” con l’energia nucleare che riuscirà nuovamente a riscaldarla.

Nell’avventura di Superman, l’uomo d’acciaio infrange la barriera del tempo (è una sua facoltà abituale, ottenuta grazie alla supervelocità) e viaggia nell’avvenire per un milione di anni. Qui scopre di essere l’unico essere umano su una Terra devastata e morente, il cui sole diventato rosso indebolisce i poteri del kryptoniano. Nella biblioteca dell’ultima città, Superman indossa un casco per la trasmissione dei dati e ne apprende la storia, che risale all’anno 824.057 (la cronologia ricorda un po’ quella della Macchina del tempo di H. G. Wells). Convinti che il pianeta non abbia futuro, gli ultimi abitanti della Terra l’hanno abbandonata e si sono trasferiti sulle stelle. Solo e senza superpoteri, l’Uomo d’acciaio non può sperare di far ritorno nel nostro tempo, ma dopo un pericoloso viaggio alla Fortezza della solitudine trova ciò che resta della città in miniatura di Kandor, si rimpicciolisce con la kryptonite rossa e usa una delle astronavi kandoriane per viaggiare a supervelocità indietro nel tempo.

 

La semplice verità secondo cui uno scrittore non dovrebbe mai essere incasellato, e che essere un “pulpster” non vuol dire necessariamente non avere altre frecce al proprio arco, è perfettamente dimostrata da Edmond Hamilton. Avventuriero degli spazi, autore di vivaci racconti e fumettista, nella seconda fase della sua carriera ci ha lasciato alcune storie che non è esagerato definire la coscienza della sf spaziale: alludiamo, in particolare, al capolavoro breve “Com’era lassù?” (1965), in cui l’avventura di uno sfortunato astronauta costituisce il miglior esempio di un tipo di storia che solo raramente riaffiorerà in futuro: la disillusione dell’impresa spaziale, o l’odissea amara.

Appartengono alla fase matura di Hamilton anche La stella della vita (The Star of Life,1947), Ritorno alle stelle (Return to the Stars, 1969), una rivisitazione dei temi inaugurati nei Sovrani delle stelle (The Star Kings, 1947)  e l’imprevedibile odissea razziale de Gli incappucciati d’ombra (The Haunted Stars, 1960). Memorabile , anche se immatura al cento per cento, la serie di avventura per ragazzi dedicata a Capitan Futuro, “l’uomo di domani”, secondo una definizione che negli anni successivi passerà a Superman. Hamilton, sposato alla nota scrittrice di fantascienza e sceneggiatrice hollywoodiana Leigh Brackett, è stato sempre sospeso fra due mondi: il nostro e quello della fantasia, la superficie terrestre e gli astri, l’avventura e il bisogno di farsene una ragione, tornando a definirne il senso in modo sempre più consapevole. Morirà nel 1977, all’alba di una nuova era di exploit sf che al suo talento precoce devono non poco.

 

Giuseppe Lippi

 

 

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2 Responses

  1. Luca Rippa

    Davvero bella questa postfazione al primo volume di Hamilton, con la storia della space-opera: interessante ed assai piacevole da leggere.
    Leggendo il primo romanzo della raccolta davvero si sente l'”aria” di Star Wars, chissà cosa avrebbe pensato l’autore se avesse potuto vedere il film!
    Infine, trovo condivisibile la puibblicazione dell’opera in più volumi in modo da evitare tomoni eccessivamente pesanti e di difficile lettura

  2. Giuseppe Pinto

    Interessante e piena di notizie con riferimenti al cinema di fantascienza e ai comics l’opera di Hamilton.
    Io, lettore anche di comics di SF e a suo tempo di Nembo Kid e Superalbi (com’erano divertenti quelle storie)ricordo benissimo ancora oggi il racconto “L’Ultimo dei Terrestri” sul n.38 di cui possiedo ancora l’albo che ogni tanto sfoglio.
    In conclusione grazie per questi ricordi dal momento che solo adesso so che Hamilton è stato un grande sceneggiatore della DC Comics.

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