Lo spazio è la mia patria: Arthur C. Clarke

maggio 21st, 2012 by Moderatore

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Incontro con Rama (Rendez-vous with Rama, 1973) è uno dei romanzi più affascinanti di Clarke e, probabilmente, di tutta la fantascienza.

E’ un libro che va al di là delle mode e dei calcoli di convenienza; è un capolavoro dell’avventura moderna e uno dei pochi romanzi ad aver generato tre seguiti che, per ricchezza inventiva, stanno ben alla pari con il testo originario. Questi seguiti, scritti in collaborazione con Gentry Lee, sono: Rama II, The Garden of Rama e Rama Revealed.

Il successo del libro si deve a molti fattori: le accurate ipotesi scientifiche di Clarke, oggi tornate alla ribalta con la paura degli asteroidi minacciosi vaganti nello spazio; la grandiosa immagine di un manufatto exraterrestre – di fatto, un’astronave – che tuttavia è così grande da potersi definire un mondo autonomo e misterioso; il fascino delle civiltà perdute, di cui quella ramana costituisce un perfetto aggiornamento. E naturalmente, l’emozione del primo contatto con un’altra forma di vita intelligente. Ma ci sono altre ragioni, che fanno di Incontro con Rama un nuovo tipo di avventura nello spazio paragonabile a ben pochi altri testi degli anni Settanta o anche successivi (uno di essi è il ciclo di Ringworld di Larry Niven).

I vari elementi del romanzo sono fusi con maestria nel racconto dell’esplorazione che una squadra scientifica umana intraprende a bordo dell’oggetto Rama, arrivato dai confini dello spazio e diretto verso il nostro sistema solare. Questa parte del libro è anche la più vicina allo spirito avventuroso – nel senso di avventura intellettuale – che contraddistingue il Clarke degli anni Settanta, cioè l’uomo che è da poco emerso dalla grande odissea di 2001. Il film di Stanley Kubrick, da Clarke in parte ideato, si poneva nel 1968 come un ponte gettato fra una concezione provinciale del racconto di fantascienza e la sua nuova, più complessa dimensione “multimediale”. Rendezvous with Rama continua, nel 1973, quel discorso e illustra l’idea di pluralità dei mondi, così cara alla sf come alla filosofia, da un punto di vista “alieno”, cioè dall’interno di un’architettura definitivamente estranea all’uomo. La misteriosa, impenetrabile natura di Rama è l’equivalente dell’appartamento rococò in cui è arrivato Dave Bowman in 2001: una volta, naturalmente, che siano state tolte le tende e smontati i baldacchini.

Per la fantascienza d’ambiente spaziale è una sorta di rinascita, ma su basi completamente nuove; basi che devono la loro robustezza, e certo tutta la loro originalità, al penchant metafisico di Arthur C. Clarke, già visibile nelle premesse di 2001 – e cioè nel racconto “La sentinella” – ma anche in altre opere, da “I nove miliardi di nomi di Dio” in avanti.

È accaduto così che un autore ingiustamente tacciato di arido tecnicismo si aprisse a un’esplorazione di orizzonti cosmici impensati, a visioni dell’universo che non sono per nulla aride o tecnicistiche, ma anzi ci riportano alle radici stesse della ragion d’essere della fantascienza.

Descrivere l’esplorazione del cosmo, infatti, non vuol dire soltanto tracciare un’esile lineetta su una mappa appena abborracciata; non vuol dire riempirlo dei banali luoghi comuni tratti da altri generi letterari (il western o il giallo, certo, ma anche l’insulsa commedia rosa o il dramma psicologico centrato sulle fisime di personaggi fin troppo terreni) per proiettarli ad nauseam su quei vasti orizzonti. Se esplorare il cosmo in un’ideale nuova epica vuol dire davvero qualcosa di più e di intellettualmente diverso, allora la via intrapresa da Clarke è una delle poche strade capaci di portare a qualcosa: non solo sul piano letterario, ma più in generale su quello cognitivo.

Arthur Charles Clarke è nato a Minehead, una piccola città del Somerset (nell’Inghilterra sudoccidentale) il 16 dicembre 1917. La scienza e le sue applicazioni lo avevano sempre affascinato: suo padre, contadino, l’aveva mandato alla vicina scuola elementare di Taunton e Arthur si era appassionato all’enigma dei dinosauri ma anche al misterioso alfabeto Morse. Difficile immaginare che da quelle semplici premesse sarebbe nata la brillante carriera scientifico-letteraria del futuro autore di 2001 Odissea nello spazio.

Del resto, nell’Inghilterra degli anni Cinquanta Arthur già parlava di astronavi e satelliti geostazionari per telecomunicazioni: vale a dire oggetti che, messi in orbita come il primo Sputnik, ruotassero in sincrono con il pianeta e potessero diffondere in un emisfero le trasmissioni ricevute dall’emisfero opposto, superando l’ostacolo della curvatura terrestre. Né si trattava di semplici fantasie: il progetto del satellite geostazionario è oggi ufficialmente attribuito a Clarke, che ne ha parlato nei suoi libri di divulgazione e ha sostenuto la fattibilità del volo spaziale fin da opere come The Exploration of Space (1951) e Il volto del futuro (1955, il cui titolo originale suona appunto The Challenge of the Spaceship: la sfida dell’astronave). In un’intervista rilasciata poco prima di morire, Clarke ha dichiarato di aver saputo dalla segretaria di Wernher von Braun, Carol Rosin, che il grande scienziato tedesco si basò proprio su The Exploration of Space per convincere il presidente Kennedy della fattibilità del viaggio sulla luna.

Ma tutto questo ha un solido retroterra. Durante la Seconda guerra mondiale Clarke si era offerto come volontario nella RAF per occuparsi di radar, mentre, a guerra finita, aveva frequentato il King’s College di Londra, diplomandosi in matematica e fisica. La sua vera passione, scrivere di scienza e fantascienza, si manifestò alla fine degli anni Quaranta e da allora sarebbe stata la sua principale attività. I primi racconti, ospitati sulle riviste, già denotano uno stile asciutto e tendente al realismo, unito a un’immaginazione di prim’ordine. Nel 1948, per un concorso indetto dalla BBC, Clarke scrive “La sentinella”, che non vince ma resta uno dei suoi racconti brevi più celebri: un giorno, vent’anni dopo, fornirà lo spunto a Stanley Kubrick per il soggetto di 2001 odissea nello spazio (1968). E’ la storia di un oggetto artificiale lasciato sulle montagne lunari da milioni di anni e che aspetta il primo terrestre capace di accorgersi della sua esistenza. Questa combinazione di idee avrebbe affascinato Kubrick, entusiasta del ritrovamento di un manufatto sulla luna: di qui la storia del misterioso oggetto si sarebbe estesa al passato remoto della terra e all’imprevedibile futuro.

Negli anni Cinquanta, ai libri di astronautica e tecnologia si affiancano i primi romanzi di Clarke: Le sabbie di Marte (The Sands of Mars, 1951), storia della colonizzazione umana del pianeta rosso, La città e le stelle (The City and the Stars, 1956), visione di un lontano futuro dal sapore wellsiano e Le guide del tramonto (Childhood’s End, 1953), in cui una progredita civiltà extraterrestre si manifesta all’uomo per aiutarlo a uscire dall’infanzia. Nei Guardiani del mare (1957) e Le porte dell’oceano (1963) Clarke esplora il misterioso universo acquatico, un altro dei suoi temi prediletti, nella convinzione che da esso potrà venire la salvezza per una terra affamata e sovrappopolata. Dopo un intervallo abbastanza significativo negli anni Sessanta, il periodo che lo vede coinvolto per tre anni sul set di 2001 e che culmina nella pubblicazione del romanzo omonimo (1968), Clarke torna in piena attività negli anni Settanta. Dopo Incontro con Rama, del ’73, avremo Terra imperiale (Imperial Earth, 1975), romanzo in cui il nostro pianeta diviene il centro di un impero economico, politico e scientifico che Clarke descrive con grande realismo (e senza apparente rimpianto per l’istituzione che, su scala ridotta, aveva fatto le fortune d’Inghilterra). Ancora, Le fontane del paradiso (Fountains of Paradise, 1979) presenta, con abbondanza di particolari, un’altra invenzione di Clarke, vicina per genialità a quella del satellite geostazionario: l’ascensore spaziale. Costruito all’equatore, l’ascensore dovrebbe collegare la terra con una piattaforma spaziale in orbita geosincrona e sarebbe contenuto in una struttura alta almeno 50 km, la cosiddetta torre-àncora. Oggi la tecnologia per costruire un oggetto simile non esiste, ma verso la fine del XXI secolo potrebbe essere fattibile: in tal modo non sarebbe più necessario sprecare enormi risorse di combustibile e razzi vettori per lanciare uomini e strumenti in orbita, ma si potrebbe spedirli lassù in ascensore.

Grazie al suo prestigio di romanziere, ricercatore e divulgatore, Sir Arthur Clarke viene generalmente considerato l’ispiratore della nuova fantascienza tecnologica, quella scritta negli anni Cinquanta e recepita anche dagli altri mezzi di comunicazione nel decennio successivo. E’ questa fama di realistico esploratore del futuro e, insieme, di visionario scientifico a farlo chiamare al fianco di Stanley Kubrick per scrivere 2001. Kubrick ha dichiarato più volte che a spingerlo verso il film di fantascienza era stato il problema della vita nel cosmo, che oltre ad affascinarlo personalmente sembrava pertinente al momento in cui l’umanità stava per mettere piede sulla luna. Clarke aveva scritto un importante romanzo sull’argomento, Le guide del tramonto, che può essere considerato una sorta di pre-2001: oltretutto il libro introduce gli stessi problemi mitologici che sono alla base del film. Gli esseri venuti dallo spazio che popolano il romanzo somigliano alle immagini stereotipate del diavolo, con folte spracciglia, corna e zoccoli biforcuti, il che pone l’umanità di fronte al problema di superare i propri pregiudizi religiosi. Naturalmente, spiega Clarke, erano state proprio le visite degli extraterrestri a forma di demoni a influenzare i nostri miti: ma le immagini sono dure a morire e l’umanità è chiamata a fare un duplice sforzo per uscire dallo stadio della sua fanciullezza.

Una volta accettato di scrivere 2001 insieme a Kubrick, Clarke si assicura che la produzione goda della massima collaborazione negli ambienti aerospaziali: ha molte conoscenze alla NASA e affianca degnamente il regista nell’intento di fare di 2001 un film credibile sotto ogni punto di vista, addirittura documentario. Lo stile dei due autori non solo mira a ottenere, con mezzi diversi, lo stesso effetto, ma alterna in egual misura realismo, precisione tecnica e talento visionario. L’intento dello scrittore e quello del regista coincidono: entrambi sono uomini tecnologici, per così dire architetti del domani; entrambi provano sincero entusiasmo per una disciplina che sarebbe azzardato definire scientifica, ma che nelle sue espressioni migliori ha un solido fondamento statistico-speculativo: la futurologia. E la futurologia gode del suo massimo splendore proprio negli anni Sessanta di 2001, quando “odissea nello spazio” significa soprattutto odissea in un futuro destino.

La collaborazione di Clarke è stata fondamentale anche per altri motivi. Ininterrotta presenza sul set e fuori dal 1964 al 1967, lo scrittore inglese ha fatto in modo di assicurare a Kubrick l’esperienza di Frederick I. Ordway III, il consulente scientifico del film, e quella del disegnatore aerospaziale Harry Lange, divenuto uno dei tre capi scenografi di 2001. Non solo: Clarke ha continuato a sviluppare la sceneggiatura fino alla fine, riscrivendo con Kubrick le parti che avrebbero dovuto svolgersi nel sistema di Saturno e che poi sono state trasferite in quello di Giove, e immaginando il finale con il Bambino-delle-stelle.

All’odissea di 2001 Arthur C. Clarke ha dedicato una larga fetta della sua vita creativa: in un primo momento, firmando con Kubrick il romanzo tratto dalla sceneggiatura del film, 2001 Odissea nello spazio (1968), e poi scrivendo il libro di ricordi The Lost Worlds of 2001 (1972), con un diario della lavorazione e generosi estratti dalle prime stesure del romanzo e della sceneggiatura, quelle che si allontanano maggiormente dalla versione definitiva.

Nei tren’anni successivi Clarke ci ha dato tre romanzeschi seguiti di 2001, un progetto del quale, letterariamente, si era ormai appropriato: 2010 Odissea due (2010:Odyssey Two, 1982), 2061 Odissea tre (2061: Odyssey Three, 1987) e 3001 Odissea finale (3001: The Final Odyssey, 1997). La trilogia ruota intorno alla razza dei costruttori del monolito e ai suoi tentativi di far evolvere e poi distruggere l’umanità, a favore di altre intelligenze svuluppatesi nel sistema solare. Nell’ultimo romanzo della serie Frank Poole, l’astronauta che in 2001 veniva assassinato da HAL, viene recuperato nello spazio e resuscitato. Intanto, il suo collega David Bowman e il computer Hal sono diventate entità immortali e si sono fuse in un essere chiamato Halman, che ora vive all’interno della matrice elettronica del monolito; quest’ultimo si comporta come un computer assai evoluto. Scopo di Halman è sabotare le trasmissioni del monolito, perché è ormai chiaro che i suoi costruttori stanno per condannare a morte la razza umana, giudicata tecnologicamente pericolosa. La sentenza dovrebbe essere eseguita da un immenso sciame di monoliti che, obbedendo a un ordine superiore, oscureranno il sole, in modo da impedire la vita sui mondi dell’uomo. L’impresa di Halman riesce e l’ingrato compito dei monoliti fallisce. Quei potentissimi manufatti si disintegrano fino all’ultimo esemplare: è la fine anche del monolito africano e di quello lunare che avevamo conosciuto in 2001. Quanto ai loro evolutissimi e incorporei costruttori, per il momento sospendono la condanna dell’uomo e gli concedono una sorta di perpetuo rinvio.

Come si vede, sono storie di ampio respiro e sempre al passo con la realtà scientifica: le lune di Giove, la vita nel sistema solare, i computer di nuova generazione diventano il fulcro delle fantasie razionali di Arthur Clarke un decennio dopo l’altro. Intanto, a partire dal 2000, Sir Arthur scrive una serie di libri a quattro mani con Stephen Baxter: Luce del passato (Light of Other Days, 2000), L’occhio del tempo (2004) e L’occhio del sole (2006), tornando ai prediletti temi speculativi. Non meno celebri i suoi racconti brevi, che nel 2000 vengono raccolti nel volume inglese The Collected Stories of Arthur C. Clarke. Una short story come “Spedizione di soccorso”, in particolare, ha il merito di essere apparsa sul n. 1 della prima rivista di fantascienza pubblicata in Italia, “Scienza fantastica” (1952), e di averne ispirato la copertina. Clarke, accusato da alcuni lettori di essere uno scrittore fin troppo tecnico e “freddo”, è in realtà capace di grandi esiti fantastici. Basta pensare, per tutti, ai “Nove miliardi di nomi di Dio”, un racconto del 1953 in cui postula l’esistenza di un computer capace di calcolare tutti i nomi divini. Commissionato da un gruppo di monaci tibetani, il calcolatore esaurisce il suo compito in breve tempo e le stelle, in cielo, cominciano a spegnersi: ormai l’universo non è più necessario perché ha esaurito il suo scopo…

In un altro celebre racconto, “Strada buia” (1950), un uomo percorre una lunga strada tenebrosa, temendo ad ogni passi ciò che può aspettarlo in fondo. E laggiù c’è veramente qualcosa di imprevedibile e agghiacciante, capace di materializzare i peggiori incubi. Del resto, il Clarke autore fantastico ha al suo attivo un’ottima raccolta di storie collegate fra loro: All’insegna del Cervo Bianco, in cui gli avventori dell’omonimo pub londinese si raccontano fatti incredibili ed episodi ai confini della realtà. Come volevasi dimostrare, Sir Arthur Clarke (al quale la regina ha conferito il titolo di Knight Bachelor nel 2000, per i suoi meriti letterari e scientifici) è stato tutt’altro che uno scrittore tecnico e freddamente razionale. Scomparendo a Sri Lanka il 19 marzo 2008, ha lasciato un vuoto che difficilmente sarà colmato in futuro. Ma rallegriamoci, esiste pur sempre la sua gustosa autobiografia che ripercorre gli anni d’oro della sf e dell’esplorazione spaziale. I lettori dell’inglese potranno acquistarla su internet o durante il prossimo viaggio a Londra, per cui ne ricordiamo il titolo: Astounding Days: A Science Fictional Autobiography (Gollancz, 1989).

La produzione varia e complessa, la vivida immaginazione e il profondo interesse per la ricerca fanno di Arthur C. Clarke non solo un maestro della fantascienza, ma un uomo le cui idee hanno forgiato il nostro presente e forse influenzeranno il nostro futuro.

                                                                                                         Giuseppe Lippi

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13 Responses

  1. Micronaut

    Ma Urania Collezione (ri)pubblicherà tutto il ciclo di Rama?

  2. jegger

    Clarke è una lacuna che devo colmare dato che non ho ancora avuto modo di legger nulla di lui. Quale migliore occasione per questo UC di cui si parla ovunque benissimo.

  3. Giuseppe P.

    Ho letto con molto interesse il saggio di Lippi su Clarke e sono d’accorso con le sue osservazioni.
    Dal momento che non sono mai riuscito a trovare i volumi dei seguiti di “Rama” e di “2001” potrà Urania Collezione pubblicarli per la gioia degli appassionati della Sf e di Clarke?

  4. claudio

    Sarebbe una cosa fantastica poter vedere pubblicati su Urania Collezione i 3 seguiti di Rama. Speriamo bene

  5. Saintjust

    Articolo molto interessante e ben fatto, complimenti. Ho letto Rama e altro di suo, c’è poco da fare, la SF “hard” non fa per me; io amo Vance, non posso amare Clarke 😀 :)

  6. Giuseppe Lippi

    Ma perché? Io amo Vance, Clarke e anche Sturgeon, Ballard e Dick! La grandezza è grandezza sotto tutti i cieli… :-)

  7. Giuseppe P.

    D’accordo con Lippi.

  8. Dancing Bonbons

    Se dovessi scegliere fra spazio esterno e spazio interno sicuramente sceglierei il secondo. E’ il tipo di fantascienza e di scrittori che mi ha dato l’imprinting (Non posso esserne sicuro perché profondamente di parte ma credo che dal punto di vista prettamente tecnico gli intronauti abbiano prodotto letteratura migliore)ma fortunatamente per il momento nessuno mi ha mai messo davanti a questo bivio.

  9. andrea-tortellino

    Talmente d’accordo con Lippi che ho comprato il libro.

  10. petrozz

    “uno dei pochi romanzi ad aver generato tre seguiti che, per ricchezza inventiva, stanno ben alla pari con il testo originario. ”

    questo proprio no. I seguiti di Rama sono abbastanza patetici, ed è ormai risaputo che Clarke ci ha messo poco più che il nome.

  11. Dancing Bonbons

    Sì, ma i seguiti dell’odissea li ha scritti con le sue manine ma sono lo stesso demenziali ed è sempre riuscito a scrivere libri brutti senza essere aiutato da nessuno.

  12. John

    Sono totalmente d’accordo con Giuseppe Lippi. Clarke è un grande maestro perché ci ha donato un’idea di futuro possibile, anche se talvolta non desiderabile – del resto è sua la distinzione “tecnica” fra fantascienza e fantasy :) – e che comunque è affascinante, un futuro di frontiere e non di confini, di ostacoli da superare e non di muri da erigere. Spero anch’io che almeno “Rama rivelato” che in Italia è ancora inedito possa presto trovare degna collocazione tra gli UC o i Millemondi (considerata la “stazza”). Un saluto affettuoso.

  13. MLetizia Verola

    e finalmente ho letto Incontro con Rama dopo averlo inseguito sul mercato del collezionismo! :)

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