Diario Vitt

febbraio 28th, 2012 by Moderatore

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Oggi, febbraio 2012

Quello che avete fra le mani è tutt’altro che un instant-book o un libro d’occasione. In effetti, dopo essere stato concepito all’inizio dell’anno scorso, ha richiesto una lavorazione che si è protratta per tutta l’estate e rappresenta, in un certo senso, l’ultima fatica editoriale di Vittorio Curtoni. Che ne ha seguito la gestazione passo dopo passo.

 

Primavera-estate 2011

Vittorio ha contribuito idee, ha valutato le necessarie esclusioni (come quella del racconto che avevamo scritto a quattro mani, “Non ho bocca e voglio bere”) e ci ha fornito materiali preziosi. Non a caso il pezzo forte del volume, il romanzo Dove stiamo volando, esce in questa edizione con un capitolo inedito che si situa tra quello intitolato “Il silenzio” e il successivo “Luci d’inverno”, in pratica da pagina 38 in poi della vecchia edizione uscita su “Galassia”. Il capitolo in questione, “Il volto”, era stato scritto nel 1972 insieme a tutto il resto, ma all’ultimo momento Vittorio ne aveva dubitato, finendo per escluderlo. Quando ce lo ha mandato, chiedendoci cosa ne pensassimo, l’abbiamo letto con estremo interesse, trovandovi sorprendenti tracce… pasoliniane. In realtà, quel momento icastico in un romanzo già ricco di tensione umana e non solo umana non avrebbe nulla di sorprendente se non fosse racchiuso in una cornice fantascientifica, cioè dell’unico genere che non può permettersi di stupire con le “semplici” visioni di una Rivelazione. Così com’è, l’apparizione del Volto sulla strada di Nuova Parigi costituisce una bella aggiunta al viaggio dei suoi iniziati, dimostrando che il loro itinerario non può essere ridotto alla pura ricerca del mutante. Dove stiamo volando è qualcosa in più, è il percorso di un uomo che già anela a tutto, persino all’impossibile, e vuole elevarsi sulle disgrazie del suo mondo. Ben lieti, dunque, di aver reinserito nel libro quelle pagine sfuggite alla prima edizione di quarant’anni fa.

 

Settembre 2011

Gli altri testi, disposti cronologicamente, sono dati invece senza interventi: Vittorio ha deciso di non revisionarli e anche a noi è sembrata la scelta migliore. Lo stesso vale per l’autobiografia La mia love story con la fantascienza, pubblicata nel 1999 in appendice a un’altra cospicua raccolta personale e riproposta oggi per la prima volta: anche qui, nessun aggiornamento. Per Vittorio Curtoni la love story termina simbolicamente con il millennio, come se dopo il 2000 niente dovesse essere più come prima e al posto dell’amore, avrebbe detto l’interessato in tono pittoresco, cavoli amari. (Anche se l’amore lui lo aveva in pectore: per la fantascienza, per i suoi amici e soprattutto per la moglie Lucia.)

 

Giovedì 28 luglio 1949

Vittorio nasce a San Pietro in Cerro (Piacenza). Suo padre, segretario comunale, girava per i paesi del piacentino, al di fuori della cui provincia il nostro non ha mai abitato. A parte il militare, il più lungo periodo di semi-esilio è quello compreso tra il 1975 e il 1978, quando ha lavorato come redattore presso Armenia Editore: tre duri anni di pendolarismo, all’insegna del rifiuto di stabilirsi a Milano. Da ragazzo, nella seconda metà degli anni Sessanta, aveva fatto le fanzine come i veri grandi appassionati. Lino Aldani lo ricordava “con i calzoni corti”, quando Vittorio andava a trovarlo da Piacenza a San Cipriano. Da una sponda all’altra del Po, ecco una storia di (stra)ordinaria provincia.

 

1970-1974

A cavallo degli anni universitari – e mentre ha luogo un’importante maturazione all’insegna dell’esistenzialismo, con le letture dell’amato Sartre, Vittorini, Pavese e altri cavalli di battaglia della modernità – Vittorio approda alla direzione di “Galassia” insieme a Gianni Montanari. La casa editrice aveva sede a Piacenza e i due si erano presentati all’editore Mario Vitali della Tribuna senza conoscerlo e senza particolari raccomandazioni, ma come concittadini. Montanari studiava l’inglese per insegnarlo, Curtoni l’avrebbe imparato sui dischi perché a scuola aveva fatto francese. La rivoluzione di “Galassia” portata dal duo Curtoni-Montanari è totale, soprattutto se si pensa che la precedente gestione, affidata a Ugo Malaguti, si era attestata sull’amore dei classici e la riscoperta di alcuni grandi autori dell’avventura. Non solo i classici scompariranno da “Galassia”, salvo una manciata di eccezioni fra cui Dick (un neoclassico non ancora santificato), ma entrerà in pieno l’avanguardia degli anni Settanta: new wave da una parte (Michael Moorcock, Brian W. Aldiss) e nuovi autori dall’altra: Roger Zelazny, K.M. O’Donnell alias Barry Malzberg, Thomas M. Disch, Mark Geston eccetera. Inoltre, usciranno alcuni importanti autori italiani che Vittorio e Gianni pubblicheranno per geniale intuizione o su incitamento del loro mentore Aldani: Mauro Antonio Miglieruolo, il cui capolavoro Come ladro di notte è stato ristampato anche in “Urania collezione”, e Vittorio Catani che tra qualche mese debutterà a sua volta nella nostra collezione di classici. Su “Galassia”, nel 1972,  Vittorio pubblica inoltre il suo primo e unico romanzo, Dove stiamo volando.

 

1975

Ha concluso il servizio militare e vuole sposare Lucia Parietti, da anni sua fidanzata: per farlo ha bisogno di un posto di lavoro stabile e non può accontantarsi della consulenza per Mario Vitali, che lo paga un tanto a lettura e un tanto a traduzione. Vittorio si offre quindi per un posto di redattore, poi caporedattore alla Armenia Editore ed entra nella fucina delle riviste di parapsicologia “Gli arcani” ed “ESP”. Quello stesso anno, accetta l’invito del suo editore di varare una nuova rivista di fantascienza.

 

Aprile 1976

Esce il primo numero di “Robot”, pubblicazione che deve la sua leggendaria fama alla formula aperta con cui è concepita: racconti brevi anziché romanzi, molta agguerrita informazione, rubriche e dibattiti, un ricco apparato iconografico (era la prima volta che una rivista di narrativa aprisse così vistosamente all’immagine); e ancora tutte le idee nuove sotto il cielo, una spruzzata di polemica politica, l’apertura a giovani collaboratori anche sconosciuti. Ma soprattutto il nerbo, la vis carismatica di un direttore che era il contrario dell’accentratore per partito preso e che, anche quando accentrava eccome, lo faceva in nome di un ideale giacobino di egalité, fraternité, fantascié che finiva per sedurre tutti quanti. Grazie a tali straordinarie doti di comunicativa, capacità di dibattito e attenzione alle nuove tecnologie (quelle di allora, si capisce: la televisione, il nascente cinema di effetti speciali, i fumetti, le fanzine), “Robot” è diventato il primo periodico di fantascienza postmoderno. Questa brutta parola ha in fondo un significato semplice: anziché limitarsi a fare la contemporaneità, si discute di ciò che l’ha generata e lo si mitizza; il moderno viene così osservato come un oggetto da laboratorio, in molti casi arrivando a compiacersene. Fino all’avvento delle collane Fanucci – che certo non sono paragonabili a una rivista – non ci risulta che vi siano stati altri tentativi del genere.

In “Robot” Vittorio ha profuso il suo debordante amore per la fantascienza, le sue doti di curatore e redattore forza-della-natura, un talento visionario che chi è amante della carta stampata non può fare a meno di riconoscere a chilometri di distanza dall’edicola. Era la rivista ideale per il fandom, cioè la comunità degli appassionati, che vi si trovava riflessa ed esaminata al microscopio per la prima volta; era la libera rivista, intrisa di polemica quando occorreva, dei lettori militanti. Quello che oggi si fa su internet, “Robot” lo ha prefigurato sulle tavolette di pietra di un book mensile.

 

1977-78

E’ il periodo in cui, per mia fortuna, ho lavorato a stretto contatto con Vittorio nella redazione di “Robot” e “Gli arcani”: penso di essere l’unico al mondo a potermi vantare di aver avuto il Curtoni come capufficio! Con noi c’era anche una bella ragazza bionda, Milena, che faceva da co-redattrice nonché segretaria del Grande, ma la forza fantascientifica era rappresentata dal nostro ilare duo. Ai miei occhi, il capufficio Curtoni è una delle figure veramente indimenticabili della mitologia moderna: eskimo verde (erano i tempi), sigaretta che sbuffava, occhiali sulla testa, una vulcanica e frenetica capacità di fare mille cose a tempo di record. Un uomo solo, eppure un esercito; un irritabile, irriducibile, buonissimo sergente della fanteria spaziale.

Sono stato assunto nel settembre 1977 e abbiamo lavorato insieme fino al luglio ’78. A quel punto, e dopo aver pubblicato l’importante raccolta personale La sindrome lunare, il mio mallevadore si dimette dall’incarico per una serie di ragioni personali e, lasciatemelo dire, esistenziali. Vittorio non è mai stato un tipo facile; si rallegrava con grande semplicità delle cose ma bastava altrettanto poco per farlo incupire e io credo disperare. Era stanco di tre anni di pendolarismo sul Napoli-Milano ma non pensava neanche lontanamente di traslocare nel cittadone lombardo; sua moglie, oltretutto, lavorava nella scuola di via Alberoni e avrebbe dovuto chiedere il trasferimento. A Milano Vittorio aveva vissuto negli anni dell’università, quando frequentava la statale, ma Piacenza era dietro l’angolo e ci si poteva tornare tutti i giorni. Andarsene per sempre? Far trasferire Lucia, costringendola ad allontanarsi dalla famiglia? Non era da Vic. Inoltre, si era progressivamente alienato da un editore che lo aveva sì portato in palmo di mano fino a quel momento, definendolo il suo “migliore acquisto”, ma che aveva il grosso problema di voler fare acquisti perlopiù al discount, pagandoli una miseria. Così, quando Giovanni Armenia gli mostrò i rendiconti di “Robot” (che nel suo terzo anno di vita, il ’78, aveva cominciato a perdere lettori come succede a tutti i periodici partigiani e garibaldini, e anche a qualcuno di quelli più beceri), Vittorio non condivise la scelta di correre ai ripari sfigurando la sua creatura. Armenia voleva ridimensionare le rubriche, ridurne la partigianeria, puntare tutto e solo sui racconti. Dal suo punto di vista, voleva salvare “Robot”; da quello del creatore di “Robot”, voleva ucciderla. Perciò, con un gesto che per me ha tuttora dell’intempestivo – e del nefasto, se ci si pensa bene – nel luglio 1978 Vittorio si dimise dall’Armenia, lasciandomi solo per un altro anno; poi l’avventura sarebbe finita nell’amarezza anche per me. Comunque, in quel breve periodo si è fatto di tutto e di più: due mensili completi che creavamo dal dattiloscritto puteolente all’impaginato pronto per la stampa; una collana di libri del terrore firmata a due; una rivistina dell’horror; più tutto quello che noi stessi scrivevamo per contribuire alle testate. Nel 1978 abbiamo pubblicato una Guida alla fantascienza scritta a quattro mani per l’editore Gammalibri; da solo, Vittorio aveva dato alle stampe la sua tesi di laurea sulla fantascienza italiana, Le frontiere dell’ignoto (Nord).

 

1978-89

E’ un decennio silenzioso, per Curtoni, ma neanche troppo. Internet non c’è ancora eppure lui scrive, traduce, dirige, polemizza a distanza. Chiuso in una stanza di via Scalabrini prima, di via Alberoni poi, fuma una sigaretta dietro l’altra, beve birra e usa la macchina da scrivere con l’invasamento inconfondibile dell’autore, o del traduttore-autore. Dopo aver coodinato la sfortunata reincarnazione di “Robot”, “Aliens” (pubblicata dal gruppo Armenia nel 1980), continua a tradurre per “Urania”, lo stesso Armenia e altri. Traduce ogni cosa, spesso col passare degli anni senza la possibilità di scegliere gli autori e comunque trattando tutti allo stesso modo professionale e coscenzioso. Traduce, fra gli altri, molti romanzi rosa della serie “Harlequin” e scopre che gli danno particolare soddisfazione: “Spesso mi dicono di tagliarli e io mi diverto a fare questo lavoro di cucito, togli qui, riaggancia là, asciuga quello che non è strettamente indispensabile”. Quando passa al computer, è la metà degli anni Ottanta: Curtoni conosceva la videoscrittura già dai tempi di “Robot”, per essere il sistema adoperato dalla nostra tipografia Parmense, e si innamora del nuovo sistema di lavoro. In quegli stessi anni dirige la collana di romanzi di fantascienza “Omicron” (un altro esperimento Armenia per l’edicola) e una collezione del terrore, voluta dall’editore per ritentare l’esperimento dei vecchi “Libri della paura”. Fra gli altri, Vittorio vi accoglie un improbabile Sesso della morte di Ramsey Campbell e il romanzo che aveva ispirato Wolfen, il celebre film. Sul finire degli anni Ottanta, arriva al timone della collana di fantascienza varata da Sperling & Kupfer. Nel 1989, mentre il sottoscritto approda alla direzione di “Urania”, Vittorio gli soffia alcuni dei testi migliori per portarli all’altro editore. E’ forse il periodo di maggior distanza fra noi, e non certo per banali motivi di concorrenza. E’ capitato, non capiterà più.

 

1990-2000

All’arrivo di internet, intorno al 1995, è tra i primi entusiasti dell’intreccio/groviglio che l’email rende possibile. Da allora in poi, niente sarà più come prima: dopo anni di relativa solitudine, Vittorio torna in pieno nel suo ruolo di maître à penser della fantascienza italiana, questa volta grazie all’aiuto delle mailing list e del rinato senso di famiglia che gli appassionati scoprono nell’era digitale. Come sempre, aiuta i giovani e meno giovani che gli chiedono consiglio; riappare alle convention del settore dopo anni di latitanza; ne organizza di proprie (a sfondo librario-mangereccio, con pantagruelica cena finale: dette Piacon perché svolte rigorosamente a Piacenza, sotto casa sua). Come il grande regista ai tempi della serie televisiva Alfred Hitchcock presenta, Curtoni conosce una popolarità straordinaria, pari se non superiore a quella di cui aveva goduto ai tempi di “Robot”, perché adesso è alonata di leggenda. Al congresso annuale della sf italiana, l’Italcon, miete regolarmene premi come miglior traduttore, autore e poi curatore. Nel 1999 corona il millennio pubblicando da Shake la sua prima raccolta personale di racconti in vent’anni, Retrofuturo.

 

Nel nuovo millennio: 2001-2007

Per quanto intimamente pessimista e a tratti depresso (un male cui cercherà di porre rimedio con alcuni anni di psicanalisi), il Vittorio del duemila è però un gran facitore. Come sempre. Se la professione di traduttore, alla lunga, lo stanca e lo lascia svuotato, tanto che è costretto a concedersi intervalli sempre più lunghi fra un lavoro e l’altro, quella di scrittore di racconti e curatore non conosce sosta. Fino a quando, nel 2003, la nuova casa editrice Solid (oggi Delos Books) gli offre l’opportunità di rilanciare “Robot”, facendo rinascere la creatura dalle sue ceneri. Sulle prime Vittorio è perplesso, ma finisce col cedere alla tentazione e si ributta nell’avventura editoriale che ha segnato la sua vita. La nuova “Robot”, che esce tuttora dopo otto anni, è identica alla vecchia nel format e proprio mentre scriviamo vara la propria edizione digitale. Non più venduta in edicola, un canale sempre più difficoltoso, è presente in una rete di librerie ed è diffusa per abbonamento, mentre dal numero 64 del novembre 2011 può essere scaricata sul proprio iPad. La casa editrice promette che arriverà presto anche la versione per Android.

 

2008-2011

Affezionato non solo alla città di Piacenza, ma al quartiere in cui vive ormai da anni, Vittorio finirà per comprare un nuovo appartamento al piano di sotto rispetto al vecchio. La coppia Curtoni vi si trasferisce tra la fine del 2007 e i primi del 2008, l’anno in cui Vittorio scoprirà di essere ammalato di tumore all’intestino. Seguono tre anni di battaglia con la malattia, tre interventi e numerosi cicli di chemioterapia. Abbandona progressivamente il lavoro, decide che comunque vadano le cose non farà più il traduttore professionista. Facendo due conti, si accorge di poter finalmente andare in pensione. Ma i traduttori è destino non ci vadano mai e così è stato anche per lui. Gli amici lo seguono da vicino e da lontano, anche se le festose Piacon sono abolite; a tutti Vittorio ripete parole d’incoraggiamento, dice che sta bene, addirittura – dopo le operazioni riuscite – che non si è mai sentito meglio. Il sollievo dei periodi di non-chemio è tale da farlo rinascere ogni volta da se stesso. Quello che lo ucciderà, da ultimo, non è il male che dall’intestino si è trasferito malignamente al fegato ma il suo cuore. La mattina di martedì 4 ottobre va a piedi all’ospedale di Piacenza per fare un nuovo iniettorato di chemioterapia. Non ne ha nessuna voglia, anche perché la volta precedente, in settembre, durante la seduta si è sentito male e ha subito uno shock anafilattico (notizia che non era trapelata fra gli amici). Il 4 ottobre il cuore, che aveva già denunciato qualche problema alla vigilia dell’ultima operazione, non ha più retto e un infarto massiccio ha avuto ragione di lui. Inutili un’ora e mezza di tentativi in camera di rianimazione.

Con la sua esistenza ricca e tormentata (un’infanzia difficile, rapporti di lavoro contrastati, la grande amicizia poi interrotta con Gianni Montanari, l’avventura di “Robot”, l’amore degli appassionati e dei concittadini quando aveva cominciato a collaborare con il quotidiano “Libertà”), Vittorio ha rappresentato al meglio l’espressione secondo cui lo scrittore è un uomo d’azione. Nel mondo sommerso e tutto sommato poco cosciente della fantascienza italiana, è stato una voce lucida e un’intelligenza per molti versi unica. Non c’è, per quanto mi sforzi di pensare, chi come lui sia stato altrettanto “autore” in tutti i ruoli che ha ricoperto, altrettanto presente in ogni racconto, editoriale, traduzione o proposta. La sua fantascienza non era quella astrale, tecnica o mostruosa, anche se volentieri sconfinava nell’orrore. Era comunque un orrore credibile che nasceva dai tormenti dell’esistenza. La fantascienza nella quale credeva era di stampo umanista, di radici terrene, di un realismo a volte meticoloso. Se nei racconti ha esplorato il buio e la speranza che lottavano dentro se stesso (e che trovano la massima sintesi in Bianco su nero, l’ultima raccolta personale del 2011), in “Robot” e nelle altre collane da lui dirette ha commentato in lungo e in largo ciò che la fantascienza ha rappresentato nella modernità. Una piaga aperta, una bell’avventura nata dai brutti sogni, il tentativo di dare una risposta artistica al tormento di un mondo tecnologico sì, prodigioso all’apparenza, ma profondamente insensibile.

In una parola, Vittorio, tu sei un un magnanimo (perché i lungimiranti questo sono) che tuttavia non è stato ricompensato. Non abbastanza.

 

Giuseppe Lippi

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6 Responses

  1. Antonino Fazio

    Uno splendido articolo, che merita un sentito ringraziamento da tutti gli appassionati, e da me in particolare.

  2. LUCA

    Grande Vittorio …..

  3. Il Trasfigurato

    Il Curatore Maximo si diverte a citare…. traendo dal limbo del tempo che fu. Chissà se qualcuno ricorda cosa fosse, il Diario Vitt….

  4. Steve

    Io so cos’è il Diario Vitt anche se non l’ho mai avuto per ragioni anagrafiche…

  5. Lanfranco Fabriani

    Articolo stupendo. Grazie

  6. Ariete'70

    Veramente stupendo l’articolo come tutto il libro!

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