Guido Morselli e la fantascienza
Esiste, come ho avuto occasione di scrivere in varie occasioni, una vena sotterranea che percorre tutta la narrativa italiana del Novecento, che nel suo complesso viene genericamente etichettata come “verista”, “realista”, “neorealista” e simili. Una vena sotterranea che sarebbe improprio definire una vera e propria “tradizione”, perché non è mai stato un filone evidente e riconosciuto come tale pur avendo avuto grandi nomi a rappresentarlo, ma che è sicuramente un impulso, una curiosità, una eccentricità che ha contagiato più o meno quasi tutti gli autori italiani e che di solito non viene mai fatta emergere con il dovuto interesse critico: ed è la vena di quel che io definisco complessivamente l’Immaginario. Certo, si dirà, tutta la narrativa è etichettabile come tale, non trattandosi di saggistica, ma bisogna intendersi sul significato delle parole che si adottano. Personalmente definisco Immaginario quel che sottintende la sua etimologia, che viene da imus, cioè profondo, e dal profondo della ispirazione di un artista non può che venire in superficie quel che si potrebbe definire un mundus imaginalis, per usare il termine coniato dall’orientalista francese Henry Corbin in una accezione però più settoriale e filosofica: vale a dire quella serie di simboli primigeni che hanno costituito il sottofondo della mitologia, generale e personale, dell’umanità tutta e dell’uomo singolo, e che il mondo moderno disprezza o svilisce. Insomma, come qualcuno l’ha definito, si tratta di un vero e proprio “Intramondo” che parla attraverso i simboli. Ed esso non ha nulla a che vedere con quel che comunemente s’intende per Realismo e narrativa realistica o neo-realista. Talché, nell’ambito dell’Immaginario comprendo alcuni aspetti di quella che oggi comunemente si chiama “narrativa di genere”: da un lato la narrativa non razionale come il fantastico e l’orrore, dall’altro la razionale, come la fantascienza, e gli ormai innumerevoli sottogeneri che a loro si collegano e che ormai vengono accettati senza troppi problemi filologici. Ad esempio, la science fantasy, la heroic fantasy, la urban fantasy; ovvero, la fantastoria, l’ucronia, il cyberpunk e lo steampunk, tanto per fare qualche nome spesso più noto con i termini inglesi che italiani.
Uno degli autori del Novecento che ha avuto importanti frequentazioni con l’Immaginario è stato Guido Morselli (1912-1973), un autore dalla vita tormentata e dalla fine tragica, sconosciuto e non considerato da vivo, giunto al successo da morto. E oggi che praticamente tutte le sue opere sono state pubblicate (la prima, Roma senza papa, ironia del Fato, a meno di un anno dal suicidio e, a quanto pare, proprio grazie a quel Vittorio Sereni che si era visto bloccare senza reagire la stampa de Il comunista alla Mondadori, e – fatto ancora più grottesco – proprio da Adelphi che aveva respinto tutti i romanzi inviati in precedenza!), e dopo che sono stati pubblicati anche i suoi Diari, lo si dovrebbe annoverare – a mio parere – tra i nostri autori del Novecento più importanti in assoluto, ma anche recuperarlo tra quelli “fantastici” più significativi e originali per forma e contenuto. Però…
C’è un però, infatti, che consiste in questo: le indagini, gli studi e le disamine critiche dei testi dello scrittore mi pare non abbiano saputo spiegare, almeno sino a questo momento che io sappia, un punto-chiave: il motivo di fondo del passaggio di Morselli dal romanzo “realistico” al romanzo “fantastico”. Infatti, a guardare la semplice cronologia delle sue opere, dopo Uomini e amori (1943-1949), Un dramma borghese (1961-1962), Incontro col comunista (1964-1965), Il comunista (1964-1965) e Brave borghesi (1966), vale a dire dopo i temi intimistici di analisi psicologica e sociale di due realtà in apparenza contrapposte come borghesia e comunismo alle quali si sentiva valorialmente estraneo, Morselli vira decisamente verso tematiche che contestavano in toto la società che lo assediava: ecco allora Roma senza papa (1966-1967), Contro-passato prossimo (1969-1970), Divertimento 1889 (1970-1971), Dissipatio H.G. (1972-1973) e l’abbozzo di Uonna (aprile-luglio 1973) scritto alla vigilia del suicidio. Perché lo fece? Cosa lo spinse a farlo?
Forse le delusioni, non solo personali, ma soprattutto culturali, i continui rifiuti della editoria italiana, l’inutile ricorso ai molti numi tutelari e patron delle patrie lettere e della “industria culturale” (scrisse vanamente – e ingenuamente si deve ora dire vista l’impostazione “ideologica” di parecchi di quei destinatari – a Spadolini, Scalfari, Moravia e Calvino, Benedetti e Bompiani, Pampaloni e Mondadori, Cederna e Paolini), la sensazione infine di essere come sotto assedio da parte di una civiltà che non amava affatto, l’indussero a toccare l’altra corda della sua ispirazione, se è vero come è vero che praticamente l‘unico libro che pubblicò in vita, ed a proprie spese anche se con la prestigiosa etichetta di Bocca, è stato una serie di “dialoghi platonici” con il titolo Realismo e fantasia (1947, riproposto in anastatica nel 2009 dalla Nuova Editrice Magenta di Varese, per la cura di Valentina Fortichiari). Sono le due “coordinate della sua spiritualità”, come le definisce Marina Lessona Fasano (Guido Morselli, Liguori, 2003).
Ed ecco allora emergere quella che la Fortichiari, sua prima biografa, esegeta e curatrice delle opere, ha definito “una delle sue tante sfide: la critica della storia, nella duplice accezione di storicismo e storiografia, intesa come mito, determinismo, legittimazione assoluta del fatto (…). La rivincita, la beffa giocata dal suo solitario e audace avamposto della letteratura, era la creazione o meglio la ri-creazione di una stravagante alternativa in un universo dei possibili nel quale, paradossalmente, fosse ancora l’individuo, il singolo, arbitro della situazione, dell’accaduto” (Invito alla lettura di Morselli, Mursia, 1984).
In realtà, con queste parole la Fortichiari si riferisce al solo Contro-passato prossimo (che è, appunto, una vera ucronia, anche se nessuno lo chiama così, e neppure storia alternativa se è per questo), ma si tratta di opinioni che si possono estendere facilmente a tutti e quattro i romanzi “fantastici” di Morselli, accomunati dal rifiuto complessivo della Storia e del Tempo, sia in forma sottilmente ironica e divertita, sia in forma drammatica ed esasperata.
Il rifiuto dell’oggi, in particolare della religione di oggi, inizia con una proiezione nel futuro, con un romanzo che all’epoca della sua apparizione, nel 1974 (come si è già ricordato, un anno appena dopo il suicidio), venne definito di “fantateologia”. Roma senza papa è una critica della Chiesa “al passo coi tempi”, con pontefici fidanzati, liberalizzazione di eutanasia, droga, contraccezione, ma anche una critica della tecnocrazia, della psicanalisi freudiana, del turismo di massa, della mercificazione di ogni cosa, dell’amore per la natura e gli animali sostanzialmente fasulla. Sembra quasi la descrizione della società italiana degli anni Duemila fatta con sei lustri di anticipo…
Dal possibile mondo di domani al mondo alternativo, ad un presente dunque diverso da quello noto, allora – come si è detto – l’ucronia di Contro-passato prossimo, non quindi un romanzo di “fantapolitica” come lo definisce la Fortichiari, che è tutt’altra cosa. Secondo le parole di Morselli quello utilizzato in questa occasione è un genere misto di storia ed invenzione – come egli spiega nell’internezzo del romanzo stesso – una “rivisitazione del passato libera in apparenza sino all’arbitrio”, una contro-realtà che rifiuta “il famigerato prefisso ‘fanta'”, dal momento che, spiega sempre nel romanzo Morselli, “si tratta di res gestae, per mostrare che erano gerendae diversamente”. Una frase, quest’ultima che non solo potrebbe essere considerato come il moto esemplare dell’ucronia, ma che di certo avrebbe fatto felice Adriano Tilgher, il filosofo antistoricista e anticrociano: infatti, egli afferma in Storia e antistoria, se si va a vedere come certi grandi fatti sono nati, ci si accorge che spesso alla base ci sono molti piccoli eventi (o magari uno solo) che avrebbero potuto essere come pure non-essere, verificarsi come pure semplicemente non-verificarsi, e che si sono verificati non per la forza assoluta di un Fato superiore, ma per semplicissime decisioni umane o spesso banalissime casualità e, in quanto tali, certo non ineluttabili. Quindi nessun Determinismo storico. Ecco allora che l’affermazione di Morselli circa il “famigerato prefisso ‘fanta'” è più che giusta. Egli, nel suo romanzo descrive un futuro alternativo, ma storicamente e logicamente non-impossibile, quindi non-fantastico.
Sicché Contropassato prossimo è un non-tempo (il significato appunto fi ucronia) che parte dalla premessa: “Cosa sarebbe successo se gli Imperi centrali avessero vinto la Prima Guerra Mondiale”. Come? Mediante la Edelweiss Expedition: un tunnel scavato sotto le montagne della Valtellina attraverso il quale, nel dicembre 1915, inizia l’invasione dell’Italia. L’impresa viene affidata la capitano Erwin Rommel.
Quindi, dopo il futuro ed un falso presente, è la volta di un falso passato, questa sì una vera “fantastoria” (o una “cronaca immaginaria”, come la definì Giuseppe Pontiggia), visitata in maniera amorevolmente e volutamente ironica: Divertimento 1889. Anche se, sempre per usare le parole della Fortichiari, questo divertissement serve “per smentire ancora una volta l’assurda presunzione del fatto veramente accaduto”, non si può qui parlare di ucronia, in quanto si limita a immaginare una “evasione” in incognito del re Umberto I in Svizzera, che il sovrano d’Italia raggiunge con la ferrovia del Gottardo, solo con se stesso, lontano dalla corte, dalla regina, dall’amante e da altre responsabilità. Un evento mai avvenuto nella realtà che però, nella invenzione narrativa, non muterà a causa delle sue conseguenze lo svolgersi della Storia così come noi la conosciamo, che resterà identica. Ecco quindi la differenza con l’ucronia.
Infine, ancora un presente diverso che potrebbe definirsi senza troppi problemi fantascienza, anche se la situazione nuova ha origine non da un evento concreto, scientifico, come potrebbero essere una catastrofe naturale o una guerra atomica, bensì essa ha una causa surreale, addirittura filosofica e metafisica: Dissipatio H.G. (che è poi una frase del filosofo neoplatonico Giamblico: dissipatio humanis generis) descrive un mondo in cui improvvisamente sparisce ogni essere umano: scomparsa provocata (non si sa come, forse per contrappasso, penso io) dal tentativo di suicidio del protagonista, incallito solipsista, che avrebbe voluto annullarsi agli occhi del mondo in un lago sotterraneo. Questi all’ultimo minuto ci ripensa anche a causa di una botta in testa, ma scompaiono invece, si volatilizzano direttamente, tutti gli altri esseri umani che, secondo il credo solipsista, egli aveva creato con la propria volontà e mantenuti in vita con la propria percezione. Non viene data una vera spiegazione al fenomeno, sicché posso essere autorizzato a pensare che avendo il solipsista salvato se stesso, non abbia fatto in tempo a salvare la sua creazione filosofica: tutti gli altri. Insomma, come se nell’attimo del momentaneo oblio causato dall’urto contro la roccia non avesse fatto in tempo a frenare, in quel momento cruciale, la capacità creatrice e quindi anche annientatrice del proprio Io che così, proseguendo per proprio conto la motivazione originaria, produce la dissipatio humani generis.
Il protagonista si aggira quindi nel mondo fermo e bloccato dell’odiata civiltà tecnologica, vuoto delle disprezzate masse di cui visita e osserva le residue tracce, lanciandosi in considerazioni e divagazioni antisociologiche, antistoricistiche, antifreudiane, antieconomicistiche, antimacchinicistiche, se così si può dire. Un po’ come il protagonista de La nube purpurea, il capolavoro di M.P.Shiel del 1901, splendidamente tradotto da Rodolfo Wilcock per Adelphi nel 1967 e che Morselli potrebbe aver letto ed esserne stato in qualche modo ispirato. Valentina Fortichiari non è di questo parere, notando la differenza della origine del collasso umano: naturale per Shiel, metafisica per Morselli. Ma a mio modo di vedere non è questo che conta, quanto il vagare del protagonista in un mondo deserto di persone, il che è uno spunto originale e assai raro prima del romanzo di Morselli, a parte Shiel, soprattutto nella letteratura cosiddetta alta.
Morselli aveva scritto nel 1961 nei suoi diari di ritenere che “meccanicismo, economicismo, massismo, livellismo e simili sono banalità contingenti”. Il suo era un vero e proprio “disgusto per un quotidiano anonimo e soffocante”, “una durezza venata di disprezzo verso un’umanità soffocantemente mediocre e ottusamente crudele” (Marina Lessona Fasano). Insomma, sembrerebbe quasi che con il suo ultimo romanzo abbia voluto vendicarsi sulla carta di tutto quanto non sopportava, gli provocava noia, gli andava in uggia, lo urtava fisicamente e mentalmente. Poi, dopo l’ultimo rifiuto editoriale, decide di scomparire ma, a differenza del protagonista di Dissipatio H.G., nel momento cruciale non ci ripenserà.
Morselli, se non avesse deciso di uccidersi, avrebbe continuato su questa strada “fantastica” e paradossale insieme? La risposta credo che debba essere affermativa: ci ha infatti lasciato una serie di appunti, scritti nei mesi prima di morire, per un’opera singolare che avrebbe ancora una volta disarticolato un altro dei dati assodati dell’Umanità, l’esserci l’uomo e la donna, uguali e opposti, diversi e complementari. Ci ha lasciato l’abbozzo di Uonna, uomo + donna, il che non vuol dire – come qualcuno oggi potrebbe pensare dato che è di moda – omosessuale o transessuale, ma una sintesi dei due sessi: forse un ermafrodito allo stato puro ed essenziale, come fosse un ritorno alle origini del mito platonico, per criticare probabilmente il tipo di esperienze che aveva avuto con le donne durante la propria vita (ma questa è solo una mia ipotesi). Peraltro “Con te, ma senza di te” era il motto che ripeteva alle sue amicizie femminili che desiderava, ma al tempo stesso respingeva, per innato senso della libertà personale, io credo, più che per “paura” dell’altro sesso. Un tema, questo, anch’esso “fantascientifico”, anche se non molto frequentato.
Amava il passato lo scrittore, a differenza dei nostri sacri intellettuali che protestano per l’oblio, ma solo del passato che interessa loro. Scrisse in Realismo e fantasia: “Il tempo acquista un valore effettivo se assumiamo il passato come ciò che sottostà al presente, lo prepara, lo condiziona, in una parola, lo produce. Il presente genera il passato, ma a sua volta ne è generato. Onde il passato non è realtà relativa o negativa, ma il termine e l’inizio d’ogni realtà”. Parole che spiegano tutti i suoi romanzi “fantastici” e dimostrano come, alla fine, pur avendo premuto il grilletto della sua Browning 7,65 in un giorno d’estate di quasi quarant’anni fa, l’ultimo giorno di luglio del 1973, Guido Morselli abbia alla fine vinto la sua lotta contro il Tempo e la Storia uscendo volontariamente e clamorosamente da essi per non sottostare ad essi. Una “uscita di sicurezza”, come scrive Marina Lessona Fasano utilizzando la famosa espressione di Ignazio Silone: certo, ma tragicamente definitiva. Ma vallo a far capire ai nostri sussiegosi professionisti della cultura! Giustamente Giuseppe Pontiggia, che aveva esaminato presso Adelphi i suoi manoscritti tanto diversi uno dall’altro, poté scrivere che Morselli “non poteva, anche dopo la sua scomparsa, che suscitare comprensibili riserve, in una cultura dove il luogo comune che si scrive sempre lo stesso romanzo è spesso interpretato e applicato alla lettera” (Tuttolibri, 22 ottobre 1983). E non solo questo luogo comune, si può aggiungere oggi con cognizione di causa!
Romanzo profetico, purtroppo, Dissipatio H.G.: non solo perché in esso il protagonista tenta il suicidio, ma perché fu proprio il suo rifiuto da parte degli editori – tra essi proprio Adelphi che, morto, lo “scoprì” come si è detto inizialmente – a scatenare la decisione fatale di quello “strano scrittore, autore isolato, uomo bizzarro, grande outsider della nostra letteratura” (Valentina Fortichiari alla presentazione di Realismo e fantasia presso il Museo del Risorgimento a Milano nel 2009), “un Don Chisciotte che si misura sempre con i grandi temi” (Maria Corti). Un anno dopo, guarda un po’, il successo postumo, con una intera classe intellettuale a domandarsi ancora oggi prima del perché e del percome di quell’ “insano gesto” e poi, in pochissimi, a chiedere scusa per i propri “no” ideologici. Purtroppo per lui, la sua era – appunto – una “sfasatura ideologica rispetto al proprio tempo” (Vittorio Colletti, Corriere della Sera, 22 aprile 1995), e mal gliene incolse. “Gli editori lo hanno ucciso, poi appena morto hanno cominciato ad approfittarne”, ha detto giustamente Maria Corti (Corriere della Sera, 22 aprile 1995).
Per concludere un parallelo. L’accostamento di Morselli a Buzzati, ucciso dal tumore un anno e mezzo prima, viene quasi spontaneo: per le loro idee, per il loro modo di vivere e pensare, per certa ispirazione, per una visione quasi militare della vita. Ci piace allora immaginarlo nel suo “solitario e audace avamposto della letteratura” (per usare la bella immagine della Fortichiari) proprio come il tenente Drogo sta nel suo avamposto di pietra ai margini del Deserto dei Tartari, in attesa di una invasione che non vedrà mai da vivo. Anche Morselli sta nella sua Fortezza Bastiani culturale a fronteggiare dei nemici, quei valori borghesi e marxisti che lui, aristocratico per anima e spirito insieme a Buzzati, vedeva come i propri mortali avversari e ai quali non volle cedere e, più che adattare le sue qualità letterarie ai desiderata del tempo (o cambi il tuo modo di scrivere e le tue idee, o non pubblicherai mai) preferì spararsi un colpo in testa.
Gianfranco De Turris
Posted in Antigravità
marzo 22nd, 2011 at 19:42
Intervento molto interessante e preciso, nello stile di questo grande critico! Il mio amore per il fantastico nasce anche dalla lettura di molte sue illuminanti introduzioni. Grazie al Blog di Urania per aver postato questo significativo articolo.
marzo 23rd, 2011 at 15:12
Condivido in pieno questo approfondimento dedicato a Morselli. Ho avuto la fortuna di incontrare questo autore durante la ricerca di testi per la mia tesi dei laurea, e ho letto Roma senza papa e Contropassato prossimo. Due romanzi straordinari, Roma senza papa non esito ad inserirlo tra i geniali capolavori della letteratura italiana.
Se posso permettermi una critica a questa bella introduzione, è che la definirei fin troppo dotta ed intellettuale; insomma forse non “invoglia” al passo successivo, ovvero assaporare la prosa di Morselli.
Con questo non voglio dire che ciò che ha scritto Gianfranco de turris non sia vero o meritevole, ma il mio vivo consiglio è di prenotare prima di subito una copia di Roma senza papa!
Ps: Morselli merita senza ombra di dubbio una uscita in UC. Anche il numero 100 per quanto mi riguarda.