“Mille notti più una”, un racconto di Mina Argento
Mina Argento… chi è costei? Un’autrice tanto promettente quanto elusiva. Il suo racconto è apparso a stampa nel numero di “Urania” di giugno e ci è parso tanto valido – questo aggettivo che vuol dire tutto e niente – da indurci oggi a diffonderlo in rete. (Fra parentesi, c’è qualcuno, lì in Piemonte, che l’abbia conosciuta o almeno avvicinata di persona? Finora noi stessi abbiamo avuto, con la sfuggente neo-autrice, soltanto rapporti epistolari e non ci dispiacerebbe farle un’intervista.) Crediamo che in Mina Argento si nasconda il cuore di una donna ricca di esperienza e la mano di una narratrice nata. Insomma, ci è piaciuta. Un criticoide oggi squalificato, ma un tempo molto “auscultato” (sic!) ci ha tediati con una lunga e-mail post pubblicazione paragonandola alla Ursula K. Le Guin del XXI secolo. Vedrete da voi che il paragone è a dir poco belante, pecoreccio addirittura: perché Mina – ah, Mina! – non ha paragoni nel Terzo millennio. E’ una donna d’altri tempi e non a caso sceglie per questa sua prima prova la materia di cui son fatti i sogni, le donne stesse: immagini della notte intrecciate nel nome di Sheherazade, la suprema narratrice. Ma il rimando all’immortale novelliere arabo è solo il modo d’incominciare, di introdurci a una riflessione sulla narrativa tout-court che speriamo susciti tutta la vostra approvazione e stimoli i commenti più lusinghieri, e soltanto quelli.
G.L.
Il Sultano strinse le bende attorno ai polsi della sua prigioniera.
Scheherazade sussultò.
— Raccontamela tu una storia, stanotte. C’è bisogno di cambiamenti qui.
— Non ho il talento per raccontare storie — si lamentò il Sultano. Guardò fuori dalle finestre dell’attico dell’harem, verso i fianchi risplendenti come stelle degli edifici più alti del mondo.
— Posso suggerirti degli spunti per le tue storie. Sono un uomo d’affari, so cosa vende di più.
Scheherazade gemette. — I fumetti vendono. Io non scrivo fumetti. Non so disegnare. — Mordicchiò un punto che risaltava nitido tra le fitte suture dei polsi.
— Sì, il moderno mercato globale ha bisogno di trasposizioni cinematografiche e diritti accessori. Ecco perché i film tratti dai fumetti hanno a disposizione i budget più ricchi di Hollywood.
Scheherazade addentò la stanghetta degli Chanel bifocali. — Non voglio sentire certe cose! Perché non mi fai giustiziare subito? Mi faresti un favore enorme.
Il Sultano scosse la testa avvolta nel turbante, carico di smeraldi e zaffiri. I decessi dei membri del suo harem letterario si ripetevano con lugubre regolarità. Morivano per le solite ragioni: alcol, droga, disperazione e disastri aerei durante i tour promozionali. Scheherazade minacciava o tentava il suicidio ogni volta che la notte incontrava l’alba. Tuttavia, era incredibilmente dura a morire.
— Viviamo in tempi che si vanno rapidamente oscurando — dichiarò il Sultano. — Il nostro mondo ha bisogno di narrazioni chiare e semplici. Di una speranza facile e a buon mercato. Di storie forti, dal forte contenuto morale. È compito tuo fornire quel contenuto.
Scheherazade si strattonò il pigiama blu notte coperto di lustrini. Fremette di fronte al prolungato silenzio del Sultano. Era abituata alle incessanti pubblicità, promozioni, manchette, presentazioni e imbonimenti del suo signore, ma quando diventava cupo, stoico e silenzioso le dava sui nervi.
— Potrei raccontare la storia di Mosè, il salvatore del suo popolo.
— Ottimo! — Il Sultano sbucciò un mango con un coltello di plastica, di quelli consentiti a bordo degli aerei.
Scheherazade incrociò le gambe da danzatrice sotto il lenzuolo niveo dell’ospedale. — C’era una volta una ricca famiglia di politici egiziani. I bambini per loro erano una seccatura. Perciò una principessa del clan mise il proprio figlio indesiderato in una cesta e lo abbandonò alla corrente del fiume, che scorreva verso un ghetto. Lì il neonato fu trovato da una minoranza etnica povera ma onesta.
Scheherazade si sciolse i capelli biondi e lucenti. Si aprì la giacca del pigiama. Si passò sulla gola sudata una bottiglia sfaccettata di eau de toilette.
Il Sultano studiò il programma di registrazione dell’iPhone. — Continua, stasera stai andando benissimo. I ribaltamenti ironici sono la tua specialità.
— Perché non scopiamo, invece? Le concubine hanno molta più voglia di sesso dei sultani. È vero, te lo giuro.
Il Sultano alzò gli occhi. — Ecco che parla il tuo blocco dello scrittore.
Scheherazade diede uno strattone al tubo pendente della flebo. — Non posso fare la danza del ventre con questo stupido affare nel braccio, però potrei farti un pompino. Così sarei dispensata dalle narrazioni orali.
Il Sultano si tolse il turbante, esaminò la propria immagine barbuta riflessa nella sfaccettatura più grande di un rubino e si infilò di nuovo il copricapo sulla pelata. — Guardiamo in faccia la realtà, d’accordo? La cultura mondiale si sta sgretolando visibilmente. Dobbiamo affrontare subito questa sfida. Tu hai un’intelligenza creativa, e io, che sono un magnate dei media, mi occupo della diffusione di tutti i miti moderni. È questo lo scopo del nostro rapporto.
— E secondo te una notte di intimità e sesso sfrenato ci ucciderebbe? Andiamo! Dopo tutto sono la tua concubina.
— Il tempo è denaro. Ci sono le scadenze dei giornali da rispettare.
Scheherazade raccolse un tubetto scintillante di rossetto da un cesto pieno fino all’orlo che fungeva da comodino. — Il giornalismo è morto.
— Beh, ho i miei canali satellitari a cui badare. Mille e un canale, tutti diversi.
— Mille canali diversi, e niente da vedere.
— Ci sono le case di distribuzione cinematografica.
— Che sono soffocate dalla pirateria!
Scheherazade scagliò il rossetto dalla parte opposta della suite.
Il Sultano ingoiò una fetta dorata di mango. — Stai perdendo tempo! Tutti e due sappiamo che sei capace di raccontare! Le tue trame infinite sono inesauribili. Solo un’altra notte, una sola tra tante! Avanti, ti regalerò una macchina.
Scheherazade strinse gli occhi bistrati dal kajal. — Che tipo di macchina?
— Una bella auto nuova. Non come quei vecchi macinini a benzina. Una prodigiosa auto moderna. Funziona a lampi e a vino. È vero, te lo giuro. Io non racconto mai storie.
Scheherazade si raddrizzò il Wonder Bra. — Ascolta. Il giovane Mosè raggiunse l’età adulta nella dolente purezza del deserto. Poi disse al fratello Aronne, che era un grande mago: “Aronne, fratello mio, qui nel Sinai siamo solo dei poveri profughi. Ci schiacciamo le pulci e mangiamo formaggio di capra, quando potremmo vivere tutti e due da re. Perché non seguiamo il nostro destino?”.
— Sviluppo industriale avanzato? — la blandì il Sultano. — Capitale di rischio, un Prodotto Nazionale Lordo in rapida espansione?
Scheherazade si accigliò. — Sono io l’artista.
— Sto cercando di aiutarti.
— Tutte le storie classiche sono ormai abusate! Non mi resta più nulla, tranne pastiche da quattro soldi! Seguiti, remake e collage!
Il Sultano batté le mani ingioiellate per chiamare una serva.
— Beviamo qualcosa di fresco.
— Uccidimi subito, per l’amor del cielo! Non voglio più parlare, pensare, scrivere… e neppure leggere! Nessuno legge! Nessuno legge nemmeno una delle parole che scrivo, tranne le altre concubine. Quelle tue puttane stupide, grasse, presuntuose e troppo istruite! Le odio dalla prima all’ultima, quelle imbrattacarte! Siamo una banda di lesbiche pazze!
— Prendi tutto troppo sul serio. Rilassati un po’, divertiti. La narrativa leggera deve risollevare il morale del pubblico. Tu sei capace di farlo, Scheherazade, andiamo. Hai mille storie pigiate nella testolina.
— Mille e una. Ma la gente non legge più. Giocano col computer. C’è sempre il porno. — Scheherazade sferrò un calcio aggraziato alle lenzuola di seta. — Non potremmo piantarla con questa buffonata assurda e guardare un film porno? Ce ne sono tanti ammucchiati nel tuo sgabuzzino.
Il Sultano sussultò. — Il mio modello imprenditoriale non ha funzionato col porno. C’è troppa roba gratis su Internet.
Una cameriera adolescente dalle curve armoniose arrivò portando le bevande su un vassoio d’argento e una stecca di sigarette turche. Scheherazade afferrò una grossa bottiglia di arak e si accese una Camel con lo Zippo. Soffiò il fumo verso i lampadari di ottone che pendevano dal soffitto. — Con l’alcol e queste sigarette la mia morte sarà lenta ma certa! Qualunque destino è meglio che scrivere romanzi femminili.
— Perché devi essere così dura con te stessa? Hai un dono! Le concubine adorano leggere storie ottimiste di concubine che adorano fare le concubine! Diamo alle consumatrici quello che vogliono! Vogliono romanzi d’amore che parlino anche di shopping. L’economia cresce ogni volta che le concubine afflitte da pene d’amore escono a comprarsi le scarpe.
Gli occhi socchiusi di Scheherazade gli lanciarono uno sguardo feroce. — Sei tu la causa di tutto. È tutta colpa tua. Tu e i tuoi schifosi blockbuster capitalisti.
— Dimmi qualcos’altro su Mosè — la incitò il Sultano. — La Bibbia è rimasta in cima alla lista dei best seller per secoli.
Scheherazade aspirò una boccata crepitante dalla sigaretta. — Mosè e il fratello allevarono una mandria muggente di vitelli d’oro. Purtroppo il mercato della carne di manzo era in declino. Perciò tra il popolo crebbe il malcontento; erano sconcertati e depressi. Andarono da Aronne e gli chiesero di creare per loro un nuovo idolo.
— Splendido — disse il Sultano. — Continua.
— Così il grande mago maledisse tutti i malcontenti. I blasfemi furono ridotti in cenere come da un fulmine a ciel sereno. Nessuno avrebbe più messo in dubbio lo status quo. Missione compiuta.
— E come fece il grande mago a ottenere questo risultato?
— Usò bombe laser e robot volanti.
— Quelli sembrano davvero opera di magia.
— I robot non sanno leggere romanzi — grugnì Scheherazade. — Non si può vendere la cultura a un robot. E per stanotte basta con le storie.
— No, no, il tuo racconto è meraviglioso. Ne voglio ancora, mi appassiona. Potrei continuare ad ascoltarti per anni.
Scheherazade fece il broncio. — È solo un mucchio di bugie tendenziose! Un ammasso di fatti distorti, un imbroglio, un enorme disastro! — Si prese la testa tra le mani. — Non ce la faccio!
Il Sultano si alzò, riluttante. — Se me ne vado, all’alba cer-cherai di ucciderti?
— Voglio restare sola.
— Non ti impiccherai col tubo della flebo?
— Va’ a fare qualcosa di regale! Torna da me domani sera.
La notte successiva, una delle centinaia di notti di Scheherazade, il Sultano si portò dietro una squadra di servitrici. Erano cameriere e infermiere filippine, energiche e professionali, addestrate alla sorveglianza degli aspiranti suicidi. Il Sultano accarezzò la manica del pigiama a fiori di Scheherazade.
— Ti trasferiremo da questo attico in un alloggio segreto e sicuro.
— Non mi sento affatto più allegra. Ho appena esaurito le bugie.
Il Sultano si massaggiò la fronte sotto l’orlo del turbante.
Scheherazade si alzò a sedere sul letto. — Di nuovo il prezzo del petrolio?
— Sì. Il mercato è così instabile che le fluttuazioni mi danneggiano, sia che giochi al rialzo, sia al ribasso.
Una delle infermiere del sultano strappò via la flebo dal braccio di Scheherazade e le assestò una rapida manata sul sedere. — Esci da quel letto, puttana!
— Parli l’arabo classico? — le domandò Scheherazade. Afferrò un cuscino di broccato e si strofinò il fianco avvolto nella seta. — Te la do io l’imprecazione poetica che meriti!
— Niente battibecchi da harem! — sbraitò il Sultano. — Scheherazade, ti devi alzare. Siamo in fase di ridimen-sionamento.
Scheherazade si sfregò il mascara dalle ciglia. — È pronta la mia macchina nuova?
Il Sultano alzò le spalle. — Quale macchina?
Scheherazade saltò giù dal letto e sedette in fretta sul tappeto. — Venite qui, tutti intorno a me! Vi racconterò una storia bellissima, un classico. Aladino e i quaranta ladroni.
Le infermiere si affrettarono a preparare un fagotto con gli oggetti personali di Scheherazade. Il Sultano guardava con aria sognante fuori dalla finestra, attraverso una fessura tra i tendaggi di velluto dorato.
— C’era una volta un ragazzo povero che si chiamava Aladino. Era enorme, grasso, una specie di smanettone. Aveva gli occhi troppo vicini. Un giorno un mago portò Aladino sotto terra e gli mostrò una bella lampada. Aladino la strofinò e ne uscì un genietto in un piccolo sbuffo di fumo. “Ascolto e obbedisco al padrone della lampada” disse il genio, tossendo fin quasi a scoppiare. “Qual è il tuo desiderio?”
“‘Sono povero e nudo’ rispose Aladino. ‘Portami vesti di lana, cotone e lino.’ E così il genio creò un opificio a vapore. Nella lontana India gli artigiani morirono di fame a migliaia. Aladino indossò gli abiti nuovi prodotti dalla sua industria e strofinò ancora la lampada. Il genio ricomparve. Era molto più grande, e il fumo era più denso, cupo, nero, e puzzava di polvere di carbone. ‘Ora che sono vestito come si deve, è importante consolidare la mia posizione’ disse Aladino. ‘Dammi delle cannoniere!’
“Il genio evocò una possente flotta di corazzate a vapore, di cui Aladino si servì per spaventare gli indigeni arretrati.”
Le cameriere filippine saccheggiarono e depredarono con metodo la suite. Dedicavano a Scheherazade la stessa attenzione che ai vasi di felci.
Il Sultano si avvicinò lentamente all’unica zona di tappeto rimasta, su cui sedeva Scheherazade. — Stavi per caso recitando qualcosa un attimo fa?
— Ascoltatemi! Il primo dei Quaranta Ladroni fece la sua comparsa nella storia. Si presentò sotto mentite spoglie. Dopo essersi guadagnato la fiducia di quel credulone di Aladino, il Ladrone gli disse: “In cambio della lampada ti darò qualcosa che il genio non potrà mai darti. E se non sarai soddisfatto dello scambio, te la restituirò”.
Il Sultano si accovacciò a gambe incrociate sul tappeto.
— Era una proposta d’affari.
Scheherazade annuì. — Aladino era tentato da quell’offerta entusiasmante. “Come fai a sapere cosa può darmi la lampada?” chiese al Ladrone.
“‘Lo so perché a differenza di te, giovane padrone della lampada, io sono un poeta. Quello di noi poeti è il secondo dei mestieri più antichi del mondo. I poeti sanno tutto, desiderano qualunque cosa e non hanno bisogno di nulla. Ecco perché gli dei ci favoriscono e le donne ci ascoltano.’
“Aladino non era convinto da quelle frasi suggestive.
“‘In cambio della lampada’ gli disse il Ladrone ‘ti darò l’amore delle donne. Aladino… giovane padrone vergine, presto la tua fame d’amore ti ucciderà, se non ti abbandoni al desiderio…’
“Aladino credette subito alle parole del Ladrone. E così…”
— No, no, no — la interruppe il Sultano. — Niente storie d’amore, stasera. E basta con il porno, per cortesia, siamo musulmani. Non posso pubblicare niente di scabroso. Lascia perdere questa roba. Certo, le storie d’amore vendono, vendono da matti perfino in Libano. Ma poi i conti non tornano mai! Mi tocca pagare milioni per l’opzione di un film sulle torbide vicende di amanti vampiri adolescenti! Preti segretamente omosessuali… Predicatori televisivi arrapati, orde innumerevoli di gay dal cuore di burro…
In preda a un’improvvisa frustrazione, Scheherazade batté i talloni nudi sul tappeto. — Come osi! Che ne sai tu dei gay? L’amore è il sentimento più prezioso di un’umanità emancipata! Emozioni pure, tenere, devote, introvabili dentro il tuo harem! A eccezione della solidarietà di sesso tra noi donne. Dio, ho una tal voglia di ammazzarmi subito! Perché so benissimo quanto siano cupe le nostre prospettive. Noi donne oppresse, noi devote lettrici, come siamo misconosciute! Come siamo umiliate, emarginate ed escluse, noi intellettuali, noi femministe, noi scrittrici, noi intellighenzia, noi attiviste generose e pronte al sacrificio!
Scheherazade morse la nappa all’angolo del tappeto, e si rotolò come un derviscio sul pavimento marmoreo dell’attico.
— Va bene — si placò il Sultano. — Va’ avanti con la storia. Esplora tutte le perversioni che ti pare. Non riuscirai a sconvolgermi. Ho pubblicato Slavoj Zizek.
Ma Scheherazade aveva perso ogni controllo di sé. Le infermiere le balzarono addosso brandendo asciugamani bagnati e la trascinarono via, tra i rumori dei conati di vomito.
— L’amore è ineffabile — sospirò il Sultano, e si alzò dal tappeto per far visita al bagno.
Uomini con occhiali da sole, giubbotto antiproiettile e mitragliette di plastica bighellonavano accanto ai metal detector.
Scheherazade fissava cupamente un’alta insegna metallica che vietava di fumare in cinque alfabeti e diciassette lingue diverse. — Perché siamo bloccati qui nella sala d’aspetto dell’ufficio Immigrazione?
— Gli immigrati stanno lasciando la nostra città dorata — rispose il Sultano. — Abbandonano le belle macchine che ho comprato per loro. Perciò sono dovuto venire in questo ufficio per rientrarne in possesso.
— E non possono farlo i tuoi responsabili commerciali al posto tuo? — chiese Scheherazade.
— L’immigrazione è una faccenda molto tecnica — rispose il Sultano. — Ecco perché gli stranieri sfuggono ai propri debiti e abbandonano le auto nel nostro aeroporto. La globalizzazione ha i suoi inconvenienti. Si può spostare la forza lavoro, oppure le ricchezze di Aladino. Ma spostare sia la gente sia le ricchezze è fonte di grave preoccupazione per i nostri funzionari dell’Immigrazione.
Scheherazade parlò con voce flebile. — Ma perché io sono bloccata qui dentro?
— Non volevi una macchina nuova?
Scheherazade spostò lo sguardo oltre le dita dei piedi avvolte nelle babbucce, verso il pavimento tetro e graffiato dell’ufficio Immigrazione. Il Sultano era impegnato a compilare un modulo cartaceo in triplice copia, e stringeva goffamente una stilografica dorata. — Una storia ci aiuterebbe a passare il tempo.
Scheherazade si sforzò di accomodarsi meglio sul seggiolino di plastica da quattro soldi. — Ti stavo raccontando quella di Mosè?
— No, Aladino. La lampada. Grandi ricchezze.
— Ma sì, certo! — Scheherazade si schiarì la gola.
— Il Ladrone si tolse di tasca un aggeggio minuscolo e scintillante e lo mostrò ad Aladino. “Ti darò una nuova magia digitale, se in cambio mi consegnerai la tua lampada analogica.”
“‘E in cosa consiste questa nuova meraviglia?’ esclamò avido Aladino, perché con la vecchia lampada in suo possesso aveva già il mondo intero nelle sue mani. ‘Con questo apparecchio in tasca, troverai rapidamente l’amore. Ma sta” attento, perché se te ne separi, smetterai subito di amare chiunque.’
“‘E se un ladro me lo ruba?’ chiese Aladino.
“‘Anch’io sono un ladro’ confessò il Ladrone. ‘Avevo in mente di rubarti la lampada per scrivere le mie poesie proibite. Devo fare le ore piccole per comporre, perché è l’unico tempo libero che mi rimane dalle mie numerose occupazioni ladresche. Sono un poeta di grande talento, con un forte senso dell’ironia, ma sono stato costretto a diventare un ladro per vendicare la Musa in una società di imbecilli e filistei.’”
— Un ottimo colpo di scena — disse il Sultano, strofinandosi le guance barbute. Come i poveretti in preda al jet lag che infestavano l’ufficio Immigrazione, anche lui sembrava reduce da una notte insonne, e bisognoso di una buona doccia.
— Mi è venuto in mente all’improvviso — disse Scheherazade. — C’è un che di molto moderno e appropriato nella loro situazione.
— Allora? Aladino dà al Ladrone la Lampada della Poesia in cambio di un gadget tecnologico?
— Non so cos’abbia in mano il Ladrone — rispose Scheherazade. — Ho una formazione classica e letteraria, e su certe cose sono un po’ indietro.
— Perché non sai niente di tecnologia?
— Mi intendo solo di storie! Ai fini della mia storia il Ladrone deve possedere un oggetto fantastico, incredibile, iper tecnologico, rivoluzionario, quel che è… speravo che tu potessi descriverlo per me.
— Chiavi — rispose il Sultano, con aria consapevole. — Le chiavi di un attico. Dietro le porte dell’Hotel dell’Amore, un attico intero pieno di bionde disponibili. Naturalmente Aladino accetterebbe una simile offerta, perché quello è il Paradiso. Chiunque mollerebbe una pidocchiosa lampada di rame in cambio del Paradiso.
Il numero del Sultano fu annunciato all’altoparlante, e lui svanì nelle viscere dell’ufficio Immigrazione.
Quando svegliò Scheherazade con uno scrollone, aveva in mano un mazzo di chiavi. — C’è una limousine che ci aspetta — disse. — Non perdere queste chiavi. Per un po’ dormiremo tutti e due lì dentro.
— Perché non possiamo tornare sulla cima scintillante del grattacielo più alto del mondo?
Il Sultano scosse silenziosamente la testa. — Non sarebbe una buona strategia.
Scheherazade abbassò la voce. — Gli devi un sacco di rate del mutuo?
— È ancora peggio di così — rispose il Sultano. — Il mondo deve a se stesso più soldi in mutui di quelli che sarà mai in grado di pagare, anche con cento genii della lampada.
— Stiamo scappando dai nostri guai, Sultano? Dove possiamo rifugiarci per sfuggire a una crisi mondiale?
Il Sultano le porse un telefono cellulare tempestato di cristalli Swarowski. — Diciamo che per un po’ dovremmo cercare di proteggere la nostra libertà di movimento.
Affamato di energia elettrica, il telefono emise un bip lamentoso.
— Adesso che sei sveglia, potresti raccontarmi una storia mentre ti faccio da autista — disse il Sultano.
— Ti ho mai detto che ho una sorella?
— Sì, ho sentito parlare di Dinarzad all’ufficio Immigrazione — rispose il Sultano. — A quanto pare la tua sorellina minore si è introdotta illegalmente nel paese.
— Abbiamo fatto del nostro meglio per compilare quei moduli — protestò debolmente Scheherazade.
— Non avreste dovuto usare il mio nome — rispose il Sultano.
— Mia sorella Dinarzad è una persona molto dolce e meritevole — disse Scheherazade. — Non possiede la mia dote per le infinite narrazioni orali. Ma è un fulmine al centralino delle chiamate internazionali.
— Tutti gli speculatori immobiliari hanno abusato del buon nome della mia famiglia — si lamentò il Sultano, imboccando una rampa d’autostrada illuminata da lampade fotoelettriche che attraversava le piattaforme di carico deserte. — Il nostro buon nome e la nostra credibilità erano tutto ciò che avevamo da offrire al mondo. È stato così che abbiamo fatto comparire tanti architetti importanti dal nulla.
— Ora ti racconterò una storia vera — disse Scheherazade.
Il Sultano controllò l’indicatore oscillante del livello del carburante della limousine.
— Mi sembra un’ottima idea.
— Circa trent’anni fa, in una regione di deserti e montagne, viveva una famiglia numerosa, povera ma onesta. Pregavano cinque volte al giorno e dividevano la loro magra razione di riso e lenticchie. Il padre era andato a servizio nel paese confinante, e mandava a casa denaro appena sufficiente per impedire alla famiglia di morire di fame. Manteneva quattro figli e due figlie.
“I ragazzi erano coraggiosi e gran lavoratori, da veri uomini del deserto. Ma le ragazze erano strane. Erano molto belle, specialmente la minore, e molto intelligenti, specialmente la maggiore, ma entrambe si interessavano a cose che le fanciulle non dovrebbero capire: l’arte, i libri, la politica e la giustizia. La madre era una donna semplice, ed era molto preoccupata per le figlie. Come avrebbero fatto a trovare marito? Sapevano a malapena cucinare o lavorare a maglia. Non c’erano segreti in quella comunità del deserto. Bisognava darle in moglie a qualche straniero che non si curasse del fatto che erano così istruite.
“Un giorno la figlia minore, che era coraggiosa ma ignorante delle cose del mondo, andò al mercato senza essere accompagnata dai fratelli. Tornò con il velo lacerato e i vestiti pieni di fango. Teneva in mano la collana strappata.
“Per giorni interi la ragazza affranta non pronunciò parola. Poi Dinarzad indossò gli abiti dei fratelli e salì di nascosto su un treno diretto in città. Da allora in poi nessuno ne ebbe più notizia. Aveva diciassette anni.
“La famiglia sostenne che l’avevano rapita per chiedere un riscatto. In seguito dissero che era morta. Alla fine finsero che non fosse mai esistita. Quelle erano le regole per una donna caduta in disgrazia. Ogni manifestazione di lutto era proibita. Dinarzad non era mai nata, perciò non c’era nessuno per cui piangere.”
— E da allora in poi vissero tutti felici e contenti — disse il Sultano. — Fine.
Scheherazade tacque.
— Quale morale stavi cercando di trasmettere? — chiese il Sultano.
— Io e la mia cara sorella ci siamo perse di vista per molti anni.
— Nessuna di voi due aveva mai sentito parlare della posta elettronica?
— Dinarzad disapprovava la mia retta esistenza.
— Sei una concubina decadente! Cosa c’è di “retto” in questo?
— Forse Dinarzad voleva solo proteggermi. O proteggere se stessa. O te, Sultano.
— Non mi piace affatto la tua storia vera.
— Posso raccontartene altre. Dinarzad conosce migliaia di storie vere, come tutte le altre donne del suo gruppo. Sono militanti.
— E cosa fanno? Si contrabbandano a vicenda? Un giro di prostituzione?
— Oh, razza di imbecille! Dinarzad fa quello che è necessario! Dopo l’inferno che abbiamo passato, cosa ti aspetti da noi? Che cuciniamo, lavoriamo a maglia, mettiamo al mondo figli e chiacchieriamo del più e del meno mentre le ragazze vengono violentate, torturate e uccise? Scompaiono dalla famiglia, dalla storia, senza mai trovare una voce?
— Se Dinarzad è tua sorella, di certo qualcuno avrà ascoltato le sue lamentele.
— Hai mai sentito parlare di Taslima Nasreen?
Il Sultano rallentò.— Certo. Il nome del dottor Nasreen mi suona familiare. Le voci su una fatwa circolano sempre.
— Taslima Nasreen ha scritto la verità.
— Taslima è in esilio in Svezia, giusto?
Scheherazade annuì. — Credo di sì.
— È lì che devo inviarle il rendiconto dei diritti d’autore — disse il Sultano. — Taslima ha rapporti d’affari con la sede del PEN club in Scandinavia.
— Hai pubblicato Taslima Nasreen?
— Qualcuno doveva pur dare alle stampe la sua storia. Le donne comprano i suoi libri in tutto il mondo.
Scheherazade si sporse dal sedile profumato della limousine. — Taslima non è esattamente un’artista come me, sai.
— A Taslima non manca il pubblico. Compare in televisione in tutta l’India.
— Sei ingiusto nei miei confronti.
— Certo, non è Salman Rushdie. Lui sì che è un grande scrittore. Hai mai visto la sua quarta moglie? La top model che è anche una chef? — Il Sultano sospirò. — Salman Rushdie mi fa proprio sentire un bifolco.
— Oh — sospirò Scheherazade, abbassando il finestrino della limousine e facendosi vento alle guance accaldate. — Uno spregevole editore come te, cosa mai potrà saperne degli scrittori? E comunque Rushdie non ha fatto altro che peggiorare dopo I figli della mezzanotte. Tranne Furia. Sul mercato è stato un flop, ma era un grande libro. Ah, e anche L’incantatrice di Firenze. Non riuscivo a smettere di leggerlo.
Il Sultano annuì. — Le concubine vanno pazze per i libri con la parola “incantatrice” nel titolo.
— La letteratura è morta! I libri sono morti. La stampa è morta. L’umanità è condannata! Dovremmo suicidarci tutti. Tu per primo.
Il telefono del Sultano squillò con una suoneria da Bollywood. Lui ascoltò in silenzio, poi accostò l’auto. Uscirono sull’asfalto arroventato dal sole di un parcheggio multipiano.
Erano le due del mattino. Il Sultano e Scheherazade si erano fermati lungo la strada a un chiosco aperto tutta la notte che vendeva falafel. Si erano ingozzati avidamente di kebab di montone e stavano tracannando aranciata Fanta.
Il Sultano ruttò. — Sì, lo ammetto. Ho pubblicato Anna Politkovskaja. Non potevo lasciare lì una storia come quella, morta sul ciglio della strada.
— Sei un ipocrita! L’hai pubblicata solo dopo che i terroristi l’hanno uccisa!
— I martiri rendono molto di più dei giornalisti vivi. E poi Anna sapeva tutto dei terroristi.
— Anna non è mai stata una di loro! Era una dissidente, una giornalista, un’attivista, una femminista, una democratica e un simbolo per tutto il mondo.
— Il che vuol dire parecchie storie.
— Anna conosceva migliaia di storie. Molte più di quelle che le avrebbero mai permesso di raccontare.
Scheherazade ripulì una macchia sul bancone di formica con un sottile tovagliolo di carta. — Una volta — disse — in una terra di guerrieri scuri oppressi da padroni banchi che erano a loro volta guerrieri, viveva una bella ragazza bionda, dagli occhi azzurri. Apparteneva alla classe dei guerrieri oppressori, ma si innamorò di uno dei guerrieri oppressi, e lo sposò. Lui la amava moltissimo, e lei lo ricambiava con tutto il cuore. Nacque loro una bambina. Avevano una casa modesta tra i boschi, e coltivavano un pezzetto di terra.
“Un giorno il marito scomparve senza lasciare traccia. La madre della ragazza, che aveva anche lei i capelli biondi e gli occhi azzurri, era preoccupata per la figlia. Quando la figlia ebbe anche lei una figlia, si preoccupò il doppio. Quando il marito scomparve la nonna si recò presso la loro casa modesta per aiutare la figlia. Parlavano poco. Ben preso la figlia diede alla luce un maschietto, un bimbo dagli occhi scuri, proprio come il padre scomparso.
“Madre e figlia non si dissero nulla, eppure in qualche modo entrambe giunsero a credere che la giustizia sarebbe arrivata, sarebbe comparsa misteriosamente, proprio come era scomparso il marito.
“Un giorno arrivarono gli uomini scuri, armati di fucili; interrogarono la madre dagli occhi azzurri, la figlia, perfino la nipotina. Le donne non avevano nulla da dire. Solo la bambina piangeva.
“Passarono alcuni mesi. Soldati in uniforme si presentarono a passo di marcia alla loro porta. Non fecero altre domande, ma portarono via la madre. La nonna li supplicò e gridò: “Dove portate mia figlia, che cos’ha fatto, vi prego lasciatela andare, deve restare con i suoi bambini!”.
“Dopo un paio di mesi dissero alla nonna: ‘Sua figlia è morta, venga a portar via il corpo’.
“La nonna andò alla stazione di polizia con i nipotini. La polizia le disse: ‘Sua figlia era una donna bomba. Era sposata a un terrorista, e si stava preparando ad autodistruggersi in mezzo a un gruppo di poliziotti. Questo avrebbe trasformato le loro mogli in vedove, e i loro figli in orfani. Perciò porti i suoi nipoti in un paese lontano. Se desiderano diventare bambini bomba, saremo costretti a prendere severe contromisure’.”
Il Sultano e Scheherazade sedevano su un sottile tappeto di nylon. Un gelido acquazzone del deserto si riversava sulla loro tenda lacera. Il pavimento era una ragnatela di spinotti e batterie solari. Sedevano a gambe incrociate, chini sui laptop, con le dita che correvano furiose sulla tastiera.
Scheherazade indossava calzoni militari e una felpa col cappuccio. Il Sultano era vestito da cantoniere. Parlava della loro situazione in tono prosaico.
— Notizie di nuovi disastri? Un’altra guerra? Un nuovo crollo finanziario? Magari un’epidemia di influenza straniera?
— Mi stavo solo chiedendo — rispose Scheherazade. — Abbiamo fatto la cosa giusta, fuggendo da tutto ciò che conoscevamo? La maggior parte della gente non è riuscita a lasciare il paese. — Scheherazade chinò la testa sopra lo schermo. Un ricciolo biondo le sfuggì dal berretto nero di lana.
— Di certo avevamo delle buone ragioni. Siamo fortunati ad avere questa bella tenda comoda in un campo profughi.
— Morire non mi farà mai paura — disse Scheherazade — ma ora sento di non essere più così impaziente di andarmene. Oggi la vera sfida mi sembra aiutare gli altri a sopravvivere. Non ciondolo più in giro con un pigiama stravagante addosso. Ora mi avventuro fuori, alla luce del sole. Mi ami ancora?
— Il mondo sta cambiando — rifletté il Sultano.
— Ti comporti come se non ci fosse successo niente.
— È così che bisogna fare — rispose il Sultano. — Ricchezza e povertà sono due genii che vanno trattati con imparzialità.
— Riconquisteremo mai la magnificenza, la ricchezza e il potere che avevamo prima dell’inizio dei nostri guai?
Il Sultano accarezzò il suo fedele laptop. — A giudicare da quel che vedo qui? No, non nel corso delle nostre vite.
— Ho abbandonato la letteratura — disse Scheherazade. — Non ti dico che sollievo incredibile si provi a essere liberi dalla prigione mentale di quelle pallide, vischiose fantasie. Non sono più una prigioniera, costretta ad alimentare una macchina dei sogni! Questo mondo è pieno di donne vive, che respirano, e le cui sofferenze sono rimaste inascoltate per secoli. Da oggi in poi scriverò solo per dare una testimonianza oggettiva! Non venderò mai più bugie a buon mercato per nascondere la verità.
Ripulì dalla polvere lo schermo del computer per controllare il livello di carica della batteria. — Qui dentro ci sono abbastanza tribolazioni da tenere occupate mille Scheherazade per un milione di notti.
— Da parte mia — rifletté il Sultano, grattandosi la barba incolta — ho scoperto che tutte le mie certezze passate si sono dissolte come chimere. Che cos’era la finanza? Che cos’era il profitto, che cos’era un investimento solido? Sono mai esistite queste cose? I genii della nostra prosperità sono sempre stati bolle di sapone, puri fantasmi, nubi tossiche di fumo magico?
— Ma certo — rispose Scheherazade. — Chiunque non fosse ricco lo sapeva già.
— Ma quale ordine può imporsi in un mondo di bolle e fumo? Faccio le stesse domande a tutti i potenti della Terra, ed ecco, vedo che non sanno darmi risposte chiare, proprio come il più povero di noi. I padroni del mondo devono abbandonare la loro misera ostentazione di certezze concrete. Dobbiamo immergerci tutti nelle acque risanatrici della speranza, del sogno, del mito… della narrazione! Non sarò più un despota; d’ora in poi il mio unico desiderio sarà quello di mettermi al servizio del pubblico.
— Ma abbiamo ancora un pubblico? — chiese Scheherazade. — Anche il pubblico è un fantasma?
Il Sultano ascoltò, si accarezzò il mento e non disse nulla. La notte innumere sfociò nel canto della sirena.
Posted in racconti, Urania Collana
giugno 24th, 2010 at 11:00
Intrigante.
Forse vi invierò qualcosa anch’io, non so se a un livello così aulico e sublime. 😉
Che Mina Argento viva un’altra notte e continui a scrivere.
giugno 25th, 2010 at 15:20
Questo commento non c’entra niente con quello di sopra, ma volevo sapere perché una collana ricca di buoni libri come Urania non pubblica i libri di Ian McDonald, eppure ha vinto premi di gran prestigio e i suoi romanzi si basano su argomenti molto interessanti. Grazie per una vostra eventuale e celere risposta
novembre 18th, 2010 at 20:27
L’ho riletto oggi, ed in effetti….Mi appare come un racconto da “finis Austriae”. Specialmente quando si legge : — Mi stavo solo chiedendo — rispose Scheherazade. — Abbiamo fatto la cosa giusta, fuggendo da tutto ciò che conoscevamo? …. e poi ancora :— ho scoperto che tutte le mie certezze passate si sono dissolte come chimere. –
Forse è più un “finis Cultura Occidentale”, ed allora ecco un bel confronto p.v.
EUROPA (piccola penisola dell’Asia)
versus
CHINA (Impero di mezzo).
maggio 31st, 2017 at 10:32
Me lo sono stampato, perché leggere i caratteri così piccoli sullo schermo è una vera tortura!
É un racconto delizioso per il perfetto equilibrio di poetica e ironia. Credo di aver colto poco dei tanti rimandi al contesto specifico dell’editoria.
Complimenti.