Il grande planetario di Jack Vance
Un profilo biobibliografico del grande Jack Vance, a cura di Giuseppe Lippi.
Jack Vance (ma il suo nome completo è John Holbrook Vance, nato nel 1916 e laureato all’Università di California) ha scritto gialli, fantasy e SF, ma anche all’interno del genere che qui ci interessa da vicino ha toccato una gamma straordinariamente ricca di sfumature, conservando sempre una forte personalità e piegandosi di rado alle pure e semplici esigenze di mercato. La sua fortuna è anche una questione generazionale: fino alla metà degli anni Settanta la fantascienza non rappresentava un big business, ma alimentava un settore relativamente prospero dell’editoria popolare americana. Per questa ragione gli editori e i loro curatori lasciavano all’autore carta bianca o quasi, scoraggiandone al tempo stesso l’autoindulgenza (che comunque sarebbe stata inconcepibile). I principali tabù consistevano nel numero di pagine, che il buon gusto voleva non superassero le duecento, in ovvie restrizioni sui temi sessuali – che tuttavia venivano brillantemente aggirate, vedi per tutti il caso Farmer – e in altre faccende minori legate ai codici di un’industria artigianale, ma non per questo meno organizzata.
Come nel caso del cinema e di tutte le altre forme di intrattenimento americane, è difficile fare i conti senza l’industria: ma questo, alla lunga, ha anche i suoi effetti positivi. Vance è un creatore originale che si è affermato su un mercato relativamente modesto quando egli ha mosso i suoi primi passi da scrittore (e cioè negli anni Quaranta), ma che alla fine lo ha accolto come uno dei più amati e prolifici autori del genere.
La sua carriera comincia nel 1945, con alcuni racconti pubblicati sulle riviste di allora, pulp come “Thrilling Wonder Stories”. Nel 1950 esce il suo primo libro, una raccolta di sei storie inedite e legate da un comune filo conduttore, quello della Terra nel lontano futuro. Il titolo della raccolta è The Dying Earth e sotto un velo di fantascienza remota, visionaria, nasconde uno dei capolavori della narrativa fantastica americana. Reminiscente delle storie di Zothique scritte negli anni Trenta da Clark Ashton Smith, ma senz’altro originale, il ciclo della Terra Morente (pubblicato in Italia da Fanucci col titolo Crepuscolo di un mondo) rimane uno dei capisaldi della science-fantasy. Il ciclo verrà continuato nel 1966 con un’altra raccolta, The Eyes of the Overworld, che compendia le avventure di Cugel l’astuto e che nell’edizione italiana è data accanto al testo originario. (Altri autori, come Michael Shea, hanno ripreso e proseguito autonomamente le avventure di Cugel con la benevola autorizzazione di Jack Vance.)
Scelta coraggiosa, quella di Vance: in anni in cui la fantasy come categoria commerciale non esisteva, e solo piccoli editori specializzati si azzardavano a pubblicarne di quando in quando, mettere alla prova la propria reputazione con una saga crepuscolare come quella della Terra Morente rivela una personalità forte, di autore che sa in che direzione muoversi e cosa gli preme dire. Vance, insomma, mostra di aver assorbito la tradizione dello scientific romance popolare che in America va da Merritt a Burroughs, passa per Catherine Moore ed Henry Kuttner e viene sapientemente aggiornata da Leigh Brackett: ma non è solo un colorito escapista, e certo l’anatema lanciato contro Burroughs, “l’autore che insegna a non pensare”, non potrebbe mai essergli applicato. Vance è uno scrittore piuttosto sofisticato sia per quanto riguarda le scelte narrative e di stile sia nell’organizzazione della materia, cioè nella struttura dei suoi racconti. Affascinato dalle differenze tra civiltà remote e i relativi codici d’espressione o di comportamento, spesso costruisce la propria fantascienza sui temi del linguaggio e della comunicazione. Così è, per esempio, in Big Planet del 1952 (noto in Italia come L’Odissea di Glystra), romanzo che può essere considerato la fucina del futuro ciclo di Tschai e che descrive in profondità un gigantesco mondo di tipo terrestre dove coesistono culture molto diverse e complesse; così The Last Castle (L’ultimo castello), vincitore del premio Hugo 1967 come miglior romanzo breve, dove l’antica cultura giapponese diventa il modello per una società feudale del futuro descritta nei minimi dettagli; così, ancora, The Blue World (Pianeta d’acqua, 1966) e altri romanzi dello stesso periodo.
Come osserva il critico inglese Malcom J. Edwards in The Encyclopedia of Science Fiction: “Man mano che i mondi creati da Jack Vance si fanno più ricchi e complessi, il suo stile si adegua. Sempre tendente al barocco, com’era già evidente ai tempi del romanzo breve I padroni dei draghi, vincitore di un Hugo nel 1964, la sua scrittura evolve in una prosa inconfondibile, molto elaborata, a volte persino pedante, con un uso efficace e intelligente di parole insolite e, al tempo stesso, un tono narrativo che rimane distaccato e ironico. Il talento di Vance per inventare nomi evocativi di persona e luogo (un misto di termini esotici arbitrari e di parole comuni dal ‘suono’ appropriato), contribuisce all’insolita atmosfera delle sue opere. Tre romanzi simili per struttura dimostrano al meglio queste capacità: The Blue World (Pianeta d’acqua), Emphyrio (Crociata spaziale, 1969) e The Anome (Il mondo di Durdane, 1973). In tutti e tre si seguono le avventure di un ragazzo nato e cresciuto in una società statica e stratificata con cui egli entra in conflitto finché è indotto alla rivolta. In ciascun caso il mondo immaginario è costruito con estrema accuratezza, e tanto Crociata spaziale che Il mondo di Durdane offrono, a tratti, una pungente satira della religione”.
Dunque Vance non è soltanto un autore d’avventure, di rutilanti e colorite saghe: certo è anche questo, ma da lui è legittimo aspettarsi sempre qualcosa in più. Se Edgar Rice Burroughs avesse fatto in tempo a leggerlo lo avrebbe senz’altro ammirato; e Abraham Merritt, che l’avrebbe appoggiato incondizionatamente, non avrebbe potuto non invidiargli una duttilità intellettuale che contraddistingue la science fantasy di Vance, facendone un caso pressoché unico all’interno del genere. Clark Ashton Smith – che in teoria ebbe tutto il tempo di leggerne almeno le prime opere, essendo scomparso nel 1961 – avrebbe sorriso tenendo in grembo Crepuscolo di un mondo.
Poiché, come scrive ancora Edwards: “L’interesse principale dei racconti di Vance volge verso un’esplorazione sempre più ambiziosa del tema della vita su altri mondi. In genere si tratta di vita umana, talora adattata fisicamente all’ambiente ma sempre adattata culturalmente; lo scopo finale è quello di creare un mondo fantastico. Questi mondi possono essere nominalmente legati alla Terra grazie ai soliti cliché della fantascienza, ma la cosa ha scarsa importanza: si tratta comunque di luoghi al di fuori dello spazio e del tempo, ambienti esotici in cui l’umanità ha creato nuovi codici e istituzioni e vive in base a essi”. Così non è raro che l’eroe di Vance sia uno straniero, un uomo venuto da lontano il quale deve farsi strada in quel vero e proprio labirinto culturale che è il mondo che gli sta davanti per trovarne il senso; molto spesso il puzzle intellettuale non è fine a se stesso, poiché ne va della vita. Un esempio efficace è il ciclo del pianeta Tschai, uno dei più avventurosi e movimentati di Vance, composto di quattro romanzi: Naufragio sul pianeta Tschai (City of the Chasch, 1968), Le insidie di Tschai (Servants of the Wankh, 1969), I tesori di Tschai (The Dirdir, 1969) e Fuga da Tschai (The Pnume, 1970).
Se con il ciclo di Tschai siamo al trionfo della fantascienza di avventure, nulla di meno si può dire della saga dei Principi Demoni, cominciata nel 1964 con The Star King, continuata con The Killing Machine, The Palace of Love del 1967, The Face (1979) e completata con The Book of Dreams (1981). I cinque romanzi sono stati ripubblicati nei “Classici Urania” nel 2001-2002. A parte il già ricordato ciclo di Durdane, ci limiteremo a citare altre serie popolari, come quella dell’ammasso di Alastor (a partire da Trullion: Alastor 2262, uscito nel 1973) e alcuni deliziosi romanzi come Showboat World (Il mondo degli showboat, 1975), ambientato sul Pianeta Gigante dove avevamo già visto svolgersi L’odissea di Glystra.
Negli anni Ottanta e Novanta Vance ha dedicato la maggior parte delle sue energie alla fantasy, genere che ha progressivamente acquistato importanza sul mercato. È nata così la serie di Lyonnesse (edita in Italia dalla Nord), riscrittura in chiave romanzesca di un’antica serie di leggende celtiche, mentre il ciclo di Crepuscolo di un mondo ha avuto un ulteriore seguito con Rhialto the Marvellous (Rialto il meraviglioso). Su “Urania” sono usciti i suoi romanzi più recenti, La fiamma della notte (The Night Lamp, n. 1312) e Fuga nei mondi perduti (Ports of Call, n. 1352), che segnano il ritorno alla fantascienza avventurosa, mentre nel “Millemondi” n. 45 del 2007 è apparso il seguito di Fuga nei mondi perduti, Lurulu (2004). Ma Vance è anche autore di gialli (firmati prevalentemente col nome John Holbrook) e di romanzi contemporanei. Insomma, uno dei più vivaci autori americani degli ultimi cinquant’anni in almeno tre generi. Non è poco…
G. L.
Una pagina in italiano si trova su: http://it.wikipedia.org/wiki/Jack_Vance
Molto interessante (riporta moltissime edizioni straniere), anche se fermo agli inizi del 2002, il sito The Jack Vance Archive: http://www.jackvance.com/
La bibliografia italiana completa è su: http://www.fantascienza.com/catalogo/autore.php?id=5393
Posted in Profili
luglio 12th, 2008 at 10:23
IL CICLO DELLA TERRA MORENTE è ormai qualcosa di AUTENTICAMENTE LEGGENDARIO!! Se ne parla da tempo immemore OVUNQUE, ma trovarne i libri (Fanucci) è davvero complicato o oneroso! Io ho letto Crepuscolo di un mondo (che raccoglie i primi due libri). Mi piacerebbe rivederli in nuova edizione magari assieme ai diversi seguiti: Rialtho il meraviglioso, La saga di Cugel, Simbilis ( di Shea) e – se non sbaglio – anche qualcosa del nostro Zuddas, traduttore della saga…Sono di quei super classici DAVVERO INTROVABILI che andrebbero restituiti ad ogni generazione di lettorima che invece mancano dalle librerie da oltre 30 anni! Vance, come Tolkien, porta il fantasy nella modernità, ma a differenza del grande autore inglese perpetua in un certo senso la tradizione più popolare e pulp del genere (quella che in America, come giustamente dice il buon Lippi, dai Burroughs porterà alla fine degli anni’20 alla generazione di Weird tales) che è anche, permettetemi di dirlo, la più coraggiosa, essendo un autentico laboratorio creativo in cui il fantastico mitico si ibrida con più generi, come la fantascienza e l’orrore. Ho come l’impressione che l’apertura di questo blog stia investendo un pò tutti di aria fresca e nuove idee. Curatori e lettori. E’ un bel momento questo, carico di entusiasmo che speriamo non si spenga ma che venga supportato dai fatti. Se pensare una collana regolare tutta per il fantasy può essere pretenzioso, è anche vero che le grandi saghe annuali non bastano. Servirebero degli speciali a cadenza regolare, per rileggere quanto di buono c’è stato ed è stato dimenticato. Oltre magari a qualche novità.
R.
luglio 12th, 2008 at 20:05
Gli speciali a cadenza regolare ci sono già. In essi abbiamo recentemente pubblicato KULL di Robert E. Howard, in ottobre pubblicheremo LE CRONACHE DELL’EPOCA MU di Mariangela Cerrino e in passato abbiamo pubblicato l’ampio ciclo di Paksenarrion dovuto a Elizabeth Moon.
luglio 12th, 2008 at 23:19
Si, grazie dottor Lippi, ho tutti i volumi da lei citati:)
E’ che tra noi appassionati cronici c’è fame di un sacco di cose che in Italia non si sono ancora viste o non si vedono da troppo tempo. Forse noi lettori a volte pecchiamo di ingordigia, si sa, ma solo perchè siamo affezionati a qualcosa che va persino oltre la letteratura che amiamo…Qualcosa che ha a che fare con le nostre collane preferite e il vostro lavoro. Grazie ancora! R
Ps. a beneficio mio e magari di qualcun’altro sarebbe bello se qualcuno dei nostri “grandi” rispondesse alla domanda da me posta altrove in questa sede in merito alle differenze tra i compiti dell’ editor e quelli del curatore.
luglio 13th, 2008 at 07:11
Riccardo
Non capisco chi siano questi “grandi” a cui ti riferisci.
Comunque la traduzione italiana di editor è curatore.
Ultimamente nell’editoria è diventato di moda utilizzare editor per indicare una carica con poteri dirigenziali (ovvero il direttore editoriale).
Ma sembra che usare l’inglese sia più figo, anche se il significato originale della parola è diverso.
D’altra parte molti indulgono, spesso oltre il dovuto, nell’uso di parole inglesi, a proposito ed a sproposito.
A me è stato spesso mossa l’accusa di parlare “anticato” ed in una piazza pubblica (normalmente indicata come forum) ho mandato in crisi un/a tizio/a semplicemente parlando in italiano di questioni informatiche.
Siamo diventati stranieri in patria.
luglio 14th, 2008 at 09:49
Giustissimo! Ho visto qualche anno addietro il buon Citto Maselli incazzarsi con chi tendeva ad utilizzare gratutitamente termini inglesi nei discorsi. Vabbè che dobbiamo sprovincializzarci, ma ci vorrebbe un pò di equilibrio, che cavolo. Nel master che sto frequentando l’esterofilia è di casa e a volte rimani a bocca aperta per come alcuni utilizzano la lingua.
Cmq:
1 I grandi sarebbero Lippi, Altieri, De Matteo e chi come – anche te credo – ci può “guidare” e spiegare in questa nuova Trantor che ci ha sorpreso un pò tutti;
2Quindi Altieri e Lippi farebbero in sostanza la stessa cosa? Non credo, capita spesso che il significato di un termine è uguale a quelo del termine in un altra lingua, anche se poi indicano cose diverse. Prendi per esempio il termine produttore/producer…
Grazie comunque Ernè, mozzarelle anche per te! E intanto aspettimao una spiegazione dai piani alti. R
luglio 14th, 2008 at 11:15
Riccardo
Oserei dire di no.
Altieri è il direttore editoriale di tutte le collane da edicola ed è responsabile degli indirizzi editoriali.
Lippi è il curatore di Urania e delle sorelle fantastiche.
Data l’impostazione (politiche e budget) sceglie.
Altieri è anche competente di narrativa fantastica e quindi sicuramente i due discuteranno.
Secondo me, ma sono partigiano, l’accoppiata sta funzionando benissimo. La presenza della fantascienza in edicola è aumentata moltissimo (si sono infilate fantasy ed horror, ma non possiamo andare per il sottile, anche perché quel che adesso è considerata fantasy od horror, una volta era semplicemente intesa come fantascienza e basta, ovvero “quello che pubblicava Urania”).
L’unico neo è la distribuzione (ci sarebbero anche le numerazioni a caso, ma lascxiamo perdere), vedi le lamentele di chi cerca e non trova o che non cerca perché non sapeva. Sotto questo profilo forse Altieri qualcosa potrà fare.
luglio 14th, 2008 at 11:42
Ernesto
In effetti la distribuzione sta diventando veramente Il Problema
Non è accettabile una distribuzione cosi misera in città come Firenze.
Le vendite non saranno più alte come una volta, certo però che quest’ultime non si rialzeranno, nonostante la buona qualità del pubblicato, con questa distribuzione cosi poco capillare.
luglio 14th, 2008 at 13:48
Secondo me il binomio Altieri/Lippi è una potenziale mina anti-mainstream (:) che tuttavia non esplode come potrebbe. Molte cose si stanno facendo, molte dovranno esser fatte. E come si legge da più parti non è certo un parere isolato. Ma credo anch’io che le responsabilità non siano tutte loro, figuriamoci.Uno fa quel che può poi vi sono i limiti nei quali deve agire. Bisogna dilatare questi limiti e riportare la fantascienza (inedita, speculativa) in primo piano nel nostro panorama editoriale. La presistenza e la passione di chi la segue lo merita. E la meritano tutti quelli che continuano a non capire nulla del mondo nel quale ci troviamo a vivere. La FANTASCIENZA – LA MIGLIRE SCI-FI) IN QUESTO SENSO AIUTA A CAPIRE e MOLTO!