Jacques Spitz, un profilo

ottobre 9th, 2011 by Moderatore

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La fantascienza ci ha abituato a ogni tipo di viaggio: nello spazio naturalmente, dalla vicina Luna alle più lontane galassie; nel tempo, quindi: dalle origini dell’universo al futuro più inimmaginabile; nelle dimensioni, poi: cioè nei mondi paralleli accanto al nostro in cui le cose, gli avvenimenti, la storia, i costumi sono poco o molto diversi da quelli che conosciamo; nel microcosmo e nel macrocosmo, infine: penetrando nel mondo dell’atomo rappresentato come un sistema solare in miniatura, oppure nel mondo dei microbi o solo nel corpo umano, viceversa evadendo in un mondo superiore di cui il nostro è una semplice particella.

Sembrerebbe che non ci siano altri viaggi da fare, eppure… Eppure ecco ora il viaggio nella causalità. La causalità è il rapporto che unisce la causa all’effetto; evadere da esso, trovare una “linea di fuga” che lo eviti, significherebbe veramente uscire dalla realtà ed effettuare una “escursione nella ‘cosa in sé” – il noumeno di Fichte, Schelling e Hegel che doveva essere superato e non diviso dal fenomeno secondo la filosofia kantiana -, come afferma Christian Dagerlöff dell’Istituto Pasteur di Parigi (“Medico?” “No. Inserviente di laboratorio”), il deus ex machina di questo sorprendente romanzo francese del 1945, L’oeil du Purgatoire.

Per effettuare il viaggio nella causalità, Dagerlöff alleva un “parabacillo” estratto dalla lepre siberiana sostenendo la tesi che uomini e animali non vivono lo stesso tempo: l’istinto di questi ultimi non è tale, ma soltanto una lieve anticipazione del tempo umano. La mosca, l’ape, la mucca, la lepre, vivendo un attimo prima dell’uomo riescono infatti ad anticiparne leggermente le intenzioni e le mosse. Il “parabacillo” anticipa dunque il tempo, un anticipo che cresce proporzionalmente di generazione in generazione: inserito nel nervo ottico di una persona esso permette di vedere non tanto il futuro ma “il presente invecchiato”, sempre più invecchiato man mano che il “parabacillo” prolifera, vale a dire “le cose nello stato in cui sarebbero diventate in seguito”. È, questa, “la prospettiva di una linea di fuga, sia materiale che ideale, che ci consente di sottrarci all’universo causale. Apriamo la porta della quarta dimensione! Il tempo è sconfitto!” scrive Dagerlöff all’inconsapevole cavia del suo esperimento, Jean Poldonski, uno dei tanti artisti bohémien di Montparnasse, pittore un po’ cinico e un po’ misantropo, che si arrabatta fra modelle e mercanti d’arte, senz’altro egocentrico, e che si ritrova alla fine a essere – malgré lui, e nonostante il desiderio di evasione da quel mondo che non gli dà le soddisfazioni di cui è in cerca – come un viaggiatore immobile nello scorrere della Causalità. Perché lo squattrinato pittore resta lì dov’è, nel suo studio, nella sua Parigi, non si muove in sostanza nello spazio e nel tempo, ma è invece tutto il resto intorno a lui che invecchia a velocità sempre più accelerata!

Pian piano ogni cosa diviene decrepita e muore agli occhi del protagonista, mentre nella realtà, quella toccata con mano o vista grazie a una fotografia, è a posto, normale, segue la regola della causa-effetto. Intorno al povero pittore oggetti, strumenti, automobili, case, divengono sempre più usurate, arrugginiscono, crollano, si riducono in polvere; i giorni e le stagioni accelerano; non parliamo poi degli esseri umani: l’anticipo del tempo prodotto nella sua vista dal “parabacillo di Dagerlöff” da minuti, ore, giorni, passa ad anni e decenni: prima vecchi decrepiti, poi “cadaveri ambulanti”, infine veri e propri zombie alla Romero, con la carne a brandelli, camminano per le strade, circolano nella ville lumière. Quando l’accelerazione del tempo aumenta di velocità, anche gli scheletri si sfaldano, il nulla si allarga come “un cancro divorante”, il “mondo affonda”, l’“universo reale” scompare dalla vista, appaiono le “forme” che non sono poi altro che i pensieri, i desideri, le ambizioni, che permangono anche dopo che l’uomo è materialmente scomparso. Poldonski sembra essere entrato nel “mondo delle idee” di platoniana memoria, o – se vogliamo – nella “realtà virtuale” che i computer riescono ormai a creare per noi con grande facilità.  E’ stata finalmente raggiunta la “cosa in  sé” – la forma essenziale delle cose, il noumeno – teorizzata da Kant e poi dai filosofi idealisti tedeschi.

Che cosa lo aspetta alla fine, che cosa troverà una volta che l’anticipo del tempo nei suoi occhi avrà superato i secoli, i millenni a tal punto che anche le stelle del cielo cominceranno a scomparire? Che cosa vedrà alla fine, una volta che si ritroverà steso nella sua camera d’affitto ormai impossibilitato a muoversi all’interno di quel Nulla che solo i suoi occhi vedono? Capirà allora il “senso supremo del mistero della morte”, per apprendere il quale Dagerlöff si è lanciato (e ha lanciato lui, Poldonski) in questa pazzesca avventura?

Costruire un intero romanzo su questo spunto, per originale e nuovo che sia, non era certo facile, dato che esso risulta essenzialmente “statico”. Il protagonista, così come il lettore, sono fermi: è tutto il resto che si muove intorno precipitando ineluttabilmente verso la fine del tempo: un po’ l’idea che sta nella parte centrale di un altro libro straordinario, The House on the Borderland di William Hope Hodgson (1907), in cui il protagonista, seduto al centro della sua casa, vive la visione del tempo accelerato, sino allo spegnersi del Sole e alla morte della Terra. La differenza con L’oeil du Purgatoire è non soltanto nello scenario (Parigi e la sua vita intensa), ma anche nello scopo: l’esperienza di Poldonski, infatti, si presta a innumerevoli considerazioni morali e di costume, cui l’autore non si sottrae affatto, anzi ne fa il fulcro della propria opera.

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Vedendosi circondato da agonizzanti, da morti, da scheletri, da polvere ambulante, osservando se stesso, la sua amante, i suoi amici divenuti cadaveri, il nostro artista pensa: “Vedendo le cose come saranno dopo la mia morte, esse mi appaiono come normalmente non avrei mai dovuto vederle. Effettivamente, non avrei mai dovuto vedere il mio cadavere, e invece lo vedo! Ormai osservo il mondo con l’occhio del Purgatorio, per così dire”. La “grande evasione”, come la chiama Dagerlöff, la fuga definitiva dal mondo della Causalità, potrebbe permettere alte considerazioni filosofiche sulla caducità della vita, sul fatto che vedendo come sia tutto transeunte è possibile “riportare le cose nel loro giusto valore, giudicarle meglio”, considerarle per quel che sono: effimere, per usare un termine anni fa di gran moda nel lessico italiano. Ricordati che polvere sei e polvere ritornerai, come ci ricorda la Chiesa cattolica, ma prima di essa ci ammonivano i saggi dell’antichità classica.

Non è che il povero Poldonski non ci si provi, soltanto che nel proprio egocentrismo e nella propria superficialità fa immediatamente seguire a tentativi di pensieri un po’ approfonditi altri più banali, ricadendo subito nel terra-terra, nel contingente della sua situazione alla quale è costretto man mano ad adattarsi per poter sopravvivere in quella che, come si è detto, potrebbe benissimo considerarsi una “realtà virtuale”. In effetti, così come il computer crea di fronte agli occhi di un soggetto specifico le immagini di un mondo che non esiste, ugualmente il “parabacillo”, che accelera sempre più il tempo, crea di fronte agli occhi del nostro artista – e solo di fronte a essi – un mondo che non esiste perché è quello che sarà da qui a uno, dieci, cento, mille, un milione d’anni.

Effettivamente, come egli stesso dice, il suo è soltanto “un modo di vedere più penetrante degli altri”. Ma con quali conseguenze! Intorno a lui soltanto una vera e propria “terra di morti”, secondo la famosa frase, cui è difficile adattarsi, fare l’abitudine, infine convivere (anche con se stessi, visto che lo specchio rimanda un’immagine non diversa da quella di tutti gli altri esseri umani). Figuriamoci quando poi si deve fare l’amore con quello che appare come un vecchio corpo in agonia, come un cadavere decrepito! Poldonski è, con le sue stesse parole, “un viaggiatore in marcia verso l’ignoto”: oltre la materia, oltre le idee, che cosa troverà?

A questa domanda cerca dunque di rispondere, non senza una sottile ironia, un vero e proprio humour noir tipicamente francese, non senza un ammiccamento al surrealismo, di cui fu ammiratore e seguace all’inizio della sua carriera Jacques Spitz, ingegnere consulente, scrittore, grande scettico, autore di una serie di romanzi che lo pongono, secondo la critica d’oltr’Alpe, fra i “Quattro Grandi” della letteratura d’anticipazione francese accanto a Jules Verne, J.H. Rosny e Maurice Renard. Eppure, praticamente sconosciuto in Italia se non fosse per Urania.

Destino, questo, comune anche agli altri (eccetto naturalmente Verne), che sono stati mai o pochissimo tradotti qui da noi nel periodo fra le due guerre, travolti poi, a partire dal 1952, dall’alluvione anglo-americana. A voler essere precisi, una serie di autori francesi è apparsa su Urania – all’epoca I romanzi di Urania – nel decennio 1952-1962: si trattava di space opera, abbastanza ingenue e ripetitive riprese in genere dalla collana Anticipation della casa editrice Fleuve Noir, che produssero quasi una reazione di rigetto nel pubblico degli appassionati “storici” i quali da allora in poi hanno identificato tutta la fantascienza d’oltr’Alpe con le opere dei vari Jimmy Guieu, Richard Bessière (che poi erano due autori in una sola firma), B.R. Bruss, Maurice Limat, e così via, facendo di tutta l’erba un fascio, perché, a esempio, i romanzi di Kurt Steiner o di Jean Gaston Vandel non sfiguravano affatto accanto ai grandi nomi della science fiction americana e inglese che in quel decennio “introdussero” gli italiani a questo genere letterario. Tentare, dopo di allora, di presentare uno scrittore francese (ma anche di altre nazioni che non fossero Stati Uniti e Gran Bretagna) è stato difficilissimo. Se ciò valeva per i contemporanei, figuriamoci per i classici che non fossero “Giulio Verne” (considerato peraltro solo come un “autore per ragazzi”…).

Jacques Spitz costituisce una parziale eccezione. Apparve su Urania nel 1973, quando Fruttero & Lucentini lo pescarono in occasione della sua “riscoperta” nel paese d’origine. Morto il 16 gennaio 1963 a 67 anni, Spitz aveva conosciuto una notorietà ristretta agli specialisti e la sua fama, come spesso accade, si accrebbe dopo la sua scomparsa: nel 1970 uscì presso Marabout La guerre des mouches, nel 1972 presso Laffont il volume doppio L’oeil du Purgatoire-L’expérience du docteur Mops nella collana Ailleurs et Demains-Classiques diretta da Gérard Klein, nel 1974 di nuovo presso Marabout L’homme élastique. Ora ripresentiamo ai lettori italiani il romanzo che viene considerato il suo capolavoro, in una nuova edizione rivista, reintegrata e annotata rispetto a quella del 1973 e con qualche aggiornamento rispetto a quella dei Classici del 1992. Nel frattempo i nostri lettori hanno potuto conoscere le altre tre opere che vengono considerate fra le sue migliori – Le mosche e L’uomo elastico con il titolo comune di Incubi perfetti su un’ Urania nel 2006, e Segnali dal sole nel 2009 su Urania Collezionee quindi farsi un’idea più completa di questo singolarissimo scrittore.

Ma chi era Spitz? Nato nel 1896 a Nemours, in Algeria, suo padre era un militare di carriera di origine alsaziana. Partecipò alla prima guerra mondiale, nel corso della quale morì uno dei suoi tre fratelli (degli altri due uno era ufficiale di marina, l’altro padre domenicano). Dopo brillanti studi al Politecnico di Parigi, Spitz divenne ingegnere consulente, ma, come rivela il suo amico Bernard Eschasseriaux, in appendice all’edizione 1970 de La guerre des mouches, “vi dedicava il minor tempo possibile”, in quanto la sua vera passione restava la letteratura, e le sue ambizioni “esclusivamente spirituali”. Il primo libro lo pubblicò a trent’anni influenzato dal surrealismo, l’avanguardia dell’epoca (La croisière indécise, 1926): il suo editore era – così come per tutti i suoi altri sino al 1939 – uno dei massimi francesi, Gallimard. Sotto il segno del surrealismo furono anche le altre due opere che seguirono nel 1928, La mise en plis e Le vent du monde. Personaggio solitario, alieno da ogni impegno nell’ingranaggio sociale, sedentario, scettico sino all’agnosticismo, Spitz scrisse in seguito due saggi romanzati sul tema della solitudine (Le voyage muet, 1930; Les dames de velours, 1933). Quindi, la svolta: nell’arco di dieci anni, dal 1935 al 1945, pubblicherà nove romanzi (otto editi, uno stampato ma non distribuito) che egli definirà “fantastici” non essendovi in fondo altro aggettivo per indicarli, rimanendo il termine science fiction ancora ignoto nella Francia (e nell’Europa) dell’epoca. In genere essi partono tutti da uno spunto scientifico o pseudo-scientifico per poi proseguire per la tangente dell’ironia amara e della critica di costume. In fondo, in quegli stessi anni intorno al 1935, come ricorda un altro suo amico, Claude Elsen su Fiction dell’aprile 1963 Spitz pubblicò anche uno studio sulla fisica quantistica e le sue implicazioni filosofiche: da qui forse le idee a base di alcune sue trame come quella de L’oeil.

Partecipa al secondo conflitto mondiale come capitano d’artiglieria e viene insignito dalla Legion d’Onore. Del 1946 è La forèt des sept pies e del 1956 Albine au poitrail, due romanzi autobiografici. Tra essi, nel 1947 si situa una “fantasia burlesca”, Ceci est un drame, considerato da alcuni il suo capolavoro in assoluto, e che ha per sfondo la società di un lontano futuro in cui è papa Pio 104°. Lascia ancora diversi inediti: un altro romanzo autobiografico (L’appareil ne fonctionne pas), un saggio filosofico (La Saxifrage), un diario che pare arrivi alle seimila pagine, vari racconti fantastici, due romanzi fantascientifici: Alpha du Centaure, che, secondo quanto scrive Pierre Versins nella sua Encyclopedie de l’utopie et de la science fiction (1972), venne stampato nel 1945, ma poi non distribuito e mandato al macero dopo che i tedeschi devastarono la casa editrice, e Guerre mondiale n. 3.

Spitz, scrive Henri Clouard nella sua Histoire de la lettérature française, “si divertiva con le più folli logiche del meraviglioso scientifico”, le sue erano “storie diaboliche che, nella maggior parte dei casi, viravano nel racconto voltairiano del genere alla Micromégas”. Ecco dunque sintetizzate le caratteristiche dello Spitz narratore “non mimetico”: un plot – come si direbbe oggi – di tipo parascientifico che viene portato avanti sino alle conseguenze più estreme; un’ironia amara che guarda il mondo e la società con occhio scettico, un po’ alla Voltaire, un po’ alla Swift, un po’ alla Huxley; un moralismo di fondo che, pur se coniugato con la poesia, fustiga i costumi di un’umanità di cui l’ingegnere-scrittore non si sentiva poi molto partecipe.

I suoi temi sono spesso e volentieri di tipo catastrofico, uno dei mezzi migliori per mettere in evidenza i difetti dell’umanità ponendola in situazioni tragiche, di fronte a casi-limite: L’agonie du globe del 1935, che l’anno dopo ebbe una traduzione inglese  (Save the Earth) e due anni dopo una in svedese  (När jorden rämnade) , si presenta come una cronaca della scissione del nostro pianeta in due parti, Vecchio mondo da un lato e Nuovo dall’altro, con una delle due attratte dalla Luna, corredata da disegni eseguiti in modo tale da ricordare delle foto; nel successivo Les évadés de l’an 4000 (1936), da cui tempo fa si era pensato anche di trarre un film spettacolare, descrive un’umanità del futuro costretta a nascondersi nel sottosuolo a causa delle perturbazioni solari. Il 1938 vede la pubblicazione di due dei suoi romanzi più famosi: La guerre des mouches (ristampato nel 1970, ma secondo un testo che un anonimo curatore ha grottescamente cercato di adeguare alle scoperte scientifiche e ai cambiamenti storici e geografici avvenuti nel frattempo) è il racconto – effettuato da uno degli ultimi esemplari umani conservati dai ditteri vincitori – di come le mosche, divenute intelligenti a causa di una mutazione, riescano a sopraffare l’uomo su tutto il pianeta; L’homme élastique è la storia, vista nelle sue conseguenze più assurde e ridicole, della scoperta del dottor Flohr, che riesce a dilatare o comprimere a proprio piacimento gli atomi in modo da realizzare oggetti ed esseri umani giganteschi o al contrario piccolissimi. Nel 1939 esce L’expérience du docteur Mops in cui lo scienziato del titolo riesce a invecchiare artificialmente le cellule della memoria in modo da conoscere l’avvenire; un altro scienziato ancora, ne La parcelle Z (1942) isola cellule dal corpo umano, ma l’identità dei geni nelle cellule di un organismo è talmente sensibile che il gruppo asportato, posto in certe condizioni, seguirà non solo i movimenti ma anche il destino, sino alla morte, dell’organismo principale.

Les signaux du soleil (1943), pur partendo da un’altra catastrofe ha una conclusione più ottimistica: le atmosfere di Marte e di Venere sono carenti rispettivamente di azoto e di ossigeno che viene così prelevato di volta in volta all’atmosfera della Terra che s’ignora essere abitata, il che provoca cicloni e tempeste d’inaudita potenza fino al momento in cui l’eroe del romanzo non riesce a far capire che sul pianeta vivono esseri intelligenti. Infine, è la volta di questo L’oeil du Purgatoire (1945), in cui Spitz riprende e rielabora il tema de L’expérience, ma qui, come si è già accennato, il “parabacillo” iniettato da Dagerlöff nel nervo ottico di Poldonski non provoca vere e proprie visioni del futuro come avviene nel procedimento di Mops, ma un “presente invecchiato”, anzi che invecchia sempre più e con sempre maggiore velocità. Il collegamento fra L’espérience  e L’oeil è stata colta da Brian Stableford che ha tradotto e pubblicato i due romanzi in un unico volume nel 2010 con il titolo di The Eye of Purgatory.

Lo scrittore, ricorda Claude Elsen, considerava con distacco la sua attività letteraria, e divertissement i suoi “romanzi fantastici” al punto che, in occasione di una tavola rotonda alla radio nel 1954 con Ray Bradbury e altri specialisti francesi, il suo “scetticismo beffardo”, che non raggiungeva comunque il cinismo, lasciò perplessi gli interlocutori al punto da farli reagire più di una volta ai suoi interventi. Era questo l’atteggiamento di Jacques Spitz nei confronti della società e del mondo: uomo solo (non si sposò mai), amante delle passeggiate notturne e della natura, consapevole dei valori relativi delle attività umane, profondamente modesto, le sue più grandi ambizioni, afferma Bernard Eschasseriaux, erano quelle di “crearsi un’anima con l’aiuto dei sogni che seguono qualche istante d’illusione” e di “cancellare la differenza tra la vita e la morte”.

Tentativo quest’ultimo che – a pensarci bene – Jacques Spitz espone compiutamente in questo L’oeil du Purgatoire: l’immobile “viaggio nella Causalità” dell’ignaro artista bohémien, l’immutabilità effettiva del suo corpo mentre penetra con la visione in una “realtà virtuale” sempre più accelerata e invecchiata, le modifiche che egli osserva intorno a sé e che nel vero mondo non si verificano, la disintegrazione progressiva delle cose e la fine degli esseri umani (compreso se stesso!) che gli è concesso di osservare pur se non avviene nel concreto: tutto ciò non è forse un cercare di “cancellare la differenza tra la vita e la morte”?

Gianfranco de Turris

Bibliografia di  Jacques SPITZ

A cura di Andrea Vaccaro

(I titoli dei racconti sono in tondo, fra virgolette, quelli dei romanzi e delle antologie in corsivo. Le opere sono

indicate in ordine alfabetico di titolo, senza tener conto dell’articolo)

Opere pubblicate in Italia

Le mosche (La guerre des mouches, Gallimard, Paris, 1938)

Urania n. 1510, Mondadori, 2006

L’occhio del purgatorio (L’œil du purgatoire, Chamois # 6, 1945)

Urania n. 622, Mondadori, 1973

Urania n. 987, Mondadori, 1985

Classici Urania n. 183, Mondadori, 1992

I Libri di Urania n. [3], Mondadori, 1992

Millemondi n. 39, Mondadori, 2004

Segnali dal sole (Les signaux du soleil, Jean Vigneau, Marseille, 1943)

Urania Collezione n. 073, Mondadori, 2009

L’uomo elastico (L’homme élastique, Gallimard, Paris, 1938)

Urania n. 1510, Mondadori, 2006

Opere pubblicate in Francia

L’agonie du globe, Gallimard, Paris, 1935

Albine au poitrail, Éditions Debresse, Paris, 1956

Alpha du Centaure (romanzo stampato, secondo Pierre Versin, nel 1945 e mandato al macero a causa del saccheggio compiuto dai tedeschi ai danni dell’editore; attualmente è conservato alla Bibliothèque nationale de France, NAF 28.099)

“L’an 3000″, V Magazine # 287, 11 giu. 1950

“Après l’ère atomique”, in Joyeuses apocalypses, Éditions Bragelonne, Paris, 2009

“Bataille navale atomique”, in Sel marin, l’humour dans la marine, Éditions Marine Nationale, Paris, 1946

Ceci est un drame, Éditions de la Nouvelle France, Paris, 1947

La croisière indécise, Gallimard, Paris, 1926

Les dames de velours, Gallimard, Paris, 1933

“L’énigme du V51″, V Magazine # 326 (suppl.), 7 gen. 1951

Les évadés de l’an 4000, Gallimard, Paris, 1936

L’expérience du Docteur Mops, Gallimard, Paris, 1939

La forêt des Sept-Pies, Éditions Maréchal, Liège-Bruxelles, 1946

La guerre des mouches, Gallimard, Paris, 1938

La guerre mondiale n° 3, in Joyeuses apocalypses, Éditions Bragelonne, Paris, 2009

L’homme élastique, Gallimard, Paris, 1938

“Interview d’une soucoupe volante”, in Joyeuses apocalypses, Éditions Bragelonne, Paris, 2009

La mise en plis, Éditions du Logis, 1928

“Le nez de Cléopâtre”, in Joyeuses apocalypses, Éditions Bragelonne, Paris, 2009

L’œil du purgatoire, Chamois # 6, 1945

La parcelle “Z”, Jean Vigneau, Marseille, 1942

“La planète des femmes invisibles”, V Magazine, 1948

“Le secret des microbes”, in Joyeuses apocalypses, Éditions Bragelonne, Paris, 2009

Les signaux du soleil, Jean Vigneau, Marseille, 1943

“Sport de printemps sur Vénus”, V Magazine # 445 (suppl.), 1953

“Les vacances du martien”, in Joyeuses apocalypses, Éditions Bragelonne, Paris, 2009

Le vent du monde, Gallimard, Paris, 1928

Le voyage muet, Gallimard, Paris, 1930

Bibliografia italiana: www.fantascienza.com/catalogo/autori/NILF15007/jacques-spitz

Siti di riferimento bibliografici in lingua francese: www.bdfi.net/auteurs/s/spitz_jacques.php e fr.wikipedia.org/wiki/Jacques_Spitz

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