Shi Kong
Un pioppo avvizzito dà fiori.
Una donna anziana prende marito.
Nessun biasimo. Nessuna lode.
(I Ching, Libro dei mutamenti)
Negli ultimi tempi l’interesse per l’Asia, e in particolare la Cina, si è manifestato non solo nell’opinione pubblica più colta e avveduta: anzi, il fenomeno riguarda gli spettatori della televisione, gli utenti del cinematografo e certo un’ampia fetta del settore commerciale. La sindrome cinese, infatti, muove da un’immediatezza quotidiana, da qualcosa che ci circonda e riempie di piccole grandi cose la vita di tutti i giorni (“nessun biasimo. Nessuna lode”: normalità dello straordinario). Non è più come ai tempi di Mao e della Rivoluzione culturale, quando il “pianeta Cina” faceva parlare di sé soprattutto per l’enormità – e l’efferatezza – del disegno sovversivo complessivo, che la mediazione di intellettuali d’eccezione come Edgar Snow spiegavano al mondo attonito. Se oggi Chung Kuo arriva sulle pagine di un periodico come il nostro, che di pianeti ne vede ogni santo giorno, è buona testimonianza della familiarità dell’ex-fenomeno paranormale; e con il suo sbarco, la sua orbita appena un po’ eccentrica soddisfa una curiosità che è propria di uno strato forse piccolo della popolazione – scoprire come sarà la fantascienza “made in PRC” – ma che va di pari passo con altre, più vaste questioni. Qual è la civiltà cinese uscita dalle rivoluzioni del XX secolo? Cosa ha permesso a un’economia contadina povera, perennemente afflitta da carenze e carestie, di decollare verso il traguardo di seconda potenza economica del mondo? E quale futuro l’attende (ci attende)?
Domande popolari perché i cinesi sono arrivati non solo a Parigi, come in un modesto film degli anni Sessanta, ma a Vicenza, Merano e Torchiara. Hanno aperto fabbriche, bazar, centrali dell’import-export, migliaia di ristoranti e bar, saloni di parrucchiere, scarpifici, sartorie, negozi di massaggi rilassanti. Le città ne sono piene. Le vie ne rigurgitano. Mangia semplice, paga poco; take away; assaggia la nostra pizza, spaghetti, fettuccine, caprese, manca solo il gorgonzola. Portare bambini, moglie. Venire. Gran parte dell’arredo urbano effimero (o non tanto effimero) nelle nostre città è ormai cinese.
Quando cadono le piogge della primavera,
la palla di stracci di un bambino
se ne imbeve, sul tetto.
(Antica poesia)
Vi è invece poca Cina in libreria e pochissima in edicola, se si escludono i quotidiani importati per gli immigrati. E praticamente zero fantascienza, alla faccia delle tirature di riviste come “Kehuan shijie”, da cui abbiamo tratto quasi tutti i racconti di questo volume, che in patria si aggirano sul mezzo milione di copie al mese. (Il doppio, per fare un confronto, di quanto abbia venduto nel 1955 Solar Lottery di Philip K. Dick e dieci volte quanto vendesse “Urania” nei suoi anni pionieristici. D’accordo, la Cina è grande…) In pratica, perché la letteratura fantascientifica cinese approdasse in Italia c’è voluta la nostra umile pubblicazione, la “palla di stracci” da bambino che già se n’è imbevuta da alcune primavere. Nel n. 1511 del giugno 2006 usciva infatti L’onda misteriosa a cura di Wu Dingbo e Patrick D. Murphy, con una prefazione di Frederik Pohl che illustrava la situazione della sf in Cina. Rispetto a quel pionieristico volume – il primo in Italia e tra i primi al mondo ad affrontare l’argomento – la differenza principale consiste nell’aggiornamento. La raccolta che offriamo oggi, Shi Kong – parola composta che rappresenta l’abbreviazione di “spaziotempo” – parte infatti dove L’onda misteriosa si chiudeva: gli anni Ottanta. E prosegue fino al 2006, portandoci attraverso venticinque anni di produzione fantascientifica asiatica. L’altra importante differenza che teniamo a sottolineare è che, mentre i racconti de L’onda misteriosa erano ritradotti dall’inglese, quelli di Shi Kong vengono direttamente dal cinese, cosa che si deve alla felice collaborazione tra “Urania” e Lorenzo Andolfatto, un giovane sinologo veneto appassionato di fantascienza che divide la sua esistenza fra l’Italia e l’immenso paese asiatico. Si tratta dunque di un volume doppiamente prezioso, introdotto in qualche modo dal saggio dello stesso Andolfatto che abbiamo pubblicato nel numero scorso, e che raccontava in breve l’evoluzione della sf cinese (non perdetelo). Altri arricchimenti saggistici vengono dalla sezione biografica, dedicata agli autori presenti nell’antologia, e da quella cinematografica, che collega il nostro volume con un’importante manifestazione che verrà annunciata a Trieste in questo stesso mese di novembre: una retrospettiva del film di fantascienza cinese denominata China Futures (di qui il sottotitolo del libro) nell’ambito del festival Science plus Fiction, a cura di Lorenzo Codelli e Daniele Terzoli. Cinema, letteratura e immaginazione: una terna di elementi che incuriosirà, speriamo, vecchi e nuovi lettori, portando nuova linfa al mulino della science fiction estradata in Italia.
Gli hanno tagliato le mani e i piedi,
Oppressione per mano dell’uomo che ha le ginocchiere di porpora.
La gioia viene senza far rumore.
Esorta a fare offerte e libagioni.
(I Ching, Libro dei mutamenti)
Non pochi ritengono la fantascienza una lettura apocalittica e il cinema ad essa collegato una visione dell’inferno, sia pure addolcita dalle note gentili dell’avventura. Non si vuole negare nulla di tutto questo, ma sfogliando i racconti della nostra raccolta come le pagine di un oracolo ispirato alla saggezza, il lettore troverà molta materia di conforto o almeno di meditazione. Perché la science fiction cinese non è ancora arrivata alla boa dello scoraggiamento, al padiglione degli incurabili dove si anestetizzano le sofferenze prodotte dall’industrializzazione totale, dal consumismo, dalla spersonalizzazione. Sembra che per due o tre miliardi di cinesi concetti come “alienazione”, “deriva”, “spossessamento” non abbiano praticamente senso, almeno a livello psicologico. In una società collettivista formata da un numero impressionante di braccia e bocche il bene è ancora tutto da venire perché quello che conta è il bene del corpo, che in questo caso vuol dire corpo della terra, del gigante da poco risvegliato. La nazione si è appena industrializzata, ricostruita, ammodernata ed esporta in tutto il mondo. Che ha da temere? Certo un giorno i timori spunteranno, i riflussi arriveranno, i problemi sociali verranno denunciati per quello che sono, e già in alcuni di questi racconti se ne può intravedere l’ombra o la metafora, come ama dire qualcuno, ma per ora è prematuro. E forse in Cina non avranno mai – non avranno per molto tempo ancora – il male dell’incomunicabilità, della solitudine angosciosa dell’uomo euroamericano malato di borghesia. Se nel futuro non ci sarà più bisogno di una borghesia, ma di una classe tecnocratica, i valori cambieranno e per il rimpianto, il crepuscolo (o almeno la coscienza del crepuscolo) vi sarà sempre meno posto. Via la malattia borghese, dunque, ma non le gioie che anche il borghese può condividere da quest’altra sponda: ed ecco allora il piacere dell’avventura, della scoperta, del fare le cose in grande stile che questi racconti propongono come un giorno ci proponeva la fantascienza classica americana. L’eroe non si spaventa, se pure gli tagliano mani e piedi, e all’oppressione risponde con la gioia “che viene senza far rumore”.
Ai lettori che condivideranno con noi questo secondo viaggio al pianeta Chung Kuo, vada dunque il nostro più caro augurio di mai ricorrere alle armi:
Esorta a intraprendere qualcosa!
Giuseppe Lippi
Nota. – Le citazioni dell’I Ching sono tratte da La svastica sul sole di Philip K. Dick. Traduzione di Romolo Minelli.
Posted in Orizzonti
novembre 22nd, 2010 at 13:01
La nota che era partita benino,nel finale si va a impantanare in un guazzabuglio di farragine sociologico-politica che lascia un pò perplessi.Come,i cinesi non conoscono “alienazione”,”spossessamento”?e con che altro se la deve vedere un popolo che a centinaia di milioni lavora per salari da fame?che muore nelle miniere a decine di migliaia ogni anno?che viene represso brutalmente da un regime che di comunista ha e aveva solo il nome?
Sì,forse perplessi è il meno che si possa dire.