Maestro del passato e del presente
Raphael Aloysius Lafferty (1914-2002) è vissuto in Oklahoma e prima di dedicarsi completamente alla narrativa (1970), è stato un ingegnere elettrotecnico con l’hobby delle lingue straniere. Cominciò a scrivere nel ’60 ed è uno degli autori più apprezzati dalla vecchia generazione di lettori – sebbene lui stesso sia tutt’altro che “uno scrittore per vecchi” – per il semplice fatto che solo gli appassionati di una certa esperienza hanno avuto la possibilità di leggerlo, in un’epoca in cui anche in Italia fioccavano traduzioni di ogni genere. Oggi è amabilmente ricordato da molti, cordialmente evitato da pochi (per le sue idee narrative radicali) ma non ha mai lasciato indifferente nessuno. E a tanti anni di distanza dalle prime pubblicazioni nella nostra lingua, possiamo tranquillamente evitare di presentarlo come uno scrittore d’essai, da circuito culturale insomma, perché le sue ardite soluzioni romanzesche e il suo umorismo filosofico non risultano più ermetici di un film di Woody Allen (quelli del filone “europeo”, diciamo), né più indigeste di un romanzo di hard sf dell’ultimo decennio. Riteniamo, invece, che sia uno scrittore straordinariamente attuale e completo: certo, uno scrittore e non un semplice conta-storie, ammesso che i conta-storie siano semplici o che siano scrittori; insomma, pensiamo che la lettura di un Lafferty abbia un effetto positivo sul lettore anche quando pare giocare con le iperboli e a qualcuno potrà sembrare, di primo acchito, un po’ ellittico. Non erano un po’ ellittici, nelle prime pagine, i romanzi di J.G. Ballard, di Thomas Disch, di Michael Moorcock e Ursula K. Le Guin? E non erano spiazzanti certe trovate di Farmer, che pur avendo cominciato a scrivere solo una decina d’anni prima di Lafferty, sembra il suo più probabile antenato fantascientifico? Il lettore non può essere che spronato dagli interessi mitologici di Raphael Aloysius, dal suo acuto scavo nel contemporaneo e nel rimosso, nelle pieghe della cultura e della narrativa. E non può che seguirlo, andando a leggere poi le sue fonti, i suoi ispiratori, persino i suoi libri sacri. Del resto, il romanzo che abbiamo scelto i presentare oggi, Maestro del passato (1968), non è che l’atteso verbale dell’utopia che da anni aspettavamo la sf americana ci desse una buona volta. Gli atti di quel processo alla società perfetta che sarebbe continuato nei Reietti dell’altro pianeta di Ursula K. Le Guin, anche se su un piano meno paradossale. Detto ciò, lasciamo la parola all’autore e al prefatore originale di questo romanzo, Riccardo Valla, che elegantemente (siamo ancora all’ombra del ’68!) ce lo presenta come un guru, un autore da circuiti raffinati. Un guru lo è senz’altro, ma rassicuriamo i perplessi: accessibile a tutti i fantascientisti di sana e robusta costituzione.
G.L.
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«Dopo avere frequentato assiduamente i bar», racconta Lafferty stesso, «a un certo punto smisi. Queste decisioni lasciano un vuoto: quando lasciate gli interessanti personaggi dei bar perdete una parte del fantastico e del pittoresco. Per sostituirla incominciai a scrivere fantascienza». Si dichiara «cattolico del tipo fuori moda, vale a dire conservatore», e politicamente dice: «Sono l’unico iscritto al Partito Centrista d’America, di cui esporrò la dottrina in qualche racconto ironico-utopico, una volta o l’altra».
Per vari anni ha scritto solo racconti, poi, nel 1967, incominciarono ad apparire anche suoi romanzi. I primi, Cantata spaziale e Le scogliere della Terra, destarono un certo interesse, che si accrebbe notevolmente con il presente Past Master, giunto in finale all’Hugo e al Nebula nel 1968. L’anno successivo anche Quarta fase fu nominato per l’Hugo. Più tardi è stato molto apprezzato Il diavolo è morto (1971).
Parlando di Lafferty, la critica cita il suo humor bizzarro, la sua fantasia libera e colorita, il suo stile evocativo, la sua forza poetica. Si è detto che le sue opere sono romanzi dell’assurdo, che ricordano Il circo del dottor Lao di Charles G. Finney e una certa atmosfera joyceana. Blish parla di lui come di un autore di «fantasie araldiche dal contenuto religioso». E in effetti le opere di Lafferty sono completamente diverse dalla fantascienza tradizionale, quella dal significato preciso e univoco. Lafferty è obliquo, molteplice; ama mettere sulla falsa pista il lettore con bisticci verbali, scene e descrizioni subito dimenticate e demolite con noncuranza: per questo molti parlano di lui come di un meraviglioso, affascinante bugiardo.
Lafferty intende la fantascienza per il suo pittoresco e il suo fantastico, e vuole ottenere effetti particolarissimi, interessanti e oltraggiosi: lo vediamo collegare parole comuni per costruire veri mostri verbali, e poi scopriamo che quei mostri hanno una loro vita. Le trame di Lafferty sono sempre perfettamente intenzionali, sono tenute sotto controllo, e sono perfino economiche, nonostante i suoi ritorni e le sue divagazioni (lo si nota alle successive riletture, che rivelano nuovi livelli e nuovi legami: non ci sono parti superflue, ciascuna parola si riscatta e si spiega nell’economia generale dell’opera), ma si ha l’impressione, di fronte alla singola scena, alla frase isolata, che la parola domini sulla narrazione, che le situazioni siano aperte, irrisolte, concluse falsamente e provvisoriamente solo per mezzo di un’affermazione paradossale. Ma il primo a credere a ciò che sta scrivendo è Lafferty stesso: una specie di credo quia absurdum, o meglio di «ci credo, visto che posso scriverlo».
I personaggi ambigui, obliqui e incostanti di Lafferty sono all’opposto di quelli della fantascienza tradizionale. Vengono alla mente sia certi romanzi di Delany e di Zelazny, sia, soprattutto, Cordwainer Smith. Tanto Lafferty quanto Smith sono giunti alla fantascienza nella maturità; entrambi, di fronte alla tecnologia, sono attratti dal tema della «riscoperta dell’umanità», e hanno lo stesso gusto per i giochi verbali, per i prodigi costruiti di sole parole, per rivivere a proprio modo la Storia, la leggenda, le opere letterarie altrui. Il Bateau ivre di Smith non è quello di Rimbaud, la sua Giovanna d’Arco non è quella storica, eppure in un certo senso lo sono.
Maestro del passato è molte cose. Con le parole del protagonista, potrebbe essere «tutto per tutti» (e a volte le affermazioni che More fa su se stesso sembrano trasferibili al rapporto tra l’autore e quel suo alter ego che è il romanzo che sta scrivendo). È una riflessione di metafisica della storia; è un’allegoria della società moderna (si veda a p. 122); è un romanzo cattolico «conservatore»; è la ripresa di un’idea di Luciano che poneva Platone come unico abitante della sua Repubblica; è una difesa della forza dell’irrazionale contro la ragione esclusiva. Ed è anche una personalissima interpretazione della figura storica di Thomas More: il personaggio di Lafferty non è certo quel Thomas More, Cavaliere e prigioniero, che fu decapitato il 6 luglio 1535 in base a una testimonianza falsa di Richard Rich, Procuratore generale di Enrico VIII… e in parte lo è.
Volendo definire questo romanzo, le parole migliori sono forse quelle che scriveva Alexei Panshin su un’altra opera di Lafferty, Quarta fase: «È un libro scatenato, ed è pieno dì bugie prodigiose. Probabilmente lo rileggerò molte volte».
Riccardo Valla
(Introduzione alla prima edizione italiana, 1972)
Posted in Profili
giugno 8th, 2012 at 17:50
Pregevole doppia presentazione di un autore decisamente inusuale. Il mio primo incontro con la sua narrativa avvenne attraverso un racconto spiazzante nel quale il protagonista si trovava sospeso tra un mondo banale, un po’ noioso, e un mondo onirico decisamente orripilante (con sorpresa finale).
giugno 19th, 2012 at 10:13
Ottime le due introduzioni (specie Valla), ma davvero bella anche la copertina di Brambilla! Il libro me lo tengo da parte per le letture estive ma le premesse mi piacciono.
giugno 22nd, 2012 at 20:17
Pessima scelta, secondo me.
Quando la coppia Fruttero lucentini si fissava con qualcuno non c’era niente da fare. Cosi’ ci dovevamo sorbire i vari Lafferty, Goulart, Reynolds.
E tuttavia per fortuna c’erano i Ballard Dick Resnick che compensavano…;-)
giugno 30th, 2012 at 14:43
@ nottolone: Sicuramente F&L avevano le loro fissazioni però Lafferty era un vero scrittore di stile e inventiva non comuni non uno scribacchino qualsiasi anche se capisco che appunto per questo o si ama o si odia.Saluti e KtF!
agosto 28th, 2012 at 09:53
Il mio primo incontro con Lafferty fu una sua antologia di racconti, “Associazione genitori e inegnanti”(Urania 852) . Mi folgorò (ero abituata a scrittori SF più scontati …). Il racconto eponimo e il racconto Novecento nonne in particolare. Ho “Maestro del passato” nella vecchia edizione Nord. Va letto, ma non mi entusiasmò.