Intervista con Vittorio Catani
Giuseppe Lippi intervista Vittorio Catani, che torna in questi giorni su “Urania” con il suo ultimo romanzo Il Quinto principio.
Domanda: Vittorio, nei circa 50 anni di frequentazione della fantascienza in veste di autore, tu hai prodotto quasi esclusivamente opere brevi e brevissime. Lo testimonia, fra l’altro, la tua raccolta di racconti L’essenza del futuro edita nel 2007 da Perseo Libri, circa 650 pagine. L’unico tuo romanzo, finora, è stato Gli universi di Moras, che nel 1990 inaugurò la serie dei premi Urania. Come mai ora questo corposo volume, che solo un “Urania” Speciale ha potuto accogliere?
Risposta: È vero, mi sono sempre ritenuto uno scrittore di opere brevi. La mia bibliografia annovera inoltre quattro o cinque titoli intorno al centinaio di pagine ciascuno. Il quinto principio, in verità, è nato quasi per caso. Era la fine degli anni ’90 e Isa, la mia compagna di vita, mi ripeteva con insistenza che racconti ne avevo scritti anche troppi ed era il caso che mi presentassi al pubblico dei lettori con un’opera di maggior respiro. Secondo lei potevo farcela, o almeno tentare. Anche io sentivo il bisogno di esprimermi attraverso un testo più ampio, articolato, d’una maggiore complessità, possibilmente ricco di eventi e situazioni, di umori, e soprattutto che – in accordo con la mia personale visione della fantascienza – ponesse in campo alcuni radicali cambiamenti che stavano avvenendo nel mondo e nella vita di tutti i giorni. Il cyberpunk aveva saputo egregiamente “cantare” la controversa epopea delle nuove telecomunicazioni, era il caso, ora, di romanzare nuovi, spregiudicati portati della globalizzazione e d’una “allegra” gestione della politica, della finanza, dell’economia, dell’ambiente, di nuove tecnologie. Insomma, la vastità della scelta fra questi temi mi appariva davvero allettante.
D.: “Vastità di scelta dei temi?” È un po’ strano sentirlo dire in un momento in cui da molte parti si afferma che la fantascienza “è morta”. E comunque anche se i temi ci sono ancora, secondo i predetti “necrofori” sarebbe anzitutto il genere in sé ad aver fatto il suo tempo. Che ne pensi?
R.: Di questa “morte della fantascienza” io sento parlare fin dagli anni ’70, cioè la fantascienza starebbe morendo da un quarantennio! Se il genere in sé abbia fatto il suo tempo, non so bene: è chiaro che ogni genere narrativo ha un suo, diciamo così, arco di vita fisiologico e alla fine rischia di ripetere se stesso. Ma sotto questo aspetto credo che abbia fatto il suo tempo buona parte di tutto ciò che oggi si pubblica e strapubblica, non solo nella fantascienza. Lo sappiamo, la narrativa è diventata sfacciatamente un’industria in cui sono quasi esclusivamente il numero di copie vendute o l’apparato pubblicitario che premiano. Si lavora non per creare cultura ma per affossarla. In libreria ho provato a leggere il lodatissimo Moccia: ho smesso dopo poche pagine e sono rimasto depresso. De gustibus, ovviamente.
Ma non ho ancora risposto alla domanda sulla “vastità dei temi”.
Confesserò una cosa che ritengo un po’ insolita. Quando cominciai a prendere appunti per quello che poi sarebbe divenuto questo romanzo, era la fine dell’anno 2000, e due dei primissimi temi che mi stimolarono a scrivere furono l’“economia creativa” di Tremonti e l’adiacente “finanza creativa”. Le cartolarizzazioni, il voler “spalmare” i debiti sulle generazioni future (idea peraltro già ironicamente ipotizzata da Sheckley fin dagli anni ’50 nel racconto “Il costo della vita”), la capacità di creare operazioni arzigogolate che parevano risolvere il problema, ma – a guardar bene – sempre a discapito di altri inconsapevoli; il “non detto” dei politici ai cittadini, che diveniva menzogna perché nascondeva una truffa; l’immissione sconsiderata di titoli tossici in qualunque straccio d’operazione bancaria; l’indebitamento di ignari Comuni, nascosto in modo fraudolento da banche elargitrici di prestiti-trappola; le miliardarie parcelle di amministratori insensibili ai loro fallimenti; operatori di Borsa che architettavano diaboliche operazioni danneggiando non migliaia ma miliardi di modesti risparmiatori… Beh, questo non era che un assaggio di ciò che stava venendo fuori. Perché poi si dovrebbe pur dire degli investimenti mafiosi del grosso capitale sotto spoglie legalissime; del ritorno al lavoro schiavizzato; l’aumento vertiginoso del divario ricchi-poveri anche nei cosiddetti Paesi ricchi; lo scempio atroce che la crisi in atto sta compiendo nel Sud del mondo, in un silenzio mediatico quasi assoluto; le nuove ondate di razzismo; la legalizzazione della tortura; il bigottismo fondamentalista; il condizionamento attraverso un’amplificazione abnorme di media nuovi e più pervasivi…
E l’ambiente, e le più recenti tecnologie, le nuove armi e tutto il resto.
La fantascienza è morta? Gente, qui ci sarebbe da scriverne a tonnellate…
D.: La fantascienza quindi per te è quella che prende spunto dal reale per estrapolare sui tempi medio-brevi?
R.: Be’, no, farei un torto anche a me stesso. Ho amato praticamente tutti i filoni della fantascienza: da Jack Williamson a Edmond Hamilton, Van Vogt, Simak, Catherine Moore, Asimov, Dick, la Brackett, Lafferty, Le Guin, Mack Reynolds, Ballard, Moorcock, Malzberg, Ellison, Sheckley, Tenn, Stanislav Lem, Clarke, la Tiptree, Silverberg, via via fino a Sterling, Egan e tantissimi altri. Diciamo che in 50 anni di letture ho dovuto adeguarmi (ma con piacere) ai vari filoni della science fiction: da quella avventurosa a quella hard, dalla social science fiction alla New Wave fino al cyber e successori. Una vitalissima, articolata, rutilante avventura. Tuttavia, personalmente ho sempre preferito una fantascienza interessata al presente. Forse uno dei motivi per cui la sf sembra in declino, è che – contrariamente a come è sempre stato, che io ricordi – oggi la gente parla solo del presente. Abbiamo perso il futuro, e quando ne accenniamo è in termini foschi. La gente, che ha tantissimi nuovi problemi, preferisce non rattristarsi ulteriormente. D’altronde scrivere una fantascienza ottimista, come alcuni vorrebbero, oggi a me suonerebbe una stonatura, un falso.
D.: Il quinto principio, allora, dovrebbe essere un libro cupo. Triste…
R.: …ma spero non lo sia! Certo nell’insieme il quadro non brilla per allegria, ma mi sono sforzato di metterci dentro un po’ di tutto, anche lampi di ironia o di humour. E anzitutto ho cercato di rendere avventuroso il racconto. Amo molto l’avventura in sé, la considero il Dna della narrativa. Esistono le avventure alla Salgari o alla Edmond Hamilton, ma ci sono anche la Recherche di Proust o l’Ulisse di Joyce, che a loro modo sono sempre avventura: all’interno di se stessi, o all’interno del loro genere in cerca di vie espressive nuove, rivoluzionarie. Nel mio romanzo ho quindi cercato di presentare temi attuali, estrapolandoli in un futuro situato a poco meno di metà secolo e proponendoli, se possibile, in forma di avventura ma – a volte – anche di riflessione. Il mio è un romanzo “corale”, cioè segue le storie di vari personaggi, sebbene vi siano un paio di protagonisti principali, e le storie che si incrociano alla fine confluiscano in un’unica trama, sia pure con diramazioni. Direi che il romanzo, nato per aggregazioni successive, è soprattutto la costruzione-descrizione di uno scenario a venire.
D.: Il tuo libro affronta temi importanti e si articola in un piano narrativo complesso. In che modo, secondo te, l’attuale fantascienza italiana può sfuggire alle strettoie dell’imitazione dei modelli stranieri o cinematografici e conquistare un’ampiezza di respiro, un’originalità che sia tutta propria e la tenga al riparo da eventuali riflussi?
R.: Ai modelli che tu richiami, si potrebbe aggiungere quello dei videogame. Ma stavolta trovo davvero difficile rispondere alla tua domanda. Da un lato, credo che le caratteristiche di un genere non si possano predeterminare a tavolino; dall’altro, un qualcosa occorre pur studiarselo, quindi sarebbe proficuo sperimentare.
Infine, posso portare solo la mia esperienza personale: anche io, come altri in Italia – citerò solo due nomi, Aldani e Curtoni – ho sempre tentato di contribuire a una sf “all’italiana”, che non ne tradisse i canoni di base. Ma ammesso che io sia riuscito nel mio intento, va detto che ogni percorso personale può rivelarsi… troppo personale per essere rappresentativo.
A quanto io ricordi, fui uno dei primissimi autori (anni ’60) a scrivere una fantascienza con protagonisti dal nome italiano. Cosa che altri nostri scrittori e critici – scoprii – dichiaravano addirittura inattuabile. Io vedevo la questione come un modo per obbligarsi a mutare totalmente ambientazione e atmosfera, e architettare storie che fossero plausibili in uno scenario, quello nostrano, decisamente povero di tecnologie e mirabolanti invenzioni. Negli anni ’60 avevo scoperto autori italiani e stranieri (Cesare Pavese, Italo Calvino, Corrado Alvaro, Dino Buzzati, Leonida Repaci, Giovanni Arpino, William Faulkner, William Saroyan, Jack Kerouac, Vladimir Nabokov, Ernest Hemingway, il Drieu La Rochelle di Fuoco fatuo, lo Henry-Pierre Roché di Jules e Jim e tanti altri) che mi avevano affascinato per il loro stile, per le capacità evocative e per tematiche che sentivo molto vicine. Pensai che sarebbe stato molto bello inserire trame fantascientifiche negli scenari realistici, nelle atmosfere e nei sentimenti di questi autori, scenari e atmosfere molto più vicini ai nostri di quelli Usa, usando inoltre un linguaggio che non ricalcasse l’ordinarietà – talora l’estenuante piattezza – che dominava nella narrativa di genere. A posteriori (allora le mie idee non erano così chiare) potrei descrivere così il mio obiettivo: se noi italiani non possedevamo un adeguato immaginario tecnologico – ci mancavano industrie d’avanguardia, ricerca scientifica, laboratori, brevetti, premi Nobel, strutture, mentalità etc. – per poter scrivere una fantascienza all’americana, avevamo però una diversa, inesauribile fonte cui attingere: l’impatto, sulla nostra società e su noi individui, di quelle nuove tecnologie, che ci giungevano dalla riconosciuta Patria della fantascienza moderna.
Era quindi possibile, e credo lo sia tuttora, scrivere una science fiction “umanistica” oltre che, eventualmente, fanta-tecnologica. Si tratterebbe di un semplice adeguamento, delle varie tematiche specifiche, a temi e modalità culturali del Vecchio Mondo. Ciò che d’altronde credo sia avvenuto spontaneamente, in modo fecondo e senza traumi, fin dagli anni ’50, in Francia e poi in Paesi di lingua spagnola. Siamo tuttavia in un momento storico in cui è in atto un vasto rimescolamento dei linguaggi, degli stili, delle tematiche. Mi chiedo anche se e quale senso possa avere, oggi, promuovere una “via italiana alla fantascienza”.
(a cura di G.L.)
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dicembre 9th, 2009 at 02:16
Dubito che sia in qualche senso desiderabile promuovere una via italiana a qualcosa in generale. Si può ritenere che la narrativa sia diventata sfacciatamente un’industria e che questa circostanza affossi anziché promuovere la cultura. Ma fare e divulgare un libro ha dei costi e l’autore deve pagare le sue bollette, dunque non vedo alternative se non queste: il mercato (criterio dominante: numero di copie vendute), finanziamenti pubblici o partitici etc. (criterio dominante: nella migliore delle evenienze, clientela e propaganda politica). Preferisco il mercato. Per come la vedo io, si può fare narrativa ad altissimo livello ed essere commerciali allo stesso tempo. Quanto alla sf italiana, penso che il suo particolare difetto sia questo, che non pensa in grande. In Italia – com’è noto –, a noialtri italiani viene l’orticaria a sentir parlare di equazioni, formule fisiche etc., c’è il pieno delle facoltà umanistiche da cui si esce ignoranti, ignorantissimi. Scarsa cultura scientifica dei lettori, ma anche scarsa cultura scientifica degli autori italiani di sf. Qualcuno ci ha raccontato – l’idealismo italiano, la chiesa cattolica, l’umanesimo – che alle verità più sublimi non si accede con la ricerca dei dati e il ragionamento, ma con l’intuizione, la preghiera ed altre facoltà cognitive più “profonde”. Nella sf umanistica auspicata da Catani non c’è in fondo questa stessa illusione?
dicembre 9th, 2009 at 18:24
Libro comprato e messo in coda di lettura. Una bella uscita, dire, davvero ottima. ^_^
dicembre 10th, 2009 at 17:19
IMHO la fantascienza all’italiana “funzionante” è ad esempio Tonani
dicembre 12th, 2009 at 23:02
Rispondo a Luigi, ma “a puntate”, perche’ qui se supero troppe righe si
inceppa il meccanismo e devo ricominciare. Dunque. Vero, si puo’ essere narratori ad alto livello e al contempo commerciali. Ma pochissimi sono in grado di farlo. Basterebbe sapere farsi leggere senza
essere commerciali: gia’ un successo!
(1/segue)
dicembre 12th, 2009 at 23:06
(2/seguito). Ma anche a “saper fare” questo sono in pochissimi. Comunque, fortunatamente la sf e’ una narrativa letta da pochi, talmente circoscritta che non ha mai avuto bisogno di essere “commerciale”: infatti almeno in Italia gli autori sf di tutto vivono tranne che dei proventi della sf. Questo è un dettaglio essenziale (2/segue).
dicembre 12th, 2009 at 23:09
(3/seguito) perché consente all’autore di dire, sua pure entro certi limiti, tutto quello che vuole e come vuole: i fan lo seguiranno comunque. Non è un caso che per la sf passino (e siano passate, anche in Usa) idee che altrimenti avrebbero incontrato sicuramente una censura. Voglio dire che per l’autore sf i vincoli (3/segue)
dicembre 12th, 2009 at 23:12
(4/seguito) commerciali non sono poi cos’ rigidi da condizionarlo. Per il resto: verissimo che la cultura scientifica in Italia è sotto zero, ma è anche vero che questa è indispensabile solo per un certo genere di sf. Sheckley è stato un grandissimo scrittore tout court, oltre che sf, e non ha mai usato una formula o un concetto (4/segue)
dicembre 12th, 2009 at 23:14
(5/seguito) davvero “scientifico”. E altri come lui, perchè lui faceva proprio questo mestiere: indagava l’impatto delle tecnologie o dei nuovi sapere sull’individuo e sulla società. Certo, la sf non è solo questo; ma non è neanche solo sf hard, e l’hanno capito anche autorifrancesi, spagnoli, europei in genere (5/segue)
dicembre 12th, 2009 at 23:17
(6/seguito)Se leggiamo i maggiori scrittori sf italiani (per es. Aldani, o Curtoni, e altri) troviamo splendida sf “umanistica”, intesa proprio nel senso di una sf che riflette l’impatto della Rivoluzione Industriale e relative conseguenze sulla società. Ciò che faceva H.G.Wells, il vro padre della sf moderna. (6/segue)
dicembre 12th, 2009 at 23:21
(7/seguito) E’ anche ciò che, nel mio piccolo, mi sono sempre ripromesso io. O meglio non sempre. Per es. proprio il Quinto principio non segue questa linea, e mescola sf “umanistica” (nel senso illustrato) con teorie scientifiche e perfino con alcune formule chimiche. Cosa rara per me, xchè mi dà di esibizionismo (7/segue)
dicembre 12th, 2009 at 23:25
(8/segue) Quindi nella sf io vedo il mistero, l’incognito etc, ma anche – a confronto – una indispensabile razionalità. Il sublime, la religione, preghiera etc., li ho da tempo relegati in soffitta e non m’interessano né in questo ambito né in altri. Senza negare che abbiamo ancora tantissimo da imparare. Ciao!
dicembre 12th, 2009 at 23:30
Per “Cynewulf”: conosco Tonani da molti anni come autore di racconti di assoluta originalità. Purtroppo però non ho ancora letto i suoi due “Urania”.
dicembre 13th, 2009 at 01:22
Grazie per la tua risposta a puntate. Sì, forse la libertà di raccontare quel che si vuole è in atto laddove i lettori sono pochi e ti seguono comunque. Forse sì, ma è drammaticamente un privilegio di chi ha già fonti di reddito alternative. Insomma, con un mercato piccolo, forse puoi dire quello che vuoi, ma è un privilegio che puoi condividere con pochi altri. Sull’appiattimento della fantascienza a quella hard, hai perfettamente ragione… ho esagerato. A questo proposito ho letto alcune cose interessanti di Valla su van Vogt proprio su questo blog; ma poi esiste davvero un criterio certo per distinguere il limite tra ciò che è estrapolazione e ciò che non lo è (uno colto si esprimerebbe dicendo che l’estrapolazione è un predicato vago)? Però che la fantascienza non sia solo hard, hai perfettamente ragione e concordo. Sono rintanato in casa a scrivere (non sf sfortunatamente per me, ma fortunatamente per gli eventuali lettori), ma spero di trovare il tuo romanzo ancora in edicola alla prima uscita (di casa) e magari discuterlo. Grazie, ciao!
dicembre 13th, 2009 at 12:13
Sono d’accordo totalmente con Luigi sul fatto che in Italia la cultura scientifica sia davvero poco diffusa (a cominciare dal sottoscritto, ahimè!) e che questo si riflette nei nostri autori che non ne sanno molto più di noi in merito… D’altro canto, personalmente sono più per la fs umanistica che per quella tecnologica… salvo le debite eccezioni, la hard sf è spesso troppo puntigliosa e lenta, piuttosto noiosa da leggere e con personaggi scarni e una trama senza particolare movimento… a meno che non particolarmente interessati al concetto trattato… spesso si dimentica che la fs è NARRATIVA; se volessi un trattato scientifico, bè, leggerei quello e non urania!!!
dicembre 13th, 2009 at 13:51
Col contraporre la sf umanistica a quella hard, non intendevo discreditare la prima tout court, ma soltanto quella che, più o meno consapevolmente, aderisce al paradigma per il quale le vie di accesso alle verità che più contano per l’uomo sono quelle lastricate di percorsi cognitivi non-scientifici, relegando la scienza al rango di attività utile forse anche vera ma mai Vera.
dicembre 13th, 2009 at 14:15
Purtroppo il paese di Galilei,Fermi,Marconi,F.Enriques e di tanti altri manca di una cultura scientifica ma la cosa grave è che è pieno di chiromanti,maghi,astrologhi,etc.
Spesso incontro persone con diploma se non con laurea che credono nell’astrologia come scienza (non sapendo la differenza tra scienza e pseudoscienza).
D’altronde basta girarsi intorno per vedere che i giornali, le Tv ed altro sono pieni di oroscopi e che spesso si dà più voce a coloro che sono privi di nozioni scientifiche.
Per quanto riguarda la SF Hard, i matematici, i fisici ed altri sono spesso curiosi di vedere come quello scrittore risolve i problemi dei viaggi nello spazio e della velocità delle astronavi (entra in campo la relativià)oppure quelli nel tempo futuro e passato (che violerebbe il principio di causalità) oppure se in altre galassie le leggi della fisica sono le stesse che conosciamo, oppure quanti universi esistono (ci sono nuove teorie). Alcuni scrittori sono fisici,matematici e nei loro scritti portano anche idee nuove (certo devono essere capaci di suscitare interesse).
La SF può essere umanistica,sociologica,avventurosa,gialla (vedi Asimov), tecnologica ed altro.
Spetta all’autore con le sue storie e le sue idee e con la descrizione di situazioni, personaggi ed altro coinvolgere il lettore.
dicembre 13th, 2009 at 14:58
La diffidenza nei confronti della scienza nel nostro paese ha diverse cause. Forse non ultimo il fatto che le applicazioni scientifiche sono strettamente legate al capitalismo, e in Italia la critica del marxismo al capitalismo si è talvolta tradotta sic et simpliciter nella critica alla sua stretta compagna, la scienza. La fantascienza potrebbe avere un ruolo centrale nello stimolare la curiosità scientifica. Non è escluso che molti ricercatori siano approdati alla scienza attraverso la fantascienza. Quindi la mia perplessità nei confronti della sf umanistica è soltanto rivolta a quella narrativa fantascientifica che volta le spalle a quelle potenzialità educative.
dicembre 14th, 2009 at 01:34
Comunque non credo che sia molto diffusa una sf “umanistica” secondo la quale l’accesso alla verità deve seguire processi cognitivi non scientifici. Al momento, non saprei dartene un esempio. Forse tu hai a mente qualcosa di concreto, qualche titolo o autore? Questa è + una prerogativa del fantasy (genere che detesto con poche eccezioni)
dicembre 14th, 2009 at 11:08
Procederò per considerazioni staccate nella speranza che il quadro alla fine sia visibile. Innanzitutto, non sto dicendo che la sf (troppo) umanistica – chiamiamola così – si configuri come un sottogenere fantascientifico con caratteristiche stilistiche o tematiche riconoscibili, magari raccontando situazioni di crisi da cui il protagonista o i protagonisti escono fuori facendo appello a facoltà paranormali (anche a me non piace il fantasy). Piuttosto nella sf (troppo) umanistica se da un lato le estrapolazioni scientifiche sono utili per disegnare i paesaggi, la scienza non ha un ruolo di protagonista nella soluzione delle crisi. La mia angolazione preferita per dire queste stesse cose in altri termini è la seguente. È d’uso distinguere in etica la morale eteronoma dalla morale autonoma. La morale eteronoma sancisce leggi che derivano da autorità esterne all’uomo, poniamo Dio, la Natura etc. La morale autonoma suggerisce che le leggi non sono esterne ma umane. Io credo che la cultura antiscientifica italiana sia dovuta innanzitutto alla considerazione della scienza come eteronoma, come un sapere già costituito che si apprende – magari anche interamente computabile – ma che resta esterno alla libertà e alla creatività dell’uomo. La fantascienza può presentarci la scienza in altri termini, le manipolazioni fantastiche di nozioni scientifiche possono rivelare la loro natura creativa, insomma aiutarci a pensare la scienza come autonoma anziché come eteronoma. La sf (troppo) umanistica è per me quella che si lascia alle spalle tali potenzialità. Poi si possono avanzare congetture sul perché ciò avvenga. Si può dire che c’è un filone di pensiero husserliano heideggeriano per il quale la scienza si costituisce all’interno di un allontanamento dall’uomo (Husserl) o all’interno della dimenticanza dell’essere (Heidegger). Si può avanzare l’ipotesi che molti autori di sf non sono in grado di lavorare di fantasia sulle nozioni scientifiche. Si possono avanzare mille ipotesi.
Detto questo, fare i nomi mi pare superfluo. Comunque, recentemente UC ha pubblicato Miglieruolo. Ecco, in Miglieruolo vedo una sf (troppo) umanistica perché non intravedo un percorso di autonomizzazione della scienza. Preciso però che può anche darsi che come sostiene Lippi il libro di Miglieruolo sia un capolavoro letterario. Può darsi, io non sono un critico letterario e non pretendo che la sf (troppo) umanistica sia una categoria della critica letteraria.
dicembre 14th, 2009 at 11:40
Beh… molto interessante il discorso. Non mi era mai stato posto in questi termini, devo pensarci un po’. Se ho ben capito, detto in poche parole tu rilevi l’esistenza d’una sf “umanistica” che fa appello alla scienza ma solo come sfondo o contorno, non come protagonista risolutivo, connaturato, o qualcosa del genere…
dicembre 14th, 2009 at 12:43
Sì, giusto. Non trascurerei però l’altra questione, della autonomizzazione della scienza, cioè: l’elemento fantastico come elemento di canalizzazione della scienza nell’alveo della libertà e della creatività dello spirito.
dicembre 14th, 2009 at 14:25
Davvero interessante il dibattito. Aggiungo una riflessione molto personale: credo che da qualche tempo a questa parte in Italia sia in atto una spettacolarizzazione a scopo mediatico delle conquiste scientifiche. La scienza è dappertutto, ma anche da nessuna parte. Guardiamo, per esempio, com’è trattata in tv. E’ ridotta a curiosità, gadget, intrigo di basso calibro, sussurro da corridoio. Con un occhio all’Auditel e uno al telecomando… D’accordo, può essere un espediente per conquistare a temi ostici anche chi non ha solide basi sull’argomento… Ma allora ben venga la fantascienza: quand’anche mettesse la scienza sullo sfondo la tratterebbe almeno come onesto divertissement.
@ Cynewolf: grazie delle tue parole.
@ Vittorio: le mie aspettative sul tuo “Quinto Principio” continuano a salire. E sono arcisicuro che non mi deluderai
dicembre 15th, 2009 at 11:29
@Luigi “la critica del marxismo al capitalismo si è talvolta tradotta sic et simpliciter nella critica alla sua stretta compagna, la scienza”
ma non è così! il marxismo è applicazione alla filosofia e all’economia del metodo scientifico (ottocentesco), di cui il capitalismo rappresenta semmai la degenerazione incontrollata e cancerosa
a parte questo: la riflessione sulla fantascienza come generatrice di un meraviglioso potenzialmente fondato sulla scienza, senza che ciò implichi un allontanamento dall’umano (riformulazione del vecchio sense of wonder), è stimolante
condivido anche l’analisi sulle debolezze “umanistiche” della fs nostrana, e la sollecitazione a liberarsi della percezione di una scienza troppo “eteronoma” – anche questo non è un discorso nuovo, ma mai davvero (almeno qui da noi) affrontato fino in fondo
e condivido le considerazioni di Dario: l’appiattimento mediatico anche in ambito di divulgazione scientifica è quanto mai desolante!
dicembre 15th, 2009 at 13:25
@Alessandro
L’affermazione che il marxismo consiste nella applicazione del metodo scientifico ottocentesco alla filosofia e alla economia mi pare esprima una tesi molto originale sul marxismo, andrebbe argomentata. A occhio mi sembra difficilmente difendibile.
La tesi, invece, che il “capitalismo rappresenta semmai la degenerazione incontrollata e cancerosa [del metodo scientifico]” è certamente falsa, ma non senso che il capitalismo rappresenta la fioritura del metodo scientifico, ma nel senso che il capitalismo non è un paradigma conoscitivo che possa degenerare il metodo scientifico o qualche altro metodo, ma è un tipo di organizzazione dell’economia e della società, e anche della scienza in quanto istituzione socialmente ed economicamente organizzata. Infatti io parlavo della scienza come compagna di viaggio del capitalismo. E avanzavo l’ipotesi che la critica al capitalismo possa aver indebitamente condotto ad un atteggiamento diffidente nei confronti della sua compagna di viaggio. Tu dici: “non è così”. Io però intendevo avanzare solo un’ipotesi ragionevole. Se è o non è così, è perché le cose sono andate o non sono andate come l’ipotesi prevede, non perché il marxismo è l’”applicazione alla filosofia e all’economia del metodo scientifico”.
Sulle potenzialità della fantascienza come percorso di autonomizzazione della scienza, sono molto interessato a capire in che termini non è un discorso nuovo. Insomma, qualche riferimento bibliografico mi sarebbe molto gradito.
@Dario
Grazie per aver introdotto il concetto di divertissement, perché a me sembra la via privilegiata per fare quel tipo di operazione che ho chiamato autonomizzazione della scienza.
dicembre 15th, 2009 at 14:44
@Luigi
“L’affermazione che il marxismo consiste nella applicazione del metodo scientifico ottocentesco alla filosofia e alla economia mi pare esprima una tesi molto originale sul marxismo, andrebbe argomentata”.
Qui non mi sembra che ci sia molto da dire: contrariamente a quanto dici, non è una tesi affatto originale, quello di Marx si autobattezza “socialismo scientifico”, e il materialismo storico marxiano ha la pretesa di porsi come “scienza della storia”.
Certo che il capitalismo non è un paradigma conoscitivo, e non mi sembra di aver sostenuto niente di simile: mi opponevo solo alla tua definizione di scienza come sua “stretta compagna” e dicevo che semmai la scienza è compagna (lo dice anche la parola :)) del marxismo nella sua critica del capitalismo, nel senso di organizzazione razionale del pensiero opposta all’impazzimento sociale e morale (le pecore di Thomas More e riprese da Marx nel Capitale, “di solito così mansuete” che divengono fameliche e aggressive fino a “divorarsi addirittura gli uomini”) ingenerato dalla logica del profitto (tutto molto ottocentesco, lo so, ma di questo si parla) .
Quanto al “discorso vecchio”, invocare una bibliografia mi sembra un po’ eccessivo, dato il contesto: ma, banalmente, mi sembra che quanto tu diversamente – e più articolatamente – motivi, corrisponda all’idea della fantascienza come strumento privilegiato per la risoluzione del conflitto delle “due culture” (Snow, roba vecchiotta, appunto, ma mai davvero sviscerata a fondo).
Stiamo annoiando il mondo, credo.
Ma già che ci sono vorrei dire due parole sul romanzo di Catani: non l’ho ancora iniziato, ma mi aspetto anch’io grandi cose. E da come conosco l’autore e quello che scrive non credo proprio che andrò deluso.
dicembre 15th, 2009 at 14:54
Di rapporti tra capitalismo,scienza e tecnologia, penso si possa e debba parlare, specie oggi. Senza le nuove tlc (computer, cellulari, satelliti, quindi comunicazioni istantanee e capacità di controllo e di calcolo istantanee di merci, mercati, lavoro, contabilità, statistiche) non avremmo avuto una globalizzazione e una finanza così aggressive.
dicembre 15th, 2009 at 16:06
@Alessandro
Vico parlava della conoscenza storica nei termini di una “scienza nuova”. Sennonché, altro è affermare che Vico chiamava la storiografia “scienza”, altro è affermare che la storiografia di Vico è scienza. “La dottrina della scienza” – per fare un altro esempio – non è un libro intorno al metodo scientifico. Ora, Marx chiama il socialismo “scienza reale e positiva”, ma questo non basta per affermare la tesi che il marxismo consiste nella “applicazione del metodo scientifico ottocentesco alla filosofia e alla economia”. Per quanto ne posso sapere, la natura del marxismo si coglie meglio affermando che esso è una formulazione – nello spirito della sinistra hegeliana – della dialettica di Hegel, formulazione che chiamiamo “materialismo storico (o dialettico)”. Molte tesi marxiane non solo non sono supportate da metodo scientifico, ma non sono nemmeno sperimentabili. Alcune sono sperimentabili, p. es. la caduta tendenziale del saggio di profitto, o la teoria del deflazionamento del valore del lavoro conseguente a disoccupazione (detto di passaggio, la prima si è rivelata falsa, la seconda è vera ancora oggi). Che il marxismo sia “organizzazione razionale del pensiero” sono d’accordo, però questo significa che è per ciò stesso scientifico solo se accettiamo di identificare “scienza” e “razionalità”. Ma questa è un’identificazione che non condivido.
Poi mi preme molto sottolineare che col parlare della scienza come compagna del capitalismo non intendevo darne una definizione. Le compagne di viaggio si possono lasciare alla prossima stazione. Insomma, non sto dicendo che la scienza ha natura capitalistica, anche perché, anagraficamente, la prima è più vecchia.
@Vittorio
Sono d’accordo. Però, ed ecco qual è il mio timore: col parlare delle relazioni strettissime tra capitalismo, scienza e tecnica, facciamo in modo che le tre entità in questione sia pensate come aventi tre distinte individualità e facciamo in modo di non pensare alla scienza come qualcosa di sovrastrutturale al capitalismo (a volte questo pensiero non emerge chiaramente e prende vie subliminali, forse più pericolose).
Ieri sono uscito di casa per prendere una boccata d’aria, in realtà mi sono preso solo una secchiata d’acqua, però ho trovato il tuo romanzo in edicola, preso: una cosa credo di poter dire sin d’ora, senza timore di smentite o ripensamenti: è scritto molto molto bene!
@Alessandro
“stiamo annoiando il mondo”
Quante volte ha annoiato lui me!
dicembre 16th, 2009 at 16:25
La Fantascienza ha una sola possibilità,mai usata fino in fondo:la riserva di immaginario che deve piegare l’aspetto scientifico verso il suo cammino dentro l’estranea familiarità del mondo.
Il resto non conta nulla.Meno di tutto l’accademia e i manifesti!
dicembre 16th, 2009 at 19:55
@Kilgore
“e che diamine, non si può sterilizzare il confronto fino a sto punto!…”
dicembre 16th, 2009 at 22:11
Appunto.
Grazie a Luigi per avercelo ricordato.