Le fatiche di Hercule (1296)

aprile 26th, 2012

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Possibile che ci sia qualcuno capace di compiere imprese simili a quelle di Hercule Poirot? È lui stesso che se lo chiede, quando scopre che un impertinente professore universitario ha avuto l’ardire di paragonare le imprese del mitico Ercole a quelle che lui ha compiuto nell’arco della sua carriera. Poirot, come sempre pronto ad affrontare con piglio qualsiasi situazione, non è convinto che l’Ercole tutto muscoli e potenza selvaggia, dalle maniere barbare e poco galanti, sia paragonabile alla classe, all’astuzia e al fine ragionamento con cui una mente superiore (come la sua, naturalmente) può aver ragione di mostri, bruti e nefandezze di ogni genere. Anche se una somiglianza, seppure vaga, con le imprese del mitico eroe esiste davvero. Ma chi, di questi due campioni, merita la palma di più grande benefattore dell’umanità? Poirot non ha dubbi, naturalmente, ed è per questo che si lancia nella risoluzione di dodici casi che possono essere paragonati, per difficoltà, alle dodici fatiche di Ercole.

Agatha Christie (1890-1976), creatrice di Hercule Poirot e di Miss Marple, nasce a Torquay, sulla costa inglese, da una famiglia agiata. Durante la Prima guerra mondiale presta servizio come crocerossina e nel 1920 pubblica il suo primo giallo: Poirot a Styles Court. A questo folgorante esordio seguono numerosissimi romanzi, racconti, testi teatrali e radiofonici. Dopo il divorzio dal primo marito, il pilota Archibald Christie, si risposa con l’archeologo Max Mallowan, con il quale intraprende diversi viaggi in Medio Oriente. Nel 1954 vince il Grand Master Award, nel 1955 il New York Drama Critics Circle Award e nel 1971 viene nominata dalla regina Elisabetta Dame dell’impero.

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Dissertando di camere chiuse

gennaio 12th, 2012

Torna puntuale, l’appuntamento con “La camera chiusa” la nostra rubrica dedicata al mistery nella quale, questo mese, Piero De Palma ci parla di “The hollow man” dell’impareggiabile John Dickson Carr.

Buona lettura!

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Possibili origini della Locked-Room Lecture in “The Hollow Man”, di John Dickson Carr

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Assumendo come punto di riferimento la Locked-Room Lecture in “The Hollow Man” di Carr, dobbiamo rilevare come una prima dissertazione sulle Camere Chiuse risalga purtuttavia a quasi quarantaquattro anni prima.

Infatti Israel Zangwill nel capitolo IV del suo The Big Bow Mystery (1892), elenca tutta una serie di possibili eventualità atte a spiegare una Camera Chiusa:

“Tra i molti prodotti della fantasia, c’erano non poche soluzioni degne di rilevanza, che però fallirono miseramente, come razzi al posto di stelle cadenti. Una di queste era che, nell’oscurità della nebbia, l’assassino era salito alla finestra della camera da letto, dal marciapiede, per mezzo di una scala. Poi, con un diamante, aveva tagliato via uno dei vetri, riuscendo così ad entrare. Nell’andarsene, aveva rimesso a posto il vetro (o un altro che si era portato dietro), ragione per cui la serratura del­la porta non era stata scassinata. Quando fu ribat­tuto che i vetri erano troppo piccoli, un terzo letto­re rispose che il fatto era irrilevante, perché sareb­be bastato infilare una mano per aprire la finestra, per poi ripetere l’operazione prima di andarsene. Questo edificio di vetro fu fatto crollare da un ve­traio: scrisse che era impossibile fissare un vetro da una parte sola dell’intelaiatura, perché sarebbe ca­duto non appena fosse stato toccato e, in ogni caso, lo stucco umido non sarebbe sfuggito all’investiga­tore. Si avanzò anche l’ipotesi che fosse stato tolto e rimesso un pannello della porta e alla fine al nu­mero 11 di Glover Street era stato attribuito un nu­mero infinito di botole e porte scorrevoli, neanche si fosse trattato di un castello medievale. Un’altra di queste teorie ingegnose sosteneva che l’assassino era rimasto nella stanza per tutto il tempo in cui c’era stata la polizia… nascosto nel guardaroba. Oppure che si era messo dietro la porta quando Grodman l’aveva sfondata e che non era stato no­tato nella confusione generale e perciò era riuscito a fuggire, con l’arma del delitto, nel momento in cui l’ex investigatore e la signora Drabdump stava­no esaminando la chiusura della finestra.

A sostegno non mancavano spiegazioni scientifi­che che facevano capire come l’assassino avesse sprangato e chiuso a chiave la porta dietro di sé. Sarebbero state usate delle potenti calamite fuori della porta per girare la chiave e rimettere la spran­ga all’interno. La fantasia della gente fu popolata da assassini con potenti calamite. Unico difetto di tale ingegnosa ipotesi: l’impossibilità. Un fisiologo tirò in ballo i prestigiatori che inghiottono spade (a causa di una particolare anatomia della gola) e dis­se che forse il defunto aveva inghiottito l’arma do­po essersi tagliato la gola. Questo, però, era troppo da inghiottire persino per il pubblico.

Riguardo al­l’ipotesi che il suicidio fosse stato attuato con un ra­soio o soltanto con la sua lama, o anche con un pez­zo di ferro, che poi era affondato nella ferita, non potè essere accettata neanche per un momento…

Tuttavia, forse, il più brillante di questi lampi di genio fu la lettera scherzosa, ma probabilmente non del tutto, che apparve sul Pell Mell Press:

…Egregio signore, vi ricorderete che quando gli assassini del caso Whitechapel sconvolsero l’opinione pubblica, avevo suggerito che l’as­sassino era il coroner della zona. Fui ignora­to. Il coroner in questione è ancora in libertà. E così l’assassino di Whitechapel. Forse tale coincidenza porterà le autorità a prestarmi più attenzione, questa volta. Il problema sem­brerebbe il seguente. Arthur Constant non può essersi tagliato la gola e non può essersela fatta tagliare da qualcun altro. Ma poiché una di queste circostanze si è verificata, tutto ciò è assolutamente assurdo. E, trattandosi di as­surdità, sono giustificato a non crederci. Giacché tale ovvia assurdità è stata messa in circolazione soprattutto dalla signora Drab-dump e dal signor Grodman, mi sento auto­rizzato a non credergli.

Per farla breve, signo­re, cosa ci garantisce che tutta la storia non sia soltanto frutto di fantasia, inventata dalle due persone che per prime hanno trovato il cor­po? Quali prove abbiamo che non siano state proprio loro ad aver sfondato la porta e rotto le serrature e le spranghe e a richiudere tutte le finestre prima di chiamare la polizia? …L’ipotesi del nostro scrittore non è poi così originale come lui la ritiene. Non ha lui, in fondo, guardato con gli occhiali di coloro che continuarono ad insistere che l’assassino di Whitechapel non era altri che il poliziotto che aveva scoperto il corpo? Qualcuno trova sem­pre il corpo, se si trova.

Redattore capo P.M.P.

(Israel Zangwill, The Big Bow Mystery, “Il Grande Mistero di Bow”, traduz. Leda Armstrong, I Classici del Giallo Mondadori, N.606 del 1990, pagg.48-51).

Come si vede, si può parlare già di una dissertazione, anche se impropria, che comprende varie ipotesi, anche se non si può ancora parlare di conferenza: la conferenza ha infatti un che di cattedratico, e perciò tende a dare sistematicità e organicità alle proprie ragioni. Qui invece la materia è ancora affrontata in maniera ingenua e informale, senza alcun tentativo di classificarla. Tanto più che, se vi sia la volontà di enumerare una serie di possibilità, essa è propria di Zangwill, e la si capta attraverso la lettura delle pagine indicate; non esiste invece alcuna dichiarazione circa l’enumerazione delle possibilità di commettere l’omicidio in una Camera Chiusa, che possa corrispondere in effetti alla volontà di creare una conferenza, né tantomeno viene creata nell’opera una possibilità sostanziale che ciò avvenga, mediante un personaggio del romanzo che, come farà Carr con il Dottor Fell di quarantaquattro anni dopo, illustri una conferenza a ciò dedicata. Nonostante ciò, vengono già gettate delle basi che saranno utilizzate di lì a venire. Quello che poi voglio far notare è che proprio qui, per la prima volta,e non in Le mystère de la chambre jaune di Gaston Leroux (1907), viene introdotta la possibilità che anche un poliziotto possa essere l’omicida.

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Sipario, l’ultima avventura di Poirot (1287)

dicembre 5th, 2011

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Molti anni sono passati da quando ho incontrato per la prima volta Hercule Poirot. Anche allora è stato a Styles Court, come oggi. Anche allora per una faccenda di omicidi. Eravamo entrambi più giovani e pieni di energia. Vederlo così invecchiato e segnato dalla malattia mi addolora, sebbene l’età non abbia per nulla intaccato la sua mente. Brillante, geniale come sempre nell’affrontare i casi più intricati, gli assassini più diabolici. Qui i delitti sono addirittura cinque. Cinque vittime senza un legame apparente: nessuna serie infernale a collegarle. Ma io so che l’enigma troverà una soluzione, perché lui è Poirot, signore e signori. Il più grande investigatore di tutti i tempi. Mi chiamo Hastings, e questa è la nostra ultima avventura.

Agatha Christie (1890-1976), creatrice di Hercule Poirot e di Miss Marple, nasce a Torquay, sulla costa inglese, da una famiglia agiata. Durante la Prima guerra mondiale presta servizio come crocerossina e nel 1920 pubblica il suo primo giallo: Poirot a Styles Court. A questo folgorante esordio seguono numerosissimi romanzi, racconti, testi teatrali e radiofonici. Dopo il divorzio dal primo marito, il pilota Archibald Christie, si risposa con l’archeologo Max Mallowan, con il quale intraprende diversi viaggi in Medio Oriente. Nel 1954 vince il Grand Master Award, nel 1955 il New York Drama Critics Circle Award e nel 1971 viene nominata dalla regina Elisabetta Dame dell’Impero.

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Assassinio sull’Orient Express (1274)

luglio 7th, 2011

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Il signor Ratchett, un ricco americano dal passato misterioso, viene ucciso a pugnalate sull’Orient Express. Tante, troppe pugnalate. Il colpevole dell’efferato delitto deve per forza nascondersi tra i viaggiatori, ma nessuno di loro sembra avere alcun movente plausibile. Per fortuna sul treno c’è Hercule Poirot, investigatore senza eguali, che con la sua logica impeccabile affronterà il caso forse più intricato della sua carriera e riuscirà a fare emergere la verità.

Agatha Christie (1890-1976), creatrice di Hercule Poirot e di Miss Marple, nasce a Torquay, sulla costa inglese, da una famiglia agiata. Durante la Prima guerra mondiale presta servizio come crocerossina e nel 1920 pubblica il suo primo giallo: Poirot a Styles Court. A questo folgorante esordio seguono numerosissimi romanzi, racconti, testi teatrali e radiofonici. Dopo il divorzio dal primo marito, il pilota Archibald Christie, si risposa con l’archeologo Max Mallowan, con il quale intraprende diversi viaggi in Medio Oriente. Nel 1954 vince il Grand Master Award, nel 1955 il New York Drama Critics Circle Award e nel 1971 viene nominata dalla regina Elisabetta Dame dell’impero.

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Considerazioni generali sul Philo Vance interpretato da Giorgio Albertazzi

maggio 17th, 2011

Cari lettori de “Il Giallo Mondadori”, oggi, sono lieti di presentarVi un lungo e articolato saggio di Pietro De Palma su “Philo Vance”, uno dei simboli del genere a noi tanto caro. Certo di farVi cosa gradita, Vi auguro una buona lettura.

                                                                                                              Dario Geraci

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Nel 1974, La RAI Radiotelevisione Italiana, che un tempo contribuiva alla cultura in Italia creando i più bei sceneggiati e le più belle riduzioni teatrali (talora lo fa ancora), mandò in onda i 3 primi casi di Philo Vance, di S.S. Van Dine (La strana morte del signor Benson, La Canarina assassinata, La fine dei Greene), ridotti per la televisione, affidando il personaggio principale a Giorgio Albertazzi,

Per la TV, Albertazzi aveva gà lavorato e aveva conseguito notevoli risultati, ancor oggi apprezzati (L’Idiota di Dostojevskj, Mr Hyde di Stevenson); il Philo Vance viene ritenuto comunemente un interludio, una produzione minore nell’ambito di quelle interpretate dall’attore: io penso invece che abbia rappresentato una tappa significativa, al pari delle altre produzioni ricordate.

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Lutto in famiglia (1269)

marzo 31st, 2011

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Le dieci e quarantasei di una sera nebbiosa a casa di Simon Barnett, avvocato. A chiamarlo al telefono è suo fratello Oliver, a sua volta avvocato e socio, che gli chiede di raggiungerlo urgentemente in ufficio. Quando Simon arriva, però, Oliver giace cadavere in una pozza di sangue, una rivoltella vicina alla mano destra. Una sola ossessione per Simon: trovare il suo assassino e fare giustizia, a ogni costo. Ma esistono porte che sarebbe meglio lasciare chiuse e segreti che non dovrebbero essere svelati, mai.

D.M. DEVINE (1920-1980), britannico, si laureò nelle università di Glasgow e Londra. Dal 1946 al 1972 lavorò come funzionario amministrativo dell’università di St Andrews, a Fife. Giallista dal 1961, quando il suo primo romanzo, Lutto in famiglia , vinse un importante concorso indetto dalla casa editrice Collins, grazie soprattutto al giudizio molto positivo di Agatha Christie.

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“Il doppio” comune denominatore ne “Il caso dei fratelli siamesi” di Ellery Queen

dicembre 22nd, 2010

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Avevo visto esposto tempo fa, in una libreria, un romanzo di Alexandre Dumas che non conoscevo: Les freres corses, “I fratelli corsi”, un breve romanzo o racconto lungo che dir si voglia. Una bella storia, potrei dire una ghost story : in una famiglia corsa, nell’imminenza della morte, nel ramo maschile, appare un defunto, a chi sta per passare a miglior vita. Ma, se ne parlo, è perché al centro della storia vi sono 2 fratelli, Lucien e Louis che si somigliano come due gocce d’acqua: 2 fratelli monozigoti. Sono lontani, uno a Parigi, l’altro in Corsica, ma sono uniti da quella telepatia che molte volte pone in stretto legame 2 fratelli gemelli. E così quando uno viene ucciso in un duello, l’altro nello stesso identico momento sente un forte dolore nel punto del torace dove l’altro è stato ferito mortalmente, prima che il fratello, seguendo la tradizione di famiglia, gli compaia a chiedere giustizia. Orbene, mentre leggevo questo romanzo di Dumas, mi è balzato singolarmente davanti agli occhi il tratto d’unione con un grande romanzo di Ellery Queen: “Il Caso dei Fratelli Siamesi”, che tratta di fratelli, siamesi e non, ma che tratta soprattutto “il tema del doppio”, per la prima volta, nei romanzi di Ellery Queen.

Prima del romanzo in questione, che è il settimo firmato da Ellery Queen, i due cugini Dannay e Lee avevano pubblicato The Roman Hat Mystery, The French Powder Mystery, The Dutch Shoe Mystery, The Greek Coffin Mystery, The Egyptian Cross Mystery, The American Gun Mystery, e anche 3 romanzi sotto lo pseudonimo di Barnaby Ross: The Tragedy of X, The Tragedy of Y, The Tragedy of Z. Va detto che oramai nel 1933 Frederick (Daniel Nathan) Dannay detto “Danny” e Manfred Bennington (Manford Lepofsky) Lee detto “Manny”, cugini e nati entrambi nel 1905, erano sulla cresta dell’onda: i loro romanzi andavano a ruba.

All’inizio il loro investigatore si comportava alla maniera di Philo Vance, e dal creatore di Philo Vance, S.S. Van Dine ( i cui titoli seguivano la formula base : The + Sostantivo + Murder Case), i due cugini mutuarono la caratteristica formula base del titolo: The + Aggettivo di Nazionalità + Sostantivo + Mystery, cosa che andò avanti fino al 1935, quando cioè, con Halfway House (1936), quest’abitudine terminò. All’inizio, tuttavia, pur consci del valore del loro primo manoscritto, The Roman Hat Mystery, essi penarono per riuscire a piazzarlo presso qualche editore: solo Frederick A. Stokes gliel’accettò, dimostrando il fiuto che altri non avevano saputo valutare, tanto più che i due avevano vinto il concorso bandito nel 1928 dalla rivista McClure’s e dalla casa editrice Lippincott  per la migliore opera prima poliziesca, ma poi la rivista era fallita e passata di mano ad altro editore, che invece di pubblicare il loro romanzo aveva scelto altro.

 Il loro più grande personaggio è stato Ellery Queen che poi ha dato il nome alla loro ditta comune: il suo nome si fa risalire all’amico d’infanzia di Danny, Ellery Hermann, più che al poeta William Ellery Leonard (in gioventù Danny aveva coltivato velleità poetiche) o all’editore Ellery Sedgwick.

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Va detto anche che i due cugini avevano il fiuto degli affari e molto intelligentemente, i romanzi che hanno come protagonista non Ellery Queen ma l’attore shakespeariano Drury Lane, erano stati dati alle stampe con altro pseudonimo, Barnaby Ross. Francis M.Nevins Jr., storico autore del celebre studio critico su Ellery Queen, “Royal Bloodline: Ellery Queen Author and Detective”, afferma che il nome Barnaby Ross potrebbe essere stata la reminiscenza di un palazzo in Elmira conosciuto come Barnaby’s Barn, in cui Dannay spesso giocava quando era bambino e che figura nel suo romanzo autobiografico The Golden Summer, anche se in effetti Barnaby Ross viene menzionato per la prima volta in The Roman Hat Mystery,”La Poltrona N.30″, nell’introduzione (che in Italia è disponibile solo nell’edizione tradotta da Montanari): lì viene collegato Richard Queen (e suo figlio Ellery) a Barnaby Ross: “..Richard Queen..ai tempi dei suoi brillanti risultati conseguiti nell’ormai vetusto caso di assassinio di Barnaby Ross..” . Interessante è che l’estensore delle introduzioni, che compaiono nei primi romanzi, sono firmate da un fantomatico J.J. McC. Nella prima, quella appunto di The Roman Hat Mystery, vengono affermate delle cose di cui non si troverà più traccia nei successivi romanzi: Ellery è sposato ed è padre di un bel bambino, vive in Italia, ed Ellery Queen e Richard Queen sono solo pseudonimi. Ma la cosa più interessante, una vera chicca riguarda il famoso J.J.McC. C’è chi ha osservato, infatti, che un  McClure è presente in uno degli ultimi romanzi di Ellery Queen, Face to face; nessuno si è accorto però che questo nominativo rimanda a chi bandì il concorso per il quale i due Queen concorsero con il loro primo romanzo: la rivista McClure.

I due cugini avevano adottato una tecnica (che potremmo dire) di marketing: creare una finta querelle sul valore dei romanzi (indiscusso) rimpallandosi accuse e contraccuse e sfidandosi pubblicamente e vicendevolmente su presunte qualità nel risolvere deduttivamente dei delitti. Il tutto era partito con la convocazione presso una scuola di giornalismo dei due, al fine di illustrare le tecniche di scrittura: era stato tirato a sorte chi dovesse recarvisi ed era uscito Lee che vi si era recato mascherato. Sfruttando la maschera nera, in un secondo tempo, i due presero ad affrontarsi anche sul palcoscenico: Dannay impersonava Barnaby Ross, mentre il cugino Ellery Queen. La popolarità dei due arrivò alle stelle e cominciò a circolare persino la voce che Ellery Queen fosse un altro pseudonimo di S.S. van Dine, mentre Barnaby Ross lo era del grande critico americano Alexander Woolcott (che si vantava di essere stato fonte di ispirazione per il Nero Wolfe di Rex Stout). Poi un bel giorno, il 10 ottobre 1936, sul Publishers Weekly, i due ammisero che era stato un loro bluff, riuscitissimo, per imporre dei romanzi che forse avendo un protagonista diverso avrebbero potuto risentire della disaffezione del pubblico dei lettori, oltre che la stessa produzione vertiginosa di romanzi avrebbe potuto inflazionare le vendite degli stessi.

Nel 1933, intanto, era comparso The Twin Siamese Mystery, che s’impose nella loro produzione per svariati motivi, come uno dei migliori romanzi in assoluto del loro primo periodo creativo, contraddistinto dall’oramai celebrata “Sfida al lettore”.

Nevins dice in merito al romanzo in esame: “..Nel successivo The Siamese Twin Mystery (II caso dei fratelli siamesi, 1933) Queen tenta nuovamente di infondere una dimensione filosofica nell’enigma deduttivo for­male, riscuotendo un notevole successo ad entrambi i livelli. Ellery e suo padre, di ritorno da una vacanza in Canada, restano intrappolati dall’incendio di una foresta su un fianco della Arrow Mountain. La loro unica speranza consiste nel salire verso la cima della montagna, e un bel po’ dopo il tramonto scoprono una casa sulla vetta. Ora che l’incendio divora l’intera base del monte, i due Queen trovano assai gradita l’ospitalità loro offerta dal dottor John Xavier, eminente chirurgo ormai in pensione, e dalla sua strana famiglia, ma ben presto appare chiaro che qualcosa non va per il verso giusto. Chi è l’odioso ciccione che vaga per la montagna? Perché diversi anelli sono stati rubati all’interno della casa durante la settimana preceden­te? Chi è la donna sconosciuta che si nasconde in una delle camere da letto del piano superiore? E chi o che cosa è quella creatura simile a un granchio che si aggira per i corridoi della casa di notte? Il mattino dopo il dottor Xavier viene trovato ucciso da un colpo d’arma da fuoco nel suo studio, con un solitario dinanzi a sé e la metà strappata di un sei di picche in mano. I due Queen devono risolvere il delitto da soli, poiché ormai l’incendio ha isolato la vetta, e nonostante l’incalzare delle fiamme ha presto luogo un secondo omicidio, questa volta con una vittima che stringe in pugno la metà di un fante di quadri. Il culmine viene raggiunto allorché il fuoco raggiunge la casa e tutti i membri della famiglia Xavier si rifugiano in cantina nell’attesa che le fiamme giungano fino a loro” . Come si vede, ce n’è abbastanza di carne da mettere sul fuoco, anche se onestamente, va riconosciuto che il romanzo, nonostante sia uno dei migliori del primo periodo creativo, è tuttavia meno intricato e cervellotico di The Greek Coffin Mystery , “Il Caso Khalkis”, che invece viene riconosciuto da molti e anche dallo stesso Nevins, come il “..romanzo investigativo più complicato, più spaccacervello e meglio costruito che sia stato pubblicato negli Stati Uniti durante l’Età dell’Oro del genere poliziesco”.

Innanzitutto vediamo come Arrow Head, la casa sulla vetta di una montagna attorniata dal fuoco che divampa, prefiguri un caso di Camera Chiusa allargata: è come un’isola, attorniata dal mare, da cui l’assassino non può fuggire, come “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie o ancora in modo più attinente, come l’assassinio in una casa al di fuori della quale c’è un ciclone e quindi da cui non si può uscire, in “La casa nel ciclone” di Newton Gayle. Le fiamme che attorniano Arrow Mountain, più o meno tra il Wyoming e l’Utah, costringono tutti gli occupanti della casa, tra cui anche l’omicida e il detective, a convivere fino a quando non sarà finita. In un certo modo Ellery, rinchiuso in cantina con gli altri, spiega la soluzione, quale antidoto alla paura di finire arsi: è un modo come un altro per non pensare ad un male più grande, riflettendo su un male più piccolo in quel momento: quello scaturito in quella casa e di cui lui, in quel momento, è supremo arbitro.

Il romanzo si pone come uno degli esempi migliori di quella caratteristica tutta queeniana, che è the dying message, “il messaggio del morente”, comparso per la prima volta in occasione del terzo omicidio di The Tragedy of X: la vittima prima di esalare l’ultimo respiro, cerca di indirizzare con un messaggio specifico, chi saprà interpretarlo in maniera appropriata: qui per es. è una carta, prima il sei di picche, poi il fante di quadri, tagliato a metà: vedremo quale altro significato potrà avere nel prosieguo del ragionamento, ma qui limitiamoci semplicemente a segnalarlo. Faccio notare una cosa che mi è balzata alla mente: leggendo questo romanzo, al tempo in cui fu scritto, chiunque, senza averne la prova certa, avrebbe però potuto ipotizzare (oltre quello che si era letto nell’introduzione a The Roman Hat Mystery) un legame tra Barnaby Ross ed Ellery Queen: infatti, se ben si vede, la prima volta che Ellery Queen introdusse “il messaggio del morente”, fu in Tragedy of X. E in The Twin Siamese Mystery, muore un X anzi, ne muoiono due: quindi, a ben donde, anche questa è una Tragedia di X !

Tuttavia questo mirabolante romanzo si segnala per una serie di estrose deduzioni e variazioni sul tema della falsa confessione; e per due caratteristiche: la prima, connaturata alla vicenda narrata, è la mancanza del corollario degli agenti e del sergente Velie che di solito compaiono nei primi romanzi; la seconda, molto più importante, è la mancanza di The Challenge to Reader, “La sfida al Lettore”. Infatti questo è il primo romanzo in cui manca, anzi per essere più preciso, in cui sembrerebbe mancare: infatti, nella cantina, mentre al di fuori il fuoco divampa nella casa e minaccia le loro stesse vite, Ellery si rivolge ai presenti e chiede: “..Prima che vi racconti la mia storiella, non c’è nessun altro, come Smith, che ha una confessione da fare? Ci fu silenzio. Ellery studiò lentamente i loro volti, uno per uno.. – Ostinati sino alla fine, vedo. Allora dedicherò i miei ultimi..i miei prossimi momenti a questa faccenda..” (E. Queen,  The Twin Siamese Mystery, Il Caso dei Fratelli Siamesi, Speciale Del Giallo Mondadori n.38 del  2003, trad. Gianni Montanari, pag. 229). Stefano Benvenuti e Gianni Rizzoni, autori di una celebrata opera Mondadori di molti anni fa, “Il Romanzo Giallo”, affermavano che in realtà, anche se non vi è alcuna segnalazione di una “Sfida al Lettore”, essa fosse camuffata : siccome l’invito al colpevole non avrebbe avuto senso perché quello non si sarebbe certamente fatto avanti, essi concludevano che l’invito non poteva che essere rivolto al lettore stesso.

Tuttavia io personalmente son rimasto sempre un tantino disorientato da questa sofistica spiegazione: perché mai, proprio in un romanzo come questo, la sfida sarebbe dovuta mancare e non anche in altri? Io invece non vorrei che “La Sfida al Lettore” in realtà ci fosse, magari nella prima edizione, quella rarissima di Stokes, e poi con la continua pubblicazione in formati economici e non integrali, questa forma di sfida fosse andata persa. Del resto degli scritti di Ellery Queen, alcune cose sono rarissime e non solo le prime edizioni di Stokes ma anche per esempio gli esemplari della prima rivista di racconti pubblicata dai due cugini. Comunemente si sa che essi fondarono la EQMM; ma non si sa per esempio che, prima della pubblicazione di essa a partire dal 1941, essi avessero tentato di pubblicare un’altra rivista (che avrebbe dovuto presentare romanzi e racconti selezionati), di cui uscirono solo quattro numeri (rarissimi e i cui prezzi nel caso si trovassero varrebbero cifre astronomiche) mentre un quinto in forza di pubblicazione, non fu pubblicato: Mistery League.

La critica ha dibattuto a vario modo sull’importanza di questo romanzo, non tanto per la sua struttura, ma per ciò che sottende alla sua realizzazione. Infatti è questo il primo romanzo in cui molti segnali disseminati nella trama, rimandano ad un malessere sempre più forte, un vero e proprio disagio, che si era instaurato tra i due cugini. Essi infatti, pur uniti dalla loro storia e dalle loro comuni origini ebraiche, pur avendo insieme creato dei best sellers, poco a poco si erano resi conto di essere entrati in un gioco che andava al di là della loro sfera personale (che avrebbe compreso poi testi per trasmissioni radiofoniche, sceneggiature per il cinema, e la creazione dell’ EQMM, L’Ellery Queen Mystery Magazine, dove sarebbero state raccolte le migliori storie brevi, racconti, del panorama poliziesco internazionale). I due non si sopportavano più, e finivano spesso per litigare, anche in maniera plateale, come quando, mentre erano in uno studio radiofonico, venne sospesa una trasmissione a causa delle grida che si sentivano provenire da altro ambiente dove stavano “discutendo” i due cugini: andò a finire, che per non stare neanche troppo vicini, uno andò a vivere in e l’altro in: Manfred Lee si occupava della stesura del romanzo e dello stile, mentre Frederick dell’invenzione della messinscena narrativa e del plot. In pratica il modus agendi della coppia si è potuto evincere allorché alcuni anni fa, Crippen & Landru ha pubblicato l’ultimo romanzo inedito della coppia: si tratta di Tragedy of Errors, un canovaccio lungo una settantina di pagine scritto da Dannay e poi, dopo la morte di Lee, rimasto in un cassetto fin quando, dopo la morte di Dannay, è stato riscoperto: “Danny” scriveva le trame e ideava il plot, mentre poi a stendere il romanzo nella forma definitiva, ci pensava “Manny”. Insomma..la mente e il braccio!

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 Remi Schulz, un grande studioso di enigmi,francese, e grande esperto di Cabbala, ha scritto degli interessanti articoli, esaminando alcuni aspetti dell’opera di Queen: le tesi che egli porta avanti non ci sentiamo del tutto di condividere, in quanto egli tendenzialmente cerca di portare acqua al suo mulino, ma alcune delle sue considerazioni sono veramente interessanti, tanto più che il significato nascosto nei testi, è la caratteristica della Kabbalah, dottrina che due ebrei come i due cugini dovevano conoscere se non condividere : “..est le septième roman des Queen, effectivement paru fin 33, l’un des plus réussis de cette première période fort prisée par Borges qui s’est déclaré peiné de la bifurcation des Queen hors du sentier de la pure déduction..”. Remi Schulz cita anche un celebre racconto di Juan Antonio Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano (Borges è presente con qualche racconto in EQMM)  facendo riferimento al fatto che ad un certo punto la via che i due cugini avevano percorso insieme, si fosse arrestata dando origine ad una biforcazione sul sentiero della pura deduzione: in pratica secondo lui Borges, scrivendo il racconto si sarebbe metaforicamente riferito ai due Queen. Questa a noi pare un’interpretazione presa per i capelli: Schulz in sostanza rileva la somiglianza di Herbert Quain, scrittore inventato e protagonista di un altro racconto, Esame dell’opera di Herbert  Quain, con Ellery Queen, che per lui è fortemente indicatrice, anche perché Borges era stato ospitato su EQMM e il racconto che di lui cita è poliziesco. Il fatto è che la comune interpretazione di Il giardino dei sentieri che si biforcano, è basata sulla presa in esame del Tempo non in senso assoluto ma relativo, “una rete crescente di tempi divergenti, convergenti e paralleli..che s’accostano, si biforcano, si tagliano o s’ignorano per secoli comprende tutte le possibilità” (J.L.Borges : Finzioni – Trad. Franco Lucentini, Einaudi, 1955 ristampa 2010,pagg.90-91).

Interpretazione metafisica, potremmo dire fantascientifica, ma non poliziesca. Va detto però che Il giardino dei sentieri che si biforcano è del 1941, tempo in cui i due probabilmente avevano già maturato la volontà di stare divisi (anche se apparve su EQMM solo nell’agosto del 1948: traduttore fu Anthony Boucher). E se Schulz pensa a Queen come ispiratore di Quain è perché, ma non lo dice, c’è qualcosa che lega indissolubilmente questo ipotetico romanzo di autore inventato, a Ellery Queen: il narratore dice che “..L’editore lo mise in vendita negli ultimi giorni del novembre 1933. Ai primi di dicembre dello stesso anno, le gradevoli e ardue involuzioni del Siamese Twin Mystery affaccendarono sia Londra che New York..” (J.L.Borges: Finzioni, Esame dell’opera di Herbert Quain, trad. Franco Lucentini, Einaudi, 1955 ristampa 2010, pag.64).

Prendiamo in esame un altro passo assai significativo del suo studio: “..Le mystère du jumeau siamois, du Siamese twin, est peut-être une première manifestation de ce malaise entre les cousins. Alors que tous les premiers Queen sont parus avec la reine de carreau (Queen of diamonds) en couverture, Dannay a convoqué ici une dame Carreau d’origine française mère de jumeaux xiphopages ; un chirurgien spécialisé envisage de les séparer, il est assassiné ; un des jumeaux est soupçonné à cause d’un valet de carreau coupé en deux (une double figure tête-bêche dans un jeu américain), ce qui pose le délicat problème du châtiment..”.

Per chi non conosce il francese, Schulz afferma che “il mistero del fratello siamese può essere una prima manifestazione di questo disagio dei due cugini. Allora che tutti i primi (romanzi) di Queen presentano in copertina una regina di quadri, Dannay ha convocato qui una signora Carreau di origine francese, madre di gemelli siamesi; un chirurgo specializzato in operazioni di separazione viene assassinato; uno dei gemelli è sospettato a causa di un fante di quadri tagliato in due pezzi (una doppia figura nel gioco di carte americano), che pone il  delicato problema della pena..La nonna comune dei due cugini Dannay e Lee si chiamava Rachele, il nome della regina di quadri nel gioco francese”.

In effetti quello che dice Schulz può avere una sostanza reale: le prime edizioni dei romanzi di Queen, prima de “Il Caso dei fratelli siamesi” presentano in effetti una regina di quadri in copertina, che rappresenterebbe come logo la ditta dei due cugini: perché proprio una regina di quadri e non di picche o di fiori o di cuori? Schulz dice che qui c’è una Carreau (vero) e Madame Carreau madre  dei due fratelli siamesi metaforicamente rappresenta una donna di quadri, madre di due fratelli siamesi (un nome, Ellery Queen, che nasconde l’unione di due persone, che sono per forza uniti pur avendo due menti e due corpi diversi, e che vorrebbero distaccarsi: i due cugini); c’è un chirurgo esperto in separazioni di fratelli siamesi che muore assassinato (in sostanza nel momento in cui i due cugini avrebbero potuto essere divisi, è intervenuto qualcosa a sancire la loro indivisibilità). Il fratello siamese che viene sospettato lo è a causa di un fante di quadri diviso in due (una carta che ha il fante speculare nelle due metà della carta): ancora una rappresentazione della riunione di due persone in una. Tacciamo sul resto: la mano sinistra aperta e quella destra chiusa, il ragionamento sul fatto che non fosse mancino, e quindi sulla volontarietà dell’atto, tanto più che la rigidità cadaverica sarebbe cominciata subito dopo la morte, a causa del fatto che fosse diabetico: ma questa particolarità è presente anche in un altro romanzo, The Egyptian Cross Mystery, scritto precedentemente a questo, insomma un particolare che i due avrebbero utilizzato adattandolo ad altro contesto.

Ma per quale motivo innanzitutto i due Queen avrebbero scelto una Donna di quadri invece che quella di altro seme? Il seme del quadri secondo noi è peculiare nei quattro e ha una caratteristica che gli altri non hanno: rovesciata, è sempre un quadri, non c’è cioè un verso: le picche rovesciate sono rovesciate, i cuori e i fiori altrettanto, ma il quadri rovesciato non lo è, non si può vedere se lo sia, è la rappresentazione dell’unità, della perfezione dei semi. Tuttavia la ragione più profonda della scelta, è data dalla storia familiare comune ai 2 cugini, singolarmente collegata ad una carta da gioco. Se riandiamo all’origine dei giochi di carte, troviamo che la capitale vera e propria, il luogo dove per la prima volta le carte francesi furono usate e da dove si diffusero altrove, nei Paesi limitrofi, fu, dal XVI secolo, la città di Rouen: lì in particolare, alle carte con soggetti (ai fanti, alle regine, ai re) vennero dati dei nomi. In origine la tabella dei nomi era la seguente:         

Re di Picche = David, Re di Cuori=Alexander (Alessandro Magno), Re di Quadri= Caesar (Giulio Cesare), Re di Fiori=Charles (Carlo Magno); Fante di Picche=Hector (Ettore, principe di Troia),Fante di Cuori=La Hire (Etienne de Vignoles, comandante dell’esercito francese nel tempo di Giovanna d’Arco), Fante di Quadri=Ogier (uno dei cavalieri di Re Artù), Fante di Fiori=Judas Maccabaeus (Giuda Maccabeo); Regina di Picche= Pallas (Pallade Atena), Regina di Cuori= Rachel (Rachele, moglie di Isacco),Regina di Quadri=Argine (anagramma di Regina), Regina di Fiori=Judith (Giuditta).

Secondo una interpretazione molto interessante, alcuni di questi nomi sarebbero delle storpiature francesi: così Argine (che non si è ancora riusciti a capire a chi si riferisse) deriverebbe da Argeia, mitica principessa della città Argo; Rachel non si riferirebbe a Rachele ma a Ragnel moglie di Sir Gawain, un altro dei cavalieri della Tavola Rotonda; e infine La Hire potrebbe derivare da Aulus Hirtius, uno dei comandanti di Giulio Cesare. In questo modo le 12 carte a soggetto apparterrebbero a 4 grandi famiglie: personaggi biblici, personaggi di derivazione greca, personaggi di derivazione romana, personaggi cristiani. Tuttavia, quando le carte da gioco si furono adeguatamente diffuse in Francia, alla terminologia di Rouen si affiancò quella di Parigi, che aveva delle differenze, una delle quali a noi interessa particolarmente:  il Re di Cuori diventa Charles e quello di Fiori, Alessandro Magno, mentre gli altri sono invariati; il Fante di Picche è Ogier, quello di Cuori.. La Hire, di Quadri..Ettore, e di Fiori..Judas Maccabaeus; infine la Regina di Picche è Pallade, la Regina di Cuori è Judith, la Regina di Quadri è Rachel, la Regina di Fiori è Argine. Puntiamo l’attenzione su Rachel=Regina di Quadri: le madri dei due cugini, le sorelle Rebecca e erano figlie degli emigranti ebrei russi, Leopold e Rachel Wallerstein : Rachel..ecco il nesso!  Del resto anche Remi Schulz vi accenna : “La grand-mère commune aux cousins Dannay et Lee se prénommait Rachel, le nom de la reine de carreau dans les jeux français”. Tuttavia Remi Schulz per il romanzo in questione in pratica si ferma qui; noi invece.. andiamo  avanti.

 Notiamo innanzitutto che a questo punto, se Rachele, Regina di quadri nelle carte francesi, era anche il nome della nonna materna dei 2 cugini, e se nel romanzo abbiamo una Madame Carreau ( che secondo Luca Conti potrebbe esser stata una reminiscenza di Madame Laveau, la regina del Voodoo in New Orleans) e Carreau in francese designa il seme di quadri  madre dei due gemelli siamesi  Francis e Julian, significa che possiamo idealmente e giustamente associare Francis e Julian a Dannay e Lee, e la stessa carta, il Fante di Quadri (doppia nella specularità dei due fanti) può, in virtù dell’associazione Carreau=Quadri=Queen, rappresentare non solo uno dei due fratelli siamesi, ma anche uno dei due cugini Queen, come pure, più ancora singolarmente, la carta strappata in due può significare una unione..strappata: la divisione di una unità in due.

Ma quello che ho osservato in particolare è una cosa su cui nessuno ha posto la propria attenzione: per quale motivo il chirurgo si chiama Xavier? Innanzitutto Xavier non è un nome comune in USA, almeno non è comune come John, Bill, Jack: dove i Queen avrebbero tratto l’ispirazione e perché avrebbero proprio scelto questo nome a rappresentare il chirurgo che ha il compito nel romanzo di separare i due fratelli siamesi?

Osservo innanzitutto che il romanzo è del 1933: da alcuni anni aveva cominciato a suonare in New York un grande musicista di origine spagnola, che aveva messo su una propria band, specializzandosi nella musica d’accompagnamento e soprattutto in tanghi, per cortometraggi e lungometraggi, e a partire dal 1931 era diventata la principale attrazione della stagione del Waldorf Astoria Hotel, uno dei più grandi e conosciuti di New York : Xavier Cugat. E’ possibile che il grande arrangiatore e musicista spagnolo-cubano, abbia fornito l’ispirazione per quel personaggio del romanzo? Secondo me, potrebbe essere possibile, ma comunque poi bisognerebbe vedere il perché proprio questo nome e non un altro li avesse colpiti: secondo me, all’origine della scelta del nome, ci fu la lettera iniziale: la X. Perché?

Abbiamo già fatto notare come questo romanzo si apparenta idealmente a The Tragedy of X , e quindi X potrebbe esser stata scelta per legare i due romanzi. Tuttavia, la X, nel nostro caso, potrebbe rappresentare il “bifrontismo” dei 2 cugini, il loro “doppio”: infatti la  X, la lettera CHI greca, rappresenta il Chiasmo, che ha una forma a croce: gli elementi si dispongono ” in corrispondenza inversa” l’uno nel confronto dell’altro, per cui ciò che è in basso a sinistra si specchia in ciò che è in alto a destra, e così via. Del resto la corrispondenza a chiasmo come coppia di opposti, si apparenta a quella delle due immagini speculari secondo un asse simmetrico, rivolte una verso l’altra o entrambe che guardano le due direzioni opposte, un bifrontismo che ci richiama il Dio Giano (tanto più che se notiamo la rappresentazione del dio bifronte e lo stilizziamo potremmo ricavarne una X. Poi chissà come pensandoci, ho notato come eufonicamente Jianus sia molto simile a John, il John di Xavier: in Ellery Queen tutto ciò che sembrebbe dettato dalle coincidenze non lo è e leggere tra i righi non è un esercizio campato in aria, ma connesso con le credenze ebraiche dei due cugini. Tra i due quello che era più versato a questi enigmi era ovviamente Dannay, tanto più che era lui a creare le basi delle sceneggiature e del plot : era lui a sentire di più questa necessità di staccarsi dal cugino?

 E Mark, l’altro fratello di John? Anche lui è un nome scelto apposta? Remi Schulz, sempre nel suo saggio, nota la singolarità del fatto che Twain sia molto vicino come forma della parola a Twins (Siamesi). Coincidenza ?

“..Dannay a écrit seul un roman, publié en 53 sous son vrai nom de naissance Daniel Nathan, The golden summer, basé sur des souvenirs d’enfance… Si The golden summer est bien plus qu’un doublon de Tom Sawyer, son titre semble calqué sur celui du premier roman de Twain, The gilded age (L’Age doré)”. Ci sembra di no, e ci sembra anche che l’osservazione di Schulz sia ancorché interessante: Dannay scrisse nel’53 un romanzo che parlava della sua infanzia, The Golden Summer, un romanzo molto simile se vogliamo all’oggetto del Tom Sawyer di Mark Twain, ma ancor più vicino nel titolo al primo di Mark Twain : The Gilded Age, “L’Età d’Oro”.

Osserviamo che tuttavia ambedue i soggetti, il fratello di John Xavier, Mark Xavier e Mark Twain hanno lo stesso nome: un altro tentativo di Dannay di collegarsi alle loro persone, un’ulteriore metafora?

Se proprio vogliamo, il tema del doppio è molto insistente nella produzione dei due cugini da questo momento: ho notato un’altra cosa di cui nessuno si è accorto,che cioè, per esempio, per fare un ulteriore collegamento alla questione dibattuta in questo articolo, il nome Mark, non compare solo in questo romanzo, ma anche altrove: c’è per esempio un radiodramma che si chiama “The Adventure of the Mark of Cain” . Il Marchio di Caino, cioè il marchio dell’assassino di Abele,  richiama singolarmente nel suo titolo anche due nomi fortemente caratterizzanti nella produzione queeniana: il Mark di cui abbiamo parlato, che è parte di un doppio (John-Mark) e Cain, che è parte di un altro doppio (Abel Bendigo-Cain Bendigo) in The King is Dead, “Il Re è Morto”, in cui compaiono altri due fratelli. Tra l’altro, a evidenziare l’importanza di queste accezioni nel continuum dell’opera queeniana, va ricordato che anche un capitolo di “Once was a woman”, si chiama “The Mark of Cain”.

Mark, Xavier, due fratelli. Ma..Xavier chi ci ricorda anche? A noi ricorda anche il telepate capo degli X-Men, il Professor Charles Xavier. Possibile che Stan Lee abbia guardato a Ellery Queen? E’ curioso, ma anche se non sarebbe proprio strettamente attinente ai richiami dei due Queen con il tema del doppio, notiamo come non solo Xavier ricorra nella saga degli X-Men (ancora una volta la X). Infatti, anche qui c’è un doppio: Xavier e il suo fratellastro, il malvagio prima e poi redento “Phenomenon”, che guarda caso si chiama Cain Mark . Strano, vero? E se proprio volessimo analizzare la figura, potremmo anche dire che i due Xavier sono molto simili: come John Xavier si occupa della separazione di fratelli siamesi, cioè di fratelli uniti mostruosamente a causa di una disfunzione genica, anche Charles Xavier si occupa di esseri umani nati mutanti in ragione di un gene particolare : il gene X. E se volessimo ancor più cercare il pelo nell’uovo, potremmo dire che i 2 fratelli siamesi non sono altro che dei mutanti. Quindi..

Nel mare delle cose interessanti di questo romanzo, mi è balzata in mente un’altra cosa che desidero far notare: nella mano destra di John Xavier viene ritrovato un frammento di “Sei di picche”. Il perché stringesse un frammento invece che una carta intera è già una cosa che mi ha fatto pensare e poi non viene spiegato: una supposizione che mi verrebbe spontanea è che John Xavier avesse strappato la carta e avesse stretto il frammento nel pugno per non far notare all’interno della mano qualcosa di anomalo che sarebbe potuta essere una carta; però, essa, anche se accartocciata, comunque non sarebbe stata visibile, e lui, medico, ancorché diabetico, avrebbe dovuto supporre una sua immediata rigidità cadaverica.

Ce n’è tuttavia un’altra curiosa: nel romanzo c’è il disegno di un sei di picche diviso in due frammenti: il primo, quello stretto nel pugno non è spiegazzato e rappresenta due semi interi e le punte di altri due; l’altro, quello spiegazzato, due semi interi e le radici visibili di altri due divisi per la metà. Ora, in cartomanzia, il sei di picche rappresenta un avviso per un errore che si potrebbe fare ma che non durerebbe molto (l’errore di aver prima individuato il colpevole, poi di averlo erroneamente scagionato ed infine di averlo inchiodato nuovamente?). Ma se prendiamo in esame i due frammenti ci troviamo di fronte ad un frammento che vale due picche e ad uno che ne vale quattro; ora il due di picche rappresenta una divisione (amore o amicizia), il quattro, una decisione difficile che si sta per prendere: la decisione difficile dei due Queen di separarsi? Tuttavia, nel primo capitolo della Parte Seconda, “Il sei di picche”, osserva Richard Queen che John Xavier ha utilizzato una carta con cui stava facendo un solitario ( allorché l’assassino gli ha sparato due proiettili nello stomaco: ancora la simbologia del due, quasi che nel momento in cui qualcuno volesse intervenire per separare l’unione di due, essi stessi volessero non essere separati) : “..Il sei in questione era tra il sette ed il cinque di quadri – mormorò l’ispettore”. In cartomanzia, il cinque di quadri rappresenta un’atmosfera di amicizia o di lavoro amichevole, mentre il sette di quadri il dover prendere una decisione su qualcosa che non si è preso precedentemente in considerazione. Mi sembra chiaro il riferimento al dover prendere una decisione difficile su una divisione che non si è voluta mai prendere in esame e che porterà ad una atmosfera di amicizia o di lavoro amichevole: una volta separati, i due cugini lavorarono alla stesura di molti altri romanzi, dividendosi i compiti ed evitando purtuttavia di stare assieme. Interpretazione arbitraria?

Ma, è bene ricordarlo, il pezzo di carta che John Xavier tiene stretto in pugno è quello con solo due semi di picche: quindi..divisione; mentre è stato accartocciato e buttato via, il secondo pezzo della carta, quello che significava “decisione difficile che si sta per prendere”: in altre parole, che l’ultima parola per la divisione (dei due cugini?) era già stata presa. E la decisione è tenuta dalla mano destra mentre la mano sinistra non ha nulla in mano: cioè, ancora ipotizzando, si potrebbe dire che la mano destra voleva la divisione, la mano sinistra no. Mano destra, mano sinistra, che appartengono alla stessa persona: altra rappresentazione per due diverse entità (Dannay e Lee) che fanno parte di un tutt’uno (La ditta comune Ellery Queen)? Questo ci porterebbe ad un’ultima domanda che per il momento, in mancanza di riscontri di natura biografica, rimane senza risposta: quale dei due cugini voleva la separazione e chi no? Si sa che Dannay era piuttosto introverso e aveva dei guai in famiglia mentre il cugino era di altra natura. Ma si potrebbe ipotizzare tutto ed il contrario di tutto, in mancanza di dati biografici oggettivi, su chi volesse, all’interno della coppia, più dell’altro distaccarsi: Dannay che era l’ideatore della trama e della messinscena del plot vi accenna, ma poi..nulla più.

Infine c’è un’altra cosa, non detta, che mi si è rivelata in tutta la sua importanza alla fine del libro: il Sei di Picche a saperlo interpretare bene poteva anche essere un modo per identificare l’assassino: stranamente Ellery Queen si ferma al valore della carta, il Sei e all’acrostico che lo indica : infatti  “Il dottor Xavier..prima di morire ha accusato SIX di averlo assassinato” (Cap. V; taccio sul significato delle parole dell’acrostico per non rivelare il nome dell’assassino). Si ferma a ciò e non va oltre. Strano. Molto strano. E io suppongo che originalmente Dannay avesse pensato di far rivelare a Ellery dell’altro, ma poi non l’avesse fatto. Cosa? Semplice. Perché Sei di picche e non quadri o fiori o cuori? La forma? Il significato di Picche = Morte? Secondo me c’è dell’altro. E’connesso alla terminologia francese, già utilizzata nel caso di Carreau = Quadri : in francese, PICCHE si dice PIQUE. Ora, qual è la strana affezione di cui è affetto l’omicida, e che si vedrà è alla base dell’intero romanzo? La cleptomania. In altre parole, c’è qualcuno che durante il romanzo ruba degli oggetti: anelli, ma anche di valore insignificante. E quale animale è designato comunemente come ladro? La Gazza, che comunemente viene appellata Ladra: Gazza Ladra. E qual è il nome scientifico della Gazza? PICA PICA. PIQUE-PICA : interessante, vero? Una cosa che sicuramente oltre a me anche Dannay deve aver pensato all’epoca, perché il riferimento mi sembra non casuale ma troppo diretto. E perché allora Ellery Queen non lo rammenta alla fine? Forse per non ricalcare il fatto di esser stato distolto da altre cose durante l’avventura? Ellery molto spesso finisce per fare il sapientone nei suoi primi romanzi, cioè tende a polemizzare e disquisire anche troppo, a prendere dei  granchi e poi alla fine essere costretto a fare dietro-front: non accade solo qui ma anche altrove. O forse è il segno di una precedente stesura utilizzata non del tutto? Non lo so.

Anthony Boucher, grande scrittore e critico di letteratura poliziesca, durante un’intervista, nel 1951, ebbe a dire : “The detective story itself was an American invention; and after a long period of British pre-eminence, Ellery Queen as writer and editor has done as much as anyone (and probably more) to make it once more an American possession. . . Ellery Queen is the American detective story”.

Possiamo non essere d’accordo?

                                                                                                                   Pietro De Palma

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Storia di Mary, di Stanislas, di John, di Edward.. e di Isaac

ottobre 15th, 2010

Ecco un nuovo, interessante, articolo di Pietro De Palma.

Buona lettura. 

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Tra i tanti romanzi polizieschi degli anni Trenta del Novecento, se ne ricorda qualcuno che tratta di automi. Il primo è L’Ennemi sans Visage (noto anche come anche M. Wens et l’automate) di Stanislas André Steeman. Il motivo di questa tendenza, e da cosa tali romanzi abbiano preso le mosse, è presto detto. Non si può parlare di automi nei romanzi polizieschi senza citare il libro che  ha dato origine a tutto quanto: Frankenstein, pubblicato nel 1818 da Mary Shelley. Frankenstein fu un grande romanzo gotico, un gotico per certi versi molto più moderno di opere simili, come Vathek di Beckford o The Monk di Lewis.

Mary Wollstonecraft Godwin, figlia del politico e filosofo William Godwin, era nata nel 1797. Il padre le aveva conferito un’educazione sorprendentemente ricca di spunti culturali, e per molti anni il salotto di Godwin ospitò alcuni degli ingegni più grandi dell’epoca: tra questi il grande poeta Percy Bysshe Shelley. A diciassette anni Mary, educata alle idee molto avanzate del padre (che professava tra l’altro l’adesione all’amore libero) fuggì in Francia assieme a Shelley (a quei tempi sposato e di cui era innamorata) e alla sorellastra Claire Clermont; in seguito, dopo il suicidio della moglie di lui, Harriet, si sposò con Percy, nel 1816. L’anno successivo la coppia fu invitata a Ginevra da Claire, che era diventata l’amante di George Byron, e fu proprio qui che Mary ebbe l’ispirazione per Frankenstein: in quelle giornate piovose si parlava di Darwin, dell’energia elettrica e della possibilità di esplorare la vita dopo la morte. Indubbiamente l’ispirazione trasse materia proprio dai colloqui tra John Polidori (l’autore di The Vampire), Percy B. Shelley e George Byron – cui lei stessa aveva assistito – ma anche molto probabilmente dalla leggenda del Golem, creatura senza anima e coscienza, al servizio degli uomini: infatti, ancor prima che uscisse Frankenstein, uno dei fratelli Grimm, Jacob, in un articolo scritto nel 1808 e pubblicato sullo Zeitung für Einsiedler del poeta e scrittore romantico Achim von Arnim, aveva reso popolare, diffondendolo, il suo mito. La leggenda narrava di un rabbino polacco, Elija Ba’al Schem di Chelm, che nella Polonia medievale aveva creato un Golem servendosene come di un angelo protettore del ghetto ebraico, infondendogli vita grazie alla parola «Dio» che recava scritta sulla fronte e alla quale era stata aggiunta la parola «Verità». Così, con la frase «Dio è Verità» sulla fronte, il Golem prendeva vita; quando invece lo si voleva distruggere, bastava togliere una lettera dalla parola «verità,» l’Aleph, per trasformarla in un’altra che significava «morte»: «Dio è morte». In seguito questa leggenda era stata riportata a Praga, laddove si dice che un altro rabbino, Jehuda Löw ben Bezalel di Praga, avesse plasmato un Golem di cui però aveva perso il controllo; dopo le distruzioni da questi apportate, il Rabbino – tornato a dominare il Golem – lo avrebbe nascosto nella soffitta della sinagoga Staronova, ancor oggi esistente a Praga. Il mito del Golem, in realtà, risale a molto tempo addietro, per certi versi addirittura alla nascita dell’uomo: infatti, in ebraico, Golem significa «materia grezza» o anche «embrione,» e tale sarebbe stato Adamo prima che Dio infondesse in lui il soffio della vita: una forma di fango.

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La semplicissima arte del delitto III

agosto 5th, 2010

Tra corna, canini in fuori, bambini violentati, mallopponi scandinavi, il caldo boia, il freddo bestia, la pioggia pallosa…

 

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Come dice il proverbio non c’è due senza tre. Un po’ come quei film di successo che al primo ne seguono almeno un paio. Di solito più brutti del precedente. Qui non siamo partiti neppure dal successo e dunque sapete cosa vi aspetta.

Non so se riuscirò ad essere pungente come nel passato. Devo dire la verità. Jonathan, nipotino di poco più di un anno, mi ha chiaramente rimbecillito e dunque ammorbidito. Lo dovreste vedere quando lo porto per i prati a prendere i fiori con le sue manine grassocce, o quando osserva attento e curioso le lunghe litanie di formiche che se ne vanno in qua e là. Ha cominciato da poco a camminare barcollando che sembra cada da un momento all’altro come la torre di Pisa, ma lui continua imperterrito. Se cade davvero una lieve smorfia, un accenno di pianto e poi via a caracollare di nuovo sulle gambe robuste, a battere le mani, a sputacchiare e sbrodolare una lingua tutta sua ancora incomprensibile…

Per essere corretto dico subito che riprendo  e rinforzo anche qualche pezzo scritto per “Corpi freddi” (http://corpifreddi.blogspot.com/)  e “Sugarpulp” (http://www.sugarpulp.it/)  con un caldo invito a frequentarli. Vi ci troverete bene. Un saluto a Enzone e Giacomo, i responsabili dei blog.

Incominciamo. La marea gialla continua. Perfino nei titoli dei quotidiani: “Il mondo è un giallo”, “Il realismo si è tinto di noir”. Per qualcuno, vedi Nicola Villa, solo quella straniera che l’italiana non esiste proprio. Suo  l’articolo, appunto, “Il giallo italiano non esiste” pescato nell’”Angolo nero” della nostra brava Alessandra Buccheri (andate a darci un’occhiata). Villa non la fa tanto lunga, riprendendo un concetto di una certa “giò” che su aNobii aveva lamentato l’inconsistenza e dunque l’inesistenza del giallo italiano sempre ripetitivo e sempre uguale a se stesso. Con i soliti personaggi e le solite trame.

Nel senso, come ho già scritto proprio su questo blog, che non c’è città o sperduto paesino di campagna che non abbia il suo bel commissario o la sua bella commissaria tanto che, prima o poi, mi prefiguravo anche quello di quartiere che venisse ad arrestarmi “per avere ucciso con un colpo ben assestato di ciabatta il ragnetto che pendeva schifosetto nel mio piccolo studio”. Tutti scrivono romanzi polizieschi. Dai più infimi ai più noti e dunque il giallo italiano è ben vivo e vegeto e non c’è bisogno di scomodare Augusto De Angelis quando, negli anni Trenta, si mise in testa di realizzarlo “Io ho voluto e voglio fare un romanzo poliziesco italiano”. Ci riuscì, eccome. Ed ecco le conseguenze…

Aumenta tutto. Aumentano i blog e i siti dedicati alla letteratura poliziesca (positivo); aumentano i concorsi (trovato pure un GialloBirra, niente male in estate) e i premi che te li offrono al bar (appunto) e te li tirano dietro anche ai semafori (occhio a non prenderli in testa se vi sporgete dal finestrino); aumentano le sigle con l’ultima nata post noir o post-noir o postnoir (mettetevi d’accordo!) dal connubio Montanari-Varesani (se non ricordo male) a volte se ne sentisse la mancanza; aumentando gli scrittori e gli pseudoscrittori  (soprattutto questi) aumentano, di conseguenza, le antologie piene zeppe di nomi conosciuti e sconosciuti dove è più facile rispondere alla domanda che si fa sempre più consistente rispetto all’offerta. Dieci? Quindici? Macché, facciamo pure una trentina e il gioco è fatto. Non ce l’ho con le antologie, via, si fa per dire, e pure il sottoscritto ne ha curata una con questi numeri. E farà parte, come autore, di Riso nero, una raccolta di racconti brevi giallo-comici della Delos Books. Dunque figuriamoci se voglio fare lo spiritosetto. E’ che trovare lavoro a tutti non è mica facile. Anche se la sopra citata casa editrice si è data da fare, invitando 365 (trecentosessantacinque!) facitor di parole a scrivere un breve racconto relativo all’erotismo, al sesso e all’eros in tutte le sue sfaccettature. Titolo dell’antologia Racconti erotici per un anno. Tiè! Se un racconto al giorno leva il medico di torno, come sentenzia il nuovo proverbio, l’antologia andrà a ruba.

Però qualche merito a questo boom del giallo va dato, oltre alla sua bellezza intrinseca. Pensiamo un po’ alla geografia, tra l’altro vero tallone di Achille durante il mio excursus scolastico tutto preso come ero dalla storia. Quanti luoghi particolari del nostro paese abbiamo ultimamente conosciuto attraverso il romanzo poliziesco! E a quante altre civiltà ben lontane da noi ci siamo accostati senza l’assillo dello studio! Ricordo le più recenti avventure di Vish Puri nell’India, di Darko Dawson nel Ghana, di Peter Decker nel quartiere ebraico di Los Angeles…Un incontro etnico- culturale- geografico di tutto rispetto. Non parlo, poi, della storia che non finirei più. Solo su Siena sono sbocciati all’improvviso diversi lavori ambientati soprattutto nel Medioevo e nel Rinascimento (non tutti impeccabili, ma insomma…). Può costituire addirittura un efficace antidepressivo secondo una mia modesta, ma non certo velleitaria, interpretazione psicologica (http://www.milanonera.com/?p=2251 ).

Aumentano le recensioni iperboliche. Un po’ me le cerco come succedeva da ragazzo quando ritornavo a casa con qualche livido addosso e subito me ne compariva qualcun altro di stampo familiare. In fin dei conti che cosa me ne importa. Eppure sono fatto così. Vedo qualcosa che non mi torna. Dico la mia, magari in maniera troppo forte, mi becco una reprimenda, mi dispiace, giuro di non incasinarmi più, passa un po’ di tempo e siamo punto e a capo. Nei cromosomi, come si suole dire. Per interesse naturale e interesse pratico giro quasi tutti i giorni fra molti blog (tengo una rubrica a proposito su Thriller Magazine) e leggo una marea di recensioni. Un tripudio di bravi, bene, bis, una sfilza di ottimo ed eccellente da far venire il capogiro, frutto magari istintivo ( speriamo) di simpatie ed amicizie. Elogi sperticati di lavori che, a mio parere, possono ritenersi accettabili e niente di più, talvolta pure buoni, raramente eccezionali. C’è quasi una sorta di innata difesa dell’autore nostrano (e non solo nostrano), come se fosse bisognoso di cura e protezione continua. Posizione legittima, si capisce, e in parte da comprendere anche perché per molto tempo nel nostro paese ha tirato un’aria fortemente esterofila. Ma ora credo che il giallo italiano sia cresciuto e sia forte abbastanza per camminare da solo. Poi, magari, la colpa è del mio metro di giudizio troppo stitico e allora tutto quello che ho detto va a puttana. Pardon a escort (effetto Jonathan).

Si arriva perfino al grottesco, con il lettore (l’autore stesso mascherato?) a sostenere ragionamenti assurdi. Il linguaggio è carente ma rende meglio il contenuto, cioè ”che paradossalmente questo stile decisamente dilettantistico conferisce ancora più realismo ai personaggi investigatori altrettanto dilettanti e improvvisati”. Come a dire che la brutta scrittura si adegua ai brutti personaggi. Quando si dice una ferrea logica…

A volte qualcuno mette pure in dubbio che i libri vengano letti come il nostro Stefano Di Marino il quale, intervistato su Liberidiscrivere, sottolinea a proposito delle recensioni dei suoi lavori, ”Ricordo con piacere quelle in cui ho capito che il recensore aveva letto il romanzo… Sic transit gloria mundi…preferisco le lettere dei lettori”. Non c’è più religione.

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Sono un’assassina? (1246)

maggio 31st, 2010

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Povero Poirot! Una misteriosa ragazza si presenta da lui con un’angosciosa richiesta di aiuto: non esclude di aver commesso un omicidio e vuole che il celebre investigatore belga indaghi. Ma poi, di punto in bianco, ritenendo Poirot inadatto al compito, la giovane cambia idea e si dilegua. Una vera offesa, o forse no? Più incuriosito che amareggiato, Hercule Poirot decide di vederci chiaro comunque. La colpevolezza, così come l’innocenza, deve essere provata. E un assassinio è tale solo se c’è un cadavere… 

Agatha Christie (1890-1976), creatrice di Hercule Poirot e di Miss Marple, nasce a Torquay, sulla costa inglese, da una famiglia agiata. Durante la Prima guerra mondiale presta servizio come crocerossina e nel 1920 pubblica il suo primo giallo: Poirot a Styles Court. A questo folgorante esordio seguono numerosissimi romanzi, racconti, testi teatrali e radiofonici. Dopo il divorzio dal primomarito, il pilota Archibald Christie, si risposa con l’archeologo Max Mallowan, con il quale intraprende diversi viaggi in Medio Oriente. Nel 1954 vince il Grand Master Award, nel 1955 il New York Drama Critics Circle Award e nel 1971 viene nominata dalla regina Elisabetta Dame dell’impero. 

(vai alla visualizzazione completa del volume) 

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