The Gilded Fly : analisi di un esordio fortunato

febbraio 13th, 2015

La mosca dorata 001

 

Bruce Montgomery nacque a Chesham Bois , Buckinghamshire, Inghilterra . Studiò alla Merchant Taylors School e si laureò al St. John’s College, a Oxford, nel 1943, in lingue moderne , pur essendo stato, a Oxford, per due anni, organista e maestro del coro .

Fu molto conosciuto con il suo proprio nominativo, come compositore di musica classica (musica vocale e corale , tra cui un Requiem di Oxford) e di colonne sonore di molte commedie, oltre che come interprete di musica per organo, strumento nell’esecuzione del quale, eccelse.

Con lo pseudonimo di Edmund Crispin, Montgomery Bruce  firmò nove romanzi polizieschi e due raccolte di racconti, ambientate quasi tutte ad Oxford, nel St Christopher’s College (istituto che non esiste nella realtà) che egli immaginò essere vicino al St John’s College. Suo personaggio fu il Professor Gervase Fen, docente di Letteratura Inglese, che egli modellò su di sé, sulla figura del Professor W.E.Moore di Oxford e sul Dottor Fell di John Dickson Carr, di cui fu uno sfegatato ammiratore: non a caso, anche in parecchie delle sue storie egli inserì Camere chiuse e Delitti impossibili. Inoltre, come nel caso di Michael Innes, e di Nicholas Blake, altri due romanzieri polizieschi inglesi gravitanti intorno ad Oxford, nei suoi romanzi polizieschi vi sono frequenti riferimenti letterari e soprattutto nel suo caso, musicali.

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2 romanzi a confronto di Anthony Berkeley: The Wychford Poisoning Case vs Not to Be Taken

marzo 24th, 2014

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Non mi dilungherò a introdurre Anthony Berkeley perché è uno scrittore di cui ho già parlato in passato. Oggi parleremo in particolare di due romanzi, che a parere mio potrebbero essere speculari: The Wychford Poisoning Case (1926) e Not to Be Taken (1937).

Perché innanzitutto questi due? Perché se è vero che, nella produzione di Berkeley, parecchi sono i romanzi in cui si discute di avvelenamento, è anche vero che questi due romanzi trattano entrambi un classico avvelenamento da arsenico.

E’ da dire che nella produzione in genere britannica, vi sono vari scrittori che hanno affrontato il tema del veleno a partire dagli anni ’20. Se nel caso di Agatha Christie, la sua conoscenza di medicinali e veleni si formò durante il servizio, nel corso della Prima Guerra Mondiale, presso l’ospedale di Torquay, il fatto che molti altri scrittori in quegli anni abbiano scritto romanzi polizieschi le cui trame fossero basate su avvelenamenti ( Berkeley, Brand, Sayers, Rhode, Freeman, etc..) significa che era un argomento condiviso generalmente : esso potrebbe essere stato in relazione al bombardamento mediatico che nelle prime due decadi del secolo e anche prima ci fu a riguardo di famosi avvelenatori (Armstrong, Crippen, Maybrick, Seddon) che influirono pesantemente su scrittori che  necessariamente avrebbero dovuto andare incontro alle aspettative del pubblico; e sicuramente un bacino di utenza pesantemente influenzato da notizie di crimini basati su avvelenamenti, avrebbe meglio accolto romanzi di intrattenimento che avessero dibattuto delle stesse cause: un po’ come è oggi in cui i romanzi polizieschi in generale, in una società in cui i valori sono il sesso e i soldi, basano i loro crimini su sesso e soldi, e sulle loro implicazioni di carattere perverso.

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Scorribande giallistiche IV

ottobre 17th, 2013

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Mamma li turchi, anzi i cinesi!..

Continuo queste scorribande veloci  di palo in frasca che mi fanno sentire ancora giovincello scherzoso. Chi vuole qualcosa di più profondo e corposo passi oltre.

Mamma li turchi, anzi i cinesi! Dopo l’invasione del malloppone scandinavo ecco la banda degli occhi a mandorla che si abbatte sull’italico suolo con Xialong Qui, Hiao Bai e He Jagong. Dagli immacolati silenzi nordici ai casini di Shanghai e dintorni. Ma il risultato è sempre lo stesso: il morto ammazzato. Anzi, i morti ammazzati.

Il Berkeley de L’ultima tappa è forte, via. Congetture, ipotesi, supposizioni, certezze che svaniscono fino allo stupendo finale che scombina tutto. Da artista.

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POSTFAZIONE IDEALE A L’Ultima Tappa di Anthony Berkeley (Jumping Jenny, 1933 – titolo USA: Dead Mrs. Stratton: An Exploit of Mr. Roger Sheringham)

maggio 24th, 2013

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Di Pietro De Palma

Mi son chiesto sempre perché mai questo romanzo in Italia presenti questo insolito titolo, invece che ad esempio “Il salto di Jenny”. Io penso la risposta vada trovata nell’anno nel quale la traduzione di questo romanzo fu approntata, il 1946. Erano gli anni del mitico Giro d’Italia, delle sfide Coppi-Bartali, per cui in definitiva il titolo può esser stato pensato guardando al Giro, che in quell’anno fu vinto da Gino Bartali, e al contempo all’ultimo capitolo del romanzo, “l’ultima tappa”, la tappa finale del romanzo.

Pubblicata nel 1946 nella collana “Il Romanzo per Tutti”, quindicinale del Corriere della Sera, la traduzione di Luciana Crepax fu poi ripresentata dai Classici del Giallo Mondadori, nel 1979 col numero 322, e negli scorsi giorni è riapparsa in edicola col numero 1322: è una pura coincidenza, una casualità che le due edizioni siano distanziate esattamente da mille uscite? In altre parole, dopo mille stampe e ristampe, si è sentito il dovere di dar di nuovo alle stampe questo straordinario romanzo. Che, va detto, nella traduzione di Luciana Crepax, fu “asciugato”, come mi disse tempo fa Mauro Boncompagni, perdendo una quarantina di pagine, pagina più pagina meno. Si tratta più che altro di digressioni o riflessioni o incisi o dialoghi condensati in forma di monologo discorsivo (come il dialogo citato più avanti del Cap. IX, che nella traduzione italiana è ridotto a pochi righi in forma di monologo, come se a parlare fosse sempre Sherringham) che non cambiano sostanzialmente la trama, tranne che in alcuni casi, di cui parleremo. E quindi è anche vero, come dice il buon Mauro, che “per chi non lo ha, è comunque un’occasione da non perdere” acquistare il romanzo in edicola.

Jumping Jenny, dicevamo nel titolo. Perché?

Incominciamo a dire che nella prima pagina del romanzo (versione italiana), Roger Sherringham esclama:

– Stevenson li avrebbe chiamati “jumping jacks”, pupazzi sospesi ad un elastico. Due “jumping jacks” e una “jumping jenny”, visto che c’è anche una donna. Vogliamo chiamarla così?”.

Ma, nella versione inglese, nella prima pagina, il dialogo è un po’ più esteso:

Very nice,” said Roger Sheringham.

It is rather charming, isn’t it?” agreed his host.

Two jumping jacks, I see, and one jumping jenny.”

Jumping jenny?”

Doesn’t Stevenson in Catriona call them jumping jacks? And I suppose the feminine would be jumping jenny.” (dall’edizione U.S.A., Dead Mrs. Stratton: An Exploit of Mr. Roger Sheringham).

Quindi veniamo a sapere che ne parla Robert Louis Stevenson nel suo Catriona. Ma nell’edizione italiana non ve n’è traccia.

Il riferimento, per il lettore italiano, è al capitolo III del romanzo di Stevenson, “I go to Pilrig”:

“…Here I got a fresh direction for Pilrig, my destination; and a little beyond, on the wayside, came by a gibbet and two men hanged in chains. They were dipped in tar, as the manner is; the wind span them, the chains clattered, and the birds hung about the uncanny jumping-jacks and cried”.

Il riferimento è chiaro: Stevenson parla di due tizi appesi ad una forca, incatenati e incatramati, che vengono sballottati dal vento, che fa sferragliare le loro catene. I due impiccati sembrano dei jumping-jacks.

Jumping Jack, in inglese, è termine che si usa per indicare il pupazzo, “la marionetta”: ma siccome il primo in inglese è detto “Puppet”, direi che il termine anche per questo si applica più a marionetta, che, a distanza del pupazzo, è formata di tante parti articolate fra loro che, mediante fili, vien fatta muovere.

Per traslazione, un corpo inanimato sospeso ad una corda e fatto ballare dal vento, può, in modo macabro, essere assimilato ad una marionetta.

Sherringham, però, usa anche il termine “Jumping Jenny”. Questo può dirsi un neologismo inventato da Berkeley, e non era stato già usato da altri, a lui precedenti.

E’ sicuramente un termine non presentato a caso da Berkeley, ma fortemente allusivo, come tanti altri qui. Nel suo caso, se volessi analizzare l’etimologia del nome, dovrei dire che Jenny è una derivazione di Eugene. Eugene a sua volta deriva dal greco Ευγενιος (Eugenios) che a sua volta deriva dalla parola composta greca ευγενης (eugenes) , formata dall’unione delle parole ευ (bene) e γενης (nascita). Se volessimo ancora andare indietro, γενης deriva da γίγνομαι, verbo greco antico che significa anche “nascere”. In sostanza, Anthony Berkeley, secondo me, avrebbe fatto dare il nome di Jumping Jenny, al pupazzo appeso con le fattezze di donna, perché Jenny, in inglese, è forma femminile di Eugene. Il fatto interessante è che anche la moglie di David Stratton, la vittima, ha un nome, Ena, che è una forma femminile di Eugene, ed entrambi i diminutivi significano anche “ben nato”, well born.

Ecco perché il pupazzo viene chiamato proprio Jenny, Jumping Jenny: perché ha la stessa origine del nome di Ena Stratton. E si badi bene: il nome viene assegnato al pupazzo, ben prima che il fatto delittuoso avvenga.

E’ come se Ena sia stata in quel momento predestinata a morire. E Berkeley abbia detto, tramite il suo detective, che Ena “morirà”.

Potrei parlare di predestinazione, ma..non credo si tratti precisamente di quello. Io sono sicuro invece, che questo romanzo di Berkeley è uno di quei romanzi concepiti come un puro gioco intellettuale, al pari del Cluedo, senza apparentemente pretendere null’altro. E come in tutti i giochi, Berkeley fornisce delle piste, vere e false.

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“La Canarina Assassinata”. Il trionfo della deduzione e dell’erudizione di Philo Vance

aprile 22nd, 2013

Nuovo articolo a firma del nostro amico Piero De Palma.

 

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La Canarina assassinata è uno dei più bei Gialli dell’Età d’Oro del romanzo poliziesco.

Quando lo scrisse, Wilard Huntigdon Wright, aveva già pubblicato The Benson Murder Case, 1926 “La strana morte del Signor Benson”, romanzo che aveva ottenuto un buon successo. Ma è senza dubbio proprio con The Canary Murder Case, 1927 “La Canarina assassinata” e poi con The Greene Murder Case, 1928, “La Tragedia di Casa Greene”, che si impose come il più grande autore della sua epoca: due romanzi che fecero scuola.

Antitetici è bene dirlo: così come “La Tragedia di Casa Greene” è una vicenda di morte che si svolge claustrofobicamente in una dimora in cui sono costretti a vivere gli eredi di una fortuna, ed in cui aleggia dal primo all’ultimo istante un’atmosfera greve e plumbea, ne “La Canarina Assassinata”, l’atmosfera è invece frivola e salottiera, molto più leggera, ma al tempo stesso complicata.

I tre romanzi assieme formano una ideale trilogia

Da un certo punto di vista, si può dire, a mio parere, che sia uno dei più grandi romanzi polizieschi che siano mai stati concepiti. Oggi, che le soluzioni vandiniane sono state fatte proprie e poi superate da tanti grandi scrittori a lui successivi, Van Dine sembra essere Pollicino, e a taluni le sue soluzioni fanno ridere. Invece, non si può pensare alla letteratura poliziesca degli anni ’30, senza inchinarsi reverenzialmente dinanzi a Van Dine. Perché senza di lui non ci sarebbero stati Ellery Queen, Charles Daly King, il primo Rex Stout.

E dei romanzi di Van Dine, i due che hanno avuto più influsso sui posteri sono stati proprio The Canary Murder Case e The Greene Murder Case. In particolare The Canary Murder Case, ebbe un effetto dirompente all’epoca: fu in testa per parecchi mesi alle classifiche dei libri più letti.

Julian Symons nella sua opera critica più famosa, Bloody Murder, riportò il giudizio di un altro critico, Howard Haycraft, scrivendo che “ ..his second book, The Canary Murder Case 1927, broke all modern publishing records for detective fiction at the time” (Julian Symons, Bloody Murder, Penguin Books, 1985, pag.101).

Più in là a testimoniare il grandissimo successo riportato da questo romanzo e dal successivo romanzo, che sconvolsero la letteratura poliziesca del tempo, dominata dagli autori britannici, Symons affermava che “It was said that he had lifted the detective story on to the plane of a fine art, and by his own account he was the favorite crime writer of two Presidents” (op. cit. pag. 102).

Ma perché The Canary Murder Case ebbe tutto questo successo? Analizziamo la storia.

Innanzitutto chi è la Canarina? Prendendo a prestito la stessa prosa di Wilard Huntigdon Wright “..Margaret Odell aveva ricevuto il soprannome di Canarina in seguito a una parte sostenuta in un elaborato balletto orni­tologico delle Folies, dove ogni ragazza aveva una gonna che richiamava qualche uccello. A lei era toccato il ruolo della ca­narina; e il suo costume di satin bianco e giallo, insieme alla massa di luminosi capelli biondi e la carnagione bianca e ro­sea, l’avevano distinta agli occhi degli spettatori come una creatura di notevole fascino. Prima che trascorressero 15 giorni, tanto concordi erano stati gli elogi della critica e così regolari gli applausi del pubblico che il Balletto degli uccelli divenne il Balletto della canarina e la signorina Odell fu pro­mossa al rango di quella che caritatevolmente potrebbe esser definita première danseuse, con l’attribuzione di un valzer in assolo e una canzone interpolata appositamente perché desse prova delle sue molteplici grazie e talenti.

Alla chiusura della stagione, la ballerina aveva lasciato le Folies e, durante la successiva e spettacolare carriera nei luo­ghi di ritrovo della vita notturna di Broadway divenne popo­larmente e familiarmente nota come la Canarina. Fu così che, quando la trovarono brutalmente strangolata nel suo apparta­mento, il delitto fu definitivamente denominato: l’omicidio della Canarina” (S.S. Van Dine, The Canary Murder Case,“La Canarina Assassinata”, trad. Pietro Ferrari, Il Giallo del Lunedì, L’Unità/Mondadori, 1992, pag.7).

La Canarina è Margaret Odell, attricetta e soubrette di locali di serie B, di night club, che è poi diventata famosissima in certi ambienti di Broadway. Conosce il suo ruolo e sa quale sia anche il giudizio che le riservano negli ambienti borghesi di cui lei rappresenta il richiamo: nel balletto non fa altro che fare il verso ad un uccello e mostrare le gambe. Ma si illude di poter scalare la società e conquistare un suo posto importante. E’ un po’ lo stesso discorso che fa la puttana di un Bordello di lusso (la prostituta sogna un amore impossibile con un bel cliente che oltre che utilizzarla per il suo piacere, la introduca nel mondo “normale”) il discorso di Margaret Odell, che, finito lo spettacolo, si ritrova nel grigiore della vita i ogni giorno, da cui esce temporaneamente solo nel volgere di uno spettacolo in cui uomini facoltosi in ghette, cilindro e marsina, fanno la coda per vederla , magari dondolarsi su un’altalena, su un trespolo, su cui lei, La Canarina, mostra le gambe.

E’ chiaro quindi che Margaret Odell, come farebbe una qualsiasi mantenuta, cerchi qualcuno che le assicuri, almeno nel suo mondo fatto di lustrini e pailettes, una certa onorabilità e almeno l’illusione di aver scalato quella società che invece non la accetterà mai. E’ la società degli anni ‘venti, in cui la grande crisi economica portò sul lastrico decine di migliaia di persone, ma che favorì anche l’arricchimento maggiore di chi già era ricco.

La Canarina ha molte amicizia maschili e non lo nega: i suoi accompagnatori la sfoggiano come oggi si farebbe con una Ferrari Testarossa, le altre donne la invidiano o ne parlano male, lo immaginiamo, ma lei pensa di poter usare queste amicizie, per i suoi scopi, che sono quelli di far carriera. Ha raccolto le confessioni di chi stava tra le sue gambe, ed un bel giorno decide di far il gran passo: decide di forzare la mano ad uno dei suoi amanti, e metterlo con le spalle contro il muro. E’ facile pensare, e poi lo si saprà, a cosa aspiri La Canarina: non vuol più essere “La Canarina”, ma una signora del Jet-Set, appartenere a quell’ambiente di cui ha conosciuto “tanti validi esponenti”. Solo che non capisce una cosa molto semplice: chi mai sposerebbe una “Canarina”? Ma lei si illude. E come tale resta vittima dei suoi stessi sogni.

Un bel giorno “La Canarina” vien ritrovata morta, assassinata, strangolata.

L’immagine che ne da Van Dine è terribile:

Il capo era rivolto all’indietro, come per una costrizione violenta…i capelli, disciolti, ricadevano dalla nuca sulla spalla nuda come la cascata raggelata di un liquido dorato; aveva perso ogni bellezza; la pelle era esangue, gli occhi vitrei; la bocca era aperta e le labbra convulse. Il collo, sui due lati della cartilagine tiroidea, mostrava orribili lividi scuri. La Canarina indossava un leggero abito da sera di pizzo Chantilly nero sopra ad uno chiffon color crema. Sul bracciolo del divano aveva gettato una cappa di un tessuto dorato, bordata di ermellino…a parte i capelli arruffati, una delle spalline dell’abito era stata strappata e il sottile pizzo del corpetto si era aperto in un lungo squarcio..una scarpetta di satin si era sfilata ed il ginocchio destro era contorto in dentro vero il divano, come se la poveretta avesse cercato di liberarsi dalla soffocante morsa del suo antagonista: Le sue dita erano ancora piegate,senza dubbio come nel momento in cui si era arresa alla morte” (S.S. Van Dine, “La Canarina Assassinata”, trad. Caterina Ciccotti, I Classici del Giallo, Barbera Editore, 2010, pag.22-23).

Dal sopralluogo effettuato dalla polizia emerge che mancano dei gioielli, che invece avrebbero dovuto esserci, secondo quanto afferma la sua domestica: quindi si è portati a identificare l’assassinio, come l’effetto di una rapina, o di un furto in appartamento, finito male (per Odell).

Tuttavia, questo è il giudizio della polizia per bocca del Procuratore Distrettuale di New York, F.X. Markham, che conduce le indagini. Di diverso avviso sarà il giudizio di Philo Vance, amico del Procuratore, osservatore imparziale e di geniali intuizioni, che salverà anche questa volta la Polizia da una figuraccia, e che invece sonderà una strada che nessuno aveva intravisto.

Philo Vance è una evoluzione di Sherlock Holmes, radicale: se eredita da Holmes l’attenzione ai particolari, agli indizi, non è però un applicatore integerrimo di essi. Infatti gli indizi che magari porterebbero a orientare le indagini in un certo verso, devono accordarsi ad una ricostruzione psicologica che in base ad essi spieghi tutti i quid rimasti insoluti. E per far questo, Philo Vance, diversamente da Sherlock Holmes, sonda l’anima e la mente dell’uomo, con l’attenzione che il buon Conan Doyle non aveva contemplato per il suo Sherlock Holmes. Si raffrontano così due diversi ideali: quello umanistico, attento alla psicologia e alle altre arti scaturenti dalla passione e dal gusto (Pittura, Scultura, Musica) di Philo Vance; e quello scientifico, analitico, di Sherlock Holmes.

Tuttavia, Philo Vance, osserva alcuni particolari, e in virtù della sua capacità di vedere al di là del mero indizio, ne dà una spiegazione tale che la visione di un omicidio susseguente ad un tentativo di rapina finisce per crollare miseramente.

Normalmente, quando si parla di questo romanzo, tutti individuano la sottigliezza del ragionamento di Van Dine, nella spiegazione della Camera Chiusa, in effetti “immaginifica”: spiegare non tanto come l’assassino e il testimone siano potuti entrare, quanto come essi siano potuti uscire, visto che il portiere quando va via, spranga sempre dal di dentro il portoncino che porta nel cortile interno al palazzo (l’uscita posteriore) con un chiavistello, in tale maniera che chiunque entri nel palazzo stesso, dopo la sua uscita, debba passare per forza davanti al centralinista, impressiona; e impressionò in quel tempo, moltissimo.

Ma ancor di più impressionò il pubblico dei lettori (e dei critici) l’aver inventato un modo che dilazionasse in avanti nel tempo l’azione delittuosa, cioè dopo che il suo accompagnatore della sera assieme al centralinista l’avessero sentita parlar e rispondere alle domande fatte da loro fuori della porta.

Se tuttavia la soluzione della Camera Chiusa e l’espediente per far apparire accaduto dopo, un omicidio che era stato invece commesso prima, rappresentano i mezzi con cui l’investigatore inchioda l’assassino, e che sono messi in chiaro da chiunque analizzi questo romanzo, pochi, pochissimi o nessuno, hanno esaminato gli altri momenti della deduzione vandiniana.

Secondo me, un altro momento in cui Van Dine impressiona il lettore è quando fa argomentare Vance molto molto sottilmente, sulla posizione relativa al corpo della vittima e sugli strappi subiti dai suoi abiti: se davvero Margaret Odell fosse stata affrontata in un corpo a corpo, immaginando che si sarebbe difesa con tutte le proprie forze, per quale motivo un innocente mazzolino, che le è stato ritrovato in grembo, non sarebbe stato scagliato altrove? Per terra, per esempio? E inoltre se così fosse stato, il collo non sarebbe stato rivolto all’indietro, ma la vittima sarebbe dovuta cadere avanti. Quindi… il delitto non si è consumato così, e si è tentato, con una messinscena, di depistare le indagini: lo strangolamento è avvenuto dal di dietro, quando la vittima non si aspettava che chi le stava dietro la strangolasse, ergo si fidava di lui/lei. Ma ci sono gli strappi del vestito! Altra messinscena: gli strappi sono stati fatti post-mortem per confondere il ragionamento degli investigatori.

Secondo ragionamento molto sottile è quello, concernente la chiave dell’armadio: per quale motivo essa è posta internamente all’armadio, quando comunemente essa invece dovrebbe esser infilata nella serratura esternamente?

C’erano quindi, quella sera, in quella stanza, tre persone: Margaret Odell e due altre persone, di cui una nascosta nell’armadio. Chi è stato l’assassino e chi il testimone? L’assassino ha anche rubato in un secondo tempo, oppure è stato l’altro a rubare? Le due persone presenti nell’appartamento, nei loro diversi ruoli, sono legate ad un altro ragionamento che si fa largo allorché Philo Vance nota come un porta-documenti sia vuoto, e come un portagioie di acciaio sia stato apparentemente forzato con un attizzatoio di ghisa: se davvero ci fosse stato un ladro avrebbe certamente usato uno strumento più idoneo per far saltare il coperchio, piuttosto che usare un attizzatoio. Tanto più che un esperto chiamato da Vance ne corrobora la tesi: che cioè vi son stati due momenti diversi nell’effrazione: quello rozzo con l’attizzatoio, che non ha sortito altri effetti se non di ammaccare il coperchio, e quello altamente professionale, effettuato con uno strumento di acciaio, probabilmente un grimaldello. Perché mai si sarebbe dovuto portare dalla camera vicina un attizzatoio inadeguato a far quello che ha fatto il grimaldello?

In parole povere, Vance postula l’azione in due momenti separati, da parte di due diverse persone. Ecco una primo fatto accertato, di grande importanza: nell’appartamento, quella sera, la sera del sabato, due persone sono state lì, probabilmente in un tempo successivo alla morte della Canarina. Il che non vuol dire necessariamente che entrambi avessero partecipato all’omicidio.

Fatto sta che il secondo ignoto visitatore sarà ucciso e solo dopo la sua morte Vance, individuando l’espediente per ritardare la morte, darà un volto all’assassino. In questo caso l’espediente sarà direttamente messo in relazione all’attività dell’assassino.

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Poison in Jest : analisi di un romanzo di rottura

gennaio 15th, 2013

Un nuovo articolo di Pietro De Palma in esclusiva per il blog de “Il Giallo Mondadori”.

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Lo Speciale N. 68 del Giallo Mondadori “Veleni Letali”,uscito nell’inverno 2012, prima di Natale,  propone 2 romanzi, il primo di John Dickson Carr, il secondo di Hillary Waugh, ed un racconto di Anthony Berkeley: di Carr è proposto “Piazza Pulita” (Poison in Jest), assente da oltre trent’anni dall’edicola; di Waugh, un romanzo ancor più difficile a trovarsi, “Veleno in Famiglia”, ( Pure Poison); di Berkeley, il rarissimo “Il Baratttolo Sbagliato” (The Wrong Jar). Tuttavia, sebbene le opere di Waugh e di Berkeley possano essere oggetto di attenzione al pari dell’opera di Carr, è chiaro che l’attesa dello Speciale da parte di molti, era giustificata dal fatto che vi fosse presentata “Piazza Pulita”, di cui molti lamentavano la non pubblicazione da molti anni a questa parte.

Poison in Jest è una delle opere senza personaggio fisso di Carr.

Apparve nel 1932. A quel tempo, l’unica serie fissa che Carr avesse allestito, era quella di Bencolin, di cui erano usciti quattro titoli (It Walks By Night, 1930; Castle Skull, 1931; The Lost Gallows, 1931). Nel 1932 uscirono altri due titoli: The Waxworks Murder, che meritò anche l’edizione americana: The Corpse In The Waxworks; e Poison in Jest, appunto.

Vediamo la storia.

Jeff  Marle va a trovare il giudice Quayle. Nella sua casa imponente vi vive tutta la sua famiglia assieme a lui: la moglie, i 4 figli (Matt, Clarissa, Jinny, Mary), il genero e marito di Clarissa, dottor Twillis, più il personale di servitù. In origine, i figli erano cinque: c’era anche Tom, che aveva però preferito andar via da casa e pertanto era stato diseredato.

Nella casa regna la tristezza,  il risentimento tra vari rappresentanti della famiglia, e nei confronti del giudice, che crede sia odiato da molti, e un orgoglio mal interpretato, perché ai fasti di un tempo, di cui sono rappresentanti le vestigia della casa, tra cui una magnifica statua dell’imperatore Caligola, cui manca una mano, fa da contraltare la miseria effettiva, giacchè il capofamiglia non ha più nessun soldo, i figli fingono che siano ancora i Quayle di un tempo, mentre l’unico che tiene in piedi la baracca è il dottor Twills, che, agiato, foraggia le necessità del vecchio.

Ecco quello che Marle trova al suo arrivo. Il giudice teme per la sua vita, parla di un suo manoscritto, e, nel mentre, accadono due oscuri fatti: qualcuno tenta effettivamente di uccidere il vecchio giudice avvelenando il sifone del seltz con idrobromuro di joscina, di cui il medico ha una bottiglia contenente circa 300 mg nella sua stanza, in virtù dei suoi trascorsi come psichiatra; e nello stesso tempo, l’avvelenatore cosparge il pane tostato della moglie del giudice, con dell’arsenico.

Il dottor Twills, rivela a Marle di avere dei sospetti su chi possa essere l’avvelenatore e teme nuovi sviluppi visto che la bottiglia contenente la joscina gli è stata sottratta. Prima che possa però arrivare al dunque, viene avvelenato mortalmente con lo stesso alcaloide.

A gestire le indagini è il Commissario di Contea Sargent. Ma se è vero che almeno ufficialmente è lui il responsabile dell’inchiesta, in realtà dietro di lui si muovono Marle, che è un poliziotto, e soprattutto un investigatore privato, Pat Rossiter, innamorato della figlia di Quayle, Jinny, chiamato lì e annunciato da un telegramma spedito prima dell’omicidio di Twills: è lui che risolverà l’enigma.

Nella casa c’è un’atmosfera di morte e di pazzia: il giudice è ossessionato da una mano bianca che si muove e gli appare (sarebbe quella persa dalla statua), qualcuno ride nel momento in cui Twills muore, qualcuno tenta di avvelenare il giudice Quale e la moglie con due diversi tipi di veleno, il giudice parla di complotto, Twills nei suoi appunti, vergati prima di morire, ha scritto che qualcosa è stato bruciato nel caminetto, ha lasciato degli strani ghirigori che potrebbero riferirsi ad uno schizzo di persona ed una formula chimica, quella della morfina. In realtà sul braccio del giudice viene individuata una serie di segni causati da iniezioni (morfina?): l’ossessione della mano quindi sarebbe il frutto di allucinazioni? Oppure la morfina viene data per altro?

Fatto sta che con un’abbondanza di indizi e di persone sospettate, Sargent non sa che pesci prendere. Si ricava solo che qualche giorno prima si era parlato di avvelenamento allorché si era ricordato il caso della Marchesa de Brinvilliers e del suo amante, il Cavaliere di Saint-Croix, celebri avvelenatori del secolo diciottesimo. E che quindi qualcuno ne aveva ricavato l’idea base.

Si sono sentiti dei passi, che la signora Quale, attribuisce ad una donna, prima che lei venisse avvelenata: passi veloci, passettini. Abbiamo un’avvelenatrice? Chi? La signora Quayle è esclusa: per quale ragione si sarebbe avvelenata? Rimangono quindi le altre due figlie: Jinny e Clarissa.

Ci sarebbe qualcuno del personale, ma viene presto escluso. A sua volta, il padre rilancia l’ipotesi di un avvelenatore maschio: mentre ricorda gli aventi di qualche giorno prima, ricorda che in quel mentre era entrato il figlio Matt ed aveva sentito tutto (ma del resto, interrogato, il giudice Quayle si affretta a dire che la porta era aperta e quindi chiunque avrebbe potuto sentire l’oggetto del suo discorso); Matt però era quello che aveva portato alla madre il pasto, in cui il pane era avvelenato.

Insomma di carne sul fuoco ce n’è in abbondanza.

Pat Rossiter arriva a casa: è Jeff che lo trova per la prima volta, ed il ritratto che ne fa è di un pazzo, se non di un personaggio altamente bislacco: “C’era un uomo seduto per terra, che stava parlando ad una scala. In una mano teneva un vecchio secchio di legno, e nell’altra qualcosa che assomigliava a una calza rotta. Una coperta incrostata si sporcizia gli pendeva dalle spalle…Sospirò e cominciò ad alzarsi in tutta la sua sorprendente statura, togliendosi la polvere dall’abito. Aveva un orrendo cappello piantato indietro sulla testa, e dal labbro inferiore gli pendeva un mozzicone di sigaretta spento…con l’espressione più felice che avessi visto su faccia umana…Poteva avere la mia stessa età, con una faccia simpatica e vivace, begli occhi ed un’eterna aria di curiosità.Aveva le spalle forti come un uomo di mare, ed era avvolto in uno strano mantelloverde: le sue scarpe erano fra le più grandi che avessi mai visto e portava una cravatta con i colori di Harrow…Ho sempre desiderato fare l’investigatore, dopo essere stato licenziato da tutti i posti di lavoro..Sedette sullo scalino..con la coperta sporca gettata sulle spalle.Buttando via il mozzicone, tirò fuori cartine e tabacco e mi guardò quasi con aria di trionfo…Dicevo che sono un po’ strano..Il vecchio, là dentro mi considera come un veleno!” (Speciale del Giallo Mondadori N.68, Dicembre 2012, John Dickson Carr, Poison in Jest, traduz. Iti Dussich Knowles, cap. 11, pagg. 87-88-89).

Jeff gli annuncia che il dottor Twills è stato assassinato e ci sono stati due tentativi di avvelenamento. Rossiter si mette all’opera, anche con metodi non proprio ortodossi, per esempio quando chiede ai presenti, di provare a fare degli schizzi, delle prime cose che fossero venute in mente:

“..Tracciate un disegno. – Che cosa? – Tracciate un disegno, ripetè l’altro, con tono fermo e diventando serio. – Ma non capite l’importanza di fare un disegno? Non ne vedete l’importanza profondamente psicologica che avrà sulla soluzione del caso? – No, che mi venga un accidente se ci capisco qualcosa – disse Sargent. – Che disegno? – Uno qualsiasi. – Ma sentite – suggerii con la massima calma possibile – che senso ha tutto ciò? Io non so disegnare e credo neanche Sargent. – Ah, ma questo è il punto, non lo capite? Se aveste saputo disegnare, non ve l’avrei chiesto, vi pare?” (op. cit.  pag. 104).

Questi metodi, alcuni come Sargent ritengono possano essere ascritti ad nuovo modo di investigare, altri come Marle li reputano delle stranezze, altri come il dottor Reed, il medico amico di Quayle, li definiscono delle “stupidaggini”. Persino Virginia Quale,  Jinny, “la ragazza” di Rossiter, è arrabbiata, convinta che l’investigatore, che lei ha chiamato a casa con un telegramma, stia combinando una delle sue.

Fatto sta che, per strano che possa sembrare, anche questa caratterizzazione psicologica dell’inconscio avrà una spiegazione nella soluzione finale. Rossiter, incompreso, deriso, strano e bislacco che possa sembrare, riuscirà a individuare l’assassino, non prima però che sia riapparso “il figliol prodigo”, Tom;  e che nella cantina, egli, l’omicida,  abbia piantato un’accetta nel cranio di Clarissa.

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King Arthur’s Chair : L’etica in Carr

ottobre 8th, 2012

Questo mese abbiamo il piacere di presentarVi un nuovo articolo del nostro amico Pietro De Palma.

Su richiesta dell’autore, teniamo a precisare che l’articolo contiene degli SPOILER, che potrebbero rivelare parti determinanti per lo sviluppo del racconto.

Buona lettura a chi ha già avuto il piacere di leggere questo gioiello di Carr e un augurio doppio a chi lo recupererà ora e leggerà, in seguito, l’articolo qui presentato.

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Pubblicato per la prima volta nell’Agosto del 1957, nella rivista Lilliput, a firma Carter Dickson (pur avendo come personaggio principale Gideon Fell), il racconto King Arthur’s Chair, ebbe anche un altro titolo : Death by Invisible Hands, utilizzato per l’edizione americana. Apparve infatti sull’ Ellery Queen Mystery Magazine dell’Aprile 1958, e la stessa illustrazione per la copertina vi fu improntata.

E’ uno straordinario racconto “dark”, in cui il tema del doppio fa capolino ovunque, pieno di simboli e significati metaforici, connessi con alcuni dei “sette peccati capitali”, un racconto che amo particolarmente. Oltretutto, il lavoro è una delle tante variazioni di Carr sulla Camera Chiusa, ed in particolare sulla variazione della spiaggia: un delitto viene commesso su una spiaggia, senza che vi siano le impronte dell’assassino, ma solo quelle della vittima. Carr scrisse altre opere utilizzando questa sottospecie di ambientazione: ricordiamo per esempio una delle sue opere maggiori, e ancor oggi poco conosciuta che è The Witch of the Low Tide, “Un Colpo di pistola”, romanzo di poco successivo (1961) al periodo del racconto.

Qui il problema è particolarmente complesso, ma la soluzione che viene proposta è straordinaria: direi che è uno dei migliori racconti di Carr, proprio per la soluzione ineccepibile, ma anche per la struttura del racconto, quantomai interessante.

Innanzitutto la storia.

Dan Fraser, è innamorato di Brenda Ray. Lei gli ha dato appuntamento alla sua villa sul mare, dove abita assieme alla cugina povera, Joyce Ray. E’ però un tempo pessimo per vedersi. E’ una sera calda, quella in cui lui la rivedrà. Calda e afosa. Le nubi gravano e ogni tanto un fulmine squarcia l’oscurità, illuminando la notte ed il mare. Dan deve affrontare una discesa per nulla agevole con la sua auto, prima di arrivare alla casa. Tuttavia, stranamente la trova al buio.

E’ una casa ricca di decorazioni, com’è nella natura di Brenda, che lei chiama “la casa del re”. Ma, diversamente da come Dan si aspetterebbe, è immersa nel buio: il buio della notte ed il buio causato dalle luci che le finestre dovrebbero irradiare tutt’attorno, che invece non vede. Lasciata l’auto, si accorge che le tende sono tirate del tutto. L’atmosfera, gravida di elettricità (i fulmini) e oscuri presentimenti, convince Dan che c’è qualcosa che non va. La villa sembra disabitata. Sembra, perché quando lui si affretta in direzione della porta d’entrata, si accorge che è chiusa, ma non a chiave, e quando la apre, si vede inondato dalla luce, che si spande dall’interno.

Neanche il tempo per riflettere ed una porta si apre: una figura femminile si staglia. Non è Brenda, ma sua cugina Joyce. I loro sguardi si incrociano. E’ come se dialogassero, come se confessassero l’un l’altro i propri desideri più segreti, è come se parlassero una lingua che mai fino a quel momento avevano scandito. Fatto sta che capiscono, in un solo istante che si sono sempre amati. O meglio, Dan capisce che l’ha sempre amata, e che quella per Brenda era solo un’infatuazione, Joyce, l’ha sempre saputo. Dan si aspetterebbe di trovare Brenda. Vorrebbe a questo punto incontrarla, ma non per passare con lei una notte infuocata, quanto, per una sorta di correttezza morale, confessarle che ha capito di non amarla e che invece ama la cugina povera. Ma Brenda non c’è. Perché è morta. L’hanno trovata la mattina. Ora la casa è illuminata, perché tutti sono andati via da poco: il cadavere, il medico legale, la polizia, l’ispettore Tregellis, il grande detective amico della Polizia, Gideon Fell.

La situazione è cambiata: ora Joyce non è più povera, ma ricca. E soprattutto ora Dan è libero di amarla; e non devono neanche rendere conto a Brenda, lui e Joyce. Tuttavia Dan pensa che Brenda sia morta, affogata, dopo una nuotata.

No – disse Joyce. – E’ stata strangolata.

Strangolata?” (John Dickson Carr : King Arthur’s Chair (1956) – “Mani Invisibili” – Trad. Mauro Boncompagni – Gli Speciali del Giallo, N. 52 del 2007, Mondadori, pag. 429).

Strangolata, significa assassinata, non più solamente morta. Se qualche minuto prima la situazione per Dan e Brenda pareva essersi miracolosamente risolta, ora essa ritorna intricata, molto più di quanto si potrebbe pensare. Assassinata significa uccisa da un assassino. E la polizia su chi concentrerà la propria attenzione? Su chi quella mattina avrebbe potuto avere l’occasione (e allora avrebbe vagliato gli alibi) ma anche le ragioni di farlo (il movente). E doveva essere un movente valido per uccidere.

Nella villa oltre che Joyce, e naturalmente Brenda, sono presenti altri due soggetti, amici delle due cugine: Toby Curtis e Edmund Ireton. Ma chi quella mattina avrebbe avuto l’occasione e un motivo più che valido per uccidere, sarebbe stata proprio Joyce: l’invidia del patrimonio, e la gelosia nei confronti della sorella, per Dan.. Due moventi più che validi per assassinare. Ecco perché Joyce cerca di far comprendere a Dan che la dichiarazione d’amore avrebbe dovuto fargliela tempo prima, ma non in quel momento. Perché fornirebbe alla polizia immediatamente la certezza che la cugina povera, cioè lei, abbia avuto a che fare nell’eliminazione fisica della cugina ricca.

– Qualsiasi cosa dovessi dirmi,o pensassi di dovermi dire…

– Su.. di noi ?

– Su tutto! Ti rendi conto che devi dimenticarla e non accennarne mai più? Mai più!” (op. cit. pag. 431).

Però, c’è un problema cui la polizia sta dedicando la sua attenzione, pare. Che concerne il modus agendi dell’assassino. E’ noto che Brenda, quando si recava a nuotare, portava una sciarpa annodata al collo ed un copricostume, sopra il costume da bagno; poi il copricostume e la sciarpa li abbandonava su The King Arthur’s Chair, sul “Trono di Re Artù”, uno scoglio a forma di sedia che era vicino al mare: si sedeva, fumava e poi andava a fare il bagno. Tuttavia non si riesce a capire come l’assassino abbia potuto strangolare Brenda: se l’assassino l’avesse strangolata alle sue spalle, lei poi sarebbe caduta faccia in avanti. Ma così non è: Brenda è stata trovata nella sabbia. E del resto nessuno può averla affrontata, dalla parte del mare, emergendo dall’acqua, perché sulla sabbia del bagnasciuga, si sarebbero dovute ritrovare delle orme, che invece non ci sono. E che Brenda sia stata strangolata, lo prova la sciarpa che aveva intorno al collo oltre al copricostume: mentre il primo è stato abbandonato, la seconda è penetrata così a fondo nella pelle, che quelli della polizia non sono riusciti a rimuoverla.

Oltre a questo, c’è il problema della individuazione del possibile colpevole: nessuno avrebbe potuto ucciderla. Ireton, era appena arrivato; Curtis stava facendo del tiro a segno con un fucile cal. 22 sul retro della casa; e la stessa Joyce, per sua stessa ammissione, era in casa. Tutti e tre sono usciti e l’hanno vista: e nello spazio di sei metri sulla sabbia, non c’erano orme.

Detto così, il problema è insolubile. La polizia brancola nel buio, anzi è meglio dire, brancolerebbe se…non ci fosse Gideon Fell, casualmente in vacanza da quelle parti, in Cornovaglia, e arrivato accompagnato dalla polizia.

Gideon Fell ragiona e suppone quello che sarebbe potuto accadere. Innanzitutto elimina il problema delle orme: se non ci sono, significa che non ci sono mai state. Quindi l’assassino o l’assassina (nel caso sia stata Joyce, o una delle due cameriere, che però non avrebbero avuto alcun motivo ad uccidere chi forniva loro un lavoro) non ha mai percorso il tratto di sabbia. E allora? Come ha potuto materialmente strangolarla? Volando?

No. Non si è mai mosso materialmente dalla casa.

Questa è la soluzione sorprendente di Carr: l’omicida non ha lasciato orme, perché non ha ucciso la vittima strangolandola, ma usando qualcosa che simulasse lo strangolamento, e fosse anche estremamente rapido.

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Partendo da questo presupposto, Fell ricostruisce, interrogando i presenti, le loro mosse.

E individua l’omicida. Inchiodandolo alle proprie responsabilità.

Ma prima che ciò possa accadere, a dare la misura del dramma è un altro personaggio, quasi un altro detective. Mentre Fell è il detective che vede la natura materiale del peccato, Ireton qui è il detective che ne mette in rilievo la natura spirituale. Ireton è la coscienza, la voce di Carr.

– Il salmista ci dice – attaccò seriamente – che tutto è vanità. Qualcuno di voi ha mai notato..e che Dio mi perdoni se lo dico..che il tratto più sorprendente di Brenda era la sua vanità?…

Una vanità spaventosa. Se qualcuno avesse tentato di grattare quella vanità abbastanza in profondo, la nostra cara Brenda avrebbe commesso un omicidio.

Non è che sta considerando la situazione a rovescio? – chiese Dan. – Brenda non ha commesso nessun omicidio. Anzi, è stata Brenda…

Ah! – esclamò il signor Ireton. – E in questo ci potrebbe essere una lezione, non crede?

Senta, non vorrà mica dire che si è strangolata da sola con la sua stessa sciarpa, eh?

No, ma mi ascolti bene. La nostra Brenda, indubbiamente, aveva molte passioni e molte fantasie. Ma c’era solo un uomo che lei amava e voleva sposare. E non era il signor Dan Fraser.

Allora chi era? – chiese Toby.

Lei.

Lo stupore di Toby era troppo genuino per essere stato simulato…

Che il cielo mi aiuti! – disse – ma io non lo sapevo! Non mi sarei mai immaginato…” (op. cit. pag. 432). Più in là in un dialogo innocente, parlando di una persona, individua l’arma dell’omicidio, senza che se ne sia ancora fatta menzione (op. cit. pag. 434). Ma lo fa senza coscienza, quasi che parlasse non per sua volontà, ma che fosse espressione della volontà divina. E’ come la Sibilla che parla non per volontà propria ma del dio che la possiede, descrivendo esattamente quello che è avvenuto.

Sarebbe potuta essere una commedia degli equivoci, se non fosse finita in dramma: lei ama lui, lui ama lei ma non sa di essere amato, anzi pensa che lei ami un altro, che è innamorato di lei a parole, ma in realtà ama un’altra. E poi c’è un assassino che strangola non avvicinandosi, ma usando uno strumento fantomatico. Insomma, un gran casino. Ma se vediamo bene, casino proprio non è, appare semmai.

Il racconto, a parere mio, più che un “giallo” è un “nero”, un racconto che se non sapessimo essere della seconda metà degli anni ’50, si sarebbe tentati dal ritenerlo un’opera scritta nei primi anni ’30, magari sotto l’influsso di Bencolin. E’ un manifesto etico, pieno di significati simbolici, quasi una condanna dell’eccessivo fasto, del il trionfo dell’apparenza, del narcisismo: in altre parole una condanna della Vanità.

Questa sorta di manifesto metaforico, io direi si strutturi su almeno “quattro piani mistificatori”: la mistificazione è presente in varie espressioni, che vanno dalla personalità dell’assassino e dell’assassinata, a quelle degli altri attori del dramma, alle stesse manifestazioni poste in essere, tra cui il piano omicida.

Il primo potrebbe essere la mistificazione dei sentimenti: Brenda ama Toby, così come Toby ama Brenda. Ma entrambi sono permalosi e vanitosi: nessuno dei due vuole abbassare la testa per confessare di essere innamorato dell’altro, e quindi simulano indifferenza, quando non arrivano a punzecchiarsi vicendevolmente. E così facendo entrambi ignorano di essere amati, l’uno dall’altro. E’ un amore che non si dona, ma che si nutre di se stesso e quindi destinato a contorcersi. Per es. Toby non sa di essere amato, ma a sua volta la ama, disperatamente struggendosi per l’amore che ella dimostra per Dan. A sua volta, Dan, credendo di aver fatto colpo su una donna bellissima, si convince di esserne innamorato, mentre è solo veramente innamorato di Joyce, il cui amore lui trasferisce su Brenda. E nel mentre, Joyce lo ama.

Il secondo piano mistificatorio è attinente alla psicologia dell’omicida: egli spiega agli astanti, sostituendosi al detective di turno, come l’assassino non possa essersi avvicinato alla vittima: né dal mare, “perché il punto più elevato dell’alta marea, dove l’acqua avrebbe potuto cancellare le orme, si trova a più di sei metri davanti alla sedia”; né alle spalle, perché “dal lastricato della terrazza alla parte posteriore della sedia ci sono almeno sei metri”; né spiccando un salto, perché “un campione olimpico in buona forma forse ci sarebbe riuscito, se avesse avuto un punto per prendere la rincorsa ed un punto per atterrare. Ma le cose non stavano così. Non c’era nessun segno sulla sabbia” (op. cit. pagg. 434.435). E così facendo dimostra come l’assassinio non possa essere spiegato: senza arma, e senza la possibilità di dimostrare l’assassinio, il caso non può che essere archiviato. Ma a questo punto appare il deus ex machina, che fino a quel momento non è stato presente, Gideon Fell, che risolve l’enigma.

Il terzo piano, riguarda lo strumento usato per uccidere, utilizzato come arma per uccidere.

Di per sé non è un’arma per uccidere: lo diventa solo se viene utilizzata in un certo modo. Ed è stato proprio il modo di usare lo strumento a causare la situazione impossibile.

Del resto quest’arma produce un suono caratteristico che può essere facilmente confuso con un altro. E la mistificazione riguarda appunto l’uso di questi due strumenti in maniera tale che l’uso di uno mistifichi l’uso dell’altro.

Il quarto ed ultimo piano, concerne la mistificazione dei sospetti che possono essere solo Joyce Ray, poi Edmund Ireton, infine Toby Curtis.

Joyce è la prima ad essere sospettata per la ricchezza acquisita in seguito alla morte della cugina. Poi c’è Edmund Ireton ( che a suo dire vuole proteggere Joyce): egli ha consigliato Dan di non far parola a nessuno del sentimento reciproco che hanno scoperto di sentire vicendevolmente, pena la possibile accusa di omicidio rivolta a Joyce. Tuttavia l’amico Toby Curtis (strano che si chiami come Tony Curtis che megli anni ’50 fu famosissimo come attore!) gli rinfaccia di aver usato un modo di fare, diretto a far accusare direttamente Joyce invece di proteggerla: perchè invece di ammonire in separata sede Dan a non dire in giro che era innamorato di lei e lei di lui, gliel’ha gridato in maniera tale che tutti nella casa ne fossero, volenti o nolenti, a conoscenza? In realtà non vi è un sospetto, ma due. Anzi tre, perché Fell comincerà a parlare del fucile. Già perché è il fucile cal. 22 l’arma usata per mistificare il suono dello strumento usato invece per uccidere Brenda. Chi possedeva il fucile e si era esercitato per la mattinata? Toby. Quindi anche lui è sospettato. Anche se qualcun altro potrebbe averlo usato in sua assenza.

Il racconto può avere però anche un’altra lettura: accanto ai quattro piani su cui si struttura la storia, io in questo racconto, vedo molte manifestazioni del doppio: alcune possono essere casuali, altre no, e comunque i doppi connessi alla personalità dell’omicida, della vittima, dell’arma, e di alcune situazioni del racconto, fanno riferimento ad un oggetto presente a profusione nella casa. E l’individuazione della natura doppia di tanti oggetti, situazioni, soggetti, usati simbolicamente, è da mettere a parer mio in riferimento alla “morale” del racconto. Mi spiego.

Innanzitutto doppia è l’atmosfera che accoglie Dan : il buio che avvolge la casa sulla spiaggia, il lampo che squarcia l’oscurità e illumina fugacemente la scena del delitto, mentre dentro tutto è illuminato, può essere una metafora: il buio dell’indagine viene squarciato da qualche supposizione che qua e là comincia a diradare le tenebre, fino ad arrivare alla luce della soluzione. Ma è anche il buio, le tenebre (il male) contrapposto alla luce (il bene). Fuori della casa il male ha portato ad un omicidio, ma sarà nella casa che Fell svelerà il movente e come sia stata uccisa Brenda. E da chi.

Doppia è la natura dei sentimenti delle persone che vivono in quella casa: carnefice e vittima, si contrappongono e si confondono, tanto che alla fine l’assassino non si dimostrerà che la vittima di Brenda, quando non di se stesso. Ma doppie sono anche le personalità di chi si muove: Ireton è colpevole o innocente? Amico o nemico? Toby è innocente o colpevole? Giudice o reo? Dan è davvero estraneo alla vicenda o vi è coinvolto? Joyce è davvero innocente o è un’assassina astuta?

Doppia è la possibilità di come l’omicidio sia stato perpetrato: l’assassino era davanti oppure dietro la vittima?

Doppia è la natura dell’amato e dell’amante, di chi ama e di chi viene amato.

Ma doppio è anche il significato dell’uso di un’arma, che non è solo quello che appare ma anche altro: un fucile, cal. 22, con cui Toby faceva il tirassegno. Il fucile ha una natura doppia: spara ma anche mistifica il rumore che produce, cosicché si pensi che anche quando si sente un certo rumore esso venga associato allo sparo mentre non lo è.

Due sono le cameriere presenti in casa.

Due sono le cugine: una povera, l’altra ricca.

La presenza di due cugine, una povera, una ricca, tra l’altro mi da modo di evidenziare una curiosità: nel 1940, di Norah Lofts (pseudonimo, Peter Curtis) fu pubblicato il primo di quattro romanzi, Dead March in Three Keys (che con il titolo “Marcia Mortale in Tre Tempi”, fu pubblicato nel 1950, in Italia, dalla Casa Editrice Aldo Martello, nella serie “I Gialli del Veliero”). Si tratta di un bel romanzo, che potrebbe essere proposto ancor oggi, un thriller, in cui il lettore vede pianificato un omicidio per interesse. Gli attori di questo dramma sono tre: due cugine, Antonia ed Eloisa, la prima povera ma molto estroversa con gli uomini, la seconda ricchissima ma estremamente chiusa; e Riccardo, l’amante di Antonia, povero anche lui, che per calcolo sposa Eloisa, tradendola di continuo con Antonia, finchè…

A me interessa sottolineare solo come Carr potesse aver letto il romanzo, che ottenne un robusto successo nei primi anni ‘40, e avesse potuto trarre l’idea di due cugine di censo completamente diverso, che contendono l’amore ad un uomo, che anche qui è veramente innamorato della povera e solo apparentemente della ricca. Però qui la situazione è opposta: quella estroversa è quella ricca, e timida è invece la povera, che però avrebbe comunque le ragioni per uccidere, ma che invece, in ragione proprio della propria umiltà, non sembrerebbe vi pensi affatto.

Due ancora sono i carnefici e le vittime di questo racconto: sempre loro, Brenda e l’omicida. Nel mentre Brenda ne è la vittima, dell’assassino è anche il carnefice, perché è lei che lo ha spinto ad ucciderla.

E cosa è ancora doppia? La vanità : la vanità di Brenda e la vanità di Toby. Ma anche la La Vanità che non ha consentito loro di essere felici. Del resto si potrebbe pensare sin dall’inizio che gli unici soggetti vanitosi in questo piccolo dramma siano Brenda e Toby. In realtà, anche Ireton potrebbe essere vanitoso. E’ rappresentato vestito in maniera ricercata, da snob. Con sul viso l’espressione bonaria di un satiro, quando non beffarda. Dice di essere stato uno zio putativo di entrambe le cugine: ma che era in realtà? Era solo un amico discreto o amava qualcuna delle due?

E sicuramente lo è Dan. Ma la vanità di Dan non è quella di Brenda: Dan crede di essere affascinante, non perché egli ci creda in fondo, ma perché la stessa Brenda gliel’ha fatto credere, irretendolo. La vanità di Brenda è diversa: ella crede davvero di essere affascinante e superiore agli altri. E’ la Femme Fatal, e come tutte le femmine fatali ha un destino amaro. Nel MedioEvo la sua vanità, che è anche superbia, sarebbe stata condannata senza appello, e lei probabilmente sarebbe stata punita duramente. Perché la Vanità (assieme alla Superbia) era connessa col Male. Vanitas Vanitatum. Uno dei sette peccati capitali.

E’ la vanità il movente dell’assassinio, uno strano movente, in verità. Non c’è odio, avarizia o cupidigia, ma vanità. Che è prodotta dall’eccessivo narcisismo, dall’eccessivo innamoramento di se stesso, della protezione della propria più intima natura, che non dev’essere per nulla svelata, perché da ciò vi sarebbe un indebolimento della propria personalità. Per una volta tanto, vediamo come l’assassinio non sia il prodotto dell’odio, ma dell’amore, anche se non rivolto ad altri ma a se stessi. Anche l’amore qui è doppio: amore di se stesso, ma anche amore dell’altro. Se non ci fosse stato l’amore verso un altro, non si avrebbe avuto paura di essere deriso e messo a nudo. Narcisismo, e Vanità. L’opposto dell’umiltà, che sembrerebbe essere il connotato di Joyce, invece.

L’assassino è quindi un debole, che, deriso per la propria debolezza, cioè dell’amore che prova, uccide. Se fosse stato forte, non avrebbe avuto paura della propria debolezza. Lui però non lo è. Deve simulare all’esterno di non essere debole, ma lo è, e proprio questa sua doppiezza nell’animo è la causa del suo reato, del peccato mortale.

L’apparenza che è commessa alla vanità, al bello, a ciò che si vede, è già messa in evidenza

all’inizio del racconto quando si dice che la casa sul mare veniva chiamata “la casa del re”, per via di tutte le decorazioni che Brenda aveva voluto che l’abbellissero, esternamente e internamente.

Ma l’apparenza e la vanità sono rappresentate da un oggetto, che si trova all’interno della casa, di cui, come abbiamo detto prima, vi è profusione, e che ha un forte valore simbolico: lo specchio.

Brenda era vanitosa, ed in quanto innamorata di se stessa, aveva bisogno dello specchio. Degli specchi. Che erano numerosi in casa.

Ed è in ragione dello specchio che il racconto, talora, è così costruito sui doppi.

Il doppio è da mettere in diretta relazione con lo specchio: lo specchio infatti riflette una visione, creando il suo doppio. I due doppi, solo apparentemente sembrerebbero essere uguali, mentre sono antitetici, vicendevolmente. Il doppio è l’opposto, l’anima nascosta, la parte nascosta di noi. Anticamente si pensava che gli specchi, duplicando la realtà, avrebbero potuto imprigionare l’anima nell’immagine riflessa dallo specchio. Ecco perché alcuni coprivano gli specchi alla morte di qualcuno per permettergli di raggiungere l’oltretomba.

Ma lo specchio genera un’immagine di sé, permette di vedere la propria bellezza. Che può essere positiva o negativa. Quando è negativa, è legata al narcisismo e all’attaccamento dei beni terreni. Come tale, questa visione della vita, e quindi di se stessi, rimanda al Male, e ai due peccati capitali cui si ricollega: Vanità e Superbia. Tanto che nella Firenze del 1497, con il Rogo delle Vanità, durante il Martedì Grasso, i seguaci di Girolamo Savonarola bruciarono gli specchi.

Ecco allora già due simboli chiave del racconto: lo specchio ed il doppio che viene generato da esso e in esso.

Ma c’è un altro simbolo: è l’arma usata per uccidere.

“ – Il vero strumento? E quale sarebbe questo rumore?

Lo schiocco di una frusta di pelle di serpente – rispose il dottor Fell”( op. cit. pag. 441).

Non è il fucile, che è servito solo a distogliere l’attenzione, illudendo i presenti che il rumore sentito fosse uno sparo, mentre invece era il rumore di una frusta. Ma è una frusta di pelle di serpente. Una frusta da mandriano. Che usata abilmente è stata avvolta al collo di Brenda, mentre era ancora seduta sul Trono di Re Artù con il collo avvolto da una sciarpa. Del resto la sciarpa era essenziale alla messinscena: se non ci fosse stata, si sarebbe visto sul collo il segno della frusta. Appoggiata alla curva della roccia dietro il sedile, la frusta, tirata verso l’omicida, l’aveva soffocata in pochi secondi. Poi, dovendo svolgerla dal collo, l’omicida aveva dovuto dare uno scatto verso l’alto, che aveva sollevato Brenda e l’aveva lasciato cadere nella sabbia, creando la situazione impossibile.

Il terzo simbolo non è però la frusta in sé, ma il materiale di cui è fatta: la pelle di serpente.

Non è stato il serpente, il male, Satana sotto mentite spoglie, a suggerire alla donna che era nuda? Eva molto spesso è ritratta col pomo, ma anche con lo specchio: superbia e vanità, sono spesso associati. Come in questo caso, perché vittima e carnefice sono espressione di debolezza: superbi e vanitosi.

Nell’ultima scena, tutti e tre i simboli sono presenti.

Fell inchioda l’assassino, che è ritratto mentre si specchia, e man mano che indietreggia si trova con le spalle vicino ad un altro specchio. E gli specchi sono dovunque:

L’Ispettore Tregellis era riflesso dappertutto negli specchi, con la lunga frusta arrotolata sopra il braccio” (op. cit. pag 444);

lo specchio è come se ci rimandasse la faccia non evidente dell’assassino, quella che Fell mette in luce, la sua anima votata al male, il suo doppio:

Guardatelo, tutti quanti! – disse il dottor Fell. – Persino quando viene accusato di omicidio, non riesce a togliere lo sguardo da uno specchio” (op. cit. pag. 443);

a conclusione dell’arringa di Fell, arriva l’Ispettore Tregellis che brandisce la frusta.

Ma più che una frusta sembrava che stesse portando una corda..la corda del capestro” (op. cit. pag. 444).

La frusta che è formata da pelle di serpente.

In sostanza l’assassino è inchiodato alle sue responsabilità, ed è come se il serpente, il male del peccato originale, che aveva instillato nell’uomo la superbia e la vanità, ora reclamasse il suo prezzo: la morte e la dannazione, per chi lo ha scelto consapevolmente, mediante l’impiccagione.

Ma la vera condanna dell’assassino non si avrebbe senza un colpo di scena. La ricostruzione di Fell è perfetta, ma così raccontata in un’aula di un tribunale non avrebbe nessuna ragion di essere accettata, perché vi sono indizi, c’è l’arma dell’omicidio, c’è la presunzione che essa possa esser stata usata dall’assassino medesimo (che è un ricco possidente in Sudafrica, dove si usa il tipo di frusta rinvenuto), ma parrebbe che non ci fosse alcun testimone presente. Ed invece..

Invece la Provvidenza divina, il fato, la Giustizia divina, chiamatela come volete, che non può permettere che un assassino, che ha ucciso con l’aggravante diremmo noi “dei futili motivi”, cioè per cattiveria, vada impunito, si materializza ancora una volta in un racconto di Carr.

E’ rappresentato da una delle due cameriere, Sonia, infatuata dall’omicida. E’ come se qualcosa di sovrumano, che sfugge all’umano raziocinio, alla pianificazione di un delitto perfetto, si inserisse, una piuma che fa inceppare un ingranaggio ritenuto inceppabile, messo in moto inconsapevolmente ed inconsciamente da quello stesso vizio, la vanità, che è stata alla base dell’omicidio. Il desiderio di essere belli a tutti i costi, produce infatuazione in quelle donne che sono soggette a questo tipo di fascino esteriore. Una di queste è Sonia.

“…Vi avevo anche avvisato di aver interrogato le cameriere, Sonia e Dolly, le quali oggi avevano fornito solo risposte incoerenti. Mio caro signore, lei sottovaluta il suo fascino personale.

Sembra che Sonia..abbia sviluppato una certa simpatia per lei. Quando stamattina ha sentito quell’ultimo “colpo” isolato, ha guardato di nuovo fuori dalla finestra. Ma lei non c’era…E questo l’ha colpita talmente che è corsa fuori sulla terrazza anteriore e si è accorta che lei era lì. L’ha vista, insomma.” (op. cit. pag.443).

E’ come se Carr emettesse un giudizio di massima, ancora una volta: il male non paga mai.

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Isole e treni maledetti

giugno 7th, 2012

Diffidate di questi luoghi e di questi mezzi di trasporto…

 

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Cari ragazzi (formula scontata ma pur sempre efficace per attirare una qualche simpatia tra lettori stagionati) questa non è una ricerca esaustiva e, a dir la verità, non è nemmeno una ricerca (ne ho già fatte fin troppe nella vita) ma un excursus, così un po’ a capriccio come è nel mio costume, riportando in vita pure cose già scritte su alcuni luoghi tipici della letteratura poliziesca, dove sono avvenuti un sacco di morti ammazzati. Anche per mettere in guardia eventuali viaggiatori…

Parto dall’isola. Più precisamente da L’isola della paura di Anthony Berkeley, Mondadori 2011. Piccola, “più o meno quindici ettari di terra quasi pianeggiante” sulle scogliere, tra Madeira e le Bahamas. Qui il sorprendente (come personaggio) Guy Pidgeon, un accademico arricchito, porta una schiera di invitati, tra cui l’altro sorprendente Roger Sheringham, scrittore e investigatore, con lo scopo di smascherare un assassino di un vecchio delitto. E’ chiaro che i personaggi si trovano costretti a rimanere sull’isola, distribuiti in una serie di tende all’aperto, per un qualche motivo che non sto a spiegarvi. Sapere che tra loro c’è un assassino senza conoscerne il nome (Guy lo ha dichiarato espressamente) genera tutta una serie di incredibili reazioni. La vicenda si complica con la storia di un fantasma che di notte sembra ululare a tutto spiano e con l’idea che ci sia qualcuno là fuori che girella furtivo…

Di solito con una fava si prendono due piccioni ma con L’isola dei delitti di Agatha Christie, Hake Talbot e Roy Vickers, Mondadori 2008, con introduzione saporosa del nostro Mauro Boncompagni (che il Signore lo abbia in gloria) se ne prendono addirittura tre: due romanzi ed un racconto. E a poco prezzo.

Inizio da Dieci piccoli indiani della divina Agatha. Un mito. Non sto a farla lunga. Otto persone che non si conoscono fra loro sono invitate a trascorrere l’estate in una villa di Nigger Island (ecco la nostra isola) non lontana dalle coste del Devon in Inghilterra. Qui trovano il maggiordomo e la cuoca ma non il padrone che manca per motivi poco chiari. Sopra il camino delle camere c’è la famosa filastrocca “Dieci poveri negretti…”. Infine una voce registrata su un disco accusa tutti di essere degli assassini impuniti. E da qui inizia l’altrettanto famosa sequela di morti.

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L’isola: “A nord ovest, verso la costa, le rocce piombavano a picco sul mare, con la superficie perfettamente liscia. Sul resto dell’isola, non c’erano alberi e c’era ben poco che potesse servire da riparo”. “Un mondo, forse, dal quale non si poteva tornare indietro” scrive la Christie. Se a questo si aggiunge lo scoppio di una tempesta…

Continuiamo con Terrore nell’isola di Hake Talbot. E anche in questo caso si fa presto perché è un classico ben conosciuto. E dunque c’è Nancy che si sveglia e non si ricorda di niente. O meglio si ricorda di essere nella casa di Frant, il padrone, ma che gli ospiti ed i domestici sono tutti scomparsi. E allora incomincia a cercarli insieme a Rogan Kincaid, una vecchia conoscenza apparsa improvvisamente. Inizio alla grande. Il problema è che Frant è morto dopo una maledizione del fratello Evan. Di schianto, come si dice dalle mie parti. Nascono i dubbi. Morto per la maledizione o avvelenato? E in che modo può essere stato avvelenato? E perché non pensare al suicidio? Ma il corpo del morto al quale è stata tolta la pelle dei polpastrelli è proprio quello di Frant? E perché è in evidente stato di putrefazione? E così di seguito fino allo spappolamento del cervello del lettore.

Sull’isola chiamata Kraken non c’è molto da dire. A parte il fatto che il nome si riferisce all’antica leggenda di un mostro enorme che poteva ingoiare navi per intero e trascinarle nella sua tana (e già questo non tranquillizza affatto). Ha un “profilo bizzarramente roccioso contro la linea bassa della costa, distante meno di mezzo chilometro”. Intanto fuori infuria il solito uragano…

E così si passa al lungo racconto di Roy Vickers L’unico superstite che ricalca un po’ il romanzo dell’Agatha con l’eccezione del naufragio. Sempre su un’isola, si capisce. Chi racconta la storia attraverso un “affidavit” è il prof. William Edward Clovering. Il naufragio è della Marigonda con carico e cinquanta passeggeri provenienti dal Capo di Buona Speranza e diretti a Londra. Si salvano sette uomini su una scialuppa e, come era già capitato al nostro Robinson Crusoe, possono ricavare da vivere per un bel po’ attraverso carico di viveri e attrezzi tratti dalla Marigonda non completamente affondata.

Si salvano per modo di dire che uno dopo l’altro ci lasciano le penne, colpiti in testa da un arnese che può benissimo essere un martello. Angoscia, paura, sospetto. Chi è l’assassino? Uno di loro o un estraneo che si aggira sull’isola?

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Dissertando di Camere Chiuse:John Dickson Carr Vs Clayton Rawson

luglio 29th, 2011

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Puntuale come il rapido delle 7e40, arriva il nuovo articolo firmato Pietro De Palma. L’amico Pietro ha anche un interessante blog   , sul quale vi invito a leggere la recensione di un capolavoro del noir dal titolo ” Lo strano amore di Martha Ivers”. Buone letture e buone vacanze (a chi le fa!).

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Il primo ad aver inventato una Camera Chiusa, The Big Bow Mystery, nel 1896, fu Israel Zangwill; ma il primo ad aver elevato il problema ed il sottogenere narrativo, che da essa prese il nome, ad un tale livello di raffinatezza da assurgere a vette di inusitata grandezza, fu John Dickson Carr.

John Dickson Carr, che pur americano visse per molti anni in Inghilterra, fin dall’inizio della sua attività, provò a fondere, nelle sue opere narrative, più generi: il fantastico, il sovrannaturale, il gotico, il poliziesco ad enigma, creando virtuosistici intrecci il cui scopo era mettere in crisi il lettore, costringendolo prima ad accettare passivamente una situazione dei fatti che pareva incredibile se non addirittura sovrannaturale, per poi  accantonarla, sulla base di una soluzione tecnicamente ineccepibile, di cui forniva tutti gli appigli logici, così da comporre il puzzle e dargli forma definitiva .

I suoi romanzi, fin dal primo di essi, rifuggirono da trame troppo semplici, e si concentrarono preferibilmente sui temi classici del “whodunnit”, e in particolar modo quelli del “delitto impossibile” (come per esempio The Curse of the Bronze Lamp, in cui si ricollega idealmente, nella dedica ad Ellery Queen, ad un radiodramma di quest’ultimo, The Disappearance of Mr. James Phillimore, trasmesso il 14 o 16 gennaio 1943), e ancor più in modo massiccio, quelli de “la Camera Chiusa”; anzi, proprio per la trattazione sistematica di tutte le possibili variazioni di una Camera Chiusa, Carr è ritenuto da tutti, il più grande tra tutti i romanzieri che abbiano trattato questo particolare genere poliziesco, in cui l’elemento centrale non è tanto quello di scoprire il responsabile quanto come il crimine (delitto, furto o quant’altro) venga commesso.

Invariabilmente, in tutti i romanzi che abbiano una Camera Chiusa, la prima impressione degli investigatori coinvolti nell’indagine è che il criminale sia svanito nel nulla : è inutile dire quanto Carr amasse questa situazione del “delitto impossibile” e come svanire nell’aria fosse diventata la sua fissazione (soleva dire “faded into thin air”).

Discende, ovviamente da ciò, il fatto che, la soluzione debba ascriversi o a evento soprannaturale o invece che essa debba avere una base rigorosamente logica.  Ma, una volta inventata la situazione paradossale di un delitto avvenuto all’interno di camera chiusa dall’interno, sono state create via via, non solo da Carr ma da una nutrita schiera di scrittori versati al problema, tutte le possibili varianti: camera chiusa dall’interno, camera le cui entrate sono guardate a vista da soggetti di fiducia, camera in cui esistono marchingegni fisici in grado di creare la situazione di impossibilità, situazioni non previste che fanno scattare il presupposto di impossibilità, “camere allargate” (distese di neve, di sabbia, di acqua), “camere” diverse (automobili, cabine telefoniche,  tetti, scale), etc..

Carr, del resto, a confermare la fama che dall’esterno gli è stata riconosciuta, tentò ad un certo punto, di dare una classificazione il più possibile esaustiva delle Camere, fondandola su molteplici sottocategorie. Va da sé che l’aver posto una tale trattazione teorica, in un romanzo piuttosto che in un altro, deve aver significato qualcosa per lui : deve cioè aver conferito a quel romanzo (che è The Hollow Man, “Le tre bare”), il sigillo dell’opera migliore, o almeno dell’opera più rappresentativa tra i tanti firmati John Dickson Carr.

E’ però il caso di sottolineare che, nell’ambito della produzione firmata come sopra in cui trovano spazio le due serie di Henri Bencolin e di Gideon Fell e parecchi romanzi storici, il genere de “The Looked Room” non è quello preferito, in quanto se è vero che notevoli e addirittura eccezionali sono alcuni esiti (oltre a The Hollow Man, ci piace ricordare He Who Whispers o The Case of the Constant Suicides o ancora The Witch of the Low Tide ) è altrettanto vero che vi sono altri romanzi che non contengono Camere Chiuse anche se sono di altrettanta eccezionale fattura (ad es. Arabian Nights Murder ); e quindi ci pare significativo che aver ideato una dissertazione teorica sul genere della Camera Chiusa, e averla inserita in uno dei pochi romanzi capolavori firmati con il suo nome e cognome, nell’ambito di una serie di romanzi in cui molti non contengono questa particolare situazione, debba avere un significato particolare: perché cioè non inserire la “Looked-Room Lecture” nell’ambito della serie che ha protagonista principale H.M. e firmata Carter Dickson, votata proprio alla Camera Chiusa?

Innanzitutto The Hollow Man è del 1935: prima di esso, Carr aveva firmato con il suo nome e cognome per esteso Hag’s Nook e The Mad Hatter Mystery nel 1933, Eight of Swords e The Blind Barber nel 1934, e Death Watch già nel 1935, oltre che 3 dei quattro titoli con Bencolin; mentre con pseudonimo Carter Dickson, The Plague Court Murders e The White Priory Murders nel 1934, e  The Red Widow Murders (primo romanzo di Carr pubblicato in Italia) nel 1935.

Ora, perché mai Carr pensò bene di affidare a Fell invece che a Bencolin e ancor più ad H.M. la “Looked-Room Lecture”? Intanto i romanzi con Bencolin prima del 1935, seppure geniali, sono intrisi sino al midollo e sino alla fine di un’atmosfera nera e gotica che stride con quella solare della razionalità affermata; inoltre quelli con H.M., se proprio si vuole analizzare per bene il tutto, non è proprio vero che non abbiano anche loro le proprie dissertazioni: infatti, in due romanzi con H.M. della prima serie, quella che va sino allo scoppio del secondo conflitto mondiale, cioè in The White Priory Murders del 1934 e in The Peacock Feather Murders o The Ten Teacups del 1937 vi sono due riflessioni, che seppur più contenute della “Conferenza di Fell”, a parer mio hanno pari importanza. Per questo ritengo opportuno metterle a confronto con quella più celebre per accentuare il fatto che Carr, laddove pontifichi, non lo faccia mai a vanvera; e che le riflessioni che Carr mette in bocca a H.M., pur ignorate o almeno sottovalutate dai critici, abbiano pari valore, sottolineando un aspetto che nella trattazione teorica ne “Le tre bare”, manca.

Cominciamo con la celeberrima dissertazione sulle camere chiuse (da cui espungerò i passi per me più significativi), presente in The Hollow Man (1935):

“La maggior parte dei lettori, sono lieto di dire, va matta per le stanze chiuse. Ma – è qui il maledetto guaio – perfino i loro amici sono frequentemente dubbiosi. Io ammetto di esserlo spesso. Quindi, per il momento, ci metteremo tutti quanti a studiare la faccenda e vediamo cosa riusciamo a scoprire. Perché siamo dubbiosi quando sentiamo la spiegazione della stanza chiusa?….

Un uomo scappa da una stanza chiusa a chiave..be’?… È la fuga dalla stanza che mi lascia perplesso. E per vedere se riusciamo a trovare un filo conduttore, traccerò un abbozzo sommario dei vari sistemi per commettere delitti in stanze sigillate, classificandoli separatamente.

– Primo! C’è il delitto commesso in una stanza ermeticamente sigillata che è realmente sigillata ermeticamente e dalla quale nessun assassino è mai uscito perché nella stanza non c’era nessuno. Spiegazioni:
Uno. Non è assassinio ma una serie di coincidenze che finiscono con un incidente che somiglia a un assassinio. Poco prima che la stanza venisse chiusa c’è stato un furto, un’aggressione, un ferimento, oppure un rumore di mobili che si spaccano che fa pensare a una lotta mortale. Più tardi la vittima viene incidentalmente uccisa o stordita in una stanza chiusa e si presume che tutti questi avvenimenti abbiano avuto luogo nello stesso tempo…

Due. È delitto, ma la vittima è costretta a uccidersi o a soccombere accidentalmente. Questo può avvenire a causa di una stanza abitata dagli spettri, per suggestione, o più normalmente, per del gas filtrato dall’esterno. Questo gas o veleno fa perdere la testa alla vittima che si abbandona a violenze sfasciando la stanza come se vi fosse stata una lotta, tanto che finisce col morire per una ferita da coltello che s’infligge da se stesso…

Tre. È delitto, per mezzo di un congegno meccanico installato nella stanza e nascosto in un qualunque mobile dall’aspetto innocente…

Quattro. È suicidio con l’intenzione di farlo apparire delitto. Un uomo si accoltella con un ghiacciolo, il ghiacciolo si scioglie! e poiché nella stanza non si trova nessun’arma, si presume il delitto. Un uomo si spara con un’arma legata a un elastico… l’arma, quando lui la lascia andare, sparisce nel camino, fuori dalla vista. Varianti di questo trucco (non concernenti stanze chiuse) sono state la pistola, attaccata a un peso con una cordicella, che dopo lo sparo schizza nell’acqua dal parapetto di un ponte; e, sullo stesso stile, la pistola gettata da una finestra in un cumulo di neve.
Cinque. È un delitto che trae il suo problema dall’illusione ottica e dalla personificazione. Così: la vittima, ritenuta sempre viva, è già assassinata dentro una stanza la cui porta è sorvegliata. L’assassino, sia vestito come la sua vittima o scambiato, da dietro, per la vittima, entra precipitosamente nella stanza. E precipitosamente si libera del travestimento ed esce istantaneamente dalla porta sotto le proprie spoglie. L’illusione ottica è che lui, uscendo, si sia semplicemente scontrato con l’altro. Qualunque cosa accada, lui ha un alibi perfetto perché, quando più tardi verrà scoperto il cadavere, si presumerà che il delitto sia stato commesso dopo che la vittima impersonata è entrata nella stanza.
Sei. È un delitto che, per quanto commesso da qualcuno sul momento fuori della stanza, sembra commesso da qualcuno che doveva essere stato dentro la stanza.
“Nello spiegarvi questo – disse il dottor Fell interrompendosi bruscamente – classificherò simile tipo di delitto sotto il nome di Delitto da Lontano o Delitto del Ghiacciolo, dato che di solito è una variante di quel principio. Ho già parlato dei ghiaccioli, capite cosa intendo. La porta è chiusa ermeticamente, la finestra è troppo piccola perché l’assassino possa passarvi, tuttavia la vittima viene pugnalata nell’interno della stanza e l’arma è introvabile. Be’, il ghiacciolo è stato sparato dall’esterno come una pallottola… non staremo a cavillare se sia possibile o meno, non più di quanto abbiamo fatto per i misteriosi gas cui ho accennato prima – e si scioglie senza lasciar traccia.
Sette. Questo è un delitto che dipende da un effetto esattamente alla rovescia di quello del numero cinque. Cioè si presume che la vittima sia morta molto prima di quello che è in realtà. La vittima è addormentata (drogata ma illesa) in una stanza chiusa. I colpi alla porta non riescono a svegliarla. L’assassino si finge molto spaventato, forza la porta, entra per primo e uccide, pugnalando o sgozzando e suggestionando poi gli altri a credere di aver visto qualcosa che non hanno visto… – Calma! Un momento! – interruppe Hadley battendo sul tavolo per ottenere attenzione. Il dottor Fell, con espressione soddisfatta, si voltò gentilmente verso di lui e gli sorrise. Hadley continuò: – Tutto questo sarà magnifico. Hai sviscerato tutte le situazioni delle camere chiuse…
– Tutte? – ribattè il dottor Fell spalancando gli occhi. – Non proprio, direi. Non ho neanche trattato a fondo i metodi sotto quella determinata classificazione. Ho fatto solo un abbozzo. Bah, lasciamo perdere.

Ora stavo per parlare dei vari sistemi di truccare porte e finestre in modo che sembrino chiuse dall’interno. Ah. Ehm. Ecco, signori. Continuerò….C’è il camino vuoto con la stanza segreta dietro…. Ma l’assassino che taglia la corda arrampicandosi su per un camino è rarissimo…Delle due principali classifiche – por­te e finestre – la porta è di gran lunga la più popola­re e vi posso elencare qualche sistema in modo che sembri chiusa dall’interno.

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Primo. Trafficare con la chiave che è sempre nella serratura. Questo era il metodo antico preferito, ma le sue varianti sono troppo note oggi perché qualcuno le usi seriamente. Il gambo di una chiave può essere afferrato e girato dall’esterno: noi stessi lo abbiamo fatto per aprire la porta dello studio di Grimaud…

Secondo. Togliendo i cardini della porta senza toc­care la serratura o il paletto. Questo è un trucco inge­gnoso noto alla maggior parte dei ragazzini quando vogliono aprire una credenza chiusa a chiave, natural­mente i cardini devono essere dalla parte esterna.

Terzo. Manomettere il paletto. Cordoncino di nuo­vo. Questa volta con un congegno di spilli o aghi da rammendo, per mezzo del quale il paletto viene spin­to dall’esterno dall’azione della leva di uno spillo in­filato all’interno della porta mentre il cordoncino è in­filato nel buco della serratura. Philo Vance, al quale faccio tanto di cappello, ci ha mostrato la migliore applicazione di questa trovata…Ellery Queen ci ha mostrato un altro sistema ancora, che comportava la partecipazione del morto stesso… ma raccontato così senza parlare di tutti gli sviluppi farebbe un effetto talmente pazzesco che non si renderebbe un buon servigio a quel geniale scrittore.

Quarto. Manomettere un saliscendi. Questo normal­mente si effettua incastrando sotto la sprangherà qual­cosa che può essere eliminato dopo che la porta è sta­ta chiusa dall’esterno, in modo che la sprangherà possa ricadere. Il miglior metodo è di gran lunga l’uso del­l’insostituibile cubetto di ghiaccio: lo si mette sotto la sprangherà e non appena è sciolto, la spranghetta scen­de. C’è anche un caso in cui la brusca chiusura della porta basta a far cadere la spranghetta.

Quinto. Un’illusione ottica, semplice, ma efficace. L’assassino, dopo aver commesso il suo delitto, ha chiuso la porta dall’esterno e si è tenuto la chiave.

(John Dickson Carr, The Hollow Man, “Le tre bare”, traduz. Maria Luisa Bocchino, I Classici del Giallo Mondadori N.234 del 1976, passi tratti dal Cap.17 “La conferenza sulla stanza chiusa a chiave”, pagg.183-195).

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Considerazioni generali sul Philo Vance interpretato da Giorgio Albertazzi

maggio 17th, 2011

Cari lettori de “Il Giallo Mondadori”, oggi, sono lieti di presentarVi un lungo e articolato saggio di Pietro De Palma su “Philo Vance”, uno dei simboli del genere a noi tanto caro. Certo di farVi cosa gradita, Vi auguro una buona lettura.

                                                                                                              Dario Geraci

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Nel 1974, La RAI Radiotelevisione Italiana, che un tempo contribuiva alla cultura in Italia creando i più bei sceneggiati e le più belle riduzioni teatrali (talora lo fa ancora), mandò in onda i 3 primi casi di Philo Vance, di S.S. Van Dine (La strana morte del signor Benson, La Canarina assassinata, La fine dei Greene), ridotti per la televisione, affidando il personaggio principale a Giorgio Albertazzi,

Per la TV, Albertazzi aveva gà lavorato e aveva conseguito notevoli risultati, ancor oggi apprezzati (L’Idiota di Dostojevskj, Mr Hyde di Stevenson); il Philo Vance viene ritenuto comunemente un interludio, una produzione minore nell’ambito di quelle interpretate dall’attore: io penso invece che abbia rappresentato una tappa significativa, al pari delle altre produzioni ricordate.

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