Poison in Jest : analisi di un romanzo di rottura

gennaio 15th, 2013

Un nuovo articolo di Pietro De Palma in esclusiva per il blog de “Il Giallo Mondadori”.

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Lo Speciale N. 68 del Giallo Mondadori “Veleni Letali”,uscito nell’inverno 2012, prima di Natale,  propone 2 romanzi, il primo di John Dickson Carr, il secondo di Hillary Waugh, ed un racconto di Anthony Berkeley: di Carr è proposto “Piazza Pulita” (Poison in Jest), assente da oltre trent’anni dall’edicola; di Waugh, un romanzo ancor più difficile a trovarsi, “Veleno in Famiglia”, ( Pure Poison); di Berkeley, il rarissimo “Il Baratttolo Sbagliato” (The Wrong Jar). Tuttavia, sebbene le opere di Waugh e di Berkeley possano essere oggetto di attenzione al pari dell’opera di Carr, è chiaro che l’attesa dello Speciale da parte di molti, era giustificata dal fatto che vi fosse presentata “Piazza Pulita”, di cui molti lamentavano la non pubblicazione da molti anni a questa parte.

Poison in Jest è una delle opere senza personaggio fisso di Carr.

Apparve nel 1932. A quel tempo, l’unica serie fissa che Carr avesse allestito, era quella di Bencolin, di cui erano usciti quattro titoli (It Walks By Night, 1930; Castle Skull, 1931; The Lost Gallows, 1931). Nel 1932 uscirono altri due titoli: The Waxworks Murder, che meritò anche l’edizione americana: The Corpse In The Waxworks; e Poison in Jest, appunto.

Vediamo la storia.

Jeff  Marle va a trovare il giudice Quayle. Nella sua casa imponente vi vive tutta la sua famiglia assieme a lui: la moglie, i 4 figli (Matt, Clarissa, Jinny, Mary), il genero e marito di Clarissa, dottor Twillis, più il personale di servitù. In origine, i figli erano cinque: c’era anche Tom, che aveva però preferito andar via da casa e pertanto era stato diseredato.

Nella casa regna la tristezza,  il risentimento tra vari rappresentanti della famiglia, e nei confronti del giudice, che crede sia odiato da molti, e un orgoglio mal interpretato, perché ai fasti di un tempo, di cui sono rappresentanti le vestigia della casa, tra cui una magnifica statua dell’imperatore Caligola, cui manca una mano, fa da contraltare la miseria effettiva, giacchè il capofamiglia non ha più nessun soldo, i figli fingono che siano ancora i Quayle di un tempo, mentre l’unico che tiene in piedi la baracca è il dottor Twills, che, agiato, foraggia le necessità del vecchio.

Ecco quello che Marle trova al suo arrivo. Il giudice teme per la sua vita, parla di un suo manoscritto, e, nel mentre, accadono due oscuri fatti: qualcuno tenta effettivamente di uccidere il vecchio giudice avvelenando il sifone del seltz con idrobromuro di joscina, di cui il medico ha una bottiglia contenente circa 300 mg nella sua stanza, in virtù dei suoi trascorsi come psichiatra; e nello stesso tempo, l’avvelenatore cosparge il pane tostato della moglie del giudice, con dell’arsenico.

Il dottor Twills, rivela a Marle di avere dei sospetti su chi possa essere l’avvelenatore e teme nuovi sviluppi visto che la bottiglia contenente la joscina gli è stata sottratta. Prima che possa però arrivare al dunque, viene avvelenato mortalmente con lo stesso alcaloide.

A gestire le indagini è il Commissario di Contea Sargent. Ma se è vero che almeno ufficialmente è lui il responsabile dell’inchiesta, in realtà dietro di lui si muovono Marle, che è un poliziotto, e soprattutto un investigatore privato, Pat Rossiter, innamorato della figlia di Quayle, Jinny, chiamato lì e annunciato da un telegramma spedito prima dell’omicidio di Twills: è lui che risolverà l’enigma.

Nella casa c’è un’atmosfera di morte e di pazzia: il giudice è ossessionato da una mano bianca che si muove e gli appare (sarebbe quella persa dalla statua), qualcuno ride nel momento in cui Twills muore, qualcuno tenta di avvelenare il giudice Quale e la moglie con due diversi tipi di veleno, il giudice parla di complotto, Twills nei suoi appunti, vergati prima di morire, ha scritto che qualcosa è stato bruciato nel caminetto, ha lasciato degli strani ghirigori che potrebbero riferirsi ad uno schizzo di persona ed una formula chimica, quella della morfina. In realtà sul braccio del giudice viene individuata una serie di segni causati da iniezioni (morfina?): l’ossessione della mano quindi sarebbe il frutto di allucinazioni? Oppure la morfina viene data per altro?

Fatto sta che con un’abbondanza di indizi e di persone sospettate, Sargent non sa che pesci prendere. Si ricava solo che qualche giorno prima si era parlato di avvelenamento allorché si era ricordato il caso della Marchesa de Brinvilliers e del suo amante, il Cavaliere di Saint-Croix, celebri avvelenatori del secolo diciottesimo. E che quindi qualcuno ne aveva ricavato l’idea base.

Si sono sentiti dei passi, che la signora Quale, attribuisce ad una donna, prima che lei venisse avvelenata: passi veloci, passettini. Abbiamo un’avvelenatrice? Chi? La signora Quayle è esclusa: per quale ragione si sarebbe avvelenata? Rimangono quindi le altre due figlie: Jinny e Clarissa.

Ci sarebbe qualcuno del personale, ma viene presto escluso. A sua volta, il padre rilancia l’ipotesi di un avvelenatore maschio: mentre ricorda gli aventi di qualche giorno prima, ricorda che in quel mentre era entrato il figlio Matt ed aveva sentito tutto (ma del resto, interrogato, il giudice Quayle si affretta a dire che la porta era aperta e quindi chiunque avrebbe potuto sentire l’oggetto del suo discorso); Matt però era quello che aveva portato alla madre il pasto, in cui il pane era avvelenato.

Insomma di carne sul fuoco ce n’è in abbondanza.

Pat Rossiter arriva a casa: è Jeff che lo trova per la prima volta, ed il ritratto che ne fa è di un pazzo, se non di un personaggio altamente bislacco: “C’era un uomo seduto per terra, che stava parlando ad una scala. In una mano teneva un vecchio secchio di legno, e nell’altra qualcosa che assomigliava a una calza rotta. Una coperta incrostata si sporcizia gli pendeva dalle spalle…Sospirò e cominciò ad alzarsi in tutta la sua sorprendente statura, togliendosi la polvere dall’abito. Aveva un orrendo cappello piantato indietro sulla testa, e dal labbro inferiore gli pendeva un mozzicone di sigaretta spento…con l’espressione più felice che avessi visto su faccia umana…Poteva avere la mia stessa età, con una faccia simpatica e vivace, begli occhi ed un’eterna aria di curiosità.Aveva le spalle forti come un uomo di mare, ed era avvolto in uno strano mantelloverde: le sue scarpe erano fra le più grandi che avessi mai visto e portava una cravatta con i colori di Harrow…Ho sempre desiderato fare l’investigatore, dopo essere stato licenziato da tutti i posti di lavoro..Sedette sullo scalino..con la coperta sporca gettata sulle spalle.Buttando via il mozzicone, tirò fuori cartine e tabacco e mi guardò quasi con aria di trionfo…Dicevo che sono un po’ strano..Il vecchio, là dentro mi considera come un veleno!” (Speciale del Giallo Mondadori N.68, Dicembre 2012, John Dickson Carr, Poison in Jest, traduz. Iti Dussich Knowles, cap. 11, pagg. 87-88-89).

Jeff gli annuncia che il dottor Twills è stato assassinato e ci sono stati due tentativi di avvelenamento. Rossiter si mette all’opera, anche con metodi non proprio ortodossi, per esempio quando chiede ai presenti, di provare a fare degli schizzi, delle prime cose che fossero venute in mente:

“..Tracciate un disegno. – Che cosa? – Tracciate un disegno, ripetè l’altro, con tono fermo e diventando serio. – Ma non capite l’importanza di fare un disegno? Non ne vedete l’importanza profondamente psicologica che avrà sulla soluzione del caso? – No, che mi venga un accidente se ci capisco qualcosa – disse Sargent. – Che disegno? – Uno qualsiasi. – Ma sentite – suggerii con la massima calma possibile – che senso ha tutto ciò? Io non so disegnare e credo neanche Sargent. – Ah, ma questo è il punto, non lo capite? Se aveste saputo disegnare, non ve l’avrei chiesto, vi pare?” (op. cit.  pag. 104).

Questi metodi, alcuni come Sargent ritengono possano essere ascritti ad nuovo modo di investigare, altri come Marle li reputano delle stranezze, altri come il dottor Reed, il medico amico di Quayle, li definiscono delle “stupidaggini”. Persino Virginia Quale,  Jinny, “la ragazza” di Rossiter, è arrabbiata, convinta che l’investigatore, che lei ha chiamato a casa con un telegramma, stia combinando una delle sue.

Fatto sta che, per strano che possa sembrare, anche questa caratterizzazione psicologica dell’inconscio avrà una spiegazione nella soluzione finale. Rossiter, incompreso, deriso, strano e bislacco che possa sembrare, riuscirà a individuare l’assassino, non prima però che sia riapparso “il figliol prodigo”, Tom;  e che nella cantina, egli, l’omicida,  abbia piantato un’accetta nel cranio di Clarissa.

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King Arthur’s Chair : L’etica in Carr

ottobre 8th, 2012

Questo mese abbiamo il piacere di presentarVi un nuovo articolo del nostro amico Pietro De Palma.

Su richiesta dell’autore, teniamo a precisare che l’articolo contiene degli SPOILER, che potrebbero rivelare parti determinanti per lo sviluppo del racconto.

Buona lettura a chi ha già avuto il piacere di leggere questo gioiello di Carr e un augurio doppio a chi lo recupererà ora e leggerà, in seguito, l’articolo qui presentato.

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Pubblicato per la prima volta nell’Agosto del 1957, nella rivista Lilliput, a firma Carter Dickson (pur avendo come personaggio principale Gideon Fell), il racconto King Arthur’s Chair, ebbe anche un altro titolo : Death by Invisible Hands, utilizzato per l’edizione americana. Apparve infatti sull’ Ellery Queen Mystery Magazine dell’Aprile 1958, e la stessa illustrazione per la copertina vi fu improntata.

E’ uno straordinario racconto “dark”, in cui il tema del doppio fa capolino ovunque, pieno di simboli e significati metaforici, connessi con alcuni dei “sette peccati capitali”, un racconto che amo particolarmente. Oltretutto, il lavoro è una delle tante variazioni di Carr sulla Camera Chiusa, ed in particolare sulla variazione della spiaggia: un delitto viene commesso su una spiaggia, senza che vi siano le impronte dell’assassino, ma solo quelle della vittima. Carr scrisse altre opere utilizzando questa sottospecie di ambientazione: ricordiamo per esempio una delle sue opere maggiori, e ancor oggi poco conosciuta che è The Witch of the Low Tide, “Un Colpo di pistola”, romanzo di poco successivo (1961) al periodo del racconto.

Qui il problema è particolarmente complesso, ma la soluzione che viene proposta è straordinaria: direi che è uno dei migliori racconti di Carr, proprio per la soluzione ineccepibile, ma anche per la struttura del racconto, quantomai interessante.

Innanzitutto la storia.

Dan Fraser, è innamorato di Brenda Ray. Lei gli ha dato appuntamento alla sua villa sul mare, dove abita assieme alla cugina povera, Joyce Ray. E’ però un tempo pessimo per vedersi. E’ una sera calda, quella in cui lui la rivedrà. Calda e afosa. Le nubi gravano e ogni tanto un fulmine squarcia l’oscurità, illuminando la notte ed il mare. Dan deve affrontare una discesa per nulla agevole con la sua auto, prima di arrivare alla casa. Tuttavia, stranamente la trova al buio.

E’ una casa ricca di decorazioni, com’è nella natura di Brenda, che lei chiama “la casa del re”. Ma, diversamente da come Dan si aspetterebbe, è immersa nel buio: il buio della notte ed il buio causato dalle luci che le finestre dovrebbero irradiare tutt’attorno, che invece non vede. Lasciata l’auto, si accorge che le tende sono tirate del tutto. L’atmosfera, gravida di elettricità (i fulmini) e oscuri presentimenti, convince Dan che c’è qualcosa che non va. La villa sembra disabitata. Sembra, perché quando lui si affretta in direzione della porta d’entrata, si accorge che è chiusa, ma non a chiave, e quando la apre, si vede inondato dalla luce, che si spande dall’interno.

Neanche il tempo per riflettere ed una porta si apre: una figura femminile si staglia. Non è Brenda, ma sua cugina Joyce. I loro sguardi si incrociano. E’ come se dialogassero, come se confessassero l’un l’altro i propri desideri più segreti, è come se parlassero una lingua che mai fino a quel momento avevano scandito. Fatto sta che capiscono, in un solo istante che si sono sempre amati. O meglio, Dan capisce che l’ha sempre amata, e che quella per Brenda era solo un’infatuazione, Joyce, l’ha sempre saputo. Dan si aspetterebbe di trovare Brenda. Vorrebbe a questo punto incontrarla, ma non per passare con lei una notte infuocata, quanto, per una sorta di correttezza morale, confessarle che ha capito di non amarla e che invece ama la cugina povera. Ma Brenda non c’è. Perché è morta. L’hanno trovata la mattina. Ora la casa è illuminata, perché tutti sono andati via da poco: il cadavere, il medico legale, la polizia, l’ispettore Tregellis, il grande detective amico della Polizia, Gideon Fell.

La situazione è cambiata: ora Joyce non è più povera, ma ricca. E soprattutto ora Dan è libero di amarla; e non devono neanche rendere conto a Brenda, lui e Joyce. Tuttavia Dan pensa che Brenda sia morta, affogata, dopo una nuotata.

No – disse Joyce. – E’ stata strangolata.

Strangolata?” (John Dickson Carr : King Arthur’s Chair (1956) – “Mani Invisibili” – Trad. Mauro Boncompagni – Gli Speciali del Giallo, N. 52 del 2007, Mondadori, pag. 429).

Strangolata, significa assassinata, non più solamente morta. Se qualche minuto prima la situazione per Dan e Brenda pareva essersi miracolosamente risolta, ora essa ritorna intricata, molto più di quanto si potrebbe pensare. Assassinata significa uccisa da un assassino. E la polizia su chi concentrerà la propria attenzione? Su chi quella mattina avrebbe potuto avere l’occasione (e allora avrebbe vagliato gli alibi) ma anche le ragioni di farlo (il movente). E doveva essere un movente valido per uccidere.

Nella villa oltre che Joyce, e naturalmente Brenda, sono presenti altri due soggetti, amici delle due cugine: Toby Curtis e Edmund Ireton. Ma chi quella mattina avrebbe avuto l’occasione e un motivo più che valido per uccidere, sarebbe stata proprio Joyce: l’invidia del patrimonio, e la gelosia nei confronti della sorella, per Dan.. Due moventi più che validi per assassinare. Ecco perché Joyce cerca di far comprendere a Dan che la dichiarazione d’amore avrebbe dovuto fargliela tempo prima, ma non in quel momento. Perché fornirebbe alla polizia immediatamente la certezza che la cugina povera, cioè lei, abbia avuto a che fare nell’eliminazione fisica della cugina ricca.

– Qualsiasi cosa dovessi dirmi,o pensassi di dovermi dire…

– Su.. di noi ?

– Su tutto! Ti rendi conto che devi dimenticarla e non accennarne mai più? Mai più!” (op. cit. pag. 431).

Però, c’è un problema cui la polizia sta dedicando la sua attenzione, pare. Che concerne il modus agendi dell’assassino. E’ noto che Brenda, quando si recava a nuotare, portava una sciarpa annodata al collo ed un copricostume, sopra il costume da bagno; poi il copricostume e la sciarpa li abbandonava su The King Arthur’s Chair, sul “Trono di Re Artù”, uno scoglio a forma di sedia che era vicino al mare: si sedeva, fumava e poi andava a fare il bagno. Tuttavia non si riesce a capire come l’assassino abbia potuto strangolare Brenda: se l’assassino l’avesse strangolata alle sue spalle, lei poi sarebbe caduta faccia in avanti. Ma così non è: Brenda è stata trovata nella sabbia. E del resto nessuno può averla affrontata, dalla parte del mare, emergendo dall’acqua, perché sulla sabbia del bagnasciuga, si sarebbero dovute ritrovare delle orme, che invece non ci sono. E che Brenda sia stata strangolata, lo prova la sciarpa che aveva intorno al collo oltre al copricostume: mentre il primo è stato abbandonato, la seconda è penetrata così a fondo nella pelle, che quelli della polizia non sono riusciti a rimuoverla.

Oltre a questo, c’è il problema della individuazione del possibile colpevole: nessuno avrebbe potuto ucciderla. Ireton, era appena arrivato; Curtis stava facendo del tiro a segno con un fucile cal. 22 sul retro della casa; e la stessa Joyce, per sua stessa ammissione, era in casa. Tutti e tre sono usciti e l’hanno vista: e nello spazio di sei metri sulla sabbia, non c’erano orme.

Detto così, il problema è insolubile. La polizia brancola nel buio, anzi è meglio dire, brancolerebbe se…non ci fosse Gideon Fell, casualmente in vacanza da quelle parti, in Cornovaglia, e arrivato accompagnato dalla polizia.

Gideon Fell ragiona e suppone quello che sarebbe potuto accadere. Innanzitutto elimina il problema delle orme: se non ci sono, significa che non ci sono mai state. Quindi l’assassino o l’assassina (nel caso sia stata Joyce, o una delle due cameriere, che però non avrebbero avuto alcun motivo ad uccidere chi forniva loro un lavoro) non ha mai percorso il tratto di sabbia. E allora? Come ha potuto materialmente strangolarla? Volando?

No. Non si è mai mosso materialmente dalla casa.

Questa è la soluzione sorprendente di Carr: l’omicida non ha lasciato orme, perché non ha ucciso la vittima strangolandola, ma usando qualcosa che simulasse lo strangolamento, e fosse anche estremamente rapido.

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Partendo da questo presupposto, Fell ricostruisce, interrogando i presenti, le loro mosse.

E individua l’omicida. Inchiodandolo alle proprie responsabilità.

Ma prima che ciò possa accadere, a dare la misura del dramma è un altro personaggio, quasi un altro detective. Mentre Fell è il detective che vede la natura materiale del peccato, Ireton qui è il detective che ne mette in rilievo la natura spirituale. Ireton è la coscienza, la voce di Carr.

– Il salmista ci dice – attaccò seriamente – che tutto è vanità. Qualcuno di voi ha mai notato..e che Dio mi perdoni se lo dico..che il tratto più sorprendente di Brenda era la sua vanità?…

Una vanità spaventosa. Se qualcuno avesse tentato di grattare quella vanità abbastanza in profondo, la nostra cara Brenda avrebbe commesso un omicidio.

Non è che sta considerando la situazione a rovescio? – chiese Dan. – Brenda non ha commesso nessun omicidio. Anzi, è stata Brenda…

Ah! – esclamò il signor Ireton. – E in questo ci potrebbe essere una lezione, non crede?

Senta, non vorrà mica dire che si è strangolata da sola con la sua stessa sciarpa, eh?

No, ma mi ascolti bene. La nostra Brenda, indubbiamente, aveva molte passioni e molte fantasie. Ma c’era solo un uomo che lei amava e voleva sposare. E non era il signor Dan Fraser.

Allora chi era? – chiese Toby.

Lei.

Lo stupore di Toby era troppo genuino per essere stato simulato…

Che il cielo mi aiuti! – disse – ma io non lo sapevo! Non mi sarei mai immaginato…” (op. cit. pag. 432). Più in là in un dialogo innocente, parlando di una persona, individua l’arma dell’omicidio, senza che se ne sia ancora fatta menzione (op. cit. pag. 434). Ma lo fa senza coscienza, quasi che parlasse non per sua volontà, ma che fosse espressione della volontà divina. E’ come la Sibilla che parla non per volontà propria ma del dio che la possiede, descrivendo esattamente quello che è avvenuto.

Sarebbe potuta essere una commedia degli equivoci, se non fosse finita in dramma: lei ama lui, lui ama lei ma non sa di essere amato, anzi pensa che lei ami un altro, che è innamorato di lei a parole, ma in realtà ama un’altra. E poi c’è un assassino che strangola non avvicinandosi, ma usando uno strumento fantomatico. Insomma, un gran casino. Ma se vediamo bene, casino proprio non è, appare semmai.

Il racconto, a parere mio, più che un “giallo” è un “nero”, un racconto che se non sapessimo essere della seconda metà degli anni ’50, si sarebbe tentati dal ritenerlo un’opera scritta nei primi anni ’30, magari sotto l’influsso di Bencolin. E’ un manifesto etico, pieno di significati simbolici, quasi una condanna dell’eccessivo fasto, del il trionfo dell’apparenza, del narcisismo: in altre parole una condanna della Vanità.

Questa sorta di manifesto metaforico, io direi si strutturi su almeno “quattro piani mistificatori”: la mistificazione è presente in varie espressioni, che vanno dalla personalità dell’assassino e dell’assassinata, a quelle degli altri attori del dramma, alle stesse manifestazioni poste in essere, tra cui il piano omicida.

Il primo potrebbe essere la mistificazione dei sentimenti: Brenda ama Toby, così come Toby ama Brenda. Ma entrambi sono permalosi e vanitosi: nessuno dei due vuole abbassare la testa per confessare di essere innamorato dell’altro, e quindi simulano indifferenza, quando non arrivano a punzecchiarsi vicendevolmente. E così facendo entrambi ignorano di essere amati, l’uno dall’altro. E’ un amore che non si dona, ma che si nutre di se stesso e quindi destinato a contorcersi. Per es. Toby non sa di essere amato, ma a sua volta la ama, disperatamente struggendosi per l’amore che ella dimostra per Dan. A sua volta, Dan, credendo di aver fatto colpo su una donna bellissima, si convince di esserne innamorato, mentre è solo veramente innamorato di Joyce, il cui amore lui trasferisce su Brenda. E nel mentre, Joyce lo ama.

Il secondo piano mistificatorio è attinente alla psicologia dell’omicida: egli spiega agli astanti, sostituendosi al detective di turno, come l’assassino non possa essersi avvicinato alla vittima: né dal mare, “perché il punto più elevato dell’alta marea, dove l’acqua avrebbe potuto cancellare le orme, si trova a più di sei metri davanti alla sedia”; né alle spalle, perché “dal lastricato della terrazza alla parte posteriore della sedia ci sono almeno sei metri”; né spiccando un salto, perché “un campione olimpico in buona forma forse ci sarebbe riuscito, se avesse avuto un punto per prendere la rincorsa ed un punto per atterrare. Ma le cose non stavano così. Non c’era nessun segno sulla sabbia” (op. cit. pagg. 434.435). E così facendo dimostra come l’assassinio non possa essere spiegato: senza arma, e senza la possibilità di dimostrare l’assassinio, il caso non può che essere archiviato. Ma a questo punto appare il deus ex machina, che fino a quel momento non è stato presente, Gideon Fell, che risolve l’enigma.

Il terzo piano, riguarda lo strumento usato per uccidere, utilizzato come arma per uccidere.

Di per sé non è un’arma per uccidere: lo diventa solo se viene utilizzata in un certo modo. Ed è stato proprio il modo di usare lo strumento a causare la situazione impossibile.

Del resto quest’arma produce un suono caratteristico che può essere facilmente confuso con un altro. E la mistificazione riguarda appunto l’uso di questi due strumenti in maniera tale che l’uso di uno mistifichi l’uso dell’altro.

Il quarto ed ultimo piano, concerne la mistificazione dei sospetti che possono essere solo Joyce Ray, poi Edmund Ireton, infine Toby Curtis.

Joyce è la prima ad essere sospettata per la ricchezza acquisita in seguito alla morte della cugina. Poi c’è Edmund Ireton ( che a suo dire vuole proteggere Joyce): egli ha consigliato Dan di non far parola a nessuno del sentimento reciproco che hanno scoperto di sentire vicendevolmente, pena la possibile accusa di omicidio rivolta a Joyce. Tuttavia l’amico Toby Curtis (strano che si chiami come Tony Curtis che megli anni ’50 fu famosissimo come attore!) gli rinfaccia di aver usato un modo di fare, diretto a far accusare direttamente Joyce invece di proteggerla: perchè invece di ammonire in separata sede Dan a non dire in giro che era innamorato di lei e lei di lui, gliel’ha gridato in maniera tale che tutti nella casa ne fossero, volenti o nolenti, a conoscenza? In realtà non vi è un sospetto, ma due. Anzi tre, perché Fell comincerà a parlare del fucile. Già perché è il fucile cal. 22 l’arma usata per mistificare il suono dello strumento usato invece per uccidere Brenda. Chi possedeva il fucile e si era esercitato per la mattinata? Toby. Quindi anche lui è sospettato. Anche se qualcun altro potrebbe averlo usato in sua assenza.

Il racconto può avere però anche un’altra lettura: accanto ai quattro piani su cui si struttura la storia, io in questo racconto, vedo molte manifestazioni del doppio: alcune possono essere casuali, altre no, e comunque i doppi connessi alla personalità dell’omicida, della vittima, dell’arma, e di alcune situazioni del racconto, fanno riferimento ad un oggetto presente a profusione nella casa. E l’individuazione della natura doppia di tanti oggetti, situazioni, soggetti, usati simbolicamente, è da mettere a parer mio in riferimento alla “morale” del racconto. Mi spiego.

Innanzitutto doppia è l’atmosfera che accoglie Dan : il buio che avvolge la casa sulla spiaggia, il lampo che squarcia l’oscurità e illumina fugacemente la scena del delitto, mentre dentro tutto è illuminato, può essere una metafora: il buio dell’indagine viene squarciato da qualche supposizione che qua e là comincia a diradare le tenebre, fino ad arrivare alla luce della soluzione. Ma è anche il buio, le tenebre (il male) contrapposto alla luce (il bene). Fuori della casa il male ha portato ad un omicidio, ma sarà nella casa che Fell svelerà il movente e come sia stata uccisa Brenda. E da chi.

Doppia è la natura dei sentimenti delle persone che vivono in quella casa: carnefice e vittima, si contrappongono e si confondono, tanto che alla fine l’assassino non si dimostrerà che la vittima di Brenda, quando non di se stesso. Ma doppie sono anche le personalità di chi si muove: Ireton è colpevole o innocente? Amico o nemico? Toby è innocente o colpevole? Giudice o reo? Dan è davvero estraneo alla vicenda o vi è coinvolto? Joyce è davvero innocente o è un’assassina astuta?

Doppia è la possibilità di come l’omicidio sia stato perpetrato: l’assassino era davanti oppure dietro la vittima?

Doppia è la natura dell’amato e dell’amante, di chi ama e di chi viene amato.

Ma doppio è anche il significato dell’uso di un’arma, che non è solo quello che appare ma anche altro: un fucile, cal. 22, con cui Toby faceva il tirassegno. Il fucile ha una natura doppia: spara ma anche mistifica il rumore che produce, cosicché si pensi che anche quando si sente un certo rumore esso venga associato allo sparo mentre non lo è.

Due sono le cameriere presenti in casa.

Due sono le cugine: una povera, l’altra ricca.

La presenza di due cugine, una povera, una ricca, tra l’altro mi da modo di evidenziare una curiosità: nel 1940, di Norah Lofts (pseudonimo, Peter Curtis) fu pubblicato il primo di quattro romanzi, Dead March in Three Keys (che con il titolo “Marcia Mortale in Tre Tempi”, fu pubblicato nel 1950, in Italia, dalla Casa Editrice Aldo Martello, nella serie “I Gialli del Veliero”). Si tratta di un bel romanzo, che potrebbe essere proposto ancor oggi, un thriller, in cui il lettore vede pianificato un omicidio per interesse. Gli attori di questo dramma sono tre: due cugine, Antonia ed Eloisa, la prima povera ma molto estroversa con gli uomini, la seconda ricchissima ma estremamente chiusa; e Riccardo, l’amante di Antonia, povero anche lui, che per calcolo sposa Eloisa, tradendola di continuo con Antonia, finchè…

A me interessa sottolineare solo come Carr potesse aver letto il romanzo, che ottenne un robusto successo nei primi anni ‘40, e avesse potuto trarre l’idea di due cugine di censo completamente diverso, che contendono l’amore ad un uomo, che anche qui è veramente innamorato della povera e solo apparentemente della ricca. Però qui la situazione è opposta: quella estroversa è quella ricca, e timida è invece la povera, che però avrebbe comunque le ragioni per uccidere, ma che invece, in ragione proprio della propria umiltà, non sembrerebbe vi pensi affatto.

Due ancora sono i carnefici e le vittime di questo racconto: sempre loro, Brenda e l’omicida. Nel mentre Brenda ne è la vittima, dell’assassino è anche il carnefice, perché è lei che lo ha spinto ad ucciderla.

E cosa è ancora doppia? La vanità : la vanità di Brenda e la vanità di Toby. Ma anche la La Vanità che non ha consentito loro di essere felici. Del resto si potrebbe pensare sin dall’inizio che gli unici soggetti vanitosi in questo piccolo dramma siano Brenda e Toby. In realtà, anche Ireton potrebbe essere vanitoso. E’ rappresentato vestito in maniera ricercata, da snob. Con sul viso l’espressione bonaria di un satiro, quando non beffarda. Dice di essere stato uno zio putativo di entrambe le cugine: ma che era in realtà? Era solo un amico discreto o amava qualcuna delle due?

E sicuramente lo è Dan. Ma la vanità di Dan non è quella di Brenda: Dan crede di essere affascinante, non perché egli ci creda in fondo, ma perché la stessa Brenda gliel’ha fatto credere, irretendolo. La vanità di Brenda è diversa: ella crede davvero di essere affascinante e superiore agli altri. E’ la Femme Fatal, e come tutte le femmine fatali ha un destino amaro. Nel MedioEvo la sua vanità, che è anche superbia, sarebbe stata condannata senza appello, e lei probabilmente sarebbe stata punita duramente. Perché la Vanità (assieme alla Superbia) era connessa col Male. Vanitas Vanitatum. Uno dei sette peccati capitali.

E’ la vanità il movente dell’assassinio, uno strano movente, in verità. Non c’è odio, avarizia o cupidigia, ma vanità. Che è prodotta dall’eccessivo narcisismo, dall’eccessivo innamoramento di se stesso, della protezione della propria più intima natura, che non dev’essere per nulla svelata, perché da ciò vi sarebbe un indebolimento della propria personalità. Per una volta tanto, vediamo come l’assassinio non sia il prodotto dell’odio, ma dell’amore, anche se non rivolto ad altri ma a se stessi. Anche l’amore qui è doppio: amore di se stesso, ma anche amore dell’altro. Se non ci fosse stato l’amore verso un altro, non si avrebbe avuto paura di essere deriso e messo a nudo. Narcisismo, e Vanità. L’opposto dell’umiltà, che sembrerebbe essere il connotato di Joyce, invece.

L’assassino è quindi un debole, che, deriso per la propria debolezza, cioè dell’amore che prova, uccide. Se fosse stato forte, non avrebbe avuto paura della propria debolezza. Lui però non lo è. Deve simulare all’esterno di non essere debole, ma lo è, e proprio questa sua doppiezza nell’animo è la causa del suo reato, del peccato mortale.

L’apparenza che è commessa alla vanità, al bello, a ciò che si vede, è già messa in evidenza

all’inizio del racconto quando si dice che la casa sul mare veniva chiamata “la casa del re”, per via di tutte le decorazioni che Brenda aveva voluto che l’abbellissero, esternamente e internamente.

Ma l’apparenza e la vanità sono rappresentate da un oggetto, che si trova all’interno della casa, di cui, come abbiamo detto prima, vi è profusione, e che ha un forte valore simbolico: lo specchio.

Brenda era vanitosa, ed in quanto innamorata di se stessa, aveva bisogno dello specchio. Degli specchi. Che erano numerosi in casa.

Ed è in ragione dello specchio che il racconto, talora, è così costruito sui doppi.

Il doppio è da mettere in diretta relazione con lo specchio: lo specchio infatti riflette una visione, creando il suo doppio. I due doppi, solo apparentemente sembrerebbero essere uguali, mentre sono antitetici, vicendevolmente. Il doppio è l’opposto, l’anima nascosta, la parte nascosta di noi. Anticamente si pensava che gli specchi, duplicando la realtà, avrebbero potuto imprigionare l’anima nell’immagine riflessa dallo specchio. Ecco perché alcuni coprivano gli specchi alla morte di qualcuno per permettergli di raggiungere l’oltretomba.

Ma lo specchio genera un’immagine di sé, permette di vedere la propria bellezza. Che può essere positiva o negativa. Quando è negativa, è legata al narcisismo e all’attaccamento dei beni terreni. Come tale, questa visione della vita, e quindi di se stessi, rimanda al Male, e ai due peccati capitali cui si ricollega: Vanità e Superbia. Tanto che nella Firenze del 1497, con il Rogo delle Vanità, durante il Martedì Grasso, i seguaci di Girolamo Savonarola bruciarono gli specchi.

Ecco allora già due simboli chiave del racconto: lo specchio ed il doppio che viene generato da esso e in esso.

Ma c’è un altro simbolo: è l’arma usata per uccidere.

“ – Il vero strumento? E quale sarebbe questo rumore?

Lo schiocco di una frusta di pelle di serpente – rispose il dottor Fell”( op. cit. pag. 441).

Non è il fucile, che è servito solo a distogliere l’attenzione, illudendo i presenti che il rumore sentito fosse uno sparo, mentre invece era il rumore di una frusta. Ma è una frusta di pelle di serpente. Una frusta da mandriano. Che usata abilmente è stata avvolta al collo di Brenda, mentre era ancora seduta sul Trono di Re Artù con il collo avvolto da una sciarpa. Del resto la sciarpa era essenziale alla messinscena: se non ci fosse stata, si sarebbe visto sul collo il segno della frusta. Appoggiata alla curva della roccia dietro il sedile, la frusta, tirata verso l’omicida, l’aveva soffocata in pochi secondi. Poi, dovendo svolgerla dal collo, l’omicida aveva dovuto dare uno scatto verso l’alto, che aveva sollevato Brenda e l’aveva lasciato cadere nella sabbia, creando la situazione impossibile.

Il terzo simbolo non è però la frusta in sé, ma il materiale di cui è fatta: la pelle di serpente.

Non è stato il serpente, il male, Satana sotto mentite spoglie, a suggerire alla donna che era nuda? Eva molto spesso è ritratta col pomo, ma anche con lo specchio: superbia e vanità, sono spesso associati. Come in questo caso, perché vittima e carnefice sono espressione di debolezza: superbi e vanitosi.

Nell’ultima scena, tutti e tre i simboli sono presenti.

Fell inchioda l’assassino, che è ritratto mentre si specchia, e man mano che indietreggia si trova con le spalle vicino ad un altro specchio. E gli specchi sono dovunque:

L’Ispettore Tregellis era riflesso dappertutto negli specchi, con la lunga frusta arrotolata sopra il braccio” (op. cit. pag 444);

lo specchio è come se ci rimandasse la faccia non evidente dell’assassino, quella che Fell mette in luce, la sua anima votata al male, il suo doppio:

Guardatelo, tutti quanti! – disse il dottor Fell. – Persino quando viene accusato di omicidio, non riesce a togliere lo sguardo da uno specchio” (op. cit. pag. 443);

a conclusione dell’arringa di Fell, arriva l’Ispettore Tregellis che brandisce la frusta.

Ma più che una frusta sembrava che stesse portando una corda..la corda del capestro” (op. cit. pag. 444).

La frusta che è formata da pelle di serpente.

In sostanza l’assassino è inchiodato alle sue responsabilità, ed è come se il serpente, il male del peccato originale, che aveva instillato nell’uomo la superbia e la vanità, ora reclamasse il suo prezzo: la morte e la dannazione, per chi lo ha scelto consapevolmente, mediante l’impiccagione.

Ma la vera condanna dell’assassino non si avrebbe senza un colpo di scena. La ricostruzione di Fell è perfetta, ma così raccontata in un’aula di un tribunale non avrebbe nessuna ragion di essere accettata, perché vi sono indizi, c’è l’arma dell’omicidio, c’è la presunzione che essa possa esser stata usata dall’assassino medesimo (che è un ricco possidente in Sudafrica, dove si usa il tipo di frusta rinvenuto), ma parrebbe che non ci fosse alcun testimone presente. Ed invece..

Invece la Provvidenza divina, il fato, la Giustizia divina, chiamatela come volete, che non può permettere che un assassino, che ha ucciso con l’aggravante diremmo noi “dei futili motivi”, cioè per cattiveria, vada impunito, si materializza ancora una volta in un racconto di Carr.

E’ rappresentato da una delle due cameriere, Sonia, infatuata dall’omicida. E’ come se qualcosa di sovrumano, che sfugge all’umano raziocinio, alla pianificazione di un delitto perfetto, si inserisse, una piuma che fa inceppare un ingranaggio ritenuto inceppabile, messo in moto inconsapevolmente ed inconsciamente da quello stesso vizio, la vanità, che è stata alla base dell’omicidio. Il desiderio di essere belli a tutti i costi, produce infatuazione in quelle donne che sono soggette a questo tipo di fascino esteriore. Una di queste è Sonia.

“…Vi avevo anche avvisato di aver interrogato le cameriere, Sonia e Dolly, le quali oggi avevano fornito solo risposte incoerenti. Mio caro signore, lei sottovaluta il suo fascino personale.

Sembra che Sonia..abbia sviluppato una certa simpatia per lei. Quando stamattina ha sentito quell’ultimo “colpo” isolato, ha guardato di nuovo fuori dalla finestra. Ma lei non c’era…E questo l’ha colpita talmente che è corsa fuori sulla terrazza anteriore e si è accorta che lei era lì. L’ha vista, insomma.” (op. cit. pag.443).

E’ come se Carr emettesse un giudizio di massima, ancora una volta: il male non paga mai.

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THE LOCKED-ROOM LECTURE : IL PERIODO D’ORO

marzo 20th, 2012

Prima di andare avanti, è necessario fare un passo indietro, a testimonianza del fatto che, qualora non l’avessi ancora dimostrato abbastanza, la Conferenza di Carr non nasce un bel giorno sotto un melo in fiore, ma è l’ultimo tassello seppure (quasi) definitivo della materia. Lo posso citare ora, perché, con una punta di orgoglio personale, posso dire che questo mio saggio è approdato al di là dell’Oceano Atlantico, e c’è gente che mi ha messo nelle condizioni di poter leggere cose che mai avrei pensato di poter acquisire.
Mesi fa, quando stavo approcciando la seconda parte del mio saggio, nel mezzo di una discussione, parlai delle possibili influenze di Carr ed un amico di Chicago, mi disse che non si ricordava in quale di due suoi romanzi, Carolyn Wells avesse inserito una propria discussione su le Camere Chiuse: The Broken O e The Bronze Hand. In seguito, riprese il discorso, e mi indicò il romanzo: The Broken O. Se ne ricordava perché l’aveva letto: entrambi rimanemmo molto sorpresi nel constatare che il romanzo in questione precedesse nel tempo il romanzo di Carr, dato che quello di Wells era del 1933 mentre quello di Carr, come si sa, è del 1935. Un bel giorno John mi ha messo a disposizione il libro, in fotocopie.
Carr dovette sicuramente leggerlo, tanto più che la Wells appartiene a quella schiera di romanzieri che pesantemente influirono su di lui. In esso, fu inserita una discussione importantissima che se non sapessimo che la precedè, saremmo tentati dal dire che cercasse di copiare quella di Fell.
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Dissertando di Camere Chiuse:John Dickson Carr Vs Clayton Rawson

luglio 29th, 2011

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Puntuale come il rapido delle 7e40, arriva il nuovo articolo firmato Pietro De Palma. L’amico Pietro ha anche un interessante blog   , sul quale vi invito a leggere la recensione di un capolavoro del noir dal titolo ” Lo strano amore di Martha Ivers”. Buone letture e buone vacanze (a chi le fa!).

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Il primo ad aver inventato una Camera Chiusa, The Big Bow Mystery, nel 1896, fu Israel Zangwill; ma il primo ad aver elevato il problema ed il sottogenere narrativo, che da essa prese il nome, ad un tale livello di raffinatezza da assurgere a vette di inusitata grandezza, fu John Dickson Carr.

John Dickson Carr, che pur americano visse per molti anni in Inghilterra, fin dall’inizio della sua attività, provò a fondere, nelle sue opere narrative, più generi: il fantastico, il sovrannaturale, il gotico, il poliziesco ad enigma, creando virtuosistici intrecci il cui scopo era mettere in crisi il lettore, costringendolo prima ad accettare passivamente una situazione dei fatti che pareva incredibile se non addirittura sovrannaturale, per poi  accantonarla, sulla base di una soluzione tecnicamente ineccepibile, di cui forniva tutti gli appigli logici, così da comporre il puzzle e dargli forma definitiva .

I suoi romanzi, fin dal primo di essi, rifuggirono da trame troppo semplici, e si concentrarono preferibilmente sui temi classici del “whodunnit”, e in particolar modo quelli del “delitto impossibile” (come per esempio The Curse of the Bronze Lamp, in cui si ricollega idealmente, nella dedica ad Ellery Queen, ad un radiodramma di quest’ultimo, The Disappearance of Mr. James Phillimore, trasmesso il 14 o 16 gennaio 1943), e ancor più in modo massiccio, quelli de “la Camera Chiusa”; anzi, proprio per la trattazione sistematica di tutte le possibili variazioni di una Camera Chiusa, Carr è ritenuto da tutti, il più grande tra tutti i romanzieri che abbiano trattato questo particolare genere poliziesco, in cui l’elemento centrale non è tanto quello di scoprire il responsabile quanto come il crimine (delitto, furto o quant’altro) venga commesso.

Invariabilmente, in tutti i romanzi che abbiano una Camera Chiusa, la prima impressione degli investigatori coinvolti nell’indagine è che il criminale sia svanito nel nulla : è inutile dire quanto Carr amasse questa situazione del “delitto impossibile” e come svanire nell’aria fosse diventata la sua fissazione (soleva dire “faded into thin air”).

Discende, ovviamente da ciò, il fatto che, la soluzione debba ascriversi o a evento soprannaturale o invece che essa debba avere una base rigorosamente logica.  Ma, una volta inventata la situazione paradossale di un delitto avvenuto all’interno di camera chiusa dall’interno, sono state create via via, non solo da Carr ma da una nutrita schiera di scrittori versati al problema, tutte le possibili varianti: camera chiusa dall’interno, camera le cui entrate sono guardate a vista da soggetti di fiducia, camera in cui esistono marchingegni fisici in grado di creare la situazione di impossibilità, situazioni non previste che fanno scattare il presupposto di impossibilità, “camere allargate” (distese di neve, di sabbia, di acqua), “camere” diverse (automobili, cabine telefoniche,  tetti, scale), etc..

Carr, del resto, a confermare la fama che dall’esterno gli è stata riconosciuta, tentò ad un certo punto, di dare una classificazione il più possibile esaustiva delle Camere, fondandola su molteplici sottocategorie. Va da sé che l’aver posto una tale trattazione teorica, in un romanzo piuttosto che in un altro, deve aver significato qualcosa per lui : deve cioè aver conferito a quel romanzo (che è The Hollow Man, “Le tre bare”), il sigillo dell’opera migliore, o almeno dell’opera più rappresentativa tra i tanti firmati John Dickson Carr.

E’ però il caso di sottolineare che, nell’ambito della produzione firmata come sopra in cui trovano spazio le due serie di Henri Bencolin e di Gideon Fell e parecchi romanzi storici, il genere de “The Looked Room” non è quello preferito, in quanto se è vero che notevoli e addirittura eccezionali sono alcuni esiti (oltre a The Hollow Man, ci piace ricordare He Who Whispers o The Case of the Constant Suicides o ancora The Witch of the Low Tide ) è altrettanto vero che vi sono altri romanzi che non contengono Camere Chiuse anche se sono di altrettanta eccezionale fattura (ad es. Arabian Nights Murder ); e quindi ci pare significativo che aver ideato una dissertazione teorica sul genere della Camera Chiusa, e averla inserita in uno dei pochi romanzi capolavori firmati con il suo nome e cognome, nell’ambito di una serie di romanzi in cui molti non contengono questa particolare situazione, debba avere un significato particolare: perché cioè non inserire la “Looked-Room Lecture” nell’ambito della serie che ha protagonista principale H.M. e firmata Carter Dickson, votata proprio alla Camera Chiusa?

Innanzitutto The Hollow Man è del 1935: prima di esso, Carr aveva firmato con il suo nome e cognome per esteso Hag’s Nook e The Mad Hatter Mystery nel 1933, Eight of Swords e The Blind Barber nel 1934, e Death Watch già nel 1935, oltre che 3 dei quattro titoli con Bencolin; mentre con pseudonimo Carter Dickson, The Plague Court Murders e The White Priory Murders nel 1934, e  The Red Widow Murders (primo romanzo di Carr pubblicato in Italia) nel 1935.

Ora, perché mai Carr pensò bene di affidare a Fell invece che a Bencolin e ancor più ad H.M. la “Looked-Room Lecture”? Intanto i romanzi con Bencolin prima del 1935, seppure geniali, sono intrisi sino al midollo e sino alla fine di un’atmosfera nera e gotica che stride con quella solare della razionalità affermata; inoltre quelli con H.M., se proprio si vuole analizzare per bene il tutto, non è proprio vero che non abbiano anche loro le proprie dissertazioni: infatti, in due romanzi con H.M. della prima serie, quella che va sino allo scoppio del secondo conflitto mondiale, cioè in The White Priory Murders del 1934 e in The Peacock Feather Murders o The Ten Teacups del 1937 vi sono due riflessioni, che seppur più contenute della “Conferenza di Fell”, a parer mio hanno pari importanza. Per questo ritengo opportuno metterle a confronto con quella più celebre per accentuare il fatto che Carr, laddove pontifichi, non lo faccia mai a vanvera; e che le riflessioni che Carr mette in bocca a H.M., pur ignorate o almeno sottovalutate dai critici, abbiano pari valore, sottolineando un aspetto che nella trattazione teorica ne “Le tre bare”, manca.

Cominciamo con la celeberrima dissertazione sulle camere chiuse (da cui espungerò i passi per me più significativi), presente in The Hollow Man (1935):

“La maggior parte dei lettori, sono lieto di dire, va matta per le stanze chiuse. Ma – è qui il maledetto guaio – perfino i loro amici sono frequentemente dubbiosi. Io ammetto di esserlo spesso. Quindi, per il momento, ci metteremo tutti quanti a studiare la faccenda e vediamo cosa riusciamo a scoprire. Perché siamo dubbiosi quando sentiamo la spiegazione della stanza chiusa?….

Un uomo scappa da una stanza chiusa a chiave..be’?… È la fuga dalla stanza che mi lascia perplesso. E per vedere se riusciamo a trovare un filo conduttore, traccerò un abbozzo sommario dei vari sistemi per commettere delitti in stanze sigillate, classificandoli separatamente.

– Primo! C’è il delitto commesso in una stanza ermeticamente sigillata che è realmente sigillata ermeticamente e dalla quale nessun assassino è mai uscito perché nella stanza non c’era nessuno. Spiegazioni:
Uno. Non è assassinio ma una serie di coincidenze che finiscono con un incidente che somiglia a un assassinio. Poco prima che la stanza venisse chiusa c’è stato un furto, un’aggressione, un ferimento, oppure un rumore di mobili che si spaccano che fa pensare a una lotta mortale. Più tardi la vittima viene incidentalmente uccisa o stordita in una stanza chiusa e si presume che tutti questi avvenimenti abbiano avuto luogo nello stesso tempo…

Due. È delitto, ma la vittima è costretta a uccidersi o a soccombere accidentalmente. Questo può avvenire a causa di una stanza abitata dagli spettri, per suggestione, o più normalmente, per del gas filtrato dall’esterno. Questo gas o veleno fa perdere la testa alla vittima che si abbandona a violenze sfasciando la stanza come se vi fosse stata una lotta, tanto che finisce col morire per una ferita da coltello che s’infligge da se stesso…

Tre. È delitto, per mezzo di un congegno meccanico installato nella stanza e nascosto in un qualunque mobile dall’aspetto innocente…

Quattro. È suicidio con l’intenzione di farlo apparire delitto. Un uomo si accoltella con un ghiacciolo, il ghiacciolo si scioglie! e poiché nella stanza non si trova nessun’arma, si presume il delitto. Un uomo si spara con un’arma legata a un elastico… l’arma, quando lui la lascia andare, sparisce nel camino, fuori dalla vista. Varianti di questo trucco (non concernenti stanze chiuse) sono state la pistola, attaccata a un peso con una cordicella, che dopo lo sparo schizza nell’acqua dal parapetto di un ponte; e, sullo stesso stile, la pistola gettata da una finestra in un cumulo di neve.
Cinque. È un delitto che trae il suo problema dall’illusione ottica e dalla personificazione. Così: la vittima, ritenuta sempre viva, è già assassinata dentro una stanza la cui porta è sorvegliata. L’assassino, sia vestito come la sua vittima o scambiato, da dietro, per la vittima, entra precipitosamente nella stanza. E precipitosamente si libera del travestimento ed esce istantaneamente dalla porta sotto le proprie spoglie. L’illusione ottica è che lui, uscendo, si sia semplicemente scontrato con l’altro. Qualunque cosa accada, lui ha un alibi perfetto perché, quando più tardi verrà scoperto il cadavere, si presumerà che il delitto sia stato commesso dopo che la vittima impersonata è entrata nella stanza.
Sei. È un delitto che, per quanto commesso da qualcuno sul momento fuori della stanza, sembra commesso da qualcuno che doveva essere stato dentro la stanza.
“Nello spiegarvi questo – disse il dottor Fell interrompendosi bruscamente – classificherò simile tipo di delitto sotto il nome di Delitto da Lontano o Delitto del Ghiacciolo, dato che di solito è una variante di quel principio. Ho già parlato dei ghiaccioli, capite cosa intendo. La porta è chiusa ermeticamente, la finestra è troppo piccola perché l’assassino possa passarvi, tuttavia la vittima viene pugnalata nell’interno della stanza e l’arma è introvabile. Be’, il ghiacciolo è stato sparato dall’esterno come una pallottola… non staremo a cavillare se sia possibile o meno, non più di quanto abbiamo fatto per i misteriosi gas cui ho accennato prima – e si scioglie senza lasciar traccia.
Sette. Questo è un delitto che dipende da un effetto esattamente alla rovescia di quello del numero cinque. Cioè si presume che la vittima sia morta molto prima di quello che è in realtà. La vittima è addormentata (drogata ma illesa) in una stanza chiusa. I colpi alla porta non riescono a svegliarla. L’assassino si finge molto spaventato, forza la porta, entra per primo e uccide, pugnalando o sgozzando e suggestionando poi gli altri a credere di aver visto qualcosa che non hanno visto… – Calma! Un momento! – interruppe Hadley battendo sul tavolo per ottenere attenzione. Il dottor Fell, con espressione soddisfatta, si voltò gentilmente verso di lui e gli sorrise. Hadley continuò: – Tutto questo sarà magnifico. Hai sviscerato tutte le situazioni delle camere chiuse…
– Tutte? – ribattè il dottor Fell spalancando gli occhi. – Non proprio, direi. Non ho neanche trattato a fondo i metodi sotto quella determinata classificazione. Ho fatto solo un abbozzo. Bah, lasciamo perdere.

Ora stavo per parlare dei vari sistemi di truccare porte e finestre in modo che sembrino chiuse dall’interno. Ah. Ehm. Ecco, signori. Continuerò….C’è il camino vuoto con la stanza segreta dietro…. Ma l’assassino che taglia la corda arrampicandosi su per un camino è rarissimo…Delle due principali classifiche – por­te e finestre – la porta è di gran lunga la più popola­re e vi posso elencare qualche sistema in modo che sembri chiusa dall’interno.

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Primo. Trafficare con la chiave che è sempre nella serratura. Questo era il metodo antico preferito, ma le sue varianti sono troppo note oggi perché qualcuno le usi seriamente. Il gambo di una chiave può essere afferrato e girato dall’esterno: noi stessi lo abbiamo fatto per aprire la porta dello studio di Grimaud…

Secondo. Togliendo i cardini della porta senza toc­care la serratura o il paletto. Questo è un trucco inge­gnoso noto alla maggior parte dei ragazzini quando vogliono aprire una credenza chiusa a chiave, natural­mente i cardini devono essere dalla parte esterna.

Terzo. Manomettere il paletto. Cordoncino di nuo­vo. Questa volta con un congegno di spilli o aghi da rammendo, per mezzo del quale il paletto viene spin­to dall’esterno dall’azione della leva di uno spillo in­filato all’interno della porta mentre il cordoncino è in­filato nel buco della serratura. Philo Vance, al quale faccio tanto di cappello, ci ha mostrato la migliore applicazione di questa trovata…Ellery Queen ci ha mostrato un altro sistema ancora, che comportava la partecipazione del morto stesso… ma raccontato così senza parlare di tutti gli sviluppi farebbe un effetto talmente pazzesco che non si renderebbe un buon servigio a quel geniale scrittore.

Quarto. Manomettere un saliscendi. Questo normal­mente si effettua incastrando sotto la sprangherà qual­cosa che può essere eliminato dopo che la porta è sta­ta chiusa dall’esterno, in modo che la sprangherà possa ricadere. Il miglior metodo è di gran lunga l’uso del­l’insostituibile cubetto di ghiaccio: lo si mette sotto la sprangherà e non appena è sciolto, la spranghetta scen­de. C’è anche un caso in cui la brusca chiusura della porta basta a far cadere la spranghetta.

Quinto. Un’illusione ottica, semplice, ma efficace. L’assassino, dopo aver commesso il suo delitto, ha chiuso la porta dall’esterno e si è tenuto la chiave.

(John Dickson Carr, The Hollow Man, “Le tre bare”, traduz. Maria Luisa Bocchino, I Classici del Giallo Mondadori N.234 del 1976, passi tratti dal Cap.17 “La conferenza sulla stanza chiusa a chiave”, pagg.183-195).

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Storia di Mary, di Stanislas, di John, di Edward.. e di Isaac

ottobre 15th, 2010

Ecco un nuovo, interessante, articolo di Pietro De Palma.

Buona lettura. 

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Tra i tanti romanzi polizieschi degli anni Trenta del Novecento, se ne ricorda qualcuno che tratta di automi. Il primo è L’Ennemi sans Visage (noto anche come anche M. Wens et l’automate) di Stanislas André Steeman. Il motivo di questa tendenza, e da cosa tali romanzi abbiano preso le mosse, è presto detto. Non si può parlare di automi nei romanzi polizieschi senza citare il libro che  ha dato origine a tutto quanto: Frankenstein, pubblicato nel 1818 da Mary Shelley. Frankenstein fu un grande romanzo gotico, un gotico per certi versi molto più moderno di opere simili, come Vathek di Beckford o The Monk di Lewis.

Mary Wollstonecraft Godwin, figlia del politico e filosofo William Godwin, era nata nel 1797. Il padre le aveva conferito un’educazione sorprendentemente ricca di spunti culturali, e per molti anni il salotto di Godwin ospitò alcuni degli ingegni più grandi dell’epoca: tra questi il grande poeta Percy Bysshe Shelley. A diciassette anni Mary, educata alle idee molto avanzate del padre (che professava tra l’altro l’adesione all’amore libero) fuggì in Francia assieme a Shelley (a quei tempi sposato e di cui era innamorata) e alla sorellastra Claire Clermont; in seguito, dopo il suicidio della moglie di lui, Harriet, si sposò con Percy, nel 1816. L’anno successivo la coppia fu invitata a Ginevra da Claire, che era diventata l’amante di George Byron, e fu proprio qui che Mary ebbe l’ispirazione per Frankenstein: in quelle giornate piovose si parlava di Darwin, dell’energia elettrica e della possibilità di esplorare la vita dopo la morte. Indubbiamente l’ispirazione trasse materia proprio dai colloqui tra John Polidori (l’autore di The Vampire), Percy B. Shelley e George Byron – cui lei stessa aveva assistito – ma anche molto probabilmente dalla leggenda del Golem, creatura senza anima e coscienza, al servizio degli uomini: infatti, ancor prima che uscisse Frankenstein, uno dei fratelli Grimm, Jacob, in un articolo scritto nel 1808 e pubblicato sullo Zeitung für Einsiedler del poeta e scrittore romantico Achim von Arnim, aveva reso popolare, diffondendolo, il suo mito. La leggenda narrava di un rabbino polacco, Elija Ba’al Schem di Chelm, che nella Polonia medievale aveva creato un Golem servendosene come di un angelo protettore del ghetto ebraico, infondendogli vita grazie alla parola «Dio» che recava scritta sulla fronte e alla quale era stata aggiunta la parola «Verità». Così, con la frase «Dio è Verità» sulla fronte, il Golem prendeva vita; quando invece lo si voleva distruggere, bastava togliere una lettera dalla parola «verità,» l’Aleph, per trasformarla in un’altra che significava «morte»: «Dio è morte». In seguito questa leggenda era stata riportata a Praga, laddove si dice che un altro rabbino, Jehuda Löw ben Bezalel di Praga, avesse plasmato un Golem di cui però aveva perso il controllo; dopo le distruzioni da questi apportate, il Rabbino – tornato a dominare il Golem – lo avrebbe nascosto nella soffitta della sinagoga Staronova, ancor oggi esistente a Praga. Il mito del Golem, in realtà, risale a molto tempo addietro, per certi versi addirittura alla nascita dell’uomo: infatti, in ebraico, Golem significa «materia grezza» o anche «embrione,» e tale sarebbe stato Adamo prima che Dio infondesse in lui il soffio della vita: una forma di fango.

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Vive le roman policier! – Metacritica di “The Third Bullet” di John Dickson Carr

luglio 23rd, 2010

Oggi Vi proponiamo un nuovo interessante saggio di Pietro De Palma. Buona lettura!

949-1.jpgAnni fa, Roland Lecourbe, noto critico di letteratura poliziesca, pensò di creare una guida ideale alla Letteratura delle Camere Chiuse, invitando una serie di conoscitori del genere, quelli che a lui risultavano essere al momento i massimi: tra essi, innanzitutto Robert Adey, estensore di una celeberrima bibliografia sul genere, “Locked Room Murders and Other Impossible Crimes: A Comprehensive Bibliography” e insieme a Jack Adrian co-autore di una antologia di straordinarie camere chiuse (racconti) pubblicata in Italia da Garden Editoriale, “The Art of the impossibile”. Assieme a Robert Adey, furono invitati : 3 esperti belgi (M.Soupart, Philippe Fooz, V. Bourgeois), uno studente che aveva scritto una tesi sulla Letteratura delle Camere Chiuse (Roman Brian), 2 traduttori dei romanzi di Paul Halter (J.Pugmire e I. Longo), il coeditore del Mystery Scene Magazine (Brian Skupin). Tutti quanti, assieme allo stesso Lecourbe, avrebbero dovuto stilare una lista di Camere Chiuse, che fossero il meglio del genere, un po’ una sorta di revival ampliato di quell’altro incontro, patrocinato da Edward D. Hoch[i] nel lontano 1981, e cui avevano partecipato grandi nomi della letteratura e della critica poliziesca (diciassette per l’esattezza[ii]), a corollario dell’introduzione dell’antologia da lui curata “All But Impossibile”: se dall’incontro promosso da Edward D. Hoch era stata prodotta una lista comprendente 14 romanzi, dall’incontro patrocinato e organizzato da Lecourbe, ben 99 Camere Chiuse furono elencate, come i migliori esempi del genere. Questa lista ampliava quella essenziale, stilata sedici anni prima, includendo opere anche di autori di lingua francofona, prima d’allora non esaminati. I risultati furono acclusi in appendice all’antologia, pubblicata nell’aprile 2007, dal titolo “Mystères à Huis Clos”. Notiamo che tra gli esperti dell’incontro francese figurava il consulente editoriale del Giallo Mondadori, Igor Longo, traduttore di molti degli Halter, dei tre Steeman più recenti, e degli Abbot pubblicati in Italia da Mondadori, anni fa.Tra i molti autori che prima non erano stati inclusi, troviamo ovviamente i francesi (Noel Vindry, Marcel Lanteaume, Stanislas Andrè Steeman, Gaston Boca, Pierre Boileau anche in associazione con Thomas Narcejac, Pierre Siniac, Paul Halter, Jean Alessandrini, Herbert & Wyl, etc..), ma anche parecchi autori di lingua inglese (A. Abbot, A.Boucher, C.Brand, I.Asimov, Leo Bruce, F.Brown, E.Crispin, Freeman Wills Crofts, etc..).La cosa che ci interessa sottolineare è che non vennero prese in esame, perché novelle, 2 opere famose: “The Big Bow Mystery” di Israel Zangwill e “The Third Bullet” di J.D.Carr.Opera famosa “The Third Bullet” ? Da noi, possiamo dire che sia quasi sconosciuta, o almeno non conosciuta come le grandi Camere degli anni ’30: The White Priors Murders, The Judas Window, The Three Coffins, ma, nel novero delle opere di Carr, è una delle più interessanti, e vedremo perché.Innanzitutto è da dire che di questo racconto esistono due versioni: la prima, pubblicata a nome Carter Dickson, nel 1937,  piuttosto lunga (l’edizione è di circa 128 pagine); ed una più corta, pubblicata prima nell’EQMM del gennaio 1948 e poi nell’antologia, “The Third Bullet and Other Stories”, nel 1954, a firma John Dickson Carr, assieme ai racconti”The Clue of the Red Wig”, “The House in Goblin Wood” (Sir Henry Merrivale), “The Wrong Problem” (Dr. Fell), “The Proverbial Murder” (Dr. Fell), “The Locked Room” (Dr. Fell), and “The Gentleman from Paris.” Il racconto nella versione originale è stato  ripubblicato nella raccolta del 1991, “Fell and Foul Play”. In Italia la versione del 1937, secondo alcune fonti (Il Dizionario Bibliografico del Giallo, il Pirani per intenderci ) pare esser stata pubblicata da Mondadori quasi quarant’anni fa (“Ellery Queen presenta”: Inverno Giallo 1972, The Third Bullet, Il terzo proiettile, traduz. Hilia Brinis) e tre anni fa da Polillo, nella collana I Bassotti, all’interno della raccolta “I Delitti della Camera Chiusa”, con la traduz. di Giovanni Viganò: noi faremo riferimento a quest’ultima, perché la prima non è molto facile a reperirsi. In realtà alcune ipotesi ci porterebbero a ritenere che non si sia tradotta la versione originale, ma quella accorciata, prima fra tutte il fatto che sia la traduzione di Hilia Brinis che quella di Giovanni Viganò fanno riferimento come autore, non a Carter Dickson, bensì a John Dickson Carr[iii]La versione accorciata si spiega col fatto che, per essere compresa nella pubblicazione “Ellery Queen Mystery Magazine”, il racconto  non poteva mantenere intatta la sua lunghezza ( era un romanzo breve) e a questo provvide Frederick Dannay (uno dei due cugini autori di Ellery Queen) col consenso di Carr stesso, come è spiegato nella bibliografia su Carr a firma di Douglas G. Greene[iv].The Third Bullet è una grande Camera Chiusa, costruita seguendo puntigliosamente le 20 regole per la costruzione del poliziesco, di S.S. Van Dine: un giudice viene ucciso in un padiglione. Fin qui nulla di strano: le cose cominciano a complicarsi allorché si riscontra che il probabile assassino non ha ucciso il giudice e oltre alla sua nella stessa camera, nell’attimo in cui lui ha sparato, altre due armi hanno fatto fuoco, di cui una ad aria compressa; solo che di una che viene trovata, non viene trovato il proiettile mentre dell’altra, vien trovato il proiettile ma non l’arma. In altre parole una doppia volatilizzazione, oltre quella ancor più sconcertante degli sparatori, in quanto nel momento in cui l’indiziato, poi arrestato ha fatto fuoco, mancando il giudice, nessuno ha visto altre persone: infatti casualmente sul luogo della sparatoria c’erano dei poliziotti: uno ha avuto sotto controllo l’uscita del padiglione interna (nel corridoio) e da lì nessuno è scappato, la finestra centrale è stata attraversata da un altro, e quelle del lato ovest sono così arrugginite e incrostate che neanche Ercole sarebbe capace di aprirle. Eppure lì vengono trovate delle impronte come se qualcuno fosse uscito da lì,  mentre il proiettile, che prima non si trovava, si trova infisso nel tronco di un albero non essendo però in linea retta rispetto al punto dove si suppone sia stato fatto fuoco, ma alla fine di una traiettoria curvilinea: vi ricordate la teoria del proiettile vagante fatta per spiegare che ad uccidere Kennedy fosse bastato solo Lee Oswald? Ecco..così. Insomma un fuoco pirotecnico di enigmi e di situazioni impossibili.Il lungo racconto tuttavia è interessante secondo me anche per altri motivi, che a prima vista sembrerebbero essere di assai relativa importanza. Leggi tutto »

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Un “born writer”: Rufus King. Invenzioni, stile e rapporti con la letteratura di genere coeva

maggio 26th, 2010

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di Pietro De Palma

Rufus King (1893-1966) fu un romanziere molto attivo dalla fine degli anni ’20 alla fine degli anni ’50 inizio ’60, pur facendo tutto sommato vita ritirata: in vita, nulla di lui si sapeva molto, all’infuori del fatto che vivesse “nella parte rurale dello Stato di New York, che fosse single, e che ogni anno avesse problemi a causa della neve”[1], tant’è vero che si “fece una villa” a Miami; del resto proprio a Miami ambientò alcune delle sue storie.

Altra cosa che si sa è che avesse studiato a Yale[2], che nel 1916 si laureò e che si arruolò proprio in quell’anno per la Grande  Guerra e che dopo di essa lavorò per del tempo come operatore radio sulle navi

Oggi è molto poco conosciuto e i suoi romanzi vengono di rado pubblicati, ma al tempo fu molto noto: era un fine esponente di quella scuola di scrittori americani (anche J.D.Carr, Mignon Eberhart) che non volevano rinunciare alla scuola di giallo all’inglese, in favore invece della “scuola dei duri”, nata in ambiente americano.

In Italia è stato un autore, pubblicato parecchio negli anni ’30 – ’40 e ’50, e meno dopo: infatti, parecchi dei romanzi pubblicati soprattutto da Mondadori, risalgono a questi anni. Solo in pochissimi casi, altre case editrici si son cimentate in romanzi di Rufus King : tra queste, la Casa Editrice Martello con I Gialli del Veliero : “Il colombo della morte” (The Deadly Dove, 1945); la Italedit di Cremona che pubblicò “Intervallo Tragico”: questa pubblicazione, ricavabile tramite ricerca OPAC, è disponibile solo presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, ma non si ricava da alcun indizio, il suo titolo d’origine[3]; e i Gialli del Secolo di Gherardo Casini Editore.

I rapporti tra il mondo dell’editoria italiana e Rufus King, possono essere inquadrati dal carteggio assai interessante  tra un famoso traduttore degli anni trenta, Mario Benzing, e la casa Editrice Bemporad[4] .

Mario Benzing, fine traduttore, di origine tedesca, di moltissime opere di narrativa straniera in Italia, che aveva già intrattenuto rapporti con la Bemporad per altri romanzi, il 9 maggio 1933, scriveva:

“..Mi permetto d’informarvi che ho ottenuto l’esclusività per la traduzione delle opere  di Rufus King, giovane scrittore americano veramente eccezionale […]. Non soltanto incuriosisce, come Wallace e Van Dine, ma anche interessa: i suoi personaggi sono vivi, studiati, e i suoi casi anche psicologici, profondamente umani. Tutti casi circoscritti, a campo chiuso: uno yacht, una famiglia, una casa; e sono i casi più efficaci del genere e insieme anche i più difficili a congegnare con rispetto al buon senso, e a sostenere senza borra per trecento pagine. Si svolgono negli ambienti dell’aristocrazia americana, che il King conosce a fondo; e li risolve il detective Valcour, della polizia di Nuova York, uno specialista di quegli ambienti, che sa cercare indizi anche nei meandri delle anime. Per la cessione dei diritti di traduzione, Rufus King chiede soltanto L. 800  per  romanzo. La serie Valcour si compone di dieci romanzi, naturalmente indipendenti”.

Faccio notare due cose: la prima è che la serie completa con personaggio principale Valcour è di undici romanzi; la seconda, ancor più interessante, riguarda la data  riportata nel carteggio: infatti,  se non è sbagliata, dovremmo dedurne che Rufus King aveva in mente già la serie o gran parte di essa oppure l’aveva già scritta e attendeva la pubblicazione di ciascun romanzo: non potremmo infatti altrimenti comprendere come il Nostro parlasse di una serie di dieci romanzi con protagonista Valcour, (per bocca di Benzing) quando a quell’anno, 1933, di romanzi con protagonista il Tenente Valcour, ne erano usciti solo sei; gli altri quattro (Benzing parla di una serie di dieci) sarebbero usciti posteriormente: The Lesser-Antilles Case, 1934 – Profile of a Murder, 1935 – The Case of the Constant God, 1936 – Crime of Violence, 1937; infine, l’undicesimo, Murder Masks Miami, sarebbe uscito nel 1939.[5]  Quello che possiamo evincere è che Benzing volesse proporre alla Bemporad quello che per lui era un affare: Rufus King chiedeva allora solo 800 lire per ognuno dei suoi romanzi (compenso deducibile in caso di forfait, come affermato in altro passo) molto noti oltre oceano: si accontentava di poco o era solo molto modesto? Fatto sta che la Bemporad rifiutò il 12 maggio la proposta: “..Non conosciamo affatto questo autore. D’altronde abbiamo già una riserva di libri di questo genere per le nostre collezioni, fra gli altri tutti i più recenti volumi del celebre autore inglese Oppenheim”.

Allora Benzing rinnovò la proposta con altre argomentazioni: cercò di forzare l’assenso della controparte facendo riferimento al fatto che delle case editrici italiane fossero interessate alla pubblicazione dei romanzi di R.King: “..la Libri X sta per pubblicare Sangue a bordo di uno yacht..”; e il 20 maggio inviò, all’editore, l’edizione americana di Murder in the Willett family, mentre  il 1° giugno fu la volta di Valcour meets murder. La Bemporad rinviò ogni decisione al futuro pur riconoscendo la validità dei romanzi proposti, ma.. non se ne fece nulla , nonostante lo stesso traduttore ricordasse che altri editori erano in contatto e trattativa con gli agenti dello scrittore. In Mondadori, “Delitto sullo yacht” (trad. di Matilde Fanno) uscì nel 1936, e “L’agguato” (tit. orig. Valcour meets murder; trad. di Cesare Giardini), nel 1937; mentre “Delitto in casa Willett” (trad. di Carla Merlo) uscirà solo nel 1975.

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La prima produzione di John Dickson Carr: i quattro racconti di Bencolin

settembre 7th, 2009

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Cari lettori del Giallo Mondadori, oggi vogliamo proporvi un saggio breve di Pietro De Palma sulle prime opere del celeberrimo “giallsta” Statunitense.

Prima di augurarVi un buon proseguimento di lettura, cogliamo l’occasione per augurare un buon compleanno a Piero, storico lettore, collezionista e da oggi “contribuente” del Giallo.

Dario PM Geraci

—–

Tra le forme letterarie, i racconti hanno sempre pagato dei tributi ai romanzi: rappresentano quasi una produzione minore, delle storie da scrivere senza impegnarsi particolarmente, in momenti di rilassatezza. Almeno questa è la percezione che ne ha il lettore; invece..

Invece il racconto è un genere importante quanto il romanzo, non dirò di più o di meno: ne ha una forma più concentrata, possedendo anche delle caratteristiche ricorrenti in quest’ultimo: se vi è una presentazione dei personaggi e della situazione in oggetto, esse devono essere stringate, e lo sviluppo non molto esteso, per necessità di condensazione in un numero di pagine più ristretto; ma tutto il resto..è lo stesso. Anzi se vogliamo, il racconto ha la sua buona parte di difficoltà, perché se nel romanzo taluni “allungano il brodo” con descrizioni e narrazioni che poi nulla hanno a che fare con il nocciolo della storia, nel racconto ciò non è possibile: si devono avere idee chiare e si deve condurre la storia con un filo logico e una tensione, che dalla prima pagina all’ultima, conduca il lettore a godere della fine, senza sotterfugi, escamotages, rallentamenti, perdite di tempo (e di pagine).

Se nella letteratura “impegnata” il racconto gode di una fortuna inferiore al romanzo, in quella “di genere” e nel nostro caso in quella “gialla”, possiamo dire che, almeno non in Italia, il Racconto Giallo ha avuto una fortuna non inferiore a quella del Romanzo: perché tuttavia in Italia il racconto non abbia avuto pari fortuna, questo è altro discorso. La situazione però è questa: nel mondo sia anglosassone, che l’ha fatta da padrone, e in quello più chiuso, del giallo franco-belga, i racconti hanno avuto la loro buona fetta di pubblico e di popolarità. Ancor oggi, molti autori contemporanei scrivono racconti, ma nel passato, si sono avuti addirittura autori specializzati, per es. Edward D. Hoch, autore anche di romanzi di fantascienza e di apocrifi queeniani, ma soprattutto di oltre..900 racconti, divisi in più serie, tra cui quelli che raccontano di Camere Chiuse e delitti impossibili, sono i preponderanti. Ma anche Joseph Commings si è riservata la sua buona fetta di fama, con le storie del senatore Banner. La messe maggiore, tuttavia, si è avuta con i grandi autori sia di Giallo classico che di Hard Boiled: Ross MacDonald, Ellery Queen, C.Daly King, Agatha Christie, Dashiell Hammett, e moltissimi altri, tra cui John Dickson Carr.; e proprio di Carr parleremo, a proposito dei suoi primi quattro racconti con Henri Bencolin.

Potrebbe sembrare un discorso molto relativo, affrontare la tematica dei racconti carriani puntando l’attenzione solo su 4 racconti, quando la produzione totale ne conta oltre trenta. Ma questo breve saggio non si propone di esaurire la tematica complessiva del racconto in Carr, ma solo di creare un’inquadratura, che possa essere recepita da qualunque lettore, circa la produzione carriana avente come soggetto principale Henri Bencolin.

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Gialli Mondadori ottobre 2020

ottobre 15th, 2020

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Trittico di misteri al cardiopalma in edicola a ottobre!

“24 ore per non morire” dalla penna del premio Tedeschi Annamaria Fassio, ci porta in una Genova post tragedia del ponte Morandi, sulla scena del crimine di un truculento suicidio-omicidio; in “Il re è morto”, Ellery Queen ci fa volare fino all’isola privata di un plurimiliardario per cercare di impedirne l’annunciato omicidio; mentre in  “Sherlock Holmes. Le ombre di San Pietroburgo”, di Daniel D. Victor, viaggiamo fino alla gelida Russia sulle tracce di un pericoloso assassino… a caccia degli indizi disseminati da un celeberrimo scrittore appena defunto.

E voi, li avete agguantati tutti e tre?

Daniel D. Victor, “Sherlock Holmes. Le ombre di San Pietroburgo”, Il Giallo Mondadori Sherlock n. 74, ottobre 2020

Daniel D. Victor, “Sherlock Holmes. Le ombre di San Pietroburgo”, Il Giallo Mondadori Sherlock n. 74, ottobre 2020

Ellery Queen, “Il re è morto”, I Classici del Giallo n. 1437, ottobre 2020

Ellery Queen, “Il re è morto”, I Classici del Giallo n. 1437, ottobre 2020

Annamaria Fassio, “24 ore per non morire”, Il Giallo Mondadori n. 3196, ottobre 2020

Annamaria Fassio, “24 ore per non morire”, Il Giallo Mondadori n. 3196, ottobre 2020

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