INTERVISTA CON PAUL HALTER di Pietro De Palma

agosto 13th, 2013

Tempo fa ho conosciuto Paul Halter. Il celebre scrittore francese, l’unico che in tempi recenti abbia raccolto con successo l’eredità di John Dickson Carr, scrivendo romanzi e racconti con Delitti Impossibili e Camere Chiuse, vive a Strasburgo: la nostra conoscenza, pertanto, si è approfondita per corrispondenza

Il suo indirizzo email mi è stato fornito da altro mio conoscente, John Pugmire, altro grande conoscitore di Camere Chiuse ed enigmi letterari, che traduce in inglese da alcuni anni, tra l’altro, i romanzi di Halter. John fu invitato anni fa assieme a Igor Longo, a Philippe Fooz, Vincent Bourgeois e Michel Soupart, e a qualche altro critico, al meeting del 2007 di Roland Lacourbe. John, che ho conosciuto due mesi fa, dopo aver letto alcuni miei articoli, soprattutto quelli concernenti le Camere Chiuse, mi ha risposto ed è cominciata una corrispondenza. Un giorno gli ho chiesto la email di Halter, e lui, dopo averlo chiesto ad Halter, me l’ha fornita. Così sono entrato in contatto con Paul Halter.

Ci siamo scambiati impressioni, lui ha voluto leggere degli articoli che avevo dedicato a suoi romanzi, e in anteprima l’ultimo, dedicato a La Quarta Porta, che è molto letto sul mio altro blog, quello in lingua inglese, e che gli è molto piaciuto. Da allora, ci siamo scritti più volte, ancor più quando gli ho detto che avevo conosciuto Igor Longo (che al tempo era stato colui che mi aveva fatto conoscere Halter ed i suoi romanzi).

Un giorno gli ho chiesto se mi avesse potuto concedere un’intervista: era molto tempo che gliene avrei voluto fare una, impostandola diversamente da altre che gli sono state fatte nel tempo, cioè interrogandolo non solo sui suoi romanzi, ma anche sul suo rapporto con il suo lavoro, gli amici, le passioni, gli amori, la sua vita. Ha subito accettato tuttavia sottolineando che, non conoscendo l’italiano e non proprio perfettamente l’inglese, avrebbe preferito colloquiare in francese (alla traduzione ho provveduto personalmente).

L’ intervista tuttavia non ha seguito lo schema consueto, che si adotta quando l’intervistato è lontano, cioè inviare le domande assieme, facendo sì che egli possa rispondervi e restituire il tutto al mittente, magari correggendo qualcosa ma lasciando il tutto inalterato: no, quest’intervista è stata impostata diversamente. Infatti, per merito della mia inesauribile curiosità e della sua amabilità e pazienza (Paul Halter è una persona amabile, gentile e squisita. Chissà perché negli ultimi tempi ho conosciuto solo persone amabili, gentili e squisite: John Pugmire, Roland Lacourbe, Philippe Fooz, Paul Halter. E chissà perché, poi, sono tutte all’estero, mentre da noi…Vabbè è un’altra storia), le risposte alle domande che gli ho posto, hanno generato altre domande e poi altre risposte, dando il via ad una corrispondenza fittissima che ha portato, come risultato finale, alla definizione di un ritratto inedito di Halter, pieno di sogni, di verità, di affermazioni, di negazioni. Un ritratto a 360° che non mancherà di affascinare (e di sorprendere talora: per certi versi ha sorpreso persino me!).

La propongo in occasione della pubblicazione ne Il Giallo Mondadori, del suo romanzo inedito – il diciottesimo ad esser pubblicato in Italia – “La Settima Ipotesi”, Le Septième Hypothèse, tradotto da Igor Longo.

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Buongiorno, Paul. Ti ringrazio per aver acconsentito a rispondere a delle domande. Innanzitutto, ci vuoi raccontare qualcosa di te, in breve: dove sei nato, infanzia, esperienze lavorative, amori, letture, amici. E soprattutto, come sei arrivato un bel giorno a decidere di cimentarti con la scrittura? Il tuo primo romanzo è stato La malediction de Barberousse. Lo hai scritto di getto, nell’imminenza del concorso, oppure vi avevi pensato in precedenza?

Sono nato a Haguenau, e ho trascorso la mia infanzia, abbastanza felice in questi benedetti 60 anni di tempo, senza subire per nulla la terribile “Maledizione di Barbarossa“, anche se poi abitavo a 200 metri dalla Torre di Pescatori (luogo del delitto principale della storia). L’Amore, le ragazze? Certo, ma prima di questo, ero un appassionato di lettura, di misteri. Ho divorato tutta A. Christie dai 12 ai 16 anni. Amavo anche la serie televisiva inglese Chapeau Melon et Bottes de cuir 1 (= Bombetta e stivali in pelle), poi ho sentito (nel 1970) la canzone “Venus” degli Shocking Blue, e ho comprato immediatamente una chitarra, per arrivare a suonare questa canzone . Poi non ho mai abbandonato la mia chitarra, fino a circa i 25 anni. Mi sono sposato, ho condotto una vita tranquilla, e mi sono riallacciato ai miei primi amori: i romanzi polizieschi. Scoperta di Dickson Carr in quel momento. Nuovo colpo di fulmine! Dopo aver letto di lui tutto ciò che era disponibile in francese, ho deciso di seguire questi puzzle, e così è nata La maledizione di Barbarossa … Ero molto motivato e volevo davvero fare qualcosa di speciale. E ho scritto nella scia (di questa) La quarta porta, nello stesso stato d’animo …

Perché “La maledizione di Barbarossa”, nonostante sia stato il tuo primo successo, ha dovuto aspettare numerosi anni prima di essere ripubblicato, mentre “La Quarta Porta”, dopo aver vinto un concorso, è stato immediatamente pubblicato?

A proposito di “Barbarossa” era stato pianificato con Le Masque che questo romanzo sarebbe stato pubblicato un giorno, ma non subito. Le Masque ha voluto aspettare fino a quando io avessi già una certa notorietà, prima della pubblicazione. Non mi ricordo esattamente, ma è possibile che il corretto apprezzamento di John2 mi abbia ricordato che questo romanzo era ancora in riserva e (quindi) ho poi (1995) parlato a Le Masque al fine di pubblicarlo. Quel che è certo è che non ho avuto “dubbi”, perché mi piace questa storia, che è stato per di più il mio primo tentativo.

Il tuo secondo romanzo è stato “La Quarta Porta. Con esso, hai vinto una prima grande competizione e, soprattutto, è stato un successo. Il romanzo, come tutto le tue opere, presenta delle caratteristiche fisse: ha sfide impossibili (2 Camere Chiuse), ha molta atmosfera e un finale d’effetto.
Perché queste caratteristiche sono così importanti per te?


Sì. Per me, scrivere una storia di questo genere, era soprattutto una sfida. (Ricordate a quel tempo ero sotto una buona influenza, dopo aver letto i principali Carr , ma anche Robert Bloch e Fredric Brown). Carr ha detto: Quando ho scritto un romanzo, ho sempre voluto fare qualcosa di speciale, un libro che avrebbe reso tutti gli altri mediocri” 3 Ho cercato di applicare questo metodo con La Quatriéme Porte .. Devo anche dire che avevo appena letto una biografia di Roland Lacourbe su Houdini. Lì, ho sentito che avevo trovato la mia materia! Perché, a suo modo, si può dire, che Houdini fosse anche un maestro de “l’impossibile! “.

Ho spesso notato che i tuoi romanzi contengono citazioni e riferimenti ad autori e opere che hanno avuto un certo effetto su di te: le tue citazioni sono intenzionali oppure no? Per esempio, il racconto del ponte in La malediction de Barberousse, che cita un racconto di Hoch; o i rimandi a opere del passato nel caso de La mort derrière les rideaux: la pensione del L’assassin habite au 21 di Steeman, oppure la figura della zitella di Murder is Easy di Agatha Christie; o la presenza del gatto guercio, come in Poe, nel finale de L’Image Trouble.

Non credo che sia davvero intenzionale. Semplicemente, ho fatto riferimento ad autori, libri che ho amato, che hanno segnato la mia infanzia. La storia del Gatto Nero di Poe mi aveva terrorizzato unitamente al film di Clouzot (L’assassin habite au 21), o ancora Murder is Easy da Agatha Christie, come tu hai giustamente indovinato. Quindi è più una questione di piacere personale che di voler onorare loro, anche se lo meriterebbero alla grande. Inconsciamente o no, io non lo so, ho voluto restituire quello che avevo provato nella scoperta di queste storie e di questi film. Penso che si possano trovare altri riferimenti di questo tipo, nella maggior parte dei miei romanzi. Sta a te scoprirli! E penso che sia abbastanza facile per persone come voi che conoscono bene i loro “classici” …

Come si scrive un romanzo? In altre parole, quale tecnica usi? Immagini la fine della storia e da essa vai indietro sino all’inizio, come fanno alcuni; o hai un idea precisa in mente, o forse prendi appunti, come faceva Agatha Christie e dopo scrivi la trama , più o meno delle linee guida; o anche inizi a scrivere, e poi, man mano che vai avanti, inserisci sempre nuovi cambiamenti in base alle idee che ti si formano in mente?

In verità, io cambio spesso circa il metodo, soprattutto per il punto di partenza, che può essere qualsiasi cosa: un’idea, un’immagine, una sfida, una discussione tra amici, una notizia, che è mi è arrivata. Così, nel caso de L’image trouble (Cento Anni prima), mi sono imbattuto in una copertina di un libro che mi ha molto commosso, senza che abbia compreso il perché. Sembrava una buona partenza della storia, e ho debolezza di credere che l’Image Trouble sia stato un buon successo.
Tuttavia, ho ancora le mie piccole abitudini. Così, ho sempre impostato un piano molto specifico prima di iniziare a scrivere. Ma non tutto è definito, è necessario lasciare un po’ alla sorpresa, all’improvvisazione. E una volta che sei lanciato, delle nuove idee affluiscono … che cerco di usare il più possibile. (Perché è difficile cambiare colpevole nel mezzo della storia!)
In caso contrario, prendo appunti. Li scrivo su un pezzo di carta che metto in una scatola (di scarpe). A volte li rileggo, e metto insieme le mie idee. Infine, la “atmosfera” è cruciale. Questa nozione, devo ammettere, proviene spesso dalle mie letture,da i film che mi hanno segnato. A questo proposito, devo molto a Carr e Christie. Mi dico che voglio fare una storia come The Burning Court, Murder Is Easy, ecc. Allo stesso tempo, cerco di innovare, di trovare una nuova illuminazione per un giallo. Oppure, come ho detto sopra, la riflessione di un amico mi può portare molto. Un giorno, Igor Longo, che stava sfogliando un fumetto di Ric Hochet (Le Double qui tue= Il Doppio che uccide), mi ha detto: “Questa è una eccellente storia di bilocazione! Non hai mai usato questa idea come tema principale”. E così è nato La Corde d’argent  (a proposito, apprezzo e ringrazio Igor per il suo intervento!)
Ma ci sarebbero ancora molte cose da dire! Il design di ogni romanzo ha una lunga storia! Il defunto Fredric Brown ha detto che ci vorrebbero 100.000 pagine per descrivere l’elaborazione di un libro che ne avrà 250! E in fede mia, aveva ragione!

Nella tua carriera letteraria, quanto peso hanno avuto scrittori come Carr, Christie, Rawson, Chesterton, Doyle, Talbot? E chi di loro ha pesato più di altri?

L’influenza di Carr e Christie, è enorme, si capisce. E quella di Doyle, naturalmente. Rawson e Talbot sono venuti dopo. Ma di questi ultimi due, non ho mai cercato di riprodurre qualcosa. Le loro trame sono eccellenti, ma manca il “tocco British”, l’atmosfera, il senso del bizzarro. E a proposito di “Bizzarro”, il maestro del genere, è forse Chesterton (che ha notevolmente influenzato Carr in proposito). Il “Bizzarro” è anche una situazione impossibile di prim’ordine. Qui, l’impossile riguarda il comportamento umano. Perché Tal dei Tali mangia il suo cappello all’uscita della Messa? Ancora una volta, le nostre cellule grigie sono messe a dura prova nello sforzo di dare un senso a tale “nonsense”. Per me, per esempio, “The Club of Queer Trades4 è un top, soprattutto la prima grande avventura.

E gli autori francesi, quale influenza hanno avuto su di te? Chi di loro ha avuto una maggiore influenza su di te? E quali opere in particolare?

Senza grande originalità, citerò Gaston Leroux, e il suo famoso “Le Mystère de la Chambre jaune” (=Il mistero della camera gialla) che Carr stimava molto, e a ragione. Vi è un po’di tutto in questo romanzo: i crimini impossibili, maschere strappate (identità rivelate), colpi di scena incredibili, ecc. Ho letto questa storia molto giovane ed è stata probabilmente la mia prima vera “camera chiusa”. Ho scoperto Arsene Lupin più tardi, nei telefilms televisivi. Era più leggero, l’umorismo ha la precedenza sul mistero, anche se era a volte di qualità. Vindy e Lanteaume, non li ho letti che dopo. (Vindry) è tecnicamente buono, ma manca dolorosamente di romanticismo (lo stesso vale per Boileau). In un libro come A travers les murailles (= Attraverso i muri), c’è qualcosa davvero che manca. Per me, Le Mystère de la Chambre jaune è nettamente superiore. Infine, lo ammetto, questo è un punto di vista puramente personale.Questo è tutto quello che posso dire di autori francesi. Il mio “latte materno” sono stati senza dubbio gli intrighi di A. Christie, nella famosa collezione gialla di Le Masque. Una collezione leggendaria, e non avrei mai immaginato che un giorno io potessi farne parte ! E mai avrei potuto immaginare che Le Masque potesse seguire la devianza “noir” di oggigiorno … ma questa è un’altra questione.

I tuoi finali sono spesso bizzarri e sono concepiti come un coup de theatre, riprendendo la tradizione surrealistica e antirealistica di autori francesi come Leblanc, Leroux, Steeman, Very, Boileau, Narcejac, Vindry. Molto spesso ho notato che i tuoi romanzi – e per questo mi piacciono – sono visionari, fanno dei salti pindarici di fantasia, sacrificando il realismo e la logica dei romanzi di marca anglosassone a ciò. Intendiamoci, è una caratteristica tipica dei romanzieri francesi, soprattutto quelli che ho citato (forse tranne Vindry che è quello più legato a Carr e Simenon che è l’applicazione del realismo e la negazione del surrealismo).

Che peso ha la fantasia rispetto agli altri ingredienti nell’elaborazione delle tue opere?

E l’atmosfera che è sempre molto suggestiva, è il risultato di qualcosa connesso allo stile oppure è qualcosa di innato in te, cioè anche quando eri più giovane riuscivi ad evocare suggestioni intense?

Il grosso problema per un romanzo poliziesco, è che la magia del mistero cessa di operare alla fine, quando tutto è spiegato in dettaglio. Abbiamo bisogno di trovare un escamotage per cui il fascino continui a funzionare sempre. L’esempio migliore resta a mio avviso la fine di The Bourning Court di Carr. In altre parole, trovare qualcosa per accreditare il fantastico dopo la spiegazione finale. Come definizione del romanzo poliziesco, Pierre Véry parlava di “favola per adulti” e io sottoscrivo senza riserve questa dichiarazione. Per i bambini piccoli che siamo stati, quelle storie di streghe, di fate e di draghi sono state una vera e propria scuola di preparazione al romanzo poliziesco! E inconsciamente, penso di cercare di trovare questi primi brividi scrivendo le mie storie. Il tema della fiaba è sempre celata al di sotto. Ne “L’homme qui aimait les nuages” 5 , è ancora evidente. L’eroina sembra essere una fata, mentre il colpevole è il “vento”.
Parlando dell’ “atmosfera”, non so sia qualcosa di innato, ma in ogni caso, mi sembra necessaria per scrivere una buona storia. E tanto che se non la sento, non comincio a dare inizio alla mia storia.

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9) Tu sei francese, ma non solo. Nella tua formazione letteraria, ha giocato un ruolo solo la tua eredità francese oppure anche quella alsaziana?

Francese, sì, ma come ho spiegato sopra, sono stato particolarmente sensibile ai romanzi polizieschi inglesi. L’Alsazia, si trova solo, credo, ne La malediction de Barberousse . Non si dice spesso di un autore che la sua prima opera è autobiografica? Certo, io amo la mia regione natale, ma sono anche appassionato di esotico. E non è certo il mio unico paradosso …

10) Mi ricordo che una volta Igor fece una distinzione tra i due grandi gruppi del Mystery: gli sperimentali ed i tradizionali. I primi sono quelli che non amano chiudersi in una formula, i secondi quelli invece che continuamente rielaborano, variandoli, dei clichè da cui non si discostano, moltiplicando enigmi e misteri. Lui ti poneva nel primo gruppo (Christie, Queen, Halter, Leroux, Steeman) e non invece nel secondo (Stout, Rhode, Van Dine,  Marsh , Sayers, Crofts, e in parte lo stesso Carr). Che ne pensi?

Tengo Igor in alta considerazione (la cultura poliziesca è veramente prodigiosa), quindi non mi permetterò di contraddirlo. In realtà, ho spesso voglia di scrivere le mie storie con nuova illuminazione. Con successo? Non so … Mi sembra sempre di fare bene, ma i miei lettori a volte non sono d’accordo. In verità (e questo è ciò che è grande nel mestiere di un romanziere), io voglio fare veramente, ciò che viene reso nelle mie storie. Mi piace scrivere storie. Altrimenti, come produrre qualcosa di convincente, se non si è sicuri di sé?

11) Ho notato che ci sono dei motivi ricorrenti in alcuni tuoi romanzi: i bambini e i ragazzi per esempio (la fanciullezza), il macabre, la pazzia. In particolare per esempio diversamente dai romanzi di Carr o di Ellery Queen o di Agatha Christie o di Van Dine in cui di solito gli assassini sono sempre soggetti calcolatori, astuti, talora anche vittime, ma sempre nel pieno possesso delle proprie facoltà, i tuoi assassini sono spesso vittime della pazzia, follia, amnesia, cioè soggetti con tare della mente, quasi non fossero responsabili in fondo delle proprie azioni. Che ne dici?

Sì, mi piace il tema della follia. Ciò consente di presentare modelli vari e sorprendente. Interessanti anche i problemi psicologici legati ai bambini (evitando il sacrosanto stupro dello zio!). Direi che i miei criminali sono spesso “ossessionati” da una passione, una fobia, ecc. Per essere più precisi, avrei dovuto dettagliare ognuna delle mie storie, ma vorrei lasciare al lettore la cura di scoprirlo di persona.

12) E ora analizziamo le tue fissazioni: le valigie, la pittura, le tende, per esempio presenti in vari romanzi. Come sono nate ? Ci sono altre fissazioni?

Un giorno un lettore mi ha fatto notare che la maggior parte dei miei titoli presentano spesso elementi d’architettura o delle figure, o entrambi: La Quatrième Porte, La Chambre du fou, La Septième hypothèse, les Sept Merveilles du crime, La Mort derrière les rideaux, etc.. Allora non ne ero cosciente. Le figure apportano di per sé un elemento di mistero: le porte, le finestre. E allo stesso modo puntare sulle “porte”, sulle “finestre”. Una porta socchiusa, una finestra illuminata di notte … questi sono elementi specifici del romanzo poliziesco. E a questo riguardo, mi inquadro in un filone decisamente classico. Le strade, le case per me sono esseri viventi, hanno un anima. Naturalmente, la magia non funziona in un sobborgo moderno. Ma chi ha letto John Ray, per esempio, può capire molto bene cosa intendo.

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13) Nei tuoi romanzi talora si riscontrano delle caratterizzazioni sociali e culturali: forse ho interpretato male, ma talora ho visto una tua negazione dell’aborto, una tua condanna di certi atteggiamenti etici libertari. In sostanza per me tu sei sostanzialmente un credente, cattolico o protestante non importa. Ma sicuramente non sei agnostico. E in un certo senso sei anche tradizionalista. Questi tuoi valori, in un certo senso in contrasto con quelle che sono le tendenze culturali e sociali odierne, e anche il tuo genere letterario (Mystery) in un tempo in cui i Noir vanno per la maggiore, ti ha procurato delle noie?

In realtà, io sono molto tradizionalista. Amo tutte le tradizioni, tutte le epoche. Tutte tranne una: quella odierna. La caratteristica del nostro secolo è senza dubbio la bruttezza che si presenta in tutte le sue forme (musica, architettura, idee sovversive, ecc.) E’ fisicamente impossibile per me seguire questa moda. Ho bisogno di un ambiente pittoresco (cioè tradizionale) per sviluppare una storia. Devo senz’altro rappresentare la figura di un fossile agli occhi dei nostri critici, ma non importa. Uno scrittore deve essere innanzitutto onesto. Avendo fino ad oggi scritto una quarantina di romanzi, ritengo di aver contribuito col mio blocco di costruzione all’edificio dell’enigma. Per il resto …

Ho letto in altra intervista che dal confronto con alcune persone, sono nati alcuni tuoi romanzi: per es. hai raccontato in passato che Le toile de Penelope è stata la risposta a Philippe Fooz che ti sfidava a inventare una Camera Chiusa, in cui ci fosse una ragnatela. E io che invece pensavo che anche quella fosse una citazione, un rimando a due romanzi: uno di Abbot prima, ed uno di Rogers dopo…

Hai prodotto altri romanzi, elaborati sulla base del confronto con altre persone? Che influenza e che importanza hanno i tuoi amici nella tua vita?

Preciso: l’idea di “La toile de Penelope” non proviene da Philippe Fooz ma Vincent Bourgeois, un altro dei miei amici belgi. Questa è per me una sublime idea, che ho subito usato in un romanzo. Colgo l’occasione per ringraziarlo ancora una volta, tuttavia precisando che “le idee” fornite dagli amici sono raramente sfruttate. Ma devo allo stesso modo ancora ricordare Roland Lacourbe, che mi ha fornito una quantità di soggetti molto interessanti, situazioni bizzarre, e che soprattutto ha saputo stimolare la mia passione per il mistero con il suo eccezionale talento di narratore. Tra le altre cose, è lui che mi ha ispirato l’idea de Le Septième Hypothèse (“La settima ipotesi”), riesumando la storia di Arabian Nights Murder (“Delitti da Mille ed una notte”) di Carr. Alcuni lettori d’altronde a ragione hanno messo in chiaro l’analogia tra il mio medico della peste e il “profeta barbuto” di Carr.

16) Nei tuoi romanzi abbondano Camere Chiuse, ma anche elementi sovrannaturali. Condividi in definitiva le stesse idee di Carr. Ma tra te e Carr c’è una fondamentale differenza: il sovrannaturale in Carr finisce laddove interviene il detective, espressione di logica e razionalismo (tranne che in The Bourning Court e in qualche racconto), (mentre) nei tuoi romanzi, invece, il sovrannaturale non è detto sempre che non sopravviva. Nei tuoi romanzi il mondo dei vivi e il mondo dei morti sono spesso intimamente connessi. Perché?

Credo che derivi dal mio interesse per il passato. Mi piace quando un puzzle ha le sue radici in un passato misterioso, un sinistro, che fa riferimento ad un caso che si perde nelle pieghe del passato. L’indagine diventa quasi il lavoro di un archeologo. E ‘anche vero che le credenze erano molto più radicate nei periodi remoti. Ciò mi consente di tuffare più facilmente una storia nel soprannaturale. Gli antichi misteri mi affascinano … Darei molto per disporre di una macchina del tempo per tornare indietro e regolare, per esempio, i comandi sulla caduta nell’autunno 1888 nel quartiere di Whitechapel. Potrei anche smascherare il sinistro Jack lo Squartatore …

Siccome tu ne La Quarta Porta, immetti a profusione elementi fantastici, ed essenzialmente lasci in sospeso la reincarnazione di Harry Houdini, come bene si legge in molti altri tuoi romanzi di letteratura fantastica, per esempio il paradosso temporale in L’Image trouble (Cento anni dopo) allo stesso modo di Fear, Burn! di Carr, pensi di essere solo un romanziere di letteratura poliziesca, o anche un romanziere di letteratura fantastica?

Penso di essere nella categoria di scrittori di gialli classici, perché in fondo tutti gli elementi fantastici della storia sono sempre spiegati alla fine, come il paradosso temporale in ” L’image trouble “. Tuttavia, mi è anche capitato di conservare un aspetto fantastico in uno o due dei miei romanzi, come ” Le Chemin de la lumière “, con un ritorno al passato. Questo è senza dubbio un romanzo fantastico, anche se altri misteri si spiegano (l’uccisione della sacerdotessa minoica nel suo tempio circondato da sabbia vergine).

Va notato che il soprannaturale, anche se è evidente, è un elemento chiave delle mie storie, come in Carr. In questo ci distinguiamo da molti scrittori di mistero. Noi amiamo più di altri, le storie di fantasmi. perché in realtà, un problema di camera chiusa non è altro che una storia di fantasmi, poiché solo loro possono attraversare le pareti. E riflettendo, un “mistero” non è di per sé un evento inspiegabile? Quindi, non potremmo definirci come degli “autori di misteri”?

Molto spesso, i tuoi romanzi sono narrati in prima persona, piuttosto che in terza. Questo va, ovviamente, a sollevare il problema della verità di ciò che è stato detto dal narratore, e che può anche essere l’assassino (il che accade in alcuni dei tuoi romanzi, più di uno). Tu adotti il racconto in prima persona (quando capita), per questo motivo, o lo fai per un altro?

Semplicemente, si tratta di una tecnica narrativa, accoppiato con una focalizzazione particolare sulla recitazione. L’uso della prima persona porta il lettore ad identificarsi nel narratore. Ma la terza persona facilita descrizioni accessorie. Ovviamente, devo fare una scelta. Questa è una funzione della storia. E io devo sempre dare priorità alla storia.

19) L’uso della prima persona, identifica il lettore nel narratore, dici.
Siamo d’accordo. Ma l’adozione di questa procedura, per te, è solo una questione di ordine tecnico, o è il frutto dell’influenza di Agatha Christie su di te?

Anche su questo piano (è vero), ho sofferto l’influenza di Agatha Christie. La scoperta del colpevole in The Murder of Roger Ackroyd (“L’assassinio di Roger Acroyd”) è stata una grande sorpresa per me. Ma spesso si dimentica che AC si ripetuta con “la Nuit qui ne finit pas  ” (Endless Night) 6. Un ottimo libro, che mi aveva anche colpito ai suoi tempi. Credo anche che far scrivere “io” quando si parla dell’assassino, fornisce anche qualche bel brivido al romanziere. Se mi ascoltassi, tutte le mie storie avrebbero il narratore come colpevole!

Che valore hanno le traduzioni delle tue opere, sul tuo successo all’estero? Con i tuoi traduttori, ci sono solo rapporti di lavoro o anche relazioni amichevoli? E soprattutto in Italia, qual è il tuo rapporto con Igor Longo? Quanto tempo fa vi siete conosciuti?

In generale, non vi è alcun legame tra l’autore e il traduttore, ma per Igor Longo e John Pugmire (USA), è diverso. Ero in contatto con John prima che cominciasse a tradurre i miei libri. Lui è appassionato di enigmi della camera chiusa, come Igor, anche. Penso che Igor sia uno dei maggiori esperti al mondo per il romanzo poliziesco. L’ho incontrato poco dopo le sue prime traduzioni, quando venne a Strasburgo. Ora sono due amici, e a loro devo un sacco. Entrambi hanno lavorato molto per l’enigma classico. E mi piace cogliere l’occasione per ringraziarli calorosamente. Che Dio benedica le Camere Chiuse!

Oggi pochi autori scrivono mystery (tranne che in Giappone).

Conosco la tua posizione a riguardo della letteratura noir e quindi non ti rifaccio la stessa domanda. Mi piacerebbe sapere se tu abbia incontrato difficoltà in Francia con gli editori circa la pubblicazione dei tuoi romanzi, prendendo in esame la grande maggioranza di scrittori noir, e se tu hai incontrato resistenze ad accettare il mystery in luogo del romanzo noir. E secondo te se vi sia differenza tra il mystery storico e il puro mystery, poiché tutti gli scrittori oggi scrivono mystery storici: evidentemente c’è un’abbondanza di storici, oggigiorno!

Onestamente, no, non ho quasi avuto problemi con le case editrici quando ho ricevuto il premio di Cognac e il premio del Romanzo d’avventura. E dal momento che ero pubblicato dalle edizioni Le Masque, simbolo francese del mistero, mi sentii in perfetto accordo con questa collezione, che mi pubblica ancora 35 romanzi (se non ricordo male.)
Per i gialli storici, sono d’accordo, è diventato una moda da qualche tempo. Non credo che la maggior parte dei lettori apprezzino i dettagli sociali o storici che vengono sviluppati. Se voglio conoscere la vita dei romani o greci dei tempi antichi, compro un libro di storia.
Detto questo, io non metto tutto in un carrello. Ci sono buone sorprese. E torno ancora alla mia cara A. Christie, che ci ha offerto un bellissimo libro ambientato nell’antico Egitto: La Mort n’est pas une fin 7. E ‘una bella storia, che si arricchisce di atmosfera, la magia dell’antico Egitto. A.Christie non è caduta nell’ulteriore trappola della descrizione sociale. Le sue priorità sono come sempre: il romanzo, la storia, i personaggi. Spesso mi capita di rileggere un romanzo di Agatha Christie, ed è sempre con la stessa felicità. Il giorno che fossi stanco delle sue storie, sarei stanco della vita!

Tu hai 57 anni, e puoi dire “ho scritto quasi quaranta romanzi”. Scrivi un romanzo per anno, si può dire. L’ultimo è stato “La Tombe indenne”. Non ti è mai venuto in mente di scrivere storie per ragazzi come Jo Nesbo o l’italiano Giulio Leoni? E, mettendo la parola fine a quest’intervista, cosa fai oltre che scrivere romanzi? Stai lavorando a qualche altro romanzo?

Quest’intervista sarà diffusa non solo in francese ed in inglese, ma sarà posta all’attenzione del pubblico italiano. Vuoi dire qualche cosa?

Ti ringrazio del tempo e dell’attenzione che mi hai riservato.

No, non ho intenzione di scrivere regolarmente romanzi per ragazzi. “Spiral” era un’eccezione, una richiesta del direttore della collezione, che mi aveva già sollecitato per un’altra serie (La Nuit du Minotaure = La Notte del Minotauro). Ci sono troppi vincoli, preferisco scrivere storie per i “grandi”!
Attualmente sto rileggendo il romanzo appena finito Le Masque du Vampire (= La Maschera del Vampiro – titolo suscettibile di essere cambiato). Dopo di che, mi dimenticherò per qualche tempo le “camere chiuse” per ricaricare le mie batterie al meglio, facendo qualcosa di diverso (musica, acquerelli, escursioni), come ho l’abitudine di fare dopo aver completato un libro.

Per concludere, mi sia permesso di parafrasare il compianto John Dickson Carr: “Se i miei lettori potranno divertirsi leggendo anche solo la metà delle storie che io abbia scritto, sarò entusiasta!”.

Vorrei aggiungere che io sono molto felice di essere pubblicato regolarmente in Mondadori, tra l’altro, per le sue belle copertine di libri, che sono fonte sempre d’ammirazione dei miei amici collezionisti.

1 The Avengers, serie televisiva britannica ultrafamosa con Patrick Macnee (John Steed) e tre belle assistenti: Cathy Gale (Honor Blackman), Emma Peel (Diana Rigg), e più tardi Tara King (Linda Thorson)

2 John Pugmire : “The first novel Paul actually wrote was La Malediction de Barberousse… No sooner had I said that than Paul authorized Le Masque to publish it, based, he said, on the fact that I liked it. It came out in 1995”. L’affermazione mi è stata fatta personalmente da John. Sgombra il campo. Paul Halter si ricordò di segnalare a Le Masque che avrebbe potuto pubblicare il libro, una volta saputo che il libro piaceva anche ad uno dei suoi amici più cari. Si fidò cioè del commento di John Pugmire (oltre che del proprio).

3 L’espressione usata da Paul è stata: Carr a dit : « Lorsque j’écris un roman, j’ai toujours envie de faire quelque chose d’exceptionnel, un livre qui frapperait tout les autres de nullité. ». In realtà l’espressione completa e fedele di Carr è: « Mon intention est toujours d’écrire un roman policier véritablement exceptionnel, ce à quoi en toute honnêté j’estime ne pas être encore parvenu. Quand un auteur de mon espèce déclare une chose pareille, il veut en réalité dire qu’il souhaite écrire un roman policier qui frappe tous les autres de nullité. C’est là bien entendu quelque chose d’impossible. Mais on peut toujours essayer. » (Roland Lacourbe, John Dickson Carr, scribe du miracle – Inventaire d’une oeuvre, pag.25)

4 Raccolta di racconti di Chesterton, pubblicata nel 1905. Il riferimento in particolare è al primo capitolo: The Tremendous Adventures of Major Brown

5 L’uomo che amava le Nuvole (inedito in Italia)

6 Nella mia fine è il mio principio

7 Death comes as the End (C’era una volta)

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The Gilded Fly : analisi di un esordio fortunato

febbraio 13th, 2015

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Bruce Montgomery nacque a Chesham Bois , Buckinghamshire, Inghilterra . Studiò alla Merchant Taylors School e si laureò al St. John’s College, a Oxford, nel 1943, in lingue moderne , pur essendo stato, a Oxford, per due anni, organista e maestro del coro .

Fu molto conosciuto con il suo proprio nominativo, come compositore di musica classica (musica vocale e corale , tra cui un Requiem di Oxford) e di colonne sonore di molte commedie, oltre che come interprete di musica per organo, strumento nell’esecuzione del quale, eccelse.

Con lo pseudonimo di Edmund Crispin, Montgomery Bruce  firmò nove romanzi polizieschi e due raccolte di racconti, ambientate quasi tutte ad Oxford, nel St Christopher’s College (istituto che non esiste nella realtà) che egli immaginò essere vicino al St John’s College. Suo personaggio fu il Professor Gervase Fen, docente di Letteratura Inglese, che egli modellò su di sé, sulla figura del Professor W.E.Moore di Oxford e sul Dottor Fell di John Dickson Carr, di cui fu uno sfegatato ammiratore: non a caso, anche in parecchie delle sue storie egli inserì Camere chiuse e Delitti impossibili. Inoltre, come nel caso di Michael Innes, e di Nicholas Blake, altri due romanzieri polizieschi inglesi gravitanti intorno ad Oxford, nei suoi romanzi polizieschi vi sono frequenti riferimenti letterari e soprattutto nel suo caso, musicali.

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Patricia McGerr Vs Anthony Berkeley: Storia di un modello non riconosciuto

novembre 12th, 2014

Questo mese ospitiamo un interessante articolo di Pietro De Palma su due autori che siamo sicuri , gli amanti de Il Giallo Mondadori apprezzeranno .

Buona lettura .

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POSTFAZIONE IDEALE A L’Ultima Tappa di Anthony Berkeley (Jumping Jenny, 1933 – titolo USA: Dead Mrs. Stratton: An Exploit of Mr. Roger Sheringham)

maggio 24th, 2013

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Di Pietro De Palma

Mi son chiesto sempre perché mai questo romanzo in Italia presenti questo insolito titolo, invece che ad esempio “Il salto di Jenny”. Io penso la risposta vada trovata nell’anno nel quale la traduzione di questo romanzo fu approntata, il 1946. Erano gli anni del mitico Giro d’Italia, delle sfide Coppi-Bartali, per cui in definitiva il titolo può esser stato pensato guardando al Giro, che in quell’anno fu vinto da Gino Bartali, e al contempo all’ultimo capitolo del romanzo, “l’ultima tappa”, la tappa finale del romanzo.

Pubblicata nel 1946 nella collana “Il Romanzo per Tutti”, quindicinale del Corriere della Sera, la traduzione di Luciana Crepax fu poi ripresentata dai Classici del Giallo Mondadori, nel 1979 col numero 322, e negli scorsi giorni è riapparsa in edicola col numero 1322: è una pura coincidenza, una casualità che le due edizioni siano distanziate esattamente da mille uscite? In altre parole, dopo mille stampe e ristampe, si è sentito il dovere di dar di nuovo alle stampe questo straordinario romanzo. Che, va detto, nella traduzione di Luciana Crepax, fu “asciugato”, come mi disse tempo fa Mauro Boncompagni, perdendo una quarantina di pagine, pagina più pagina meno. Si tratta più che altro di digressioni o riflessioni o incisi o dialoghi condensati in forma di monologo discorsivo (come il dialogo citato più avanti del Cap. IX, che nella traduzione italiana è ridotto a pochi righi in forma di monologo, come se a parlare fosse sempre Sherringham) che non cambiano sostanzialmente la trama, tranne che in alcuni casi, di cui parleremo. E quindi è anche vero, come dice il buon Mauro, che “per chi non lo ha, è comunque un’occasione da non perdere” acquistare il romanzo in edicola.

Jumping Jenny, dicevamo nel titolo. Perché?

Incominciamo a dire che nella prima pagina del romanzo (versione italiana), Roger Sherringham esclama:

– Stevenson li avrebbe chiamati “jumping jacks”, pupazzi sospesi ad un elastico. Due “jumping jacks” e una “jumping jenny”, visto che c’è anche una donna. Vogliamo chiamarla così?”.

Ma, nella versione inglese, nella prima pagina, il dialogo è un po’ più esteso:

Very nice,” said Roger Sheringham.

It is rather charming, isn’t it?” agreed his host.

Two jumping jacks, I see, and one jumping jenny.”

Jumping jenny?”

Doesn’t Stevenson in Catriona call them jumping jacks? And I suppose the feminine would be jumping jenny.” (dall’edizione U.S.A., Dead Mrs. Stratton: An Exploit of Mr. Roger Sheringham).

Quindi veniamo a sapere che ne parla Robert Louis Stevenson nel suo Catriona. Ma nell’edizione italiana non ve n’è traccia.

Il riferimento, per il lettore italiano, è al capitolo III del romanzo di Stevenson, “I go to Pilrig”:

“…Here I got a fresh direction for Pilrig, my destination; and a little beyond, on the wayside, came by a gibbet and two men hanged in chains. They were dipped in tar, as the manner is; the wind span them, the chains clattered, and the birds hung about the uncanny jumping-jacks and cried”.

Il riferimento è chiaro: Stevenson parla di due tizi appesi ad una forca, incatenati e incatramati, che vengono sballottati dal vento, che fa sferragliare le loro catene. I due impiccati sembrano dei jumping-jacks.

Jumping Jack, in inglese, è termine che si usa per indicare il pupazzo, “la marionetta”: ma siccome il primo in inglese è detto “Puppet”, direi che il termine anche per questo si applica più a marionetta, che, a distanza del pupazzo, è formata di tante parti articolate fra loro che, mediante fili, vien fatta muovere.

Per traslazione, un corpo inanimato sospeso ad una corda e fatto ballare dal vento, può, in modo macabro, essere assimilato ad una marionetta.

Sherringham, però, usa anche il termine “Jumping Jenny”. Questo può dirsi un neologismo inventato da Berkeley, e non era stato già usato da altri, a lui precedenti.

E’ sicuramente un termine non presentato a caso da Berkeley, ma fortemente allusivo, come tanti altri qui. Nel suo caso, se volessi analizzare l’etimologia del nome, dovrei dire che Jenny è una derivazione di Eugene. Eugene a sua volta deriva dal greco Ευγενιος (Eugenios) che a sua volta deriva dalla parola composta greca ευγενης (eugenes) , formata dall’unione delle parole ευ (bene) e γενης (nascita). Se volessimo ancora andare indietro, γενης deriva da γίγνομαι, verbo greco antico che significa anche “nascere”. In sostanza, Anthony Berkeley, secondo me, avrebbe fatto dare il nome di Jumping Jenny, al pupazzo appeso con le fattezze di donna, perché Jenny, in inglese, è forma femminile di Eugene. Il fatto interessante è che anche la moglie di David Stratton, la vittima, ha un nome, Ena, che è una forma femminile di Eugene, ed entrambi i diminutivi significano anche “ben nato”, well born.

Ecco perché il pupazzo viene chiamato proprio Jenny, Jumping Jenny: perché ha la stessa origine del nome di Ena Stratton. E si badi bene: il nome viene assegnato al pupazzo, ben prima che il fatto delittuoso avvenga.

E’ come se Ena sia stata in quel momento predestinata a morire. E Berkeley abbia detto, tramite il suo detective, che Ena “morirà”.

Potrei parlare di predestinazione, ma..non credo si tratti precisamente di quello. Io sono sicuro invece, che questo romanzo di Berkeley è uno di quei romanzi concepiti come un puro gioco intellettuale, al pari del Cluedo, senza apparentemente pretendere null’altro. E come in tutti i giochi, Berkeley fornisce delle piste, vere e false.

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“La Canarina Assassinata”. Il trionfo della deduzione e dell’erudizione di Philo Vance

aprile 22nd, 2013

Nuovo articolo a firma del nostro amico Piero De Palma.

 

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La Canarina assassinata è uno dei più bei Gialli dell’Età d’Oro del romanzo poliziesco.

Quando lo scrisse, Wilard Huntigdon Wright, aveva già pubblicato The Benson Murder Case, 1926 “La strana morte del Signor Benson”, romanzo che aveva ottenuto un buon successo. Ma è senza dubbio proprio con The Canary Murder Case, 1927 “La Canarina assassinata” e poi con The Greene Murder Case, 1928, “La Tragedia di Casa Greene”, che si impose come il più grande autore della sua epoca: due romanzi che fecero scuola.

Antitetici è bene dirlo: così come “La Tragedia di Casa Greene” è una vicenda di morte che si svolge claustrofobicamente in una dimora in cui sono costretti a vivere gli eredi di una fortuna, ed in cui aleggia dal primo all’ultimo istante un’atmosfera greve e plumbea, ne “La Canarina Assassinata”, l’atmosfera è invece frivola e salottiera, molto più leggera, ma al tempo stesso complicata.

I tre romanzi assieme formano una ideale trilogia

Da un certo punto di vista, si può dire, a mio parere, che sia uno dei più grandi romanzi polizieschi che siano mai stati concepiti. Oggi, che le soluzioni vandiniane sono state fatte proprie e poi superate da tanti grandi scrittori a lui successivi, Van Dine sembra essere Pollicino, e a taluni le sue soluzioni fanno ridere. Invece, non si può pensare alla letteratura poliziesca degli anni ’30, senza inchinarsi reverenzialmente dinanzi a Van Dine. Perché senza di lui non ci sarebbero stati Ellery Queen, Charles Daly King, il primo Rex Stout.

E dei romanzi di Van Dine, i due che hanno avuto più influsso sui posteri sono stati proprio The Canary Murder Case e The Greene Murder Case. In particolare The Canary Murder Case, ebbe un effetto dirompente all’epoca: fu in testa per parecchi mesi alle classifiche dei libri più letti.

Julian Symons nella sua opera critica più famosa, Bloody Murder, riportò il giudizio di un altro critico, Howard Haycraft, scrivendo che “ ..his second book, The Canary Murder Case 1927, broke all modern publishing records for detective fiction at the time” (Julian Symons, Bloody Murder, Penguin Books, 1985, pag.101).

Più in là a testimoniare il grandissimo successo riportato da questo romanzo e dal successivo romanzo, che sconvolsero la letteratura poliziesca del tempo, dominata dagli autori britannici, Symons affermava che “It was said that he had lifted the detective story on to the plane of a fine art, and by his own account he was the favorite crime writer of two Presidents” (op. cit. pag. 102).

Ma perché The Canary Murder Case ebbe tutto questo successo? Analizziamo la storia.

Innanzitutto chi è la Canarina? Prendendo a prestito la stessa prosa di Wilard Huntigdon Wright “..Margaret Odell aveva ricevuto il soprannome di Canarina in seguito a una parte sostenuta in un elaborato balletto orni­tologico delle Folies, dove ogni ragazza aveva una gonna che richiamava qualche uccello. A lei era toccato il ruolo della ca­narina; e il suo costume di satin bianco e giallo, insieme alla massa di luminosi capelli biondi e la carnagione bianca e ro­sea, l’avevano distinta agli occhi degli spettatori come una creatura di notevole fascino. Prima che trascorressero 15 giorni, tanto concordi erano stati gli elogi della critica e così regolari gli applausi del pubblico che il Balletto degli uccelli divenne il Balletto della canarina e la signorina Odell fu pro­mossa al rango di quella che caritatevolmente potrebbe esser definita première danseuse, con l’attribuzione di un valzer in assolo e una canzone interpolata appositamente perché desse prova delle sue molteplici grazie e talenti.

Alla chiusura della stagione, la ballerina aveva lasciato le Folies e, durante la successiva e spettacolare carriera nei luo­ghi di ritrovo della vita notturna di Broadway divenne popo­larmente e familiarmente nota come la Canarina. Fu così che, quando la trovarono brutalmente strangolata nel suo apparta­mento, il delitto fu definitivamente denominato: l’omicidio della Canarina” (S.S. Van Dine, The Canary Murder Case,“La Canarina Assassinata”, trad. Pietro Ferrari, Il Giallo del Lunedì, L’Unità/Mondadori, 1992, pag.7).

La Canarina è Margaret Odell, attricetta e soubrette di locali di serie B, di night club, che è poi diventata famosissima in certi ambienti di Broadway. Conosce il suo ruolo e sa quale sia anche il giudizio che le riservano negli ambienti borghesi di cui lei rappresenta il richiamo: nel balletto non fa altro che fare il verso ad un uccello e mostrare le gambe. Ma si illude di poter scalare la società e conquistare un suo posto importante. E’ un po’ lo stesso discorso che fa la puttana di un Bordello di lusso (la prostituta sogna un amore impossibile con un bel cliente che oltre che utilizzarla per il suo piacere, la introduca nel mondo “normale”) il discorso di Margaret Odell, che, finito lo spettacolo, si ritrova nel grigiore della vita i ogni giorno, da cui esce temporaneamente solo nel volgere di uno spettacolo in cui uomini facoltosi in ghette, cilindro e marsina, fanno la coda per vederla , magari dondolarsi su un’altalena, su un trespolo, su cui lei, La Canarina, mostra le gambe.

E’ chiaro quindi che Margaret Odell, come farebbe una qualsiasi mantenuta, cerchi qualcuno che le assicuri, almeno nel suo mondo fatto di lustrini e pailettes, una certa onorabilità e almeno l’illusione di aver scalato quella società che invece non la accetterà mai. E’ la società degli anni ‘venti, in cui la grande crisi economica portò sul lastrico decine di migliaia di persone, ma che favorì anche l’arricchimento maggiore di chi già era ricco.

La Canarina ha molte amicizia maschili e non lo nega: i suoi accompagnatori la sfoggiano come oggi si farebbe con una Ferrari Testarossa, le altre donne la invidiano o ne parlano male, lo immaginiamo, ma lei pensa di poter usare queste amicizie, per i suoi scopi, che sono quelli di far carriera. Ha raccolto le confessioni di chi stava tra le sue gambe, ed un bel giorno decide di far il gran passo: decide di forzare la mano ad uno dei suoi amanti, e metterlo con le spalle contro il muro. E’ facile pensare, e poi lo si saprà, a cosa aspiri La Canarina: non vuol più essere “La Canarina”, ma una signora del Jet-Set, appartenere a quell’ambiente di cui ha conosciuto “tanti validi esponenti”. Solo che non capisce una cosa molto semplice: chi mai sposerebbe una “Canarina”? Ma lei si illude. E come tale resta vittima dei suoi stessi sogni.

Un bel giorno “La Canarina” vien ritrovata morta, assassinata, strangolata.

L’immagine che ne da Van Dine è terribile:

Il capo era rivolto all’indietro, come per una costrizione violenta…i capelli, disciolti, ricadevano dalla nuca sulla spalla nuda come la cascata raggelata di un liquido dorato; aveva perso ogni bellezza; la pelle era esangue, gli occhi vitrei; la bocca era aperta e le labbra convulse. Il collo, sui due lati della cartilagine tiroidea, mostrava orribili lividi scuri. La Canarina indossava un leggero abito da sera di pizzo Chantilly nero sopra ad uno chiffon color crema. Sul bracciolo del divano aveva gettato una cappa di un tessuto dorato, bordata di ermellino…a parte i capelli arruffati, una delle spalline dell’abito era stata strappata e il sottile pizzo del corpetto si era aperto in un lungo squarcio..una scarpetta di satin si era sfilata ed il ginocchio destro era contorto in dentro vero il divano, come se la poveretta avesse cercato di liberarsi dalla soffocante morsa del suo antagonista: Le sue dita erano ancora piegate,senza dubbio come nel momento in cui si era arresa alla morte” (S.S. Van Dine, “La Canarina Assassinata”, trad. Caterina Ciccotti, I Classici del Giallo, Barbera Editore, 2010, pag.22-23).

Dal sopralluogo effettuato dalla polizia emerge che mancano dei gioielli, che invece avrebbero dovuto esserci, secondo quanto afferma la sua domestica: quindi si è portati a identificare l’assassinio, come l’effetto di una rapina, o di un furto in appartamento, finito male (per Odell).

Tuttavia, questo è il giudizio della polizia per bocca del Procuratore Distrettuale di New York, F.X. Markham, che conduce le indagini. Di diverso avviso sarà il giudizio di Philo Vance, amico del Procuratore, osservatore imparziale e di geniali intuizioni, che salverà anche questa volta la Polizia da una figuraccia, e che invece sonderà una strada che nessuno aveva intravisto.

Philo Vance è una evoluzione di Sherlock Holmes, radicale: se eredita da Holmes l’attenzione ai particolari, agli indizi, non è però un applicatore integerrimo di essi. Infatti gli indizi che magari porterebbero a orientare le indagini in un certo verso, devono accordarsi ad una ricostruzione psicologica che in base ad essi spieghi tutti i quid rimasti insoluti. E per far questo, Philo Vance, diversamente da Sherlock Holmes, sonda l’anima e la mente dell’uomo, con l’attenzione che il buon Conan Doyle non aveva contemplato per il suo Sherlock Holmes. Si raffrontano così due diversi ideali: quello umanistico, attento alla psicologia e alle altre arti scaturenti dalla passione e dal gusto (Pittura, Scultura, Musica) di Philo Vance; e quello scientifico, analitico, di Sherlock Holmes.

Tuttavia, Philo Vance, osserva alcuni particolari, e in virtù della sua capacità di vedere al di là del mero indizio, ne dà una spiegazione tale che la visione di un omicidio susseguente ad un tentativo di rapina finisce per crollare miseramente.

Normalmente, quando si parla di questo romanzo, tutti individuano la sottigliezza del ragionamento di Van Dine, nella spiegazione della Camera Chiusa, in effetti “immaginifica”: spiegare non tanto come l’assassino e il testimone siano potuti entrare, quanto come essi siano potuti uscire, visto che il portiere quando va via, spranga sempre dal di dentro il portoncino che porta nel cortile interno al palazzo (l’uscita posteriore) con un chiavistello, in tale maniera che chiunque entri nel palazzo stesso, dopo la sua uscita, debba passare per forza davanti al centralinista, impressiona; e impressionò in quel tempo, moltissimo.

Ma ancor di più impressionò il pubblico dei lettori (e dei critici) l’aver inventato un modo che dilazionasse in avanti nel tempo l’azione delittuosa, cioè dopo che il suo accompagnatore della sera assieme al centralinista l’avessero sentita parlar e rispondere alle domande fatte da loro fuori della porta.

Se tuttavia la soluzione della Camera Chiusa e l’espediente per far apparire accaduto dopo, un omicidio che era stato invece commesso prima, rappresentano i mezzi con cui l’investigatore inchioda l’assassino, e che sono messi in chiaro da chiunque analizzi questo romanzo, pochi, pochissimi o nessuno, hanno esaminato gli altri momenti della deduzione vandiniana.

Secondo me, un altro momento in cui Van Dine impressiona il lettore è quando fa argomentare Vance molto molto sottilmente, sulla posizione relativa al corpo della vittima e sugli strappi subiti dai suoi abiti: se davvero Margaret Odell fosse stata affrontata in un corpo a corpo, immaginando che si sarebbe difesa con tutte le proprie forze, per quale motivo un innocente mazzolino, che le è stato ritrovato in grembo, non sarebbe stato scagliato altrove? Per terra, per esempio? E inoltre se così fosse stato, il collo non sarebbe stato rivolto all’indietro, ma la vittima sarebbe dovuta cadere avanti. Quindi… il delitto non si è consumato così, e si è tentato, con una messinscena, di depistare le indagini: lo strangolamento è avvenuto dal di dietro, quando la vittima non si aspettava che chi le stava dietro la strangolasse, ergo si fidava di lui/lei. Ma ci sono gli strappi del vestito! Altra messinscena: gli strappi sono stati fatti post-mortem per confondere il ragionamento degli investigatori.

Secondo ragionamento molto sottile è quello, concernente la chiave dell’armadio: per quale motivo essa è posta internamente all’armadio, quando comunemente essa invece dovrebbe esser infilata nella serratura esternamente?

C’erano quindi, quella sera, in quella stanza, tre persone: Margaret Odell e due altre persone, di cui una nascosta nell’armadio. Chi è stato l’assassino e chi il testimone? L’assassino ha anche rubato in un secondo tempo, oppure è stato l’altro a rubare? Le due persone presenti nell’appartamento, nei loro diversi ruoli, sono legate ad un altro ragionamento che si fa largo allorché Philo Vance nota come un porta-documenti sia vuoto, e come un portagioie di acciaio sia stato apparentemente forzato con un attizzatoio di ghisa: se davvero ci fosse stato un ladro avrebbe certamente usato uno strumento più idoneo per far saltare il coperchio, piuttosto che usare un attizzatoio. Tanto più che un esperto chiamato da Vance ne corrobora la tesi: che cioè vi son stati due momenti diversi nell’effrazione: quello rozzo con l’attizzatoio, che non ha sortito altri effetti se non di ammaccare il coperchio, e quello altamente professionale, effettuato con uno strumento di acciaio, probabilmente un grimaldello. Perché mai si sarebbe dovuto portare dalla camera vicina un attizzatoio inadeguato a far quello che ha fatto il grimaldello?

In parole povere, Vance postula l’azione in due momenti separati, da parte di due diverse persone. Ecco una primo fatto accertato, di grande importanza: nell’appartamento, quella sera, la sera del sabato, due persone sono state lì, probabilmente in un tempo successivo alla morte della Canarina. Il che non vuol dire necessariamente che entrambi avessero partecipato all’omicidio.

Fatto sta che il secondo ignoto visitatore sarà ucciso e solo dopo la sua morte Vance, individuando l’espediente per ritardare la morte, darà un volto all’assassino. In questo caso l’espediente sarà direttamente messo in relazione all’attività dell’assassino.

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Diario mediocre del solito giallista scacchista con il solito piede e tre quarti nella tomba (ora anche più di tre quarti)

novembre 11th, 2011

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Un diario con spunti di lettura e di vita personale. Io ci provo. Tante stronzate sono diventati best seller e dunque al limite mi avrà letto solo Dario, scuotendo i suoi capelli fluenti. Tra l’altro il titolo, volutamente tirato a bischero, serve per pararmi da qualsiasi critica seria (come si fa a criticare un pezzo con un titolo così?). Un po’ come il trucchetto della chiacchierata tra vecchi amici. Ogni tanto mi metto qui e butto giù qualcosa. Vediamo un po’…

13 giugno

Parto dal personale che mi viene meglio (figuriamoci il resto, dirà qualcuno). Sparito l’omino zoppo delle seconda guerra mondiale che mi angustiava durante le mie passeggiate in quel di Ampugnano. Un po’ mi dispiace e un po’ mi sento sollevato. L’egoismo umano è duro a morire. Ora posso scendere tranquillo dalla macchina e cominciare il viaggio, in tutti i sensi, della lettura, camminando e leggendo che ho acquisito una perizia particolare nel fare contemporaneamente le due azioni, senza sbattere contro i tronchi di qualche albero (dopo un paio di capocciate ho incorporato il percorso giusto). L’unico momento in cui riesco a distrarmi è l’arrivo di un giovanotto tutto scamiciato anche d’inverno che borbotta a voce alta continuamente fra sé. Allora non posso fare a meno di guardarlo per un attimo, alzare gli occhi al cielo e ringraziare il Signore della mia attuale condizione psicofisica (pure da brivido).

14 giugno

Imperversano le portatrici di pocce (non è una novità), sia come autrici che come personaggi di libri scritti anche dai portatori di palle. Non c’è niente da fare. Mi limito agli ultimi casi (chi vuole saperne di più http://www.thrillermagazine.it/rubriche/detective_lady/ ).

Rosa Mogliasco ha scaricato la commissaria Barbara Gillo (“L’amore si nutre d’amore”, Salani 2011); Alessia Gazzola ha tirato fuori Alice Allevi, anamopatologa ventisettenne di Messina, specializzando in medicina legale (“L’allieva”, Longanesi 2011); M.C. Beaton ha scodellato, da alcuni annetti devo dire, Agatha Raisin in pensione prima del tempo da una società di pubbliche relazioni (“Agatha Raisin e la quiche letale”, astoria 2011); infine il nostro Luigi Bernardi si è divertito a creare la detective pm Antonia Monanni (“Niente da capire”, Perdisa 2011).

Ne ho letti un paio e mi sono bastati. Dispiace per gli altri che saranno ottimi e ho sentito parlare molto bene del libro di Bernardi (Perdisa arriva a Siena?). Mi è bastata la Raisin, anzi la Beaton. Una lungagnata, una storia arzigogolata e nel contempo banalotta, che fugge via attraverso il solito linguaggio leggerino leggerino. Alla fine il primo capitolo del prossimo libro. Che lascerò sugli scaffali.

Mi è bastata (e pure avanzata) l’Allevi, anzi la Gazzola. Tutta la vicenda scivola melensa e sciapita con Alice al centro della scena fra sussulti, batticuore, rossori, pianto, caduta per terra, bacio trascinante e incredibile, invidia e gelosia, momenti di abbattimento e frustrazione (pure di distrazione se riesce a perdere perfino un cadavere), attraverso l’ormai classico linguaggio legger-spiritoso che va tanto di moda. Praticamente un gialletto in un romanzetto rosa. Di una fragilità sconcertante nel suo aspetto “giallo” e di una risaputa banalità in quello “rosa”. Poi vendono (se vendono) e hanno ragione loro.

Dimenticavo Ethel Thomas di Cortland Fitzsimmons, (“Delitto ai grandi magazzini”, Polillo 2011). La più vecchia di tutte, sia come età, settantacinque anni suonati, sia come anno di nascita letterario (1936). Una signorina “discretamente lucida”, porta una parrucca bionda, mai sposata anche se gli uomini le sono piaciuti (specialmente quelli più giovani). Una vecchietta arzilla, per non farla troppo lunga. E pure ricca che non guasta. Che dire? Ethel non è Miss Marple, Cortland non è la Christie e dunque la storia si presenta  piuttosto artefatta e raffazzonata, con troppi morti ammazzati in poco tempo e poco spazio. Un minore passabile della letteratura poliziesca.

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Considerazioni generali sul Philo Vance interpretato da Giorgio Albertazzi

maggio 17th, 2011

Cari lettori de “Il Giallo Mondadori”, oggi, sono lieti di presentarVi un lungo e articolato saggio di Pietro De Palma su “Philo Vance”, uno dei simboli del genere a noi tanto caro. Certo di farVi cosa gradita, Vi auguro una buona lettura.

                                                                                                              Dario Geraci

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Nel 1974, La RAI Radiotelevisione Italiana, che un tempo contribuiva alla cultura in Italia creando i più bei sceneggiati e le più belle riduzioni teatrali (talora lo fa ancora), mandò in onda i 3 primi casi di Philo Vance, di S.S. Van Dine (La strana morte del signor Benson, La Canarina assassinata, La fine dei Greene), ridotti per la televisione, affidando il personaggio principale a Giorgio Albertazzi,

Per la TV, Albertazzi aveva gà lavorato e aveva conseguito notevoli risultati, ancor oggi apprezzati (L’Idiota di Dostojevskj, Mr Hyde di Stevenson); il Philo Vance viene ritenuto comunemente un interludio, una produzione minore nell’ambito di quelle interpretate dall’attore: io penso invece che abbia rappresentato una tappa significativa, al pari delle altre produzioni ricordate.

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“Il doppio” comune denominatore ne “Il caso dei fratelli siamesi” di Ellery Queen

dicembre 22nd, 2010

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Avevo visto esposto tempo fa, in una libreria, un romanzo di Alexandre Dumas che non conoscevo: Les freres corses, “I fratelli corsi”, un breve romanzo o racconto lungo che dir si voglia. Una bella storia, potrei dire una ghost story : in una famiglia corsa, nell’imminenza della morte, nel ramo maschile, appare un defunto, a chi sta per passare a miglior vita. Ma, se ne parlo, è perché al centro della storia vi sono 2 fratelli, Lucien e Louis che si somigliano come due gocce d’acqua: 2 fratelli monozigoti. Sono lontani, uno a Parigi, l’altro in Corsica, ma sono uniti da quella telepatia che molte volte pone in stretto legame 2 fratelli gemelli. E così quando uno viene ucciso in un duello, l’altro nello stesso identico momento sente un forte dolore nel punto del torace dove l’altro è stato ferito mortalmente, prima che il fratello, seguendo la tradizione di famiglia, gli compaia a chiedere giustizia. Orbene, mentre leggevo questo romanzo di Dumas, mi è balzato singolarmente davanti agli occhi il tratto d’unione con un grande romanzo di Ellery Queen: “Il Caso dei Fratelli Siamesi”, che tratta di fratelli, siamesi e non, ma che tratta soprattutto “il tema del doppio”, per la prima volta, nei romanzi di Ellery Queen.

Prima del romanzo in questione, che è il settimo firmato da Ellery Queen, i due cugini Dannay e Lee avevano pubblicato The Roman Hat Mystery, The French Powder Mystery, The Dutch Shoe Mystery, The Greek Coffin Mystery, The Egyptian Cross Mystery, The American Gun Mystery, e anche 3 romanzi sotto lo pseudonimo di Barnaby Ross: The Tragedy of X, The Tragedy of Y, The Tragedy of Z. Va detto che oramai nel 1933 Frederick (Daniel Nathan) Dannay detto “Danny” e Manfred Bennington (Manford Lepofsky) Lee detto “Manny”, cugini e nati entrambi nel 1905, erano sulla cresta dell’onda: i loro romanzi andavano a ruba.

All’inizio il loro investigatore si comportava alla maniera di Philo Vance, e dal creatore di Philo Vance, S.S. Van Dine ( i cui titoli seguivano la formula base : The + Sostantivo + Murder Case), i due cugini mutuarono la caratteristica formula base del titolo: The + Aggettivo di Nazionalità + Sostantivo + Mystery, cosa che andò avanti fino al 1935, quando cioè, con Halfway House (1936), quest’abitudine terminò. All’inizio, tuttavia, pur consci del valore del loro primo manoscritto, The Roman Hat Mystery, essi penarono per riuscire a piazzarlo presso qualche editore: solo Frederick A. Stokes gliel’accettò, dimostrando il fiuto che altri non avevano saputo valutare, tanto più che i due avevano vinto il concorso bandito nel 1928 dalla rivista McClure’s e dalla casa editrice Lippincott  per la migliore opera prima poliziesca, ma poi la rivista era fallita e passata di mano ad altro editore, che invece di pubblicare il loro romanzo aveva scelto altro.

 Il loro più grande personaggio è stato Ellery Queen che poi ha dato il nome alla loro ditta comune: il suo nome si fa risalire all’amico d’infanzia di Danny, Ellery Hermann, più che al poeta William Ellery Leonard (in gioventù Danny aveva coltivato velleità poetiche) o all’editore Ellery Sedgwick.

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Va detto anche che i due cugini avevano il fiuto degli affari e molto intelligentemente, i romanzi che hanno come protagonista non Ellery Queen ma l’attore shakespeariano Drury Lane, erano stati dati alle stampe con altro pseudonimo, Barnaby Ross. Francis M.Nevins Jr., storico autore del celebre studio critico su Ellery Queen, “Royal Bloodline: Ellery Queen Author and Detective”, afferma che il nome Barnaby Ross potrebbe essere stata la reminiscenza di un palazzo in Elmira conosciuto come Barnaby’s Barn, in cui Dannay spesso giocava quando era bambino e che figura nel suo romanzo autobiografico The Golden Summer, anche se in effetti Barnaby Ross viene menzionato per la prima volta in The Roman Hat Mystery,”La Poltrona N.30″, nell’introduzione (che in Italia è disponibile solo nell’edizione tradotta da Montanari): lì viene collegato Richard Queen (e suo figlio Ellery) a Barnaby Ross: “..Richard Queen..ai tempi dei suoi brillanti risultati conseguiti nell’ormai vetusto caso di assassinio di Barnaby Ross..” . Interessante è che l’estensore delle introduzioni, che compaiono nei primi romanzi, sono firmate da un fantomatico J.J. McC. Nella prima, quella appunto di The Roman Hat Mystery, vengono affermate delle cose di cui non si troverà più traccia nei successivi romanzi: Ellery è sposato ed è padre di un bel bambino, vive in Italia, ed Ellery Queen e Richard Queen sono solo pseudonimi. Ma la cosa più interessante, una vera chicca riguarda il famoso J.J.McC. C’è chi ha osservato, infatti, che un  McClure è presente in uno degli ultimi romanzi di Ellery Queen, Face to face; nessuno si è accorto però che questo nominativo rimanda a chi bandì il concorso per il quale i due Queen concorsero con il loro primo romanzo: la rivista McClure.

I due cugini avevano adottato una tecnica (che potremmo dire) di marketing: creare una finta querelle sul valore dei romanzi (indiscusso) rimpallandosi accuse e contraccuse e sfidandosi pubblicamente e vicendevolmente su presunte qualità nel risolvere deduttivamente dei delitti. Il tutto era partito con la convocazione presso una scuola di giornalismo dei due, al fine di illustrare le tecniche di scrittura: era stato tirato a sorte chi dovesse recarvisi ed era uscito Lee che vi si era recato mascherato. Sfruttando la maschera nera, in un secondo tempo, i due presero ad affrontarsi anche sul palcoscenico: Dannay impersonava Barnaby Ross, mentre il cugino Ellery Queen. La popolarità dei due arrivò alle stelle e cominciò a circolare persino la voce che Ellery Queen fosse un altro pseudonimo di S.S. van Dine, mentre Barnaby Ross lo era del grande critico americano Alexander Woolcott (che si vantava di essere stato fonte di ispirazione per il Nero Wolfe di Rex Stout). Poi un bel giorno, il 10 ottobre 1936, sul Publishers Weekly, i due ammisero che era stato un loro bluff, riuscitissimo, per imporre dei romanzi che forse avendo un protagonista diverso avrebbero potuto risentire della disaffezione del pubblico dei lettori, oltre che la stessa produzione vertiginosa di romanzi avrebbe potuto inflazionare le vendite degli stessi.

Nel 1933, intanto, era comparso The Twin Siamese Mystery, che s’impose nella loro produzione per svariati motivi, come uno dei migliori romanzi in assoluto del loro primo periodo creativo, contraddistinto dall’oramai celebrata “Sfida al lettore”.

Nevins dice in merito al romanzo in esame: “..Nel successivo The Siamese Twin Mystery (II caso dei fratelli siamesi, 1933) Queen tenta nuovamente di infondere una dimensione filosofica nell’enigma deduttivo for­male, riscuotendo un notevole successo ad entrambi i livelli. Ellery e suo padre, di ritorno da una vacanza in Canada, restano intrappolati dall’incendio di una foresta su un fianco della Arrow Mountain. La loro unica speranza consiste nel salire verso la cima della montagna, e un bel po’ dopo il tramonto scoprono una casa sulla vetta. Ora che l’incendio divora l’intera base del monte, i due Queen trovano assai gradita l’ospitalità loro offerta dal dottor John Xavier, eminente chirurgo ormai in pensione, e dalla sua strana famiglia, ma ben presto appare chiaro che qualcosa non va per il verso giusto. Chi è l’odioso ciccione che vaga per la montagna? Perché diversi anelli sono stati rubati all’interno della casa durante la settimana preceden­te? Chi è la donna sconosciuta che si nasconde in una delle camere da letto del piano superiore? E chi o che cosa è quella creatura simile a un granchio che si aggira per i corridoi della casa di notte? Il mattino dopo il dottor Xavier viene trovato ucciso da un colpo d’arma da fuoco nel suo studio, con un solitario dinanzi a sé e la metà strappata di un sei di picche in mano. I due Queen devono risolvere il delitto da soli, poiché ormai l’incendio ha isolato la vetta, e nonostante l’incalzare delle fiamme ha presto luogo un secondo omicidio, questa volta con una vittima che stringe in pugno la metà di un fante di quadri. Il culmine viene raggiunto allorché il fuoco raggiunge la casa e tutti i membri della famiglia Xavier si rifugiano in cantina nell’attesa che le fiamme giungano fino a loro” . Come si vede, ce n’è abbastanza di carne da mettere sul fuoco, anche se onestamente, va riconosciuto che il romanzo, nonostante sia uno dei migliori del primo periodo creativo, è tuttavia meno intricato e cervellotico di The Greek Coffin Mystery , “Il Caso Khalkis”, che invece viene riconosciuto da molti e anche dallo stesso Nevins, come il “..romanzo investigativo più complicato, più spaccacervello e meglio costruito che sia stato pubblicato negli Stati Uniti durante l’Età dell’Oro del genere poliziesco”.

Innanzitutto vediamo come Arrow Head, la casa sulla vetta di una montagna attorniata dal fuoco che divampa, prefiguri un caso di Camera Chiusa allargata: è come un’isola, attorniata dal mare, da cui l’assassino non può fuggire, come “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie o ancora in modo più attinente, come l’assassinio in una casa al di fuori della quale c’è un ciclone e quindi da cui non si può uscire, in “La casa nel ciclone” di Newton Gayle. Le fiamme che attorniano Arrow Mountain, più o meno tra il Wyoming e l’Utah, costringono tutti gli occupanti della casa, tra cui anche l’omicida e il detective, a convivere fino a quando non sarà finita. In un certo modo Ellery, rinchiuso in cantina con gli altri, spiega la soluzione, quale antidoto alla paura di finire arsi: è un modo come un altro per non pensare ad un male più grande, riflettendo su un male più piccolo in quel momento: quello scaturito in quella casa e di cui lui, in quel momento, è supremo arbitro.

Il romanzo si pone come uno degli esempi migliori di quella caratteristica tutta queeniana, che è the dying message, “il messaggio del morente”, comparso per la prima volta in occasione del terzo omicidio di The Tragedy of X: la vittima prima di esalare l’ultimo respiro, cerca di indirizzare con un messaggio specifico, chi saprà interpretarlo in maniera appropriata: qui per es. è una carta, prima il sei di picche, poi il fante di quadri, tagliato a metà: vedremo quale altro significato potrà avere nel prosieguo del ragionamento, ma qui limitiamoci semplicemente a segnalarlo. Faccio notare una cosa che mi è balzata alla mente: leggendo questo romanzo, al tempo in cui fu scritto, chiunque, senza averne la prova certa, avrebbe però potuto ipotizzare (oltre quello che si era letto nell’introduzione a The Roman Hat Mystery) un legame tra Barnaby Ross ed Ellery Queen: infatti, se ben si vede, la prima volta che Ellery Queen introdusse “il messaggio del morente”, fu in Tragedy of X. E in The Twin Siamese Mystery, muore un X anzi, ne muoiono due: quindi, a ben donde, anche questa è una Tragedia di X !

Tuttavia questo mirabolante romanzo si segnala per una serie di estrose deduzioni e variazioni sul tema della falsa confessione; e per due caratteristiche: la prima, connaturata alla vicenda narrata, è la mancanza del corollario degli agenti e del sergente Velie che di solito compaiono nei primi romanzi; la seconda, molto più importante, è la mancanza di The Challenge to Reader, “La sfida al Lettore”. Infatti questo è il primo romanzo in cui manca, anzi per essere più preciso, in cui sembrerebbe mancare: infatti, nella cantina, mentre al di fuori il fuoco divampa nella casa e minaccia le loro stesse vite, Ellery si rivolge ai presenti e chiede: “..Prima che vi racconti la mia storiella, non c’è nessun altro, come Smith, che ha una confessione da fare? Ci fu silenzio. Ellery studiò lentamente i loro volti, uno per uno.. – Ostinati sino alla fine, vedo. Allora dedicherò i miei ultimi..i miei prossimi momenti a questa faccenda..” (E. Queen,  The Twin Siamese Mystery, Il Caso dei Fratelli Siamesi, Speciale Del Giallo Mondadori n.38 del  2003, trad. Gianni Montanari, pag. 229). Stefano Benvenuti e Gianni Rizzoni, autori di una celebrata opera Mondadori di molti anni fa, “Il Romanzo Giallo”, affermavano che in realtà, anche se non vi è alcuna segnalazione di una “Sfida al Lettore”, essa fosse camuffata : siccome l’invito al colpevole non avrebbe avuto senso perché quello non si sarebbe certamente fatto avanti, essi concludevano che l’invito non poteva che essere rivolto al lettore stesso.

Tuttavia io personalmente son rimasto sempre un tantino disorientato da questa sofistica spiegazione: perché mai, proprio in un romanzo come questo, la sfida sarebbe dovuta mancare e non anche in altri? Io invece non vorrei che “La Sfida al Lettore” in realtà ci fosse, magari nella prima edizione, quella rarissima di Stokes, e poi con la continua pubblicazione in formati economici e non integrali, questa forma di sfida fosse andata persa. Del resto degli scritti di Ellery Queen, alcune cose sono rarissime e non solo le prime edizioni di Stokes ma anche per esempio gli esemplari della prima rivista di racconti pubblicata dai due cugini. Comunemente si sa che essi fondarono la EQMM; ma non si sa per esempio che, prima della pubblicazione di essa a partire dal 1941, essi avessero tentato di pubblicare un’altra rivista (che avrebbe dovuto presentare romanzi e racconti selezionati), di cui uscirono solo quattro numeri (rarissimi e i cui prezzi nel caso si trovassero varrebbero cifre astronomiche) mentre un quinto in forza di pubblicazione, non fu pubblicato: Mistery League.

La critica ha dibattuto a vario modo sull’importanza di questo romanzo, non tanto per la sua struttura, ma per ciò che sottende alla sua realizzazione. Infatti è questo il primo romanzo in cui molti segnali disseminati nella trama, rimandano ad un malessere sempre più forte, un vero e proprio disagio, che si era instaurato tra i due cugini. Essi infatti, pur uniti dalla loro storia e dalle loro comuni origini ebraiche, pur avendo insieme creato dei best sellers, poco a poco si erano resi conto di essere entrati in un gioco che andava al di là della loro sfera personale (che avrebbe compreso poi testi per trasmissioni radiofoniche, sceneggiature per il cinema, e la creazione dell’ EQMM, L’Ellery Queen Mystery Magazine, dove sarebbero state raccolte le migliori storie brevi, racconti, del panorama poliziesco internazionale). I due non si sopportavano più, e finivano spesso per litigare, anche in maniera plateale, come quando, mentre erano in uno studio radiofonico, venne sospesa una trasmissione a causa delle grida che si sentivano provenire da altro ambiente dove stavano “discutendo” i due cugini: andò a finire, che per non stare neanche troppo vicini, uno andò a vivere in e l’altro in: Manfred Lee si occupava della stesura del romanzo e dello stile, mentre Frederick dell’invenzione della messinscena narrativa e del plot. In pratica il modus agendi della coppia si è potuto evincere allorché alcuni anni fa, Crippen & Landru ha pubblicato l’ultimo romanzo inedito della coppia: si tratta di Tragedy of Errors, un canovaccio lungo una settantina di pagine scritto da Dannay e poi, dopo la morte di Lee, rimasto in un cassetto fin quando, dopo la morte di Dannay, è stato riscoperto: “Danny” scriveva le trame e ideava il plot, mentre poi a stendere il romanzo nella forma definitiva, ci pensava “Manny”. Insomma..la mente e il braccio!

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 Remi Schulz, un grande studioso di enigmi,francese, e grande esperto di Cabbala, ha scritto degli interessanti articoli, esaminando alcuni aspetti dell’opera di Queen: le tesi che egli porta avanti non ci sentiamo del tutto di condividere, in quanto egli tendenzialmente cerca di portare acqua al suo mulino, ma alcune delle sue considerazioni sono veramente interessanti, tanto più che il significato nascosto nei testi, è la caratteristica della Kabbalah, dottrina che due ebrei come i due cugini dovevano conoscere se non condividere : “..est le septième roman des Queen, effectivement paru fin 33, l’un des plus réussis de cette première période fort prisée par Borges qui s’est déclaré peiné de la bifurcation des Queen hors du sentier de la pure déduction..”. Remi Schulz cita anche un celebre racconto di Juan Antonio Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano (Borges è presente con qualche racconto in EQMM)  facendo riferimento al fatto che ad un certo punto la via che i due cugini avevano percorso insieme, si fosse arrestata dando origine ad una biforcazione sul sentiero della pura deduzione: in pratica secondo lui Borges, scrivendo il racconto si sarebbe metaforicamente riferito ai due Queen. Questa a noi pare un’interpretazione presa per i capelli: Schulz in sostanza rileva la somiglianza di Herbert Quain, scrittore inventato e protagonista di un altro racconto, Esame dell’opera di Herbert  Quain, con Ellery Queen, che per lui è fortemente indicatrice, anche perché Borges era stato ospitato su EQMM e il racconto che di lui cita è poliziesco. Il fatto è che la comune interpretazione di Il giardino dei sentieri che si biforcano, è basata sulla presa in esame del Tempo non in senso assoluto ma relativo, “una rete crescente di tempi divergenti, convergenti e paralleli..che s’accostano, si biforcano, si tagliano o s’ignorano per secoli comprende tutte le possibilità” (J.L.Borges : Finzioni – Trad. Franco Lucentini, Einaudi, 1955 ristampa 2010,pagg.90-91).

Interpretazione metafisica, potremmo dire fantascientifica, ma non poliziesca. Va detto però che Il giardino dei sentieri che si biforcano è del 1941, tempo in cui i due probabilmente avevano già maturato la volontà di stare divisi (anche se apparve su EQMM solo nell’agosto del 1948: traduttore fu Anthony Boucher). E se Schulz pensa a Queen come ispiratore di Quain è perché, ma non lo dice, c’è qualcosa che lega indissolubilmente questo ipotetico romanzo di autore inventato, a Ellery Queen: il narratore dice che “..L’editore lo mise in vendita negli ultimi giorni del novembre 1933. Ai primi di dicembre dello stesso anno, le gradevoli e ardue involuzioni del Siamese Twin Mystery affaccendarono sia Londra che New York..” (J.L.Borges: Finzioni, Esame dell’opera di Herbert Quain, trad. Franco Lucentini, Einaudi, 1955 ristampa 2010, pag.64).

Prendiamo in esame un altro passo assai significativo del suo studio: “..Le mystère du jumeau siamois, du Siamese twin, est peut-être une première manifestation de ce malaise entre les cousins. Alors que tous les premiers Queen sont parus avec la reine de carreau (Queen of diamonds) en couverture, Dannay a convoqué ici une dame Carreau d’origine française mère de jumeaux xiphopages ; un chirurgien spécialisé envisage de les séparer, il est assassiné ; un des jumeaux est soupçonné à cause d’un valet de carreau coupé en deux (une double figure tête-bêche dans un jeu américain), ce qui pose le délicat problème du châtiment..”.

Per chi non conosce il francese, Schulz afferma che “il mistero del fratello siamese può essere una prima manifestazione di questo disagio dei due cugini. Allora che tutti i primi (romanzi) di Queen presentano in copertina una regina di quadri, Dannay ha convocato qui una signora Carreau di origine francese, madre di gemelli siamesi; un chirurgo specializzato in operazioni di separazione viene assassinato; uno dei gemelli è sospettato a causa di un fante di quadri tagliato in due pezzi (una doppia figura nel gioco di carte americano), che pone il  delicato problema della pena..La nonna comune dei due cugini Dannay e Lee si chiamava Rachele, il nome della regina di quadri nel gioco francese”.

In effetti quello che dice Schulz può avere una sostanza reale: le prime edizioni dei romanzi di Queen, prima de “Il Caso dei fratelli siamesi” presentano in effetti una regina di quadri in copertina, che rappresenterebbe come logo la ditta dei due cugini: perché proprio una regina di quadri e non di picche o di fiori o di cuori? Schulz dice che qui c’è una Carreau (vero) e Madame Carreau madre  dei due fratelli siamesi metaforicamente rappresenta una donna di quadri, madre di due fratelli siamesi (un nome, Ellery Queen, che nasconde l’unione di due persone, che sono per forza uniti pur avendo due menti e due corpi diversi, e che vorrebbero distaccarsi: i due cugini); c’è un chirurgo esperto in separazioni di fratelli siamesi che muore assassinato (in sostanza nel momento in cui i due cugini avrebbero potuto essere divisi, è intervenuto qualcosa a sancire la loro indivisibilità). Il fratello siamese che viene sospettato lo è a causa di un fante di quadri diviso in due (una carta che ha il fante speculare nelle due metà della carta): ancora una rappresentazione della riunione di due persone in una. Tacciamo sul resto: la mano sinistra aperta e quella destra chiusa, il ragionamento sul fatto che non fosse mancino, e quindi sulla volontarietà dell’atto, tanto più che la rigidità cadaverica sarebbe cominciata subito dopo la morte, a causa del fatto che fosse diabetico: ma questa particolarità è presente anche in un altro romanzo, The Egyptian Cross Mystery, scritto precedentemente a questo, insomma un particolare che i due avrebbero utilizzato adattandolo ad altro contesto.

Ma per quale motivo innanzitutto i due Queen avrebbero scelto una Donna di quadri invece che quella di altro seme? Il seme del quadri secondo noi è peculiare nei quattro e ha una caratteristica che gli altri non hanno: rovesciata, è sempre un quadri, non c’è cioè un verso: le picche rovesciate sono rovesciate, i cuori e i fiori altrettanto, ma il quadri rovesciato non lo è, non si può vedere se lo sia, è la rappresentazione dell’unità, della perfezione dei semi. Tuttavia la ragione più profonda della scelta, è data dalla storia familiare comune ai 2 cugini, singolarmente collegata ad una carta da gioco. Se riandiamo all’origine dei giochi di carte, troviamo che la capitale vera e propria, il luogo dove per la prima volta le carte francesi furono usate e da dove si diffusero altrove, nei Paesi limitrofi, fu, dal XVI secolo, la città di Rouen: lì in particolare, alle carte con soggetti (ai fanti, alle regine, ai re) vennero dati dei nomi. In origine la tabella dei nomi era la seguente:         

Re di Picche = David, Re di Cuori=Alexander (Alessandro Magno), Re di Quadri= Caesar (Giulio Cesare), Re di Fiori=Charles (Carlo Magno); Fante di Picche=Hector (Ettore, principe di Troia),Fante di Cuori=La Hire (Etienne de Vignoles, comandante dell’esercito francese nel tempo di Giovanna d’Arco), Fante di Quadri=Ogier (uno dei cavalieri di Re Artù), Fante di Fiori=Judas Maccabaeus (Giuda Maccabeo); Regina di Picche= Pallas (Pallade Atena), Regina di Cuori= Rachel (Rachele, moglie di Isacco),Regina di Quadri=Argine (anagramma di Regina), Regina di Fiori=Judith (Giuditta).

Secondo una interpretazione molto interessante, alcuni di questi nomi sarebbero delle storpiature francesi: così Argine (che non si è ancora riusciti a capire a chi si riferisse) deriverebbe da Argeia, mitica principessa della città Argo; Rachel non si riferirebbe a Rachele ma a Ragnel moglie di Sir Gawain, un altro dei cavalieri della Tavola Rotonda; e infine La Hire potrebbe derivare da Aulus Hirtius, uno dei comandanti di Giulio Cesare. In questo modo le 12 carte a soggetto apparterrebbero a 4 grandi famiglie: personaggi biblici, personaggi di derivazione greca, personaggi di derivazione romana, personaggi cristiani. Tuttavia, quando le carte da gioco si furono adeguatamente diffuse in Francia, alla terminologia di Rouen si affiancò quella di Parigi, che aveva delle differenze, una delle quali a noi interessa particolarmente:  il Re di Cuori diventa Charles e quello di Fiori, Alessandro Magno, mentre gli altri sono invariati; il Fante di Picche è Ogier, quello di Cuori.. La Hire, di Quadri..Ettore, e di Fiori..Judas Maccabaeus; infine la Regina di Picche è Pallade, la Regina di Cuori è Judith, la Regina di Quadri è Rachel, la Regina di Fiori è Argine. Puntiamo l’attenzione su Rachel=Regina di Quadri: le madri dei due cugini, le sorelle Rebecca e erano figlie degli emigranti ebrei russi, Leopold e Rachel Wallerstein : Rachel..ecco il nesso!  Del resto anche Remi Schulz vi accenna : “La grand-mère commune aux cousins Dannay et Lee se prénommait Rachel, le nom de la reine de carreau dans les jeux français”. Tuttavia Remi Schulz per il romanzo in questione in pratica si ferma qui; noi invece.. andiamo  avanti.

 Notiamo innanzitutto che a questo punto, se Rachele, Regina di quadri nelle carte francesi, era anche il nome della nonna materna dei 2 cugini, e se nel romanzo abbiamo una Madame Carreau ( che secondo Luca Conti potrebbe esser stata una reminiscenza di Madame Laveau, la regina del Voodoo in New Orleans) e Carreau in francese designa il seme di quadri  madre dei due gemelli siamesi  Francis e Julian, significa che possiamo idealmente e giustamente associare Francis e Julian a Dannay e Lee, e la stessa carta, il Fante di Quadri (doppia nella specularità dei due fanti) può, in virtù dell’associazione Carreau=Quadri=Queen, rappresentare non solo uno dei due fratelli siamesi, ma anche uno dei due cugini Queen, come pure, più ancora singolarmente, la carta strappata in due può significare una unione..strappata: la divisione di una unità in due.

Ma quello che ho osservato in particolare è una cosa su cui nessuno ha posto la propria attenzione: per quale motivo il chirurgo si chiama Xavier? Innanzitutto Xavier non è un nome comune in USA, almeno non è comune come John, Bill, Jack: dove i Queen avrebbero tratto l’ispirazione e perché avrebbero proprio scelto questo nome a rappresentare il chirurgo che ha il compito nel romanzo di separare i due fratelli siamesi?

Osservo innanzitutto che il romanzo è del 1933: da alcuni anni aveva cominciato a suonare in New York un grande musicista di origine spagnola, che aveva messo su una propria band, specializzandosi nella musica d’accompagnamento e soprattutto in tanghi, per cortometraggi e lungometraggi, e a partire dal 1931 era diventata la principale attrazione della stagione del Waldorf Astoria Hotel, uno dei più grandi e conosciuti di New York : Xavier Cugat. E’ possibile che il grande arrangiatore e musicista spagnolo-cubano, abbia fornito l’ispirazione per quel personaggio del romanzo? Secondo me, potrebbe essere possibile, ma comunque poi bisognerebbe vedere il perché proprio questo nome e non un altro li avesse colpiti: secondo me, all’origine della scelta del nome, ci fu la lettera iniziale: la X. Perché?

Abbiamo già fatto notare come questo romanzo si apparenta idealmente a The Tragedy of X , e quindi X potrebbe esser stata scelta per legare i due romanzi. Tuttavia, la X, nel nostro caso, potrebbe rappresentare il “bifrontismo” dei 2 cugini, il loro “doppio”: infatti la  X, la lettera CHI greca, rappresenta il Chiasmo, che ha una forma a croce: gli elementi si dispongono ” in corrispondenza inversa” l’uno nel confronto dell’altro, per cui ciò che è in basso a sinistra si specchia in ciò che è in alto a destra, e così via. Del resto la corrispondenza a chiasmo come coppia di opposti, si apparenta a quella delle due immagini speculari secondo un asse simmetrico, rivolte una verso l’altra o entrambe che guardano le due direzioni opposte, un bifrontismo che ci richiama il Dio Giano (tanto più che se notiamo la rappresentazione del dio bifronte e lo stilizziamo potremmo ricavarne una X. Poi chissà come pensandoci, ho notato come eufonicamente Jianus sia molto simile a John, il John di Xavier: in Ellery Queen tutto ciò che sembrebbe dettato dalle coincidenze non lo è e leggere tra i righi non è un esercizio campato in aria, ma connesso con le credenze ebraiche dei due cugini. Tra i due quello che era più versato a questi enigmi era ovviamente Dannay, tanto più che era lui a creare le basi delle sceneggiature e del plot : era lui a sentire di più questa necessità di staccarsi dal cugino?

 E Mark, l’altro fratello di John? Anche lui è un nome scelto apposta? Remi Schulz, sempre nel suo saggio, nota la singolarità del fatto che Twain sia molto vicino come forma della parola a Twins (Siamesi). Coincidenza ?

“..Dannay a écrit seul un roman, publié en 53 sous son vrai nom de naissance Daniel Nathan, The golden summer, basé sur des souvenirs d’enfance… Si The golden summer est bien plus qu’un doublon de Tom Sawyer, son titre semble calqué sur celui du premier roman de Twain, The gilded age (L’Age doré)”. Ci sembra di no, e ci sembra anche che l’osservazione di Schulz sia ancorché interessante: Dannay scrisse nel’53 un romanzo che parlava della sua infanzia, The Golden Summer, un romanzo molto simile se vogliamo all’oggetto del Tom Sawyer di Mark Twain, ma ancor più vicino nel titolo al primo di Mark Twain : The Gilded Age, “L’Età d’Oro”.

Osserviamo che tuttavia ambedue i soggetti, il fratello di John Xavier, Mark Xavier e Mark Twain hanno lo stesso nome: un altro tentativo di Dannay di collegarsi alle loro persone, un’ulteriore metafora?

Se proprio vogliamo, il tema del doppio è molto insistente nella produzione dei due cugini da questo momento: ho notato un’altra cosa di cui nessuno si è accorto,che cioè, per esempio, per fare un ulteriore collegamento alla questione dibattuta in questo articolo, il nome Mark, non compare solo in questo romanzo, ma anche altrove: c’è per esempio un radiodramma che si chiama “The Adventure of the Mark of Cain” . Il Marchio di Caino, cioè il marchio dell’assassino di Abele,  richiama singolarmente nel suo titolo anche due nomi fortemente caratterizzanti nella produzione queeniana: il Mark di cui abbiamo parlato, che è parte di un doppio (John-Mark) e Cain, che è parte di un altro doppio (Abel Bendigo-Cain Bendigo) in The King is Dead, “Il Re è Morto”, in cui compaiono altri due fratelli. Tra l’altro, a evidenziare l’importanza di queste accezioni nel continuum dell’opera queeniana, va ricordato che anche un capitolo di “Once was a woman”, si chiama “The Mark of Cain”.

Mark, Xavier, due fratelli. Ma..Xavier chi ci ricorda anche? A noi ricorda anche il telepate capo degli X-Men, il Professor Charles Xavier. Possibile che Stan Lee abbia guardato a Ellery Queen? E’ curioso, ma anche se non sarebbe proprio strettamente attinente ai richiami dei due Queen con il tema del doppio, notiamo come non solo Xavier ricorra nella saga degli X-Men (ancora una volta la X). Infatti, anche qui c’è un doppio: Xavier e il suo fratellastro, il malvagio prima e poi redento “Phenomenon”, che guarda caso si chiama Cain Mark . Strano, vero? E se proprio volessimo analizzare la figura, potremmo anche dire che i due Xavier sono molto simili: come John Xavier si occupa della separazione di fratelli siamesi, cioè di fratelli uniti mostruosamente a causa di una disfunzione genica, anche Charles Xavier si occupa di esseri umani nati mutanti in ragione di un gene particolare : il gene X. E se volessimo ancor più cercare il pelo nell’uovo, potremmo dire che i 2 fratelli siamesi non sono altro che dei mutanti. Quindi..

Nel mare delle cose interessanti di questo romanzo, mi è balzata in mente un’altra cosa che desidero far notare: nella mano destra di John Xavier viene ritrovato un frammento di “Sei di picche”. Il perché stringesse un frammento invece che una carta intera è già una cosa che mi ha fatto pensare e poi non viene spiegato: una supposizione che mi verrebbe spontanea è che John Xavier avesse strappato la carta e avesse stretto il frammento nel pugno per non far notare all’interno della mano qualcosa di anomalo che sarebbe potuta essere una carta; però, essa, anche se accartocciata, comunque non sarebbe stata visibile, e lui, medico, ancorché diabetico, avrebbe dovuto supporre una sua immediata rigidità cadaverica.

Ce n’è tuttavia un’altra curiosa: nel romanzo c’è il disegno di un sei di picche diviso in due frammenti: il primo, quello stretto nel pugno non è spiegazzato e rappresenta due semi interi e le punte di altri due; l’altro, quello spiegazzato, due semi interi e le radici visibili di altri due divisi per la metà. Ora, in cartomanzia, il sei di picche rappresenta un avviso per un errore che si potrebbe fare ma che non durerebbe molto (l’errore di aver prima individuato il colpevole, poi di averlo erroneamente scagionato ed infine di averlo inchiodato nuovamente?). Ma se prendiamo in esame i due frammenti ci troviamo di fronte ad un frammento che vale due picche e ad uno che ne vale quattro; ora il due di picche rappresenta una divisione (amore o amicizia), il quattro, una decisione difficile che si sta per prendere: la decisione difficile dei due Queen di separarsi? Tuttavia, nel primo capitolo della Parte Seconda, “Il sei di picche”, osserva Richard Queen che John Xavier ha utilizzato una carta con cui stava facendo un solitario ( allorché l’assassino gli ha sparato due proiettili nello stomaco: ancora la simbologia del due, quasi che nel momento in cui qualcuno volesse intervenire per separare l’unione di due, essi stessi volessero non essere separati) : “..Il sei in questione era tra il sette ed il cinque di quadri – mormorò l’ispettore”. In cartomanzia, il cinque di quadri rappresenta un’atmosfera di amicizia o di lavoro amichevole, mentre il sette di quadri il dover prendere una decisione su qualcosa che non si è preso precedentemente in considerazione. Mi sembra chiaro il riferimento al dover prendere una decisione difficile su una divisione che non si è voluta mai prendere in esame e che porterà ad una atmosfera di amicizia o di lavoro amichevole: una volta separati, i due cugini lavorarono alla stesura di molti altri romanzi, dividendosi i compiti ed evitando purtuttavia di stare assieme. Interpretazione arbitraria?

Ma, è bene ricordarlo, il pezzo di carta che John Xavier tiene stretto in pugno è quello con solo due semi di picche: quindi..divisione; mentre è stato accartocciato e buttato via, il secondo pezzo della carta, quello che significava “decisione difficile che si sta per prendere”: in altre parole, che l’ultima parola per la divisione (dei due cugini?) era già stata presa. E la decisione è tenuta dalla mano destra mentre la mano sinistra non ha nulla in mano: cioè, ancora ipotizzando, si potrebbe dire che la mano destra voleva la divisione, la mano sinistra no. Mano destra, mano sinistra, che appartengono alla stessa persona: altra rappresentazione per due diverse entità (Dannay e Lee) che fanno parte di un tutt’uno (La ditta comune Ellery Queen)? Questo ci porterebbe ad un’ultima domanda che per il momento, in mancanza di riscontri di natura biografica, rimane senza risposta: quale dei due cugini voleva la separazione e chi no? Si sa che Dannay era piuttosto introverso e aveva dei guai in famiglia mentre il cugino era di altra natura. Ma si potrebbe ipotizzare tutto ed il contrario di tutto, in mancanza di dati biografici oggettivi, su chi volesse, all’interno della coppia, più dell’altro distaccarsi: Dannay che era l’ideatore della trama e della messinscena del plot vi accenna, ma poi..nulla più.

Infine c’è un’altra cosa, non detta, che mi si è rivelata in tutta la sua importanza alla fine del libro: il Sei di Picche a saperlo interpretare bene poteva anche essere un modo per identificare l’assassino: stranamente Ellery Queen si ferma al valore della carta, il Sei e all’acrostico che lo indica : infatti  “Il dottor Xavier..prima di morire ha accusato SIX di averlo assassinato” (Cap. V; taccio sul significato delle parole dell’acrostico per non rivelare il nome dell’assassino). Si ferma a ciò e non va oltre. Strano. Molto strano. E io suppongo che originalmente Dannay avesse pensato di far rivelare a Ellery dell’altro, ma poi non l’avesse fatto. Cosa? Semplice. Perché Sei di picche e non quadri o fiori o cuori? La forma? Il significato di Picche = Morte? Secondo me c’è dell’altro. E’connesso alla terminologia francese, già utilizzata nel caso di Carreau = Quadri : in francese, PICCHE si dice PIQUE. Ora, qual è la strana affezione di cui è affetto l’omicida, e che si vedrà è alla base dell’intero romanzo? La cleptomania. In altre parole, c’è qualcuno che durante il romanzo ruba degli oggetti: anelli, ma anche di valore insignificante. E quale animale è designato comunemente come ladro? La Gazza, che comunemente viene appellata Ladra: Gazza Ladra. E qual è il nome scientifico della Gazza? PICA PICA. PIQUE-PICA : interessante, vero? Una cosa che sicuramente oltre a me anche Dannay deve aver pensato all’epoca, perché il riferimento mi sembra non casuale ma troppo diretto. E perché allora Ellery Queen non lo rammenta alla fine? Forse per non ricalcare il fatto di esser stato distolto da altre cose durante l’avventura? Ellery molto spesso finisce per fare il sapientone nei suoi primi romanzi, cioè tende a polemizzare e disquisire anche troppo, a prendere dei  granchi e poi alla fine essere costretto a fare dietro-front: non accade solo qui ma anche altrove. O forse è il segno di una precedente stesura utilizzata non del tutto? Non lo so.

Anthony Boucher, grande scrittore e critico di letteratura poliziesca, durante un’intervista, nel 1951, ebbe a dire : “The detective story itself was an American invention; and after a long period of British pre-eminence, Ellery Queen as writer and editor has done as much as anyone (and probably more) to make it once more an American possession. . . Ellery Queen is the American detective story”.

Possiamo non essere d’accordo?

                                                                                                                   Pietro De Palma

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Un manierista del Ventennio : Ezio d’Errico

dicembre 10th, 2009

Questo mese vogliamo proporVi un articolo di Pietro De Palma, su uno dei grandi autori del Giallo Italiano troppo a lungo dimenticati: Ezio D’Errico.

 Buona lettura

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Ezio d’Errico fu figura avventurosa: giornalista,  autore radiofonico, pittore astrattista assai conosciuto e geniale romanziere, anche di polizieschi; un personaggio sempre alla ricerca di qualcosa, di nuovi stimoli, estremamente curioso: Carlo Carrà, in una critica su una mostra di quadri astrattisti di Ezio d’Errico, pubblicata sull’ “Ambrosiano” nel 1936, lo definì “pittore irrequieto”. Una caratteristica che notiamo in altri spiriti ribelli dell’epoca: Pound, Antheil. Ma loro si indirizzarono in un filone di pensiero che guardava con simpatia al nazismo e ad un certo elitarismo spirituale; D’Errico, era invece semplicemente, secondo me, quello che comunemente si dice di un artista, che crede in se stesso e nella sua arte e che non riconosce altri padroni a se stesso che non essa stessa: se non un “un anarchico”, almeno “un anarcoide”.

D’Errico aveva già insegnato grafica in una scuola per tipografi, e pubblicato “un Primo e un Secondo Manifesto dell’Arte tipografica”, qualificandosi come elemento di spicco dell’astrattismo italiano, rivestendo anche una posizione di critica delle correnti pittoriche europee; ma non sopportava l’irregimentazione, non sopportava un potere superiore al suo cui piegarsi e per questo non aveva proseguito nella carriera di ufficiale dei carabinieri, pur essendo arrivato al ruolo di Maggiore.

Nel 1936 cominciò la sua carriera di scrittore di romanzi polizieschi, dando alle stampe il suo primo romanzo, molto interessante proprio per capire le sue caratteristiche peculiari, Qualcuno ha bussato alla porta, cui seguirono molti altri romanzi, in tutto una ventina.

Dopo la Guerra, dopo aver pubblicato nel 1947 il ventesimo romanzo col commissario Richard, “La nota della lavandaia”, ripudiò tutti i romanzi gialli da lui prodotti precedentemente e si oppose alla loro ripubblicazione, e per un certo tempo diresse la rivista “Crimen”, per poi interessarsi al teatro: scrisse dei lavori che lo imposero nel cosiddetto “Teatro dell’Assurdo” di cui divenne un elemento di spicco. Durante l’occupazione di Roma, pare avesse svolto un’attività clandestina di stampa antifascista, e del resto Louis Kibler in Ezio d’Errico’s Theater of the Absurd: Three Plays, lo definisce “a rabid anti-fascist” (Introduction, pag.14).

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Nell’ambito del poliziesco, nato in Italia sotto l’egida della Mondadori, egli si mosse intelligentemente: diversamente da De Angelis, anche per non trovarsi in certo modo limitato dall’ottusità delle censura di regime che indicava persino gli scenari in cui doveva muoversi un autore che volesse ambientare in Italia le sue storie poliziesche, egli scelse come fondo per i propri drammi la Parigi simenoniana. E proprio a Simenon egli si rifece, scegliendo di iniziare le avventure del suo personaggio fisso, il Commissario Richard, nel momento in cui  il Commissario Maigret di Simenon scomparve dalla scena letteraria: infatti Simenon, come accade a tutti coloro che diventano famosi per qualcosa e poi vi restano appiccicati contro la loro volontà, si scocciò e nel 1933 mandò in pensione il suo Commissario Maigret, dopo aver risolto il suo ultimo ufficiale caso, L’écluse n°1, anzi, più propriamente, lo mandò a occuparsi del giardino di una villetta sulla riva della Loira – quasi che fosse un altro Nero Wolfe – abitandovi assieme alla moglie.

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2 romanzi a confronto di Anthony Berkeley: The Wychford Poisoning Case vs Not to Be Taken

marzo 24th, 2014

Unknown

Non mi dilungherò a introdurre Anthony Berkeley perché è uno scrittore di cui ho già parlato in passato. Oggi parleremo in particolare di due romanzi, che a parere mio potrebbero essere speculari: The Wychford Poisoning Case (1926) e Not to Be Taken (1937).

Perché innanzitutto questi due? Perché se è vero che, nella produzione di Berkeley, parecchi sono i romanzi in cui si discute di avvelenamento, è anche vero che questi due romanzi trattano entrambi un classico avvelenamento da arsenico.

E’ da dire che nella produzione in genere britannica, vi sono vari scrittori che hanno affrontato il tema del veleno a partire dagli anni ’20. Se nel caso di Agatha Christie, la sua conoscenza di medicinali e veleni si formò durante il servizio, nel corso della Prima Guerra Mondiale, presso l’ospedale di Torquay, il fatto che molti altri scrittori in quegli anni abbiano scritto romanzi polizieschi le cui trame fossero basate su avvelenamenti ( Berkeley, Brand, Sayers, Rhode, Freeman, etc..) significa che era un argomento condiviso generalmente : esso potrebbe essere stato in relazione al bombardamento mediatico che nelle prime due decadi del secolo e anche prima ci fu a riguardo di famosi avvelenatori (Armstrong, Crippen, Maybrick, Seddon) che influirono pesantemente su scrittori che  necessariamente avrebbero dovuto andare incontro alle aspettative del pubblico; e sicuramente un bacino di utenza pesantemente influenzato da notizie di crimini basati su avvelenamenti, avrebbe meglio accolto romanzi di intrattenimento che avessero dibattuto delle stesse cause: un po’ come è oggi in cui i romanzi polizieschi in generale, in una società in cui i valori sono il sesso e i soldi, basano i loro crimini su sesso e soldi, e sulle loro implicazioni di carattere perverso.

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