Appuntamento imperdibile!
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Un excursus leggeretto e un po’ pazzetto in qua e là. Come viene, viene…
Parto dalla nostra Agatha e dalla sua autobiografia dalla quale si evince che in fatto di mascalzoni andava per le spicce. Al malcapitato delinquente due opzioni: bere la cicuta od offrirsi volontario per le sperimentazioni al posto degli animali. Un po’ forte ma per certi disgraziati maledetti anche poco.
La quale Agatha, tanto per rimarcare il suo ingegno, fu l’autrice del finale più interessante e “strano” (diciamo pure inverosimile in accezione positiva) di quel libro buttato giù a ventiquattro mani che è “L’ammiraglio alla deriva”. Insomma di quel parto miracoloso dei membri del “Detection club” (spiegazione inutile che già sapete tutto) il cui capitolo risolutivo era toccato ad Anthony Berkeley. Finale, il suo, nella norma, mentre la Regina del giallo ci infila un travestimento uomo-donna che è tutto una goduria. In più c’è la Marple che fa una testa così al povero ispettore Rude.
Dimezzando le mani esce “Veleno”, mica male anche questo se ad iniziarlo è una certa Dorothy L. Sayers e ho detto tutto, come diceva Peppino in un famoso film con Totò. Emma Farland, vedova, (e fin qui niente di strano), ricca (le cose si complicano) pensa che ci sia tra i suoi infidi eredi qualcuno che la stia avvelenando. E infatti perde peso ogni secondo ma nessuno le crede. Il solito, terribile finale, tocca allo scrittore David Hume le cui ultime parole dopo l’impresa furono “Che Dio mi scampi e liberi dal ripetere in avvenire una simile esperienza”.
A proposito di Berkeley, citato in precedenza, è uscito “uora uora” per la benemerita Polillo “Uno sparo in biblioteca” del 1925, in cui fece la sua prima apparizione l’investigatore dilettante Roger Sheringham che abbiamo già visto alle prese con il celebre “Caso dei cioccolatini avvelenati”. Oltre che per i suoi libri Berkeley è ricordato anche per la frase perentoria “Quando troverò qualcosa che mi renderà di più delle detective stories, mi dedicherò a quello”. E fu di parola, perché ad un certo punto smise di scrivere gialli. Rimane il mistero di che cosa abbia trovato ma di sicuro non una cosa brutta.
Alla morte di Rex Stout tutti piansero anche per quella di Nero Wolfe. Ma se il primo rimase inchiodato nella tomba, il secondo risuscitò per opera di Robert Goldsborough che riuscì a ricostruire con ottima fedeltà i personaggi immortali. Anche se Archie Goodwin beve liquore al posto del latte (orrore!). Sempre sul grande Nerone si sa che in uno dei racconti bellici (quelli meno riusciti) si addestra con il cuoco Fritz Denner, fa pure la dieta e mi viene da scompisciarmi dal ridere in ogni caso.
René Raymond, meglio conosciuto come James Hadley Chase, famoso per le famose orchidee che non voleva dare a Miss Blandish, rimane ancor più famoso per la “sua” America che è come la Malesia di Salgari (già sentita mille volte). Mai vista, o poco vista, reale più di quella reale. Oltre che sul noir, Chase si buttò anche sulla spy-story, il cui eroe è Mark Girland, donne ai suoi piedi, alcol in bocca senza misura. E siccome Chase non era un bischero, verso gli anni ottanta, visto il vento che tirava (leggi Kaminski, Bloch, ecc…) si sposta sul leggero, ironico e sofisticato, (vedi “Delitto ad opera d’arte”) a dimostrazione che un talento naturale svaria anguillesco da tutte le parti. Solo con i pederasti come Kendrik ironizza mica tanto.
A proposito di Kamisnki citato, o meglio di Stuart Kaminski, oltre ad avere creato un bel personaggio come l’investigatore Toby Peters (modelli Sam Spade e Philip Marlowe, però lui è più scalcagnato) ci ha lasciato, con i suoi gialli, praticamente un ritratto del cinema americano degli anni Quaranta. Ora ci fa entrare nel set de “Il falcone maltese”, ora in quello de “Il mago di Oz” ecc.. dove troviamo una serie di attori del tempo indimenticabili. Tra cui anche Ronald Reagan dimenticabile, dimenticabilissimo.
Ritorniamo sulla spy-story con sua Altezza Serenissima Malko Linge (un agente della CIA) del giornalista francese Gérard de Villiers. Questo gran figlio di buona donna dagli occhi d’oro ogni tanto accusa qualche malanno come un certo vecchietto con un piede e tre quarti nella tomba (vi ricorda qualcuno?): rene, occhi, prostata, colpo della strega e perfino le ignobili emorroidi lo rendono edotto che siamo uomini e non caporali. Va da tutte le parti, perfino in Yemen e in Perù (qui ha pure l’artrosi e una diarrea, ma si rifà con il Pisco sour e il sesso che non manca mai). Suoi nemici uomini ben piantati in carne ed ossa muniti di aggeggi sparatutto ma anche certe ragazze dalle mille sfumature (tanto per restare in tema di oggi). Miranda, Ines e Angelina. Miranda lo vuole fare nella in piscina, no, non sopra (troppo facile) ma sott’acqua; Ines, invece, che è una giornalista, sulla rotativa mentre si stampa il giornale (mi pare giusto); Angelina, la meno complicata delle tre, si accontenta di avere come guardone un puma nero (altrimenti si blocca).
E, sempre parlando di spy-story, occhio alla riproposizione delle mitiche avventure di Chanche Renard su “Segretissimo” e non vi dico il nome dell’autore. Diciamo che è un vero professionista che passa anche da queste parti.
Se Miss Marple beveva liquorini, Slim Callaghan, creatura di Peter Cheney, affoga nel whisky e soda o giù di lì. Soprattutto al “Gatto verde”. E se Patrick, il barman, sbaglia e gli rifila una Coca-Cola si becca una pallottola. Certi errori sono imperdonabili (“Mai un momento di quiete”).
Ricordo Alan A. Milne, non tanto per quello che scrisse, cioè “Il dramma di Corte Rossa”, quanto per quello che ne dissero gli altri. In primis Raymond Chandler che gli dette del dilettante, poi Rex Stout che lo trovava, invece, incantevole (il libro), ed infine Alexander Woolicott per il quale era uno dei tre migliori mystery di tutti i tempi. Come a dire de gustibus con quel che segue.
Ne uccide più la gola della spada ma anche certi reperti antichi e le monete non scherzano (mi è venuta così). Trenate di morti ammazzati, per esempio, intorno ad un dollaro del 1805 o ad un penny del 1954 della Zecca inglese mai entrato in circolazione. E poi ci mettiamo tutti quegli oggetti o opere d’arte che portano sfiga secolare come quadri, gioielli di vario tipo, vasi etruschi e greci, un’icona della Grande Caterina di Russia e le porcellane di Sèvres che sono così carine a vedersi. Senza i collezionisti il giallo sarebbe ben più misero e povero. Di cadaveri, si capisce.
Soprattutto i libri rari e antichi scatenano gli appetiti più impensabili (un famoso investigatore fissato con questi è Cliff Janeway di John Dunning). Stavo leggendo un articolo in proposito. Seimila furti nelle biblioteche italiche solo nei primi sei mesi dell’anno in corso (notate la “s” come scivola). Devastata la Biblioteca dei Girolamini di Napoli. Proprio da chi doveva difenderla dai furti (Quis custodiet custodes?). Certo con quello che valgono certi testi la tentazione ci sta. Il breviario di due santi è arrivato a un milione di euro (e poi dicono che le preghiere non contano). Ultimo giallo letto in proposito “Il metodo Cardosa” di Carlo Parri, Mondadori 2012. Qui a creare sangue versato un libro antico del Cinquecento in cui è incollato un manoscritto, forse dell’anno Mille (lo vogliono in tanti, pure gli americani) copiato in latino criptato dal fratello minore di Giovan Battista della Porta, che svelerebbe i segreti del teletrasporto (se ho capito bene). Sul successo del libro e sul roseo futuro dell’autore mi ci gioco le palle (e non dite per quello che contano a questa età, via!). Proprio nel momento in cui scrivo è uscito “I cospiratori” di Bill Pronzini, Mondadori 2012, e qui di mezzo ci sono otto libri autografati (tra gialli e hard boiled) che valgono mezzo milione di dollari spariti dalla biblioteca di un collezionista. Biblioteca praticamente inaccessibile e dunque il classico mistero della camera chiusa. Senza il morto, per ora…
Se non sono incunaboli od oggetti rari a creare esseri irrigiditi ecco che ci si mettono pure famose scacchiere e pubblicazioni scacchistiche. Come in “Il maestro di scacchi” di Massimo Salvatorelli, Piemme 2012 in cui la “interpretazione” di certi documenti permetterebbe di arrivare al “tesoro di Garibaldi”. In parte storia vera, in parte inventata, uno squarcio di Risorgimento, passioni scacchistiche, personaggi storici famosi come il Generale e famosi scacchisti come Serafino Dubois, indagini, domande, riflessioni, dubbi e incertezze, atmosfere inquietanti fino all’epilogo.
E a proposito di scacchi non si trova pubblicazione più o meno tinta di giallo in cui non spuntino fuori. Anche nel post-noir “Strane cose, domani” di Raul Montanari, Baldini Castoldi Dalai 2012, dove il protagonista principale gioca a scacchi in internet con un ragazzino. Però si aiuta con un software, birbantello. In Il caso Maloney di Graham Hurley, time Crime 2012, “L’indagine era diventata una partita a scacchi, uno contro uno. Finora Oomes aveva giocato in modo eccellente, aveva ancora tutti i pezzi, ma stava iniziando a mostrare la prima piccola breccia nella sua difesa e l’SOS annullato era una crepa che Faraday non poteva permettersi di ignorare. Come tutti i bravi scacchisti, poteva arrivare a Oomes di soppiatto, da dove lui meno si aspettava” (283). In L’isola dei cacciatori di uccelli di Peter May, Einaudi 2012, per quanto riguarda la casa di Minto “Il salottino era spartano e pulito, privo di foto o ninnoli, fatta eccezione per una scacchiera su un tavolo vicino alla finestra, con gli scacchi disposti in varie posizioni sui quadrati avorio e neri” (259). Sono scacchi di Lewis i cui originali (alcuni pezzi) “sono in mostra al Museo nazionale scozzese di Edimburgo” (260). Tanto per portare tre esempi recenti su millanta.
Se c’è da leggere, bene. Se c’è da leggere ed investigare ancora meglio. Così dovettero pensare i lettori americani (anni Trenta) de “Il caso Claudia Cragge” di Patrick Quentin, un giallo con allegati una serie completa di indizi per risolvere il caso: rapporti di polizia, fotografie, scatole di sigarette, carta con macchie di sangue, perfino una bustina di cipria ecc.. Per i più bravi una bella soddisfazione, per i più testoni una busta con la soluzione e la confessione dell’assassino (va bene, la busta c’era in ogni caso).
Ellery Queen mica era un fessacchiotto (nessuno l’ha mai detto ma mi piaceva questo inizio). Per attirare l’attenzione di una più ampia variegata schiera di lettori scrisse “Il re è morto” dove ci infilò la spy story, il giallo archeologico e il mistero della camera chiusa. Tiè!
Veniamo a noi. O meglio, veniamo ai nostri insuperabili G.M. Con il nuovo corso di Forte, coadiuvato dall’inimitabile (e di’o po’o) Boncompagni, si stanno riscoprendo eccellenti prodotti: di Carr, Biggers, Pronzini, Armstrong, Japrisot, Innes, Perry, Chesterton e via discorrendo. Il sottoscritto, che non ha paura di muovere la sua linguaccia se c’è da criticare, ora è in uno stato di sovrana beatitudine e dispensa lodi per ogni dove (perfino nelle sue “Letture al gabinetto” qui http://theblogaroundthecorner.it/category/ospiti/letture-al-gabinetto/ ).
Vorrei anche attirare l’attenzione sugli scrittori relegati in fondo ai libri. Qualche lettore del blog si è lamentato che non si parli mai di loro, cioè di quello che scrivono nell’apposita rubrica “I racconti del giallo”. Di seguito miei brevi commenti su alcune recenti letture, a dimostrazione che l’attenzione verso il nuovo c’è, esiste, ed il nuovo non è per niente male.
1) “Come una palla di fuoco” di Andrea Franco. Un morto bruciato al centro di un cerchio, un gioco fantasy con mostri, guerrieri, ladri e maghi, una palla di fuoco, una moglie che tradisce. La classica vendetta di un marito cornuto? Oppure…oppure…Un racconto costruito con intelligente eleganza.
2) “La pistola nello zaino” di Aldo Selleri. Storia di un colonnello cileno sterminatore di comunisti che sta per pagare il fio dei suoi misfatti. Storia di un amore finito. Semplice e bello.
3) “Il veleno dell’iguana” di Alan Vendì. Storia di un professore e di una sua allieva. Sogni infranti di adolescente ed ora il prof. è lì legato davanti a lei. Un po’ scontata la prima parte, buono il finale con una punta di commozione.
4) “Polvere” di Riccardo Carli Ballola, su un tema piuttosto sfruttato ma costruito e svolto con delicatezza: la pedofilia. Un uomo che ritorna al suo paese, i ragazzi della parrocchia che giocano. Un incontro a casa con il vecchio parroco che fa riemergere una ferita di dolore. Il tempo che gira a vuoto. La morte.
5) “Datteri, seta e polvere nera” di Marco Philip Massai. Un’impresa assai rischiosa quella di Lagâri, volare “sul maestoso Falco di Ferro, sospinto dal potere del fuoco” fino alle nuvole davanti al sultano Murad IV. Impresa riuscita ma non si riesce a capire perché Lagâri è ancora vivo se un tale dichiara di averlo ucciso. Piacevole e ingegnoso racconto.
6) “Sotto la pelle di Partenope” di Emilio Daniele. Napoli, sul finire dell’Ottocento. Un prete morto d’infarto su una puttana uccisa, una trascrizione dei segni sulle bugne della chiesa di Gesù che ha una bella importanza per un testamento segreto. Tra nobiltà decaduta, guappi e vicoli malfamati.
7) “Come foglie al vento” di Antonella Mecenero. Roma, autunno 77 a.C. Irzia, una delle amanti del famigerato Gneo Cornelio Dolabella, viene uccisa con quattro coltellate. Su richiesta del fratello si mette alla ricerca dell’assassino addirittura Giulio Cesare in persona che deve sostenere una accusa in tribunale contro lo stesso Dolabella. Ricerca del colpevole ma, soprattutto, una “indagine” sul mondo degli uomini e delle donne del tempo dove entrambi i sessi sfoderano le loro armi per farsi largo nella società e primeggiare. Racconto semplice e delicato che fa riflettere.
Per chi ama approfondire il mystery c’è Sherlock magazine di Luigi Pachì, per altri generi come il fantasy, la fantascienza, la spy story c’è Writers magazine di Franco Forte. Quest’ultimo è anche un vero e proprio laboratorio di scrittura. Buttatecevi, buttaviteci, buttatevici… insomma abbonatevi!
Nuovi aggeggi per leggere al posto del cartaceo: l’ipadde, l’ipodde, l’ipudde. Da questa stronzata si capisce che sono tagliato fuori.
Dopo il gialletto rosa e le famose sfumature che hanno fatto uscir gridolini di piacere da tutte le parti ecco il gialletto grigio e riprendo un pezzo, volutamente sgangherato, che dà l’idea di dove si sta andando a finire “Classico il caso di uno mettiamo pure che sia un commissario che sta con la mogliera ma che non vuole più starci e non ha il coraggio di levarsi dalle palle da una vita di merda e mettiamo che si innamori di una più giovane (perché mai di una più vecchia?) la quale più giovane vuole un bene dell’anima al suddetto commissario così dolce e quieto sì però è pure attratta da uno altrettanto più giovane di lui più birbetto e mascalzoncello e allora sai i tremori i dubbi gli assilli i vaneggiamenti con la mogliera che anch’essa piccinina santa non sa a che santo votarsi appunto e cerca conforto con le amiche e pure il gatto si è fatto triste e malinconico con i baffi che gli cascano sotto il mento. Se poi nell’ambaradan sentimentalesco ci infili anche una divorziata che da pulzella aveva fregato il ragazzo dell’amica del cuore diventato suo marito che l’ha lasciata e ora freme per uno che però da sempre amico innamorato della stessa amica del cuore di prima (ci siamo?) e allora giù sospiri pianti e alti guai e non c’è nemmeno una bella ruzzolata sul letto o uno stringer famelico di chiappe ma appena accennato un bacetto piccolo così e va a finire che non si combina niente e quello va via da quella e da quell’altra e il commissario di prima si ritrova solo soletto con la mogliera che si è levata lei dalle palle e la morosa in preda a dubbi assillanti che ci vuole una pausa lunghina di riflessione e noi lettori a buttar giù dagli occhioni intristiti secchiate di lacrime e a gridare maledetto il mondo e maledetto il momento in cui si è letta questa storia. Li mortacci!”.
Per rimanere in tema di sfumature anche il sottoscritto, che non vuole rimanere fuori dal giro, ha già buttato giù un suo canovaccio, già pubblicato nel blog di Sartoris, alias Omar Di Monopoli, cercando di inserire la storia nel contesto giallo a me più congeniale. In breve (ma breve, breve) l’assassino è un giovanottone psicopatico superdotato con un pisello di cinque chili che trasporta in carrozzina. Questo tizio, fissato con il kamasutra, fa all’amore con le signore-signorine conquistate in giro per il bambino esposto che è tanto caruccio tutto il suo babbo, seguendo con preciso ordine le posizioni del sacro testo, praticamente uccidendole mentre sono al culmine del piacere. Amore e morte allo stesso tempo. Al compimento dell’ultima posizione schianta anche lui e si va tutti a casa. Titolo “Il batacchio infernale”, casa editrice Sottoachitocca 2012. Piuttosto greve ma di sicuro effetto. Ora sto preparando “Il randello dell’avvocato” per le edizioni Checidòchecidòchecidò (specializzate in questo genere di narrativa) con uno stile più raffinato e dannunziano per signore e signorine di un certo rango. Senza farla tanto lunga posso anticiparvi che le vittime, dopo avere subito sevizie di ogni tipo, vengono uccise a “randellate” in testa.
“Tempus fugiolit”, come sentenziò uno dei miei allievi più preparati. Il tempo vola e ruba pezzi di vita. Volti, sorrisi, abbracci, speranze, emozioni. L’amico che stava seduto con te sui banchi di scuola, quello che ti passava le sigarette perché non avevi mai una lira in tasca, la ragazza di cui eri innamorato non ricambiato E così fuggono via i miti che hanno spruzzato d’oro la tua giovinezza. Una stretta al cuore. Per fortuna c’è ancora qualcosa a cui restare aggrappati. La salvifica ironia toscana lasciatami in eredità dal mio babbo tra un calcio in culo e l’altro e Jonathan che cresce come un drago. E vai!!!!!!!!!!!!!!!!
Un caro saluto da…
Fabio e Jonathan Lotti
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Questo mese abbiamo il piacere di presentarVi un nuovo articolo del nostro amico Pietro De Palma.
Su richiesta dell’autore, teniamo a precisare che l’articolo contiene degli SPOILER, che potrebbero rivelare parti determinanti per lo sviluppo del racconto.
Buona lettura a chi ha già avuto il piacere di leggere questo gioiello di Carr e un augurio doppio a chi lo recupererà ora e leggerà, in seguito, l’articolo qui presentato.
Pubblicato per la prima volta nell’Agosto del 1957, nella rivista Lilliput, a firma Carter Dickson (pur avendo come personaggio principale Gideon Fell), il racconto King Arthur’s Chair, ebbe anche un altro titolo : Death by Invisible Hands, utilizzato per l’edizione americana. Apparve infatti sull’ Ellery Queen Mystery Magazine dell’Aprile 1958, e la stessa illustrazione per la copertina vi fu improntata.
E’ uno straordinario racconto “dark”, in cui il tema del doppio fa capolino ovunque, pieno di simboli e significati metaforici, connessi con alcuni dei “sette peccati capitali”, un racconto che amo particolarmente. Oltretutto, il lavoro è una delle tante variazioni di Carr sulla Camera Chiusa, ed in particolare sulla variazione della spiaggia: un delitto viene commesso su una spiaggia, senza che vi siano le impronte dell’assassino, ma solo quelle della vittima. Carr scrisse altre opere utilizzando questa sottospecie di ambientazione: ricordiamo per esempio una delle sue opere maggiori, e ancor oggi poco conosciuta che è The Witch of the Low Tide, “Un Colpo di pistola”, romanzo di poco successivo (1961) al periodo del racconto.
Qui il problema è particolarmente complesso, ma la soluzione che viene proposta è straordinaria: direi che è uno dei migliori racconti di Carr, proprio per la soluzione ineccepibile, ma anche per la struttura del racconto, quantomai interessante.
Innanzitutto la storia.
Dan Fraser, è innamorato di Brenda Ray. Lei gli ha dato appuntamento alla sua villa sul mare, dove abita assieme alla cugina povera, Joyce Ray. E’ però un tempo pessimo per vedersi. E’ una sera calda, quella in cui lui la rivedrà. Calda e afosa. Le nubi gravano e ogni tanto un fulmine squarcia l’oscurità, illuminando la notte ed il mare. Dan deve affrontare una discesa per nulla agevole con la sua auto, prima di arrivare alla casa. Tuttavia, stranamente la trova al buio.
E’ una casa ricca di decorazioni, com’è nella natura di Brenda, che lei chiama “la casa del re”. Ma, diversamente da come Dan si aspetterebbe, è immersa nel buio: il buio della notte ed il buio causato dalle luci che le finestre dovrebbero irradiare tutt’attorno, che invece non vede. Lasciata l’auto, si accorge che le tende sono tirate del tutto. L’atmosfera, gravida di elettricità (i fulmini) e oscuri presentimenti, convince Dan che c’è qualcosa che non va. La villa sembra disabitata. Sembra, perché quando lui si affretta in direzione della porta d’entrata, si accorge che è chiusa, ma non a chiave, e quando la apre, si vede inondato dalla luce, che si spande dall’interno.
Neanche il tempo per riflettere ed una porta si apre: una figura femminile si staglia. Non è Brenda, ma sua cugina Joyce. I loro sguardi si incrociano. E’ come se dialogassero, come se confessassero l’un l’altro i propri desideri più segreti, è come se parlassero una lingua che mai fino a quel momento avevano scandito. Fatto sta che capiscono, in un solo istante che si sono sempre amati. O meglio, Dan capisce che l’ha sempre amata, e che quella per Brenda era solo un’infatuazione, Joyce, l’ha sempre saputo. Dan si aspetterebbe di trovare Brenda. Vorrebbe a questo punto incontrarla, ma non per passare con lei una notte infuocata, quanto, per una sorta di correttezza morale, confessarle che ha capito di non amarla e che invece ama la cugina povera. Ma Brenda non c’è. Perché è morta. L’hanno trovata la mattina. Ora la casa è illuminata, perché tutti sono andati via da poco: il cadavere, il medico legale, la polizia, l’ispettore Tregellis, il grande detective amico della Polizia, Gideon Fell.
La situazione è cambiata: ora Joyce non è più povera, ma ricca. E soprattutto ora Dan è libero di amarla; e non devono neanche rendere conto a Brenda, lui e Joyce. Tuttavia Dan pensa che Brenda sia morta, affogata, dopo una nuotata.
“No – disse Joyce. – E’ stata strangolata.
– Strangolata?” (John Dickson Carr : King Arthur’s Chair (1956) – “Mani Invisibili” – Trad. Mauro Boncompagni – Gli Speciali del Giallo, N. 52 del 2007, Mondadori, pag. 429).
Strangolata, significa assassinata, non più solamente morta. Se qualche minuto prima la situazione per Dan e Brenda pareva essersi miracolosamente risolta, ora essa ritorna intricata, molto più di quanto si potrebbe pensare. Assassinata significa uccisa da un assassino. E la polizia su chi concentrerà la propria attenzione? Su chi quella mattina avrebbe potuto avere l’occasione (e allora avrebbe vagliato gli alibi) ma anche le ragioni di farlo (il movente). E doveva essere un movente valido per uccidere.
Nella villa oltre che Joyce, e naturalmente Brenda, sono presenti altri due soggetti, amici delle due cugine: Toby Curtis e Edmund Ireton. Ma chi quella mattina avrebbe avuto l’occasione e un motivo più che valido per uccidere, sarebbe stata proprio Joyce: l’invidia del patrimonio, e la gelosia nei confronti della sorella, per Dan.. Due moventi più che validi per assassinare. Ecco perché Joyce cerca di far comprendere a Dan che la dichiarazione d’amore avrebbe dovuto fargliela tempo prima, ma non in quel momento. Perché fornirebbe alla polizia immediatamente la certezza che la cugina povera, cioè lei, abbia avuto a che fare nell’eliminazione fisica della cugina ricca.
“– Qualsiasi cosa dovessi dirmi,o pensassi di dovermi dire…
– Su.. di noi ?
– Su tutto! Ti rendi conto che devi dimenticarla e non accennarne mai più? Mai più!” (op. cit. pag. 431).
Però, c’è un problema cui la polizia sta dedicando la sua attenzione, pare. Che concerne il modus agendi dell’assassino. E’ noto che Brenda, quando si recava a nuotare, portava una sciarpa annodata al collo ed un copricostume, sopra il costume da bagno; poi il copricostume e la sciarpa li abbandonava su The King Arthur’s Chair, sul “Trono di Re Artù”, uno scoglio a forma di sedia che era vicino al mare: si sedeva, fumava e poi andava a fare il bagno. Tuttavia non si riesce a capire come l’assassino abbia potuto strangolare Brenda: se l’assassino l’avesse strangolata alle sue spalle, lei poi sarebbe caduta faccia in avanti. Ma così non è: Brenda è stata trovata nella sabbia. E del resto nessuno può averla affrontata, dalla parte del mare, emergendo dall’acqua, perché sulla sabbia del bagnasciuga, si sarebbero dovute ritrovare delle orme, che invece non ci sono. E che Brenda sia stata strangolata, lo prova la sciarpa che aveva intorno al collo oltre al copricostume: mentre il primo è stato abbandonato, la seconda è penetrata così a fondo nella pelle, che quelli della polizia non sono riusciti a rimuoverla.
Oltre a questo, c’è il problema della individuazione del possibile colpevole: nessuno avrebbe potuto ucciderla. Ireton, era appena arrivato; Curtis stava facendo del tiro a segno con un fucile cal. 22 sul retro della casa; e la stessa Joyce, per sua stessa ammissione, era in casa. Tutti e tre sono usciti e l’hanno vista: e nello spazio di sei metri sulla sabbia, non c’erano orme.
Detto così, il problema è insolubile. La polizia brancola nel buio, anzi è meglio dire, brancolerebbe se…non ci fosse Gideon Fell, casualmente in vacanza da quelle parti, in Cornovaglia, e arrivato accompagnato dalla polizia.
Gideon Fell ragiona e suppone quello che sarebbe potuto accadere. Innanzitutto elimina il problema delle orme: se non ci sono, significa che non ci sono mai state. Quindi l’assassino o l’assassina (nel caso sia stata Joyce, o una delle due cameriere, che però non avrebbero avuto alcun motivo ad uccidere chi forniva loro un lavoro) non ha mai percorso il tratto di sabbia. E allora? Come ha potuto materialmente strangolarla? Volando?
No. Non si è mai mosso materialmente dalla casa.
Questa è la soluzione sorprendente di Carr: l’omicida non ha lasciato orme, perché non ha ucciso la vittima strangolandola, ma usando qualcosa che simulasse lo strangolamento, e fosse anche estremamente rapido.
Partendo da questo presupposto, Fell ricostruisce, interrogando i presenti, le loro mosse.
E individua l’omicida. Inchiodandolo alle proprie responsabilità.
Ma prima che ciò possa accadere, a dare la misura del dramma è un altro personaggio, quasi un altro detective. Mentre Fell è il detective che vede la natura materiale del peccato, Ireton qui è il detective che ne mette in rilievo la natura spirituale. Ireton è la coscienza, la voce di Carr.
“– Il salmista ci dice – attaccò seriamente – che tutto è vanità. Qualcuno di voi ha mai notato..e che Dio mi perdoni se lo dico..che il tratto più sorprendente di Brenda era la sua vanità?…
– Una vanità spaventosa. Se qualcuno avesse tentato di grattare quella vanità abbastanza in profondo, la nostra cara Brenda avrebbe commesso un omicidio.
– Non è che sta considerando la situazione a rovescio? – chiese Dan. – Brenda non ha commesso nessun omicidio. Anzi, è stata Brenda…
– Ah! – esclamò il signor Ireton. – E in questo ci potrebbe essere una lezione, non crede?
– Senta, non vorrà mica dire che si è strangolata da sola con la sua stessa sciarpa, eh?
– No, ma mi ascolti bene. La nostra Brenda, indubbiamente, aveva molte passioni e molte fantasie. Ma c’era solo un uomo che lei amava e voleva sposare. E non era il signor Dan Fraser.
– Allora chi era? – chiese Toby.
– Lei.
Lo stupore di Toby era troppo genuino per essere stato simulato…
– Che il cielo mi aiuti! – disse – ma io non lo sapevo! Non mi sarei mai immaginato…” (op. cit. pag. 432). Più in là in un dialogo innocente, parlando di una persona, individua l’arma dell’omicidio, senza che se ne sia ancora fatta menzione (op. cit. pag. 434). Ma lo fa senza coscienza, quasi che parlasse non per sua volontà, ma che fosse espressione della volontà divina. E’ come la Sibilla che parla non per volontà propria ma del dio che la possiede, descrivendo esattamente quello che è avvenuto.
Sarebbe potuta essere una commedia degli equivoci, se non fosse finita in dramma: lei ama lui, lui ama lei ma non sa di essere amato, anzi pensa che lei ami un altro, che è innamorato di lei a parole, ma in realtà ama un’altra. E poi c’è un assassino che strangola non avvicinandosi, ma usando uno strumento fantomatico. Insomma, un gran casino. Ma se vediamo bene, casino proprio non è, appare semmai.
Il racconto, a parere mio, più che un “giallo” è un “nero”, un racconto che se non sapessimo essere della seconda metà degli anni ’50, si sarebbe tentati dal ritenerlo un’opera scritta nei primi anni ’30, magari sotto l’influsso di Bencolin. E’ un manifesto etico, pieno di significati simbolici, quasi una condanna dell’eccessivo fasto, del il trionfo dell’apparenza, del narcisismo: in altre parole una condanna della Vanità.
Questa sorta di manifesto metaforico, io direi si strutturi su almeno “quattro piani mistificatori”: la mistificazione è presente in varie espressioni, che vanno dalla personalità dell’assassino e dell’assassinata, a quelle degli altri attori del dramma, alle stesse manifestazioni poste in essere, tra cui il piano omicida.
Il primo potrebbe essere la mistificazione dei sentimenti: Brenda ama Toby, così come Toby ama Brenda. Ma entrambi sono permalosi e vanitosi: nessuno dei due vuole abbassare la testa per confessare di essere innamorato dell’altro, e quindi simulano indifferenza, quando non arrivano a punzecchiarsi vicendevolmente. E così facendo entrambi ignorano di essere amati, l’uno dall’altro. E’ un amore che non si dona, ma che si nutre di se stesso e quindi destinato a contorcersi. Per es. Toby non sa di essere amato, ma a sua volta la ama, disperatamente struggendosi per l’amore che ella dimostra per Dan. A sua volta, Dan, credendo di aver fatto colpo su una donna bellissima, si convince di esserne innamorato, mentre è solo veramente innamorato di Joyce, il cui amore lui trasferisce su Brenda. E nel mentre, Joyce lo ama.
Il secondo piano mistificatorio è attinente alla psicologia dell’omicida: egli spiega agli astanti, sostituendosi al detective di turno, come l’assassino non possa essersi avvicinato alla vittima: né dal mare, “perché il punto più elevato dell’alta marea, dove l’acqua avrebbe potuto cancellare le orme, si trova a più di sei metri davanti alla sedia”; né alle spalle, perché “dal lastricato della terrazza alla parte posteriore della sedia ci sono almeno sei metri”; né spiccando un salto, perché “un campione olimpico in buona forma forse ci sarebbe riuscito, se avesse avuto un punto per prendere la rincorsa ed un punto per atterrare. Ma le cose non stavano così. Non c’era nessun segno sulla sabbia” (op. cit. pagg. 434.435). E così facendo dimostra come l’assassinio non possa essere spiegato: senza arma, e senza la possibilità di dimostrare l’assassinio, il caso non può che essere archiviato. Ma a questo punto appare il deus ex machina, che fino a quel momento non è stato presente, Gideon Fell, che risolve l’enigma.
Il terzo piano, riguarda lo strumento usato per uccidere, utilizzato come arma per uccidere.
Di per sé non è un’arma per uccidere: lo diventa solo se viene utilizzata in un certo modo. Ed è stato proprio il modo di usare lo strumento a causare la situazione impossibile.
Del resto quest’arma produce un suono caratteristico che può essere facilmente confuso con un altro. E la mistificazione riguarda appunto l’uso di questi due strumenti in maniera tale che l’uso di uno mistifichi l’uso dell’altro.
Il quarto ed ultimo piano, concerne la mistificazione dei sospetti che possono essere solo Joyce Ray, poi Edmund Ireton, infine Toby Curtis.
Joyce è la prima ad essere sospettata per la ricchezza acquisita in seguito alla morte della cugina. Poi c’è Edmund Ireton ( che a suo dire vuole proteggere Joyce): egli ha consigliato Dan di non far parola a nessuno del sentimento reciproco che hanno scoperto di sentire vicendevolmente, pena la possibile accusa di omicidio rivolta a Joyce. Tuttavia l’amico Toby Curtis (strano che si chiami come Tony Curtis che megli anni ’50 fu famosissimo come attore!) gli rinfaccia di aver usato un modo di fare, diretto a far accusare direttamente Joyce invece di proteggerla: perchè invece di ammonire in separata sede Dan a non dire in giro che era innamorato di lei e lei di lui, gliel’ha gridato in maniera tale che tutti nella casa ne fossero, volenti o nolenti, a conoscenza? In realtà non vi è un sospetto, ma due. Anzi tre, perché Fell comincerà a parlare del fucile. Già perché è il fucile cal. 22 l’arma usata per mistificare il suono dello strumento usato invece per uccidere Brenda. Chi possedeva il fucile e si era esercitato per la mattinata? Toby. Quindi anche lui è sospettato. Anche se qualcun altro potrebbe averlo usato in sua assenza.
Il racconto può avere però anche un’altra lettura: accanto ai quattro piani su cui si struttura la storia, io in questo racconto, vedo molte manifestazioni del doppio: alcune possono essere casuali, altre no, e comunque i doppi connessi alla personalità dell’omicida, della vittima, dell’arma, e di alcune situazioni del racconto, fanno riferimento ad un oggetto presente a profusione nella casa. E l’individuazione della natura doppia di tanti oggetti, situazioni, soggetti, usati simbolicamente, è da mettere a parer mio in riferimento alla “morale” del racconto. Mi spiego.
Innanzitutto doppia è l’atmosfera che accoglie Dan : il buio che avvolge la casa sulla spiaggia, il lampo che squarcia l’oscurità e illumina fugacemente la scena del delitto, mentre dentro tutto è illuminato, può essere una metafora: il buio dell’indagine viene squarciato da qualche supposizione che qua e là comincia a diradare le tenebre, fino ad arrivare alla luce della soluzione. Ma è anche il buio, le tenebre (il male) contrapposto alla luce (il bene). Fuori della casa il male ha portato ad un omicidio, ma sarà nella casa che Fell svelerà il movente e come sia stata uccisa Brenda. E da chi.
Doppia è la natura dei sentimenti delle persone che vivono in quella casa: carnefice e vittima, si contrappongono e si confondono, tanto che alla fine l’assassino non si dimostrerà che la vittima di Brenda, quando non di se stesso. Ma doppie sono anche le personalità di chi si muove: Ireton è colpevole o innocente? Amico o nemico? Toby è innocente o colpevole? Giudice o reo? Dan è davvero estraneo alla vicenda o vi è coinvolto? Joyce è davvero innocente o è un’assassina astuta?
Doppia è la possibilità di come l’omicidio sia stato perpetrato: l’assassino era davanti oppure dietro la vittima?
Doppia è la natura dell’amato e dell’amante, di chi ama e di chi viene amato.
Ma doppio è anche il significato dell’uso di un’arma, che non è solo quello che appare ma anche altro: un fucile, cal. 22, con cui Toby faceva il tirassegno. Il fucile ha una natura doppia: spara ma anche mistifica il rumore che produce, cosicché si pensi che anche quando si sente un certo rumore esso venga associato allo sparo mentre non lo è.
Due sono le cameriere presenti in casa.
Due sono le cugine: una povera, l’altra ricca.
La presenza di due cugine, una povera, una ricca, tra l’altro mi da modo di evidenziare una curiosità: nel 1940, di Norah Lofts (pseudonimo, Peter Curtis) fu pubblicato il primo di quattro romanzi, Dead March in Three Keys (che con il titolo “Marcia Mortale in Tre Tempi”, fu pubblicato nel 1950, in Italia, dalla Casa Editrice Aldo Martello, nella serie “I Gialli del Veliero”). Si tratta di un bel romanzo, che potrebbe essere proposto ancor oggi, un thriller, in cui il lettore vede pianificato un omicidio per interesse. Gli attori di questo dramma sono tre: due cugine, Antonia ed Eloisa, la prima povera ma molto estroversa con gli uomini, la seconda ricchissima ma estremamente chiusa; e Riccardo, l’amante di Antonia, povero anche lui, che per calcolo sposa Eloisa, tradendola di continuo con Antonia, finchè…
A me interessa sottolineare solo come Carr potesse aver letto il romanzo, che ottenne un robusto successo nei primi anni ‘40, e avesse potuto trarre l’idea di due cugine di censo completamente diverso, che contendono l’amore ad un uomo, che anche qui è veramente innamorato della povera e solo apparentemente della ricca. Però qui la situazione è opposta: quella estroversa è quella ricca, e timida è invece la povera, che però avrebbe comunque le ragioni per uccidere, ma che invece, in ragione proprio della propria umiltà, non sembrerebbe vi pensi affatto.
Due ancora sono i carnefici e le vittime di questo racconto: sempre loro, Brenda e l’omicida. Nel mentre Brenda ne è la vittima, dell’assassino è anche il carnefice, perché è lei che lo ha spinto ad ucciderla.
E cosa è ancora doppia? La vanità : la vanità di Brenda e la vanità di Toby. Ma anche la La Vanità che non ha consentito loro di essere felici. Del resto si potrebbe pensare sin dall’inizio che gli unici soggetti vanitosi in questo piccolo dramma siano Brenda e Toby. In realtà, anche Ireton potrebbe essere vanitoso. E’ rappresentato vestito in maniera ricercata, da snob. Con sul viso l’espressione bonaria di un satiro, quando non beffarda. Dice di essere stato uno zio putativo di entrambe le cugine: ma che era in realtà? Era solo un amico discreto o amava qualcuna delle due?
E sicuramente lo è Dan. Ma la vanità di Dan non è quella di Brenda: Dan crede di essere affascinante, non perché egli ci creda in fondo, ma perché la stessa Brenda gliel’ha fatto credere, irretendolo. La vanità di Brenda è diversa: ella crede davvero di essere affascinante e superiore agli altri. E’ la Femme Fatal, e come tutte le femmine fatali ha un destino amaro. Nel MedioEvo la sua vanità, che è anche superbia, sarebbe stata condannata senza appello, e lei probabilmente sarebbe stata punita duramente. Perché la Vanità (assieme alla Superbia) era connessa col Male. Vanitas Vanitatum. Uno dei sette peccati capitali.
E’ la vanità il movente dell’assassinio, uno strano movente, in verità. Non c’è odio, avarizia o cupidigia, ma vanità. Che è prodotta dall’eccessivo narcisismo, dall’eccessivo innamoramento di se stesso, della protezione della propria più intima natura, che non dev’essere per nulla svelata, perché da ciò vi sarebbe un indebolimento della propria personalità. Per una volta tanto, vediamo come l’assassinio non sia il prodotto dell’odio, ma dell’amore, anche se non rivolto ad altri ma a se stessi. Anche l’amore qui è doppio: amore di se stesso, ma anche amore dell’altro. Se non ci fosse stato l’amore verso un altro, non si avrebbe avuto paura di essere deriso e messo a nudo. Narcisismo, e Vanità. L’opposto dell’umiltà, che sembrerebbe essere il connotato di Joyce, invece.
L’assassino è quindi un debole, che, deriso per la propria debolezza, cioè dell’amore che prova, uccide. Se fosse stato forte, non avrebbe avuto paura della propria debolezza. Lui però non lo è. Deve simulare all’esterno di non essere debole, ma lo è, e proprio questa sua doppiezza nell’animo è la causa del suo reato, del peccato mortale.
L’apparenza che è commessa alla vanità, al bello, a ciò che si vede, è già messa in evidenza
all’inizio del racconto quando si dice che la casa sul mare veniva chiamata “la casa del re”, per via di tutte le decorazioni che Brenda aveva voluto che l’abbellissero, esternamente e internamente.
Ma l’apparenza e la vanità sono rappresentate da un oggetto, che si trova all’interno della casa, di cui, come abbiamo detto prima, vi è profusione, e che ha un forte valore simbolico: lo specchio.
Brenda era vanitosa, ed in quanto innamorata di se stessa, aveva bisogno dello specchio. Degli specchi. Che erano numerosi in casa.
Ed è in ragione dello specchio che il racconto, talora, è così costruito sui doppi.
Il doppio è da mettere in diretta relazione con lo specchio: lo specchio infatti riflette una visione, creando il suo doppio. I due doppi, solo apparentemente sembrerebbero essere uguali, mentre sono antitetici, vicendevolmente. Il doppio è l’opposto, l’anima nascosta, la parte nascosta di noi. Anticamente si pensava che gli specchi, duplicando la realtà, avrebbero potuto imprigionare l’anima nell’immagine riflessa dallo specchio. Ecco perché alcuni coprivano gli specchi alla morte di qualcuno per permettergli di raggiungere l’oltretomba.
Ma lo specchio genera un’immagine di sé, permette di vedere la propria bellezza. Che può essere positiva o negativa. Quando è negativa, è legata al narcisismo e all’attaccamento dei beni terreni. Come tale, questa visione della vita, e quindi di se stessi, rimanda al Male, e ai due peccati capitali cui si ricollega: Vanità e Superbia. Tanto che nella Firenze del 1497, con il Rogo delle Vanità, durante il Martedì Grasso, i seguaci di Girolamo Savonarola bruciarono gli specchi.
Ecco allora già due simboli chiave del racconto: lo specchio ed il doppio che viene generato da esso e in esso.
Ma c’è un altro simbolo: è l’arma usata per uccidere.
“ – Il vero strumento? E quale sarebbe questo rumore?
– Lo schiocco di una frusta di pelle di serpente – rispose il dottor Fell”( op. cit. pag. 441).
Non è il fucile, che è servito solo a distogliere l’attenzione, illudendo i presenti che il rumore sentito fosse uno sparo, mentre invece era il rumore di una frusta. Ma è una frusta di pelle di serpente. Una frusta da mandriano. Che usata abilmente è stata avvolta al collo di Brenda, mentre era ancora seduta sul Trono di Re Artù con il collo avvolto da una sciarpa. Del resto la sciarpa era essenziale alla messinscena: se non ci fosse stata, si sarebbe visto sul collo il segno della frusta. Appoggiata alla curva della roccia dietro il sedile, la frusta, tirata verso l’omicida, l’aveva soffocata in pochi secondi. Poi, dovendo svolgerla dal collo, l’omicida aveva dovuto dare uno scatto verso l’alto, che aveva sollevato Brenda e l’aveva lasciato cadere nella sabbia, creando la situazione impossibile.
Il terzo simbolo non è però la frusta in sé, ma il materiale di cui è fatta: la pelle di serpente.
Non è stato il serpente, il male, Satana sotto mentite spoglie, a suggerire alla donna che era nuda? Eva molto spesso è ritratta col pomo, ma anche con lo specchio: superbia e vanità, sono spesso associati. Come in questo caso, perché vittima e carnefice sono espressione di debolezza: superbi e vanitosi.
Nell’ultima scena, tutti e tre i simboli sono presenti.
Fell inchioda l’assassino, che è ritratto mentre si specchia, e man mano che indietreggia si trova con le spalle vicino ad un altro specchio. E gli specchi sono dovunque:
“L’Ispettore Tregellis era riflesso dappertutto negli specchi, con la lunga frusta arrotolata sopra il braccio” (op. cit. pag 444);
lo specchio è come se ci rimandasse la faccia non evidente dell’assassino, quella che Fell mette in luce, la sua anima votata al male, il suo doppio:
“Guardatelo, tutti quanti! – disse il dottor Fell. – Persino quando viene accusato di omicidio, non riesce a togliere lo sguardo da uno specchio” (op. cit. pag. 443);
a conclusione dell’arringa di Fell, arriva l’Ispettore Tregellis che brandisce la frusta.
“Ma più che una frusta sembrava che stesse portando una corda..la corda del capestro” (op. cit. pag. 444).
La frusta che è formata da pelle di serpente.
In sostanza l’assassino è inchiodato alle sue responsabilità, ed è come se il serpente, il male del peccato originale, che aveva instillato nell’uomo la superbia e la vanità, ora reclamasse il suo prezzo: la morte e la dannazione, per chi lo ha scelto consapevolmente, mediante l’impiccagione.
Ma la vera condanna dell’assassino non si avrebbe senza un colpo di scena. La ricostruzione di Fell è perfetta, ma così raccontata in un’aula di un tribunale non avrebbe nessuna ragion di essere accettata, perché vi sono indizi, c’è l’arma dell’omicidio, c’è la presunzione che essa possa esser stata usata dall’assassino medesimo (che è un ricco possidente in Sudafrica, dove si usa il tipo di frusta rinvenuto), ma parrebbe che non ci fosse alcun testimone presente. Ed invece..
Invece la Provvidenza divina, il fato, la Giustizia divina, chiamatela come volete, che non può permettere che un assassino, che ha ucciso con l’aggravante diremmo noi “dei futili motivi”, cioè per cattiveria, vada impunito, si materializza ancora una volta in un racconto di Carr.
E’ rappresentato da una delle due cameriere, Sonia, infatuata dall’omicida. E’ come se qualcosa di sovrumano, che sfugge all’umano raziocinio, alla pianificazione di un delitto perfetto, si inserisse, una piuma che fa inceppare un ingranaggio ritenuto inceppabile, messo in moto inconsapevolmente ed inconsciamente da quello stesso vizio, la vanità, che è stata alla base dell’omicidio. Il desiderio di essere belli a tutti i costi, produce infatuazione in quelle donne che sono soggette a questo tipo di fascino esteriore. Una di queste è Sonia.
“…Vi avevo anche avvisato di aver interrogato le cameriere, Sonia e Dolly, le quali oggi avevano fornito solo risposte incoerenti. Mio caro signore, lei sottovaluta il suo fascino personale.
– Sembra che Sonia..abbia sviluppato una certa simpatia per lei. Quando stamattina ha sentito quell’ultimo “colpo” isolato, ha guardato di nuovo fuori dalla finestra. Ma lei non c’era…E questo l’ha colpita talmente che è corsa fuori sulla terrazza anteriore e si è accorta che lei era lì. L’ha vista, insomma.” (op. cit. pag.443).
E’ come se Carr emettesse un giudizio di massima, ancora una volta: il male non paga mai.
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Se n’è andata in punta di piedi, con la discrezione che la contraddistingueva.
Laura Grimaldi lascia un vuoto incolmabile nel panorama editoriale italiano.
Eccellente traduttrice – ricordiamo tra i tanti: Raymond Chandler; Donald Westlake; Eric Ambler; Scott Turow – e autrice (Il sospetto; La colpa su tutti) , ha dedicato la sua vita alla narrativa popolare, dirigendo tra l’altro, le storiche collane Mondadori “Il Giallo” e “Segretissimo”.
Grazie Laura, ci hai insegnato tanto.
Non ti dimenticheremo.
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Diffidate di questi luoghi e di questi mezzi di trasporto…
Cari ragazzi (formula scontata ma pur sempre efficace per attirare una qualche simpatia tra lettori stagionati) questa non è una ricerca esaustiva e, a dir la verità, non è nemmeno una ricerca (ne ho già fatte fin troppe nella vita) ma un excursus, così un po’ a capriccio come è nel mio costume, riportando in vita pure cose già scritte su alcuni luoghi tipici della letteratura poliziesca, dove sono avvenuti un sacco di morti ammazzati. Anche per mettere in guardia eventuali viaggiatori…
Parto dall’isola. Più precisamente da L’isola della paura di Anthony Berkeley, Mondadori 2011. Piccola, “più o meno quindici ettari di terra quasi pianeggiante” sulle scogliere, tra Madeira e le Bahamas. Qui il sorprendente (come personaggio) Guy Pidgeon, un accademico arricchito, porta una schiera di invitati, tra cui l’altro sorprendente Roger Sheringham, scrittore e investigatore, con lo scopo di smascherare un assassino di un vecchio delitto. E’ chiaro che i personaggi si trovano costretti a rimanere sull’isola, distribuiti in una serie di tende all’aperto, per un qualche motivo che non sto a spiegarvi. Sapere che tra loro c’è un assassino senza conoscerne il nome (Guy lo ha dichiarato espressamente) genera tutta una serie di incredibili reazioni. La vicenda si complica con la storia di un fantasma che di notte sembra ululare a tutto spiano e con l’idea che ci sia qualcuno là fuori che girella furtivo…
Di solito con una fava si prendono due piccioni ma con L’isola dei delitti di Agatha Christie, Hake Talbot e Roy Vickers, Mondadori 2008, con introduzione saporosa del nostro Mauro Boncompagni (che il Signore lo abbia in gloria) se ne prendono addirittura tre: due romanzi ed un racconto. E a poco prezzo.
Inizio da Dieci piccoli indiani della divina Agatha. Un mito. Non sto a farla lunga. Otto persone che non si conoscono fra loro sono invitate a trascorrere l’estate in una villa di Nigger Island (ecco la nostra isola) non lontana dalle coste del Devon in Inghilterra. Qui trovano il maggiordomo e la cuoca ma non il padrone che manca per motivi poco chiari. Sopra il camino delle camere c’è la famosa filastrocca “Dieci poveri negretti…”. Infine una voce registrata su un disco accusa tutti di essere degli assassini impuniti. E da qui inizia l’altrettanto famosa sequela di morti.
L’isola: “A nord ovest, verso la costa, le rocce piombavano a picco sul mare, con la superficie perfettamente liscia. Sul resto dell’isola, non c’erano alberi e c’era ben poco che potesse servire da riparo”. “Un mondo, forse, dal quale non si poteva tornare indietro” scrive la Christie. Se a questo si aggiunge lo scoppio di una tempesta…
Continuiamo con Terrore nell’isola di Hake Talbot. E anche in questo caso si fa presto perché è un classico ben conosciuto. E dunque c’è Nancy che si sveglia e non si ricorda di niente. O meglio si ricorda di essere nella casa di Frant, il padrone, ma che gli ospiti ed i domestici sono tutti scomparsi. E allora incomincia a cercarli insieme a Rogan Kincaid, una vecchia conoscenza apparsa improvvisamente. Inizio alla grande. Il problema è che Frant è morto dopo una maledizione del fratello Evan. Di schianto, come si dice dalle mie parti. Nascono i dubbi. Morto per la maledizione o avvelenato? E in che modo può essere stato avvelenato? E perché non pensare al suicidio? Ma il corpo del morto al quale è stata tolta la pelle dei polpastrelli è proprio quello di Frant? E perché è in evidente stato di putrefazione? E così di seguito fino allo spappolamento del cervello del lettore.
Sull’isola chiamata Kraken non c’è molto da dire. A parte il fatto che il nome si riferisce all’antica leggenda di un mostro enorme che poteva ingoiare navi per intero e trascinarle nella sua tana (e già questo non tranquillizza affatto). Ha un “profilo bizzarramente roccioso contro la linea bassa della costa, distante meno di mezzo chilometro”. Intanto fuori infuria il solito uragano…
E così si passa al lungo racconto di Roy Vickers L’unico superstite che ricalca un po’ il romanzo dell’Agatha con l’eccezione del naufragio. Sempre su un’isola, si capisce. Chi racconta la storia attraverso un “affidavit” è il prof. William Edward Clovering. Il naufragio è della Marigonda con carico e cinquanta passeggeri provenienti dal Capo di Buona Speranza e diretti a Londra. Si salvano sette uomini su una scialuppa e, come era già capitato al nostro Robinson Crusoe, possono ricavare da vivere per un bel po’ attraverso carico di viveri e attrezzi tratti dalla Marigonda non completamente affondata.
Si salvano per modo di dire che uno dopo l’altro ci lasciano le penne, colpiti in testa da un arnese che può benissimo essere un martello. Angoscia, paura, sospetto. Chi è l’assassino? Uno di loro o un estraneo che si aggira sull’isola?
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Il documentario trasmesso nelle scorse settimane dall’emittente Iris è ora disponibile on line.
Una buona occasione per vederlo o rivederlo!
Buona visione.
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Giovedì 10 maggio, alle ore 14.54, il Giallo Mondadori sarà protagonista di uno speciale televisivo su Iris, canale Mediaset del digitale terrestre, all’interno del programma “Ti racconto un libro”, curato da Annamaria Fontanella e ricco di news e curiosità realizzate Christian Mascheroni e Marta Perego.
La trasmissione è strutturata in diversi servizi che svelano i retroscena della letteratura nazionale e internazionale, propongono interviste a scrittori noti ed esordienti, mostrano il rapporto che intercorre tra letteratura e cinematografia, e permettono di incontrare le voci della cultura mondiali…
Lo speciale del 10 maggio, dedicato alla collana dei Gialli Mondadori, con un’intervista al direttore editoriale della collana, Franco Forte, sarà replicato tutta la settimana seguente, alle ore 17.13, e dopo un paio di settimane andrà in onda anche su Rete 4.
Per la frequenza esatta di Iris sui canali del digitale terrestre in base alla vostra regione, andate qui: http://www.tv.mediaset.it/digitaleterrestre/copertura.shtml
Il sito web della trasmissione: http://www.iris.mediaset.it/articoli/articolo_769.shtml
Redazione
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Il 10 maggio caccia dell’assassino al museoArcheologico di Napoli con l’autore di “Caponapoli”
Il 10 maggio alle 17, al Museo nazionale di Napoli, presentazione del romanzo di Massimo Siviero “Caponapoli”, in edicola dal 3 maggio nella collana del Giallo Mondadori. Interventi di Antonella Fracchiolla e Roberto D’Angelo. Letture e commento di Enza Silvestrini. Alcune delle sequenze thrilling del libro sono ambientate all’interno del museo archeologico, che è tra i più importanti del mondo.
Joe Pazienza, nel suo nuovo mestiere di investigatore privato, deve indagare anche nel Museo Archeologico di Napoli. Hanno rubato il famoso Vaso blu e altri reperti di epoca ellenica. Ma l’interesse di Joe per le sale di uno dei più importanti santuari dell’antichità nel mondo ha ben altre motivazioni. Omicidio. Se sono fatti collegati dovrà scoprirlo lui. Alcune movimentate azioni di Caponapoli, l’ultimo romanzo di Massimo Siviero in uscita il 3 maggio nella collana del Giallo Mondadori (n. 3055), sono anche ambientate all’interno di questo palazzo misterioso e carico di storia. Dove, in pieno orario di apertura, i turisti sono frastornati più dai lampeggiatori della polizia che dalla collezione dei Vetri o dal Gabinetto Segreto degli oggetti fallici.
Il Museo e poi? Joe Pazienza, che prima era reporter, fa troppe domande in giro e nel lavoro di detective rischia la pelle ad ogni angolo di vicolo e della città, tra donne misteriose, palazzinari e sicari. Sui Quartieri e nella cosiddetta Napoli-bene, o nei bui palazzi del centro antico. A cominciare dal “Caponapoli”: ospedale o girone dei dannati dai mille misteri? Sulla collina omonima tra i resti dell’acropoli. E a due passi dal Museo…
Naturale che la presentazione del libro avvenga in questo luogo che Siviero con l’artificio narrativo mette in una sequenza mozzafiato al centro della storia con le altre tappe non meno angoscianti. Il 10 maggio prossimo turisti e non turisti, amanti del brivido del Giallo Mondadori saranno tutti insieme con Caponapoli a caccia dell’assassino nel Museo Archeologico all’ultimo tocco delle 17. Scaramanzia dei numeri a parte che in un giallo non guasta mai, intervengono Antonella Fracchiolla, giornalista RAI, esperta di storie del brivido e guarda un po’ di archeologia e Roberto D’Angelo, che alla professione di radiologo aggiunge la passione per le trame enigmatiche. Leggerà e commenterà alcuni brani Enza Silvestrini.
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Un appello ai lettori. Se non trovate i Gialli Mondadori, Urania e Segretissimo nelle edicole della vostra zona, oppure se nonostante un’esplicita richiesta di recuperarne delle copie gli edicolanti vi dicono che non è possibile, fatecelo sapere.
Per consentirci di intervenire presso la distribuzione in caso di irregolarità significative (mancate consegne oppure forti ritardi delle consegne stesse) È INDISPENSABILE SAPERE L’ESATTA UBICAZIONE DEI SINGOLI CASI, piuttosto che ricevere segnalazioni generiche.
Vi preghiamo quindi di indicarci sempre la città, la denominazione e se possibile l’indirizzo del punto vendita presso il quale si è verificato il problema (anche eventuali commenti del rivenditore sarebbero utili), mettendoci così in condizione di intervenire con maggiore tempestività ed efficacia per risolvere il problema.
Potete lasciare le vostre segnalazioni in calce a qualsiasi articolo, verranno lette sempre e in ogni caso: sarà però più semplice per noi procedere se le lascerete in corrispondenza al libro che avete avuto delle difficoltà a procurarvi. Ringraziamo tutti i lettori per la loro collaborazione, e assicuriamo che faremo il possibile per cercare di risolvere le situazioni distributive più critiche.
La redazione
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Prima di andare avanti, è necessario fare un passo indietro, a testimonianza del fatto che, qualora non l’avessi ancora dimostrato abbastanza, la Conferenza di Carr non nasce un bel giorno sotto un melo in fiore, ma è l’ultimo tassello seppure (quasi) definitivo della materia. Lo posso citare ora, perché, con una punta di orgoglio personale, posso dire che questo mio saggio è approdato al di là dell’Oceano Atlantico, e c’è gente che mi ha messo nelle condizioni di poter leggere cose che mai avrei pensato di poter acquisire.
Mesi fa, quando stavo approcciando la seconda parte del mio saggio, nel mezzo di una discussione, parlai delle possibili influenze di Carr ed un amico di Chicago, mi disse che non si ricordava in quale di due suoi romanzi, Carolyn Wells avesse inserito una propria discussione su le Camere Chiuse: The Broken O e The Bronze Hand. In seguito, riprese il discorso, e mi indicò il romanzo: The Broken O. Se ne ricordava perché l’aveva letto: entrambi rimanemmo molto sorpresi nel constatare che il romanzo in questione precedesse nel tempo il romanzo di Carr, dato che quello di Wells era del 1933 mentre quello di Carr, come si sa, è del 1935. Un bel giorno John mi ha messo a disposizione il libro, in fotocopie.
Carr dovette sicuramente leggerlo, tanto più che la Wells appartiene a quella schiera di romanzieri che pesantemente influirono su di lui. In esso, fu inserita una discussione importantissima che se non sapessimo che la precedè, saremmo tentati dal dire che cercasse di copiare quella di Fell.
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