Intervista a Enrico Luceri

marzo 17th, 2015

Cari lettori de “Il Giallo Mondadori”, abbiamo scambiato due chiacchiere con l’autore di uno dei nostri gialli del mese di Marzo: Enrico Luceri.

Buona lettura!

LUCERI

1 – Come nasce “Le colpe dei figli”? Qual è stata la genesi di questo tuo lavoro?

La prima scintilla della storia è scattata assistendo per l’ennesima volta alle sequenze finali del film “Testimone d’accusa”, diretto da Billy Wilder e tratto dall’omonima commedia teatrale di Agatha Christie: l’ineffabile avvocato sir Wilfrid Robards (interpretato dal grande, in tutti i sensi, Charles Laughton), commenterà così un omicidio commesso nell’aula della corte d’assise: “Non lo ha ucciso, lo ha giustiziato”.  Ecco, a me interessava scrivere una storia per comprendere come una vendetta possa essere vista anche come l’esecuzione dei colpevoli di una colpa e un inganno che altrimenti non sarebbero mai espiati.

Ma non è stata solo questa l’ispirazione. C’era anche un’altra esigenza, che sentivo con forza.

A volte, nei romanzi di genere, gli assassini uccidono per un motivo, o forse sarebbe più corretto chiamarlo movente, che può apparire contraddittorio: per amore. Difficile comprenderlo a prima vista, ma anche i loro crimini, così laboriosi e complicati nella preparazione e la messa in scena, non sono altro che una lunga, disperata, straziante richiesta d’amore. Amore sottratto, amore rubato. Un furto, dunque un crimine, che deve essere punito.

Proprio perché è difficile comprenderlo, io scrivo queste storie. Per capire, o perlomeno provare a farlo, affinché si giudichi solo dopo aver compreso quell’impasto di rancori, rimorsi, rimpianti che chiamiamo sentimenti e sono in fondo la più umana e concreta testimonianza di essere vivi.

2 – Che tipo è Antonio Buonocuore? A chi ti sei ispirato nel tratteggiare la sua figura?

Ho creato il personaggio grazie alla fondamentale collaborazione del mio amico Nello Mascia, il quale gli ha prestato certe abitudini personali, come la passione del fumo, o girare in bicicletta per Napoli, o schizzare a matita i ritratti dei suoi interlocutori. Di mio ci ho messo l’indole di un poliziotto della vecchia scuola che crede ancora nel metodo d’indagine tradizionale, nella ricerca del dettaglio e nei sopralluoghi solitari sulle scene del crimine come un potente incentivo alle sue intuizioni. E insieme abbiamo tratteggiato il profilo di un poliziotto molto umano, concreto, privo di illusioni ma non per questo meno idealista.

Aggiungo che l’ho chiamato Tonio, perchè era il diminutivo che usavamo in famiglia per mio padre. Purtroppo parecchi anni fa gravi incomprensioni familiari ci hanno separato per sempre. Dare il suo nome a un personaggio che ho curato molto era un modo per dirgli, ora che è troppo tardi per farlo a voce, che mi manca.

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The Gilded Fly : analisi di un esordio fortunato

febbraio 13th, 2015

La mosca dorata 001

 

Bruce Montgomery nacque a Chesham Bois , Buckinghamshire, Inghilterra . Studiò alla Merchant Taylors School e si laureò al St. John’s College, a Oxford, nel 1943, in lingue moderne , pur essendo stato, a Oxford, per due anni, organista e maestro del coro .

Fu molto conosciuto con il suo proprio nominativo, come compositore di musica classica (musica vocale e corale , tra cui un Requiem di Oxford) e di colonne sonore di molte commedie, oltre che come interprete di musica per organo, strumento nell’esecuzione del quale, eccelse.

Con lo pseudonimo di Edmund Crispin, Montgomery Bruce  firmò nove romanzi polizieschi e due raccolte di racconti, ambientate quasi tutte ad Oxford, nel St Christopher’s College (istituto che non esiste nella realtà) che egli immaginò essere vicino al St John’s College. Suo personaggio fu il Professor Gervase Fen, docente di Letteratura Inglese, che egli modellò su di sé, sulla figura del Professor W.E.Moore di Oxford e sul Dottor Fell di John Dickson Carr, di cui fu uno sfegatato ammiratore: non a caso, anche in parecchie delle sue storie egli inserì Camere chiuse e Delitti impossibili. Inoltre, come nel caso di Michael Innes, e di Nicholas Blake, altri due romanzieri polizieschi inglesi gravitanti intorno ad Oxford, nei suoi romanzi polizieschi vi sono frequenti riferimenti letterari e soprattutto nel suo caso, musicali.

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2 romanzi a confronto di Anthony Berkeley: The Wychford Poisoning Case vs Not to Be Taken

marzo 24th, 2014

Unknown

Non mi dilungherò a introdurre Anthony Berkeley perché è uno scrittore di cui ho già parlato in passato. Oggi parleremo in particolare di due romanzi, che a parere mio potrebbero essere speculari: The Wychford Poisoning Case (1926) e Not to Be Taken (1937).

Perché innanzitutto questi due? Perché se è vero che, nella produzione di Berkeley, parecchi sono i romanzi in cui si discute di avvelenamento, è anche vero che questi due romanzi trattano entrambi un classico avvelenamento da arsenico.

E’ da dire che nella produzione in genere britannica, vi sono vari scrittori che hanno affrontato il tema del veleno a partire dagli anni ’20. Se nel caso di Agatha Christie, la sua conoscenza di medicinali e veleni si formò durante il servizio, nel corso della Prima Guerra Mondiale, presso l’ospedale di Torquay, il fatto che molti altri scrittori in quegli anni abbiano scritto romanzi polizieschi le cui trame fossero basate su avvelenamenti ( Berkeley, Brand, Sayers, Rhode, Freeman, etc..) significa che era un argomento condiviso generalmente : esso potrebbe essere stato in relazione al bombardamento mediatico che nelle prime due decadi del secolo e anche prima ci fu a riguardo di famosi avvelenatori (Armstrong, Crippen, Maybrick, Seddon) che influirono pesantemente su scrittori che  necessariamente avrebbero dovuto andare incontro alle aspettative del pubblico; e sicuramente un bacino di utenza pesantemente influenzato da notizie di crimini basati su avvelenamenti, avrebbe meglio accolto romanzi di intrattenimento che avessero dibattuto delle stesse cause: un po’ come è oggi in cui i romanzi polizieschi in generale, in una società in cui i valori sono il sesso e i soldi, basano i loro crimini su sesso e soldi, e sulle loro implicazioni di carattere perverso.

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A Venezia un…Febbraio, Giallo Shocking!

febbraio 12th, 2014

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Cari lettori de “Il Giallo Mondadori”, questo mese vogliamo regalarvi il resoconto della chiacchierata che abbiamo avuto con Stefano Di Marino, uno dei più grandi scrittori italiani e il più prolifico di sempre. Questo mese, Stefano ci ha regalato una perla “rara” del suo repertorio artistico, andando a confezionare un tipico THRILLING italiano anni ’70.

Non perdetelo per nessuna ragione e correte in edicola. Il volume sarà disponibile per tutto il mese di Febbraio in edicola e in formato EBOOK sul nostro sito inmondadori.it

Buona lettura!

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DPMG Il tuo amore per il thriller italiano anni ‘70 e gli sceneggiati Rai di quel periodo sono stati la leva principale che ti ha spinto a scrivere questo romanzo?

SDM Come ho già scritto in diverse occasioni, oltre all’anima avventurosa e spy, ne ho coltivata una legata al “thrilling italiano”. L’origine è, logicamente, quella che citi, la produzione cinematografica e televisiva degli anni ’70 che ritengo un periodo irripetibile della nostra produzione. Con gli anni ho integrato la mia passione per queste storie con altre suggestioni, in particolare con il mystery alla John Dickson Carr e imparentato con le atmosfere gotiche. Sempre, però, restando nel campo della realtà quando si tratta di identificare i colpevoli.



DPMG Quali sono i tuoi registi preferiti di quegli anni ? Quali ti hanno maggiormente influenzato?

SDM Prima di tutto ho un debito con Biagio Proietti in qualità di sceneggiatore, amico e maestro. Lo conosco da anni e mi sono studiato tutti i suoi lavori, oltre che averne discusso a lungo di persona. Se pensiamo al cinema, oltre all’ovvio riferimento ad Argento, i miei registi preferiti erano Martino, Lenzi e Aldo Lado del quale mi piace ricordare due film che sono rimasti nella mia memoria: “Chi l’ha vista morire’” e “La corta notte delle bambole di vetro”. Poi naturalmente c’è Avati con “La casa dalle finestre che ridono” che è un punto di riferimento ineludibile e Armando crispino, soprattutto con “L’Etrusco uccide ancora”.



DPMG I lettori ricorderanno il tuo meraviglioso ciclo di “Montecristo ‘ per il Giallo Mondadori Presenta.
Che emozione provi però ad essere pubblicato nella collana madre del Giallo Italiano?

SDM “Montecristo” fu concepito per IGMP. È un’opera a cui tengo ancora moltissimo, ma ha uno spirito diverso da quello richiesto nel Giallo che è la testata storica del Mystery in Italia. “Montecristo” è un thriller politico, pieno d’azione, attuale. “Il palazzo dalle cinque porte”, invece, gioca le sue carte sull’atmosfera, sull’intreccio, la ricerca del colpevole. Mi ero ripromesso di non far sparare al protagonista neanche un colpo di pistola. E così è stato.



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DPMG Quali sono a tuo avviso le maggiori differenze tra scrivere per una collana e per la libreria ?

SDM le collane economiche Mondadori sono una grandissima scuola di scrittura. Ti insegnano a restare nel format preciso della testata, nel numero di pagine richiesto. L’atmosfera, le sfaccettature psicologiche, i particolari devono essere studiati con molta attenzione. Non sono ammesse ridondanze o ripetizioni. In pratica non si può … allungare il brodo per scrivere ‘la bella pagina’ come a volte succede nei ‘romanzoni’. Questo non significa usare un linguaggio sciatto o tirato via. Non è facile.


DPMG Se dovessero proporti una trasposizione cinematografica per il tuo romanzo , chi vorresti alla regia e chi proporresti per i ruoli chiave?

SDM. Qui arrivano le dolenti note. Purtroppo(opinione personale e forse non condivisibile) ritengo che cinema e fiction italiani attualmente siano lontanissimi da me. Per “Il Palazzo dalle cinque porte” mi piacerebbe Michele Soavi alla regia, l’unico che credo ancora capace di evocare atmosfere. Bas Salieri, il protagonista, fisicamente è ispirato a un personaggio a fumetti visto oltralpe, non riesco a vedere un interprete particolare. Di sicuro Zemanian è Adolfo Celi come lo ricordiamo e Martina Suzie Kendall dei tempi di “L’uccello dalle piume di cristallo”, “Spasmo” e “I corpi presentano tracce di violenza carnale” che, come sai, è uno dei miei preferiti del genere. Il mio immaginario, in questo senso, lo ammetto, è un po’ retrò.

SDM

Stefano Di Marino si occupa della narrativa d’intrattenimento in tutte le sue forme da oltre vent’anni. Con lo pseudonimo Stephen Gunn firma per Segretissimo la serie Il Professionista dal 1995. Ha pubblicato il saggio C’era una volta il thrillingnell’antologia Il mio vizio è una stanza chiusa (Supergiallo Mondadori, 2009) da lui stesso curata, e Paura sul piccolo schermo in Cripte e incubi (Bloodbuster, 2012). Nel Giallo Mondadori ha pubblicato la trilogia hard-boiled Montecristo e, nella stessa collana, il racconto Donna con viso di pantera in Giallo24. Il mistero è in onda. Dal 2009 scrive romanzi e racconti thriller per la rivista “Confidenze” (Io sono la tua ombraSortilegioAppuntamento a MadridMaschere e pugnaliLa finestra sul lago,Il mare degli inganni e La casa con i muri rosa).

 


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Scorribande giallistiche IV

ottobre 17th, 2013

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Mamma li turchi, anzi i cinesi!..

Continuo queste scorribande veloci  di palo in frasca che mi fanno sentire ancora giovincello scherzoso. Chi vuole qualcosa di più profondo e corposo passi oltre.

Mamma li turchi, anzi i cinesi! Dopo l’invasione del malloppone scandinavo ecco la banda degli occhi a mandorla che si abbatte sull’italico suolo con Xialong Qui, Hiao Bai e He Jagong. Dagli immacolati silenzi nordici ai casini di Shanghai e dintorni. Ma il risultato è sempre lo stesso: il morto ammazzato. Anzi, i morti ammazzati.

Il Berkeley de L’ultima tappa è forte, via. Congetture, ipotesi, supposizioni, certezze che svaniscono fino allo stupendo finale che scombina tutto. Da artista.

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INTERVISTA CON PAUL HALTER di Pietro De Palma

agosto 13th, 2013

Tempo fa ho conosciuto Paul Halter. Il celebre scrittore francese, l’unico che in tempi recenti abbia raccolto con successo l’eredità di John Dickson Carr, scrivendo romanzi e racconti con Delitti Impossibili e Camere Chiuse, vive a Strasburgo: la nostra conoscenza, pertanto, si è approfondita per corrispondenza

Il suo indirizzo email mi è stato fornito da altro mio conoscente, John Pugmire, altro grande conoscitore di Camere Chiuse ed enigmi letterari, che traduce in inglese da alcuni anni, tra l’altro, i romanzi di Halter. John fu invitato anni fa assieme a Igor Longo, a Philippe Fooz, Vincent Bourgeois e Michel Soupart, e a qualche altro critico, al meeting del 2007 di Roland Lacourbe. John, che ho conosciuto due mesi fa, dopo aver letto alcuni miei articoli, soprattutto quelli concernenti le Camere Chiuse, mi ha risposto ed è cominciata una corrispondenza. Un giorno gli ho chiesto la email di Halter, e lui, dopo averlo chiesto ad Halter, me l’ha fornita. Così sono entrato in contatto con Paul Halter.

Ci siamo scambiati impressioni, lui ha voluto leggere degli articoli che avevo dedicato a suoi romanzi, e in anteprima l’ultimo, dedicato a La Quarta Porta, che è molto letto sul mio altro blog, quello in lingua inglese, e che gli è molto piaciuto. Da allora, ci siamo scritti più volte, ancor più quando gli ho detto che avevo conosciuto Igor Longo (che al tempo era stato colui che mi aveva fatto conoscere Halter ed i suoi romanzi).

Un giorno gli ho chiesto se mi avesse potuto concedere un’intervista: era molto tempo che gliene avrei voluto fare una, impostandola diversamente da altre che gli sono state fatte nel tempo, cioè interrogandolo non solo sui suoi romanzi, ma anche sul suo rapporto con il suo lavoro, gli amici, le passioni, gli amori, la sua vita. Ha subito accettato tuttavia sottolineando che, non conoscendo l’italiano e non proprio perfettamente l’inglese, avrebbe preferito colloquiare in francese (alla traduzione ho provveduto personalmente).

L’ intervista tuttavia non ha seguito lo schema consueto, che si adotta quando l’intervistato è lontano, cioè inviare le domande assieme, facendo sì che egli possa rispondervi e restituire il tutto al mittente, magari correggendo qualcosa ma lasciando il tutto inalterato: no, quest’intervista è stata impostata diversamente. Infatti, per merito della mia inesauribile curiosità e della sua amabilità e pazienza (Paul Halter è una persona amabile, gentile e squisita. Chissà perché negli ultimi tempi ho conosciuto solo persone amabili, gentili e squisite: John Pugmire, Roland Lacourbe, Philippe Fooz, Paul Halter. E chissà perché, poi, sono tutte all’estero, mentre da noi…Vabbè è un’altra storia), le risposte alle domande che gli ho posto, hanno generato altre domande e poi altre risposte, dando il via ad una corrispondenza fittissima che ha portato, come risultato finale, alla definizione di un ritratto inedito di Halter, pieno di sogni, di verità, di affermazioni, di negazioni. Un ritratto a 360° che non mancherà di affascinare (e di sorprendere talora: per certi versi ha sorpreso persino me!).

La propongo in occasione della pubblicazione ne Il Giallo Mondadori, del suo romanzo inedito – il diciottesimo ad esser pubblicato in Italia – “La Settima Ipotesi”, Le Septième Hypothèse, tradotto da Igor Longo.

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Buongiorno, Paul. Ti ringrazio per aver acconsentito a rispondere a delle domande. Innanzitutto, ci vuoi raccontare qualcosa di te, in breve: dove sei nato, infanzia, esperienze lavorative, amori, letture, amici. E soprattutto, come sei arrivato un bel giorno a decidere di cimentarti con la scrittura? Il tuo primo romanzo è stato La malediction de Barberousse. Lo hai scritto di getto, nell’imminenza del concorso, oppure vi avevi pensato in precedenza?

Sono nato a Haguenau, e ho trascorso la mia infanzia, abbastanza felice in questi benedetti 60 anni di tempo, senza subire per nulla la terribile “Maledizione di Barbarossa“, anche se poi abitavo a 200 metri dalla Torre di Pescatori (luogo del delitto principale della storia). L’Amore, le ragazze? Certo, ma prima di questo, ero un appassionato di lettura, di misteri. Ho divorato tutta A. Christie dai 12 ai 16 anni. Amavo anche la serie televisiva inglese Chapeau Melon et Bottes de cuir 1 (= Bombetta e stivali in pelle), poi ho sentito (nel 1970) la canzone “Venus” degli Shocking Blue, e ho comprato immediatamente una chitarra, per arrivare a suonare questa canzone . Poi non ho mai abbandonato la mia chitarra, fino a circa i 25 anni. Mi sono sposato, ho condotto una vita tranquilla, e mi sono riallacciato ai miei primi amori: i romanzi polizieschi. Scoperta di Dickson Carr in quel momento. Nuovo colpo di fulmine! Dopo aver letto di lui tutto ciò che era disponibile in francese, ho deciso di seguire questi puzzle, e così è nata La maledizione di Barbarossa … Ero molto motivato e volevo davvero fare qualcosa di speciale. E ho scritto nella scia (di questa) La quarta porta, nello stesso stato d’animo …

Perché “La maledizione di Barbarossa”, nonostante sia stato il tuo primo successo, ha dovuto aspettare numerosi anni prima di essere ripubblicato, mentre “La Quarta Porta”, dopo aver vinto un concorso, è stato immediatamente pubblicato?

A proposito di “Barbarossa” era stato pianificato con Le Masque che questo romanzo sarebbe stato pubblicato un giorno, ma non subito. Le Masque ha voluto aspettare fino a quando io avessi già una certa notorietà, prima della pubblicazione. Non mi ricordo esattamente, ma è possibile che il corretto apprezzamento di John2 mi abbia ricordato che questo romanzo era ancora in riserva e (quindi) ho poi (1995) parlato a Le Masque al fine di pubblicarlo. Quel che è certo è che non ho avuto “dubbi”, perché mi piace questa storia, che è stato per di più il mio primo tentativo.

Il tuo secondo romanzo è stato “La Quarta Porta. Con esso, hai vinto una prima grande competizione e, soprattutto, è stato un successo. Il romanzo, come tutto le tue opere, presenta delle caratteristiche fisse: ha sfide impossibili (2 Camere Chiuse), ha molta atmosfera e un finale d’effetto.
Perché queste caratteristiche sono così importanti per te?


Sì. Per me, scrivere una storia di questo genere, era soprattutto una sfida. (Ricordate a quel tempo ero sotto una buona influenza, dopo aver letto i principali Carr , ma anche Robert Bloch e Fredric Brown). Carr ha detto: Quando ho scritto un romanzo, ho sempre voluto fare qualcosa di speciale, un libro che avrebbe reso tutti gli altri mediocri” 3 Ho cercato di applicare questo metodo con La Quatriéme Porte .. Devo anche dire che avevo appena letto una biografia di Roland Lacourbe su Houdini. Lì, ho sentito che avevo trovato la mia materia! Perché, a suo modo, si può dire, che Houdini fosse anche un maestro de “l’impossibile! “.

Ho spesso notato che i tuoi romanzi contengono citazioni e riferimenti ad autori e opere che hanno avuto un certo effetto su di te: le tue citazioni sono intenzionali oppure no? Per esempio, il racconto del ponte in La malediction de Barberousse, che cita un racconto di Hoch; o i rimandi a opere del passato nel caso de La mort derrière les rideaux: la pensione del L’assassin habite au 21 di Steeman, oppure la figura della zitella di Murder is Easy di Agatha Christie; o la presenza del gatto guercio, come in Poe, nel finale de L’Image Trouble.

Non credo che sia davvero intenzionale. Semplicemente, ho fatto riferimento ad autori, libri che ho amato, che hanno segnato la mia infanzia. La storia del Gatto Nero di Poe mi aveva terrorizzato unitamente al film di Clouzot (L’assassin habite au 21), o ancora Murder is Easy da Agatha Christie, come tu hai giustamente indovinato. Quindi è più una questione di piacere personale che di voler onorare loro, anche se lo meriterebbero alla grande. Inconsciamente o no, io non lo so, ho voluto restituire quello che avevo provato nella scoperta di queste storie e di questi film. Penso che si possano trovare altri riferimenti di questo tipo, nella maggior parte dei miei romanzi. Sta a te scoprirli! E penso che sia abbastanza facile per persone come voi che conoscono bene i loro “classici” …

Come si scrive un romanzo? In altre parole, quale tecnica usi? Immagini la fine della storia e da essa vai indietro sino all’inizio, come fanno alcuni; o hai un idea precisa in mente, o forse prendi appunti, come faceva Agatha Christie e dopo scrivi la trama , più o meno delle linee guida; o anche inizi a scrivere, e poi, man mano che vai avanti, inserisci sempre nuovi cambiamenti in base alle idee che ti si formano in mente?

In verità, io cambio spesso circa il metodo, soprattutto per il punto di partenza, che può essere qualsiasi cosa: un’idea, un’immagine, una sfida, una discussione tra amici, una notizia, che è mi è arrivata. Così, nel caso de L’image trouble (Cento Anni prima), mi sono imbattuto in una copertina di un libro che mi ha molto commosso, senza che abbia compreso il perché. Sembrava una buona partenza della storia, e ho debolezza di credere che l’Image Trouble sia stato un buon successo.
Tuttavia, ho ancora le mie piccole abitudini. Così, ho sempre impostato un piano molto specifico prima di iniziare a scrivere. Ma non tutto è definito, è necessario lasciare un po’ alla sorpresa, all’improvvisazione. E una volta che sei lanciato, delle nuove idee affluiscono … che cerco di usare il più possibile. (Perché è difficile cambiare colpevole nel mezzo della storia!)
In caso contrario, prendo appunti. Li scrivo su un pezzo di carta che metto in una scatola (di scarpe). A volte li rileggo, e metto insieme le mie idee. Infine, la “atmosfera” è cruciale. Questa nozione, devo ammettere, proviene spesso dalle mie letture,da i film che mi hanno segnato. A questo proposito, devo molto a Carr e Christie. Mi dico che voglio fare una storia come The Burning Court, Murder Is Easy, ecc. Allo stesso tempo, cerco di innovare, di trovare una nuova illuminazione per un giallo. Oppure, come ho detto sopra, la riflessione di un amico mi può portare molto. Un giorno, Igor Longo, che stava sfogliando un fumetto di Ric Hochet (Le Double qui tue= Il Doppio che uccide), mi ha detto: “Questa è una eccellente storia di bilocazione! Non hai mai usato questa idea come tema principale”. E così è nato La Corde d’argent  (a proposito, apprezzo e ringrazio Igor per il suo intervento!)
Ma ci sarebbero ancora molte cose da dire! Il design di ogni romanzo ha una lunga storia! Il defunto Fredric Brown ha detto che ci vorrebbero 100.000 pagine per descrivere l’elaborazione di un libro che ne avrà 250! E in fede mia, aveva ragione!

Nella tua carriera letteraria, quanto peso hanno avuto scrittori come Carr, Christie, Rawson, Chesterton, Doyle, Talbot? E chi di loro ha pesato più di altri?

L’influenza di Carr e Christie, è enorme, si capisce. E quella di Doyle, naturalmente. Rawson e Talbot sono venuti dopo. Ma di questi ultimi due, non ho mai cercato di riprodurre qualcosa. Le loro trame sono eccellenti, ma manca il “tocco British”, l’atmosfera, il senso del bizzarro. E a proposito di “Bizzarro”, il maestro del genere, è forse Chesterton (che ha notevolmente influenzato Carr in proposito). Il “Bizzarro” è anche una situazione impossibile di prim’ordine. Qui, l’impossile riguarda il comportamento umano. Perché Tal dei Tali mangia il suo cappello all’uscita della Messa? Ancora una volta, le nostre cellule grigie sono messe a dura prova nello sforzo di dare un senso a tale “nonsense”. Per me, per esempio, “The Club of Queer Trades4 è un top, soprattutto la prima grande avventura.

E gli autori francesi, quale influenza hanno avuto su di te? Chi di loro ha avuto una maggiore influenza su di te? E quali opere in particolare?

Senza grande originalità, citerò Gaston Leroux, e il suo famoso “Le Mystère de la Chambre jaune” (=Il mistero della camera gialla) che Carr stimava molto, e a ragione. Vi è un po’di tutto in questo romanzo: i crimini impossibili, maschere strappate (identità rivelate), colpi di scena incredibili, ecc. Ho letto questa storia molto giovane ed è stata probabilmente la mia prima vera “camera chiusa”. Ho scoperto Arsene Lupin più tardi, nei telefilms televisivi. Era più leggero, l’umorismo ha la precedenza sul mistero, anche se era a volte di qualità. Vindy e Lanteaume, non li ho letti che dopo. (Vindry) è tecnicamente buono, ma manca dolorosamente di romanticismo (lo stesso vale per Boileau). In un libro come A travers les murailles (= Attraverso i muri), c’è qualcosa davvero che manca. Per me, Le Mystère de la Chambre jaune è nettamente superiore. Infine, lo ammetto, questo è un punto di vista puramente personale.Questo è tutto quello che posso dire di autori francesi. Il mio “latte materno” sono stati senza dubbio gli intrighi di A. Christie, nella famosa collezione gialla di Le Masque. Una collezione leggendaria, e non avrei mai immaginato che un giorno io potessi farne parte ! E mai avrei potuto immaginare che Le Masque potesse seguire la devianza “noir” di oggigiorno … ma questa è un’altra questione.

I tuoi finali sono spesso bizzarri e sono concepiti come un coup de theatre, riprendendo la tradizione surrealistica e antirealistica di autori francesi come Leblanc, Leroux, Steeman, Very, Boileau, Narcejac, Vindry. Molto spesso ho notato che i tuoi romanzi – e per questo mi piacciono – sono visionari, fanno dei salti pindarici di fantasia, sacrificando il realismo e la logica dei romanzi di marca anglosassone a ciò. Intendiamoci, è una caratteristica tipica dei romanzieri francesi, soprattutto quelli che ho citato (forse tranne Vindry che è quello più legato a Carr e Simenon che è l’applicazione del realismo e la negazione del surrealismo).

Che peso ha la fantasia rispetto agli altri ingredienti nell’elaborazione delle tue opere?

E l’atmosfera che è sempre molto suggestiva, è il risultato di qualcosa connesso allo stile oppure è qualcosa di innato in te, cioè anche quando eri più giovane riuscivi ad evocare suggestioni intense?

Il grosso problema per un romanzo poliziesco, è che la magia del mistero cessa di operare alla fine, quando tutto è spiegato in dettaglio. Abbiamo bisogno di trovare un escamotage per cui il fascino continui a funzionare sempre. L’esempio migliore resta a mio avviso la fine di The Bourning Court di Carr. In altre parole, trovare qualcosa per accreditare il fantastico dopo la spiegazione finale. Come definizione del romanzo poliziesco, Pierre Véry parlava di “favola per adulti” e io sottoscrivo senza riserve questa dichiarazione. Per i bambini piccoli che siamo stati, quelle storie di streghe, di fate e di draghi sono state una vera e propria scuola di preparazione al romanzo poliziesco! E inconsciamente, penso di cercare di trovare questi primi brividi scrivendo le mie storie. Il tema della fiaba è sempre celata al di sotto. Ne “L’homme qui aimait les nuages” 5 , è ancora evidente. L’eroina sembra essere una fata, mentre il colpevole è il “vento”.
Parlando dell’ “atmosfera”, non so sia qualcosa di innato, ma in ogni caso, mi sembra necessaria per scrivere una buona storia. E tanto che se non la sento, non comincio a dare inizio alla mia storia.

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9) Tu sei francese, ma non solo. Nella tua formazione letteraria, ha giocato un ruolo solo la tua eredità francese oppure anche quella alsaziana?

Francese, sì, ma come ho spiegato sopra, sono stato particolarmente sensibile ai romanzi polizieschi inglesi. L’Alsazia, si trova solo, credo, ne La malediction de Barberousse . Non si dice spesso di un autore che la sua prima opera è autobiografica? Certo, io amo la mia regione natale, ma sono anche appassionato di esotico. E non è certo il mio unico paradosso …

10) Mi ricordo che una volta Igor fece una distinzione tra i due grandi gruppi del Mystery: gli sperimentali ed i tradizionali. I primi sono quelli che non amano chiudersi in una formula, i secondi quelli invece che continuamente rielaborano, variandoli, dei clichè da cui non si discostano, moltiplicando enigmi e misteri. Lui ti poneva nel primo gruppo (Christie, Queen, Halter, Leroux, Steeman) e non invece nel secondo (Stout, Rhode, Van Dine,  Marsh , Sayers, Crofts, e in parte lo stesso Carr). Che ne pensi?

Tengo Igor in alta considerazione (la cultura poliziesca è veramente prodigiosa), quindi non mi permetterò di contraddirlo. In realtà, ho spesso voglia di scrivere le mie storie con nuova illuminazione. Con successo? Non so … Mi sembra sempre di fare bene, ma i miei lettori a volte non sono d’accordo. In verità (e questo è ciò che è grande nel mestiere di un romanziere), io voglio fare veramente, ciò che viene reso nelle mie storie. Mi piace scrivere storie. Altrimenti, come produrre qualcosa di convincente, se non si è sicuri di sé?

11) Ho notato che ci sono dei motivi ricorrenti in alcuni tuoi romanzi: i bambini e i ragazzi per esempio (la fanciullezza), il macabre, la pazzia. In particolare per esempio diversamente dai romanzi di Carr o di Ellery Queen o di Agatha Christie o di Van Dine in cui di solito gli assassini sono sempre soggetti calcolatori, astuti, talora anche vittime, ma sempre nel pieno possesso delle proprie facoltà, i tuoi assassini sono spesso vittime della pazzia, follia, amnesia, cioè soggetti con tare della mente, quasi non fossero responsabili in fondo delle proprie azioni. Che ne dici?

Sì, mi piace il tema della follia. Ciò consente di presentare modelli vari e sorprendente. Interessanti anche i problemi psicologici legati ai bambini (evitando il sacrosanto stupro dello zio!). Direi che i miei criminali sono spesso “ossessionati” da una passione, una fobia, ecc. Per essere più precisi, avrei dovuto dettagliare ognuna delle mie storie, ma vorrei lasciare al lettore la cura di scoprirlo di persona.

12) E ora analizziamo le tue fissazioni: le valigie, la pittura, le tende, per esempio presenti in vari romanzi. Come sono nate ? Ci sono altre fissazioni?

Un giorno un lettore mi ha fatto notare che la maggior parte dei miei titoli presentano spesso elementi d’architettura o delle figure, o entrambi: La Quatrième Porte, La Chambre du fou, La Septième hypothèse, les Sept Merveilles du crime, La Mort derrière les rideaux, etc.. Allora non ne ero cosciente. Le figure apportano di per sé un elemento di mistero: le porte, le finestre. E allo stesso modo puntare sulle “porte”, sulle “finestre”. Una porta socchiusa, una finestra illuminata di notte … questi sono elementi specifici del romanzo poliziesco. E a questo riguardo, mi inquadro in un filone decisamente classico. Le strade, le case per me sono esseri viventi, hanno un anima. Naturalmente, la magia non funziona in un sobborgo moderno. Ma chi ha letto John Ray, per esempio, può capire molto bene cosa intendo.

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13) Nei tuoi romanzi talora si riscontrano delle caratterizzazioni sociali e culturali: forse ho interpretato male, ma talora ho visto una tua negazione dell’aborto, una tua condanna di certi atteggiamenti etici libertari. In sostanza per me tu sei sostanzialmente un credente, cattolico o protestante non importa. Ma sicuramente non sei agnostico. E in un certo senso sei anche tradizionalista. Questi tuoi valori, in un certo senso in contrasto con quelle che sono le tendenze culturali e sociali odierne, e anche il tuo genere letterario (Mystery) in un tempo in cui i Noir vanno per la maggiore, ti ha procurato delle noie?

In realtà, io sono molto tradizionalista. Amo tutte le tradizioni, tutte le epoche. Tutte tranne una: quella odierna. La caratteristica del nostro secolo è senza dubbio la bruttezza che si presenta in tutte le sue forme (musica, architettura, idee sovversive, ecc.) E’ fisicamente impossibile per me seguire questa moda. Ho bisogno di un ambiente pittoresco (cioè tradizionale) per sviluppare una storia. Devo senz’altro rappresentare la figura di un fossile agli occhi dei nostri critici, ma non importa. Uno scrittore deve essere innanzitutto onesto. Avendo fino ad oggi scritto una quarantina di romanzi, ritengo di aver contribuito col mio blocco di costruzione all’edificio dell’enigma. Per il resto …

Ho letto in altra intervista che dal confronto con alcune persone, sono nati alcuni tuoi romanzi: per es. hai raccontato in passato che Le toile de Penelope è stata la risposta a Philippe Fooz che ti sfidava a inventare una Camera Chiusa, in cui ci fosse una ragnatela. E io che invece pensavo che anche quella fosse una citazione, un rimando a due romanzi: uno di Abbot prima, ed uno di Rogers dopo…

Hai prodotto altri romanzi, elaborati sulla base del confronto con altre persone? Che influenza e che importanza hanno i tuoi amici nella tua vita?

Preciso: l’idea di “La toile de Penelope” non proviene da Philippe Fooz ma Vincent Bourgeois, un altro dei miei amici belgi. Questa è per me una sublime idea, che ho subito usato in un romanzo. Colgo l’occasione per ringraziarlo ancora una volta, tuttavia precisando che “le idee” fornite dagli amici sono raramente sfruttate. Ma devo allo stesso modo ancora ricordare Roland Lacourbe, che mi ha fornito una quantità di soggetti molto interessanti, situazioni bizzarre, e che soprattutto ha saputo stimolare la mia passione per il mistero con il suo eccezionale talento di narratore. Tra le altre cose, è lui che mi ha ispirato l’idea de Le Septième Hypothèse (“La settima ipotesi”), riesumando la storia di Arabian Nights Murder (“Delitti da Mille ed una notte”) di Carr. Alcuni lettori d’altronde a ragione hanno messo in chiaro l’analogia tra il mio medico della peste e il “profeta barbuto” di Carr.

16) Nei tuoi romanzi abbondano Camere Chiuse, ma anche elementi sovrannaturali. Condividi in definitiva le stesse idee di Carr. Ma tra te e Carr c’è una fondamentale differenza: il sovrannaturale in Carr finisce laddove interviene il detective, espressione di logica e razionalismo (tranne che in The Bourning Court e in qualche racconto), (mentre) nei tuoi romanzi, invece, il sovrannaturale non è detto sempre che non sopravviva. Nei tuoi romanzi il mondo dei vivi e il mondo dei morti sono spesso intimamente connessi. Perché?

Credo che derivi dal mio interesse per il passato. Mi piace quando un puzzle ha le sue radici in un passato misterioso, un sinistro, che fa riferimento ad un caso che si perde nelle pieghe del passato. L’indagine diventa quasi il lavoro di un archeologo. E ‘anche vero che le credenze erano molto più radicate nei periodi remoti. Ciò mi consente di tuffare più facilmente una storia nel soprannaturale. Gli antichi misteri mi affascinano … Darei molto per disporre di una macchina del tempo per tornare indietro e regolare, per esempio, i comandi sulla caduta nell’autunno 1888 nel quartiere di Whitechapel. Potrei anche smascherare il sinistro Jack lo Squartatore …

Siccome tu ne La Quarta Porta, immetti a profusione elementi fantastici, ed essenzialmente lasci in sospeso la reincarnazione di Harry Houdini, come bene si legge in molti altri tuoi romanzi di letteratura fantastica, per esempio il paradosso temporale in L’Image trouble (Cento anni dopo) allo stesso modo di Fear, Burn! di Carr, pensi di essere solo un romanziere di letteratura poliziesca, o anche un romanziere di letteratura fantastica?

Penso di essere nella categoria di scrittori di gialli classici, perché in fondo tutti gli elementi fantastici della storia sono sempre spiegati alla fine, come il paradosso temporale in ” L’image trouble “. Tuttavia, mi è anche capitato di conservare un aspetto fantastico in uno o due dei miei romanzi, come ” Le Chemin de la lumière “, con un ritorno al passato. Questo è senza dubbio un romanzo fantastico, anche se altri misteri si spiegano (l’uccisione della sacerdotessa minoica nel suo tempio circondato da sabbia vergine).

Va notato che il soprannaturale, anche se è evidente, è un elemento chiave delle mie storie, come in Carr. In questo ci distinguiamo da molti scrittori di mistero. Noi amiamo più di altri, le storie di fantasmi. perché in realtà, un problema di camera chiusa non è altro che una storia di fantasmi, poiché solo loro possono attraversare le pareti. E riflettendo, un “mistero” non è di per sé un evento inspiegabile? Quindi, non potremmo definirci come degli “autori di misteri”?

Molto spesso, i tuoi romanzi sono narrati in prima persona, piuttosto che in terza. Questo va, ovviamente, a sollevare il problema della verità di ciò che è stato detto dal narratore, e che può anche essere l’assassino (il che accade in alcuni dei tuoi romanzi, più di uno). Tu adotti il racconto in prima persona (quando capita), per questo motivo, o lo fai per un altro?

Semplicemente, si tratta di una tecnica narrativa, accoppiato con una focalizzazione particolare sulla recitazione. L’uso della prima persona porta il lettore ad identificarsi nel narratore. Ma la terza persona facilita descrizioni accessorie. Ovviamente, devo fare una scelta. Questa è una funzione della storia. E io devo sempre dare priorità alla storia.

19) L’uso della prima persona, identifica il lettore nel narratore, dici.
Siamo d’accordo. Ma l’adozione di questa procedura, per te, è solo una questione di ordine tecnico, o è il frutto dell’influenza di Agatha Christie su di te?

Anche su questo piano (è vero), ho sofferto l’influenza di Agatha Christie. La scoperta del colpevole in The Murder of Roger Ackroyd (“L’assassinio di Roger Acroyd”) è stata una grande sorpresa per me. Ma spesso si dimentica che AC si ripetuta con “la Nuit qui ne finit pas  ” (Endless Night) 6. Un ottimo libro, che mi aveva anche colpito ai suoi tempi. Credo anche che far scrivere “io” quando si parla dell’assassino, fornisce anche qualche bel brivido al romanziere. Se mi ascoltassi, tutte le mie storie avrebbero il narratore come colpevole!

Che valore hanno le traduzioni delle tue opere, sul tuo successo all’estero? Con i tuoi traduttori, ci sono solo rapporti di lavoro o anche relazioni amichevoli? E soprattutto in Italia, qual è il tuo rapporto con Igor Longo? Quanto tempo fa vi siete conosciuti?

In generale, non vi è alcun legame tra l’autore e il traduttore, ma per Igor Longo e John Pugmire (USA), è diverso. Ero in contatto con John prima che cominciasse a tradurre i miei libri. Lui è appassionato di enigmi della camera chiusa, come Igor, anche. Penso che Igor sia uno dei maggiori esperti al mondo per il romanzo poliziesco. L’ho incontrato poco dopo le sue prime traduzioni, quando venne a Strasburgo. Ora sono due amici, e a loro devo un sacco. Entrambi hanno lavorato molto per l’enigma classico. E mi piace cogliere l’occasione per ringraziarli calorosamente. Che Dio benedica le Camere Chiuse!

Oggi pochi autori scrivono mystery (tranne che in Giappone).

Conosco la tua posizione a riguardo della letteratura noir e quindi non ti rifaccio la stessa domanda. Mi piacerebbe sapere se tu abbia incontrato difficoltà in Francia con gli editori circa la pubblicazione dei tuoi romanzi, prendendo in esame la grande maggioranza di scrittori noir, e se tu hai incontrato resistenze ad accettare il mystery in luogo del romanzo noir. E secondo te se vi sia differenza tra il mystery storico e il puro mystery, poiché tutti gli scrittori oggi scrivono mystery storici: evidentemente c’è un’abbondanza di storici, oggigiorno!

Onestamente, no, non ho quasi avuto problemi con le case editrici quando ho ricevuto il premio di Cognac e il premio del Romanzo d’avventura. E dal momento che ero pubblicato dalle edizioni Le Masque, simbolo francese del mistero, mi sentii in perfetto accordo con questa collezione, che mi pubblica ancora 35 romanzi (se non ricordo male.)
Per i gialli storici, sono d’accordo, è diventato una moda da qualche tempo. Non credo che la maggior parte dei lettori apprezzino i dettagli sociali o storici che vengono sviluppati. Se voglio conoscere la vita dei romani o greci dei tempi antichi, compro un libro di storia.
Detto questo, io non metto tutto in un carrello. Ci sono buone sorprese. E torno ancora alla mia cara A. Christie, che ci ha offerto un bellissimo libro ambientato nell’antico Egitto: La Mort n’est pas une fin 7. E ‘una bella storia, che si arricchisce di atmosfera, la magia dell’antico Egitto. A.Christie non è caduta nell’ulteriore trappola della descrizione sociale. Le sue priorità sono come sempre: il romanzo, la storia, i personaggi. Spesso mi capita di rileggere un romanzo di Agatha Christie, ed è sempre con la stessa felicità. Il giorno che fossi stanco delle sue storie, sarei stanco della vita!

Tu hai 57 anni, e puoi dire “ho scritto quasi quaranta romanzi”. Scrivi un romanzo per anno, si può dire. L’ultimo è stato “La Tombe indenne”. Non ti è mai venuto in mente di scrivere storie per ragazzi come Jo Nesbo o l’italiano Giulio Leoni? E, mettendo la parola fine a quest’intervista, cosa fai oltre che scrivere romanzi? Stai lavorando a qualche altro romanzo?

Quest’intervista sarà diffusa non solo in francese ed in inglese, ma sarà posta all’attenzione del pubblico italiano. Vuoi dire qualche cosa?

Ti ringrazio del tempo e dell’attenzione che mi hai riservato.

No, non ho intenzione di scrivere regolarmente romanzi per ragazzi. “Spiral” era un’eccezione, una richiesta del direttore della collezione, che mi aveva già sollecitato per un’altra serie (La Nuit du Minotaure = La Notte del Minotauro). Ci sono troppi vincoli, preferisco scrivere storie per i “grandi”!
Attualmente sto rileggendo il romanzo appena finito Le Masque du Vampire (= La Maschera del Vampiro – titolo suscettibile di essere cambiato). Dopo di che, mi dimenticherò per qualche tempo le “camere chiuse” per ricaricare le mie batterie al meglio, facendo qualcosa di diverso (musica, acquerelli, escursioni), come ho l’abitudine di fare dopo aver completato un libro.

Per concludere, mi sia permesso di parafrasare il compianto John Dickson Carr: “Se i miei lettori potranno divertirsi leggendo anche solo la metà delle storie che io abbia scritto, sarò entusiasta!”.

Vorrei aggiungere che io sono molto felice di essere pubblicato regolarmente in Mondadori, tra l’altro, per le sue belle copertine di libri, che sono fonte sempre d’ammirazione dei miei amici collezionisti.

1 The Avengers, serie televisiva britannica ultrafamosa con Patrick Macnee (John Steed) e tre belle assistenti: Cathy Gale (Honor Blackman), Emma Peel (Diana Rigg), e più tardi Tara King (Linda Thorson)

2 John Pugmire : “The first novel Paul actually wrote was La Malediction de Barberousse… No sooner had I said that than Paul authorized Le Masque to publish it, based, he said, on the fact that I liked it. It came out in 1995”. L’affermazione mi è stata fatta personalmente da John. Sgombra il campo. Paul Halter si ricordò di segnalare a Le Masque che avrebbe potuto pubblicare il libro, una volta saputo che il libro piaceva anche ad uno dei suoi amici più cari. Si fidò cioè del commento di John Pugmire (oltre che del proprio).

3 L’espressione usata da Paul è stata: Carr a dit : « Lorsque j’écris un roman, j’ai toujours envie de faire quelque chose d’exceptionnel, un livre qui frapperait tout les autres de nullité. ». In realtà l’espressione completa e fedele di Carr è: « Mon intention est toujours d’écrire un roman policier véritablement exceptionnel, ce à quoi en toute honnêté j’estime ne pas être encore parvenu. Quand un auteur de mon espèce déclare une chose pareille, il veut en réalité dire qu’il souhaite écrire un roman policier qui frappe tous les autres de nullité. C’est là bien entendu quelque chose d’impossible. Mais on peut toujours essayer. » (Roland Lacourbe, John Dickson Carr, scribe du miracle – Inventaire d’une oeuvre, pag.25)

4 Raccolta di racconti di Chesterton, pubblicata nel 1905. Il riferimento in particolare è al primo capitolo: The Tremendous Adventures of Major Brown

5 L’uomo che amava le Nuvole (inedito in Italia)

6 Nella mia fine è il mio principio

7 Death comes as the End (C’era una volta)

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POSTFAZIONE IDEALE A L’Ultima Tappa di Anthony Berkeley (Jumping Jenny, 1933 – titolo USA: Dead Mrs. Stratton: An Exploit of Mr. Roger Sheringham)

maggio 24th, 2013

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Di Pietro De Palma

Mi son chiesto sempre perché mai questo romanzo in Italia presenti questo insolito titolo, invece che ad esempio “Il salto di Jenny”. Io penso la risposta vada trovata nell’anno nel quale la traduzione di questo romanzo fu approntata, il 1946. Erano gli anni del mitico Giro d’Italia, delle sfide Coppi-Bartali, per cui in definitiva il titolo può esser stato pensato guardando al Giro, che in quell’anno fu vinto da Gino Bartali, e al contempo all’ultimo capitolo del romanzo, “l’ultima tappa”, la tappa finale del romanzo.

Pubblicata nel 1946 nella collana “Il Romanzo per Tutti”, quindicinale del Corriere della Sera, la traduzione di Luciana Crepax fu poi ripresentata dai Classici del Giallo Mondadori, nel 1979 col numero 322, e negli scorsi giorni è riapparsa in edicola col numero 1322: è una pura coincidenza, una casualità che le due edizioni siano distanziate esattamente da mille uscite? In altre parole, dopo mille stampe e ristampe, si è sentito il dovere di dar di nuovo alle stampe questo straordinario romanzo. Che, va detto, nella traduzione di Luciana Crepax, fu “asciugato”, come mi disse tempo fa Mauro Boncompagni, perdendo una quarantina di pagine, pagina più pagina meno. Si tratta più che altro di digressioni o riflessioni o incisi o dialoghi condensati in forma di monologo discorsivo (come il dialogo citato più avanti del Cap. IX, che nella traduzione italiana è ridotto a pochi righi in forma di monologo, come se a parlare fosse sempre Sherringham) che non cambiano sostanzialmente la trama, tranne che in alcuni casi, di cui parleremo. E quindi è anche vero, come dice il buon Mauro, che “per chi non lo ha, è comunque un’occasione da non perdere” acquistare il romanzo in edicola.

Jumping Jenny, dicevamo nel titolo. Perché?

Incominciamo a dire che nella prima pagina del romanzo (versione italiana), Roger Sherringham esclama:

– Stevenson li avrebbe chiamati “jumping jacks”, pupazzi sospesi ad un elastico. Due “jumping jacks” e una “jumping jenny”, visto che c’è anche una donna. Vogliamo chiamarla così?”.

Ma, nella versione inglese, nella prima pagina, il dialogo è un po’ più esteso:

Very nice,” said Roger Sheringham.

It is rather charming, isn’t it?” agreed his host.

Two jumping jacks, I see, and one jumping jenny.”

Jumping jenny?”

Doesn’t Stevenson in Catriona call them jumping jacks? And I suppose the feminine would be jumping jenny.” (dall’edizione U.S.A., Dead Mrs. Stratton: An Exploit of Mr. Roger Sheringham).

Quindi veniamo a sapere che ne parla Robert Louis Stevenson nel suo Catriona. Ma nell’edizione italiana non ve n’è traccia.

Il riferimento, per il lettore italiano, è al capitolo III del romanzo di Stevenson, “I go to Pilrig”:

“…Here I got a fresh direction for Pilrig, my destination; and a little beyond, on the wayside, came by a gibbet and two men hanged in chains. They were dipped in tar, as the manner is; the wind span them, the chains clattered, and the birds hung about the uncanny jumping-jacks and cried”.

Il riferimento è chiaro: Stevenson parla di due tizi appesi ad una forca, incatenati e incatramati, che vengono sballottati dal vento, che fa sferragliare le loro catene. I due impiccati sembrano dei jumping-jacks.

Jumping Jack, in inglese, è termine che si usa per indicare il pupazzo, “la marionetta”: ma siccome il primo in inglese è detto “Puppet”, direi che il termine anche per questo si applica più a marionetta, che, a distanza del pupazzo, è formata di tante parti articolate fra loro che, mediante fili, vien fatta muovere.

Per traslazione, un corpo inanimato sospeso ad una corda e fatto ballare dal vento, può, in modo macabro, essere assimilato ad una marionetta.

Sherringham, però, usa anche il termine “Jumping Jenny”. Questo può dirsi un neologismo inventato da Berkeley, e non era stato già usato da altri, a lui precedenti.

E’ sicuramente un termine non presentato a caso da Berkeley, ma fortemente allusivo, come tanti altri qui. Nel suo caso, se volessi analizzare l’etimologia del nome, dovrei dire che Jenny è una derivazione di Eugene. Eugene a sua volta deriva dal greco Ευγενιος (Eugenios) che a sua volta deriva dalla parola composta greca ευγενης (eugenes) , formata dall’unione delle parole ευ (bene) e γενης (nascita). Se volessimo ancora andare indietro, γενης deriva da γίγνομαι, verbo greco antico che significa anche “nascere”. In sostanza, Anthony Berkeley, secondo me, avrebbe fatto dare il nome di Jumping Jenny, al pupazzo appeso con le fattezze di donna, perché Jenny, in inglese, è forma femminile di Eugene. Il fatto interessante è che anche la moglie di David Stratton, la vittima, ha un nome, Ena, che è una forma femminile di Eugene, ed entrambi i diminutivi significano anche “ben nato”, well born.

Ecco perché il pupazzo viene chiamato proprio Jenny, Jumping Jenny: perché ha la stessa origine del nome di Ena Stratton. E si badi bene: il nome viene assegnato al pupazzo, ben prima che il fatto delittuoso avvenga.

E’ come se Ena sia stata in quel momento predestinata a morire. E Berkeley abbia detto, tramite il suo detective, che Ena “morirà”.

Potrei parlare di predestinazione, ma..non credo si tratti precisamente di quello. Io sono sicuro invece, che questo romanzo di Berkeley è uno di quei romanzi concepiti come un puro gioco intellettuale, al pari del Cluedo, senza apparentemente pretendere null’altro. E come in tutti i giochi, Berkeley fornisce delle piste, vere e false.

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Scorribande giallistiche III

maggio 10th, 2013

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Arieccomi!…

Visto il successo strepitoso degli altri pezzi (tutti i membri della mia famiglia li hanno letti) continuo con queste scorribande che sono in perfetta sintonia con la mia saltellante personalità

Ora siamo in tre. A scrivere. Dopo Jonathan è arrivata Jessica che succhia il latte come un’idrovora. E’ bella cicciotta, faccia tonda, occhi blu. Dice di non perdere tempo a fare sempre quel bischerone di nonno e incominciare subito (lo capisco dai ciondolamenti della testa). Anche Jonathan è d’accordo alzando il dito pollice e facendo l’occhiolino.

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“La Canarina Assassinata”. Il trionfo della deduzione e dell’erudizione di Philo Vance

aprile 22nd, 2013

Nuovo articolo a firma del nostro amico Piero De Palma.

 

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La Canarina assassinata è uno dei più bei Gialli dell’Età d’Oro del romanzo poliziesco.

Quando lo scrisse, Wilard Huntigdon Wright, aveva già pubblicato The Benson Murder Case, 1926 “La strana morte del Signor Benson”, romanzo che aveva ottenuto un buon successo. Ma è senza dubbio proprio con The Canary Murder Case, 1927 “La Canarina assassinata” e poi con The Greene Murder Case, 1928, “La Tragedia di Casa Greene”, che si impose come il più grande autore della sua epoca: due romanzi che fecero scuola.

Antitetici è bene dirlo: così come “La Tragedia di Casa Greene” è una vicenda di morte che si svolge claustrofobicamente in una dimora in cui sono costretti a vivere gli eredi di una fortuna, ed in cui aleggia dal primo all’ultimo istante un’atmosfera greve e plumbea, ne “La Canarina Assassinata”, l’atmosfera è invece frivola e salottiera, molto più leggera, ma al tempo stesso complicata.

I tre romanzi assieme formano una ideale trilogia

Da un certo punto di vista, si può dire, a mio parere, che sia uno dei più grandi romanzi polizieschi che siano mai stati concepiti. Oggi, che le soluzioni vandiniane sono state fatte proprie e poi superate da tanti grandi scrittori a lui successivi, Van Dine sembra essere Pollicino, e a taluni le sue soluzioni fanno ridere. Invece, non si può pensare alla letteratura poliziesca degli anni ’30, senza inchinarsi reverenzialmente dinanzi a Van Dine. Perché senza di lui non ci sarebbero stati Ellery Queen, Charles Daly King, il primo Rex Stout.

E dei romanzi di Van Dine, i due che hanno avuto più influsso sui posteri sono stati proprio The Canary Murder Case e The Greene Murder Case. In particolare The Canary Murder Case, ebbe un effetto dirompente all’epoca: fu in testa per parecchi mesi alle classifiche dei libri più letti.

Julian Symons nella sua opera critica più famosa, Bloody Murder, riportò il giudizio di un altro critico, Howard Haycraft, scrivendo che “ ..his second book, The Canary Murder Case 1927, broke all modern publishing records for detective fiction at the time” (Julian Symons, Bloody Murder, Penguin Books, 1985, pag.101).

Più in là a testimoniare il grandissimo successo riportato da questo romanzo e dal successivo romanzo, che sconvolsero la letteratura poliziesca del tempo, dominata dagli autori britannici, Symons affermava che “It was said that he had lifted the detective story on to the plane of a fine art, and by his own account he was the favorite crime writer of two Presidents” (op. cit. pag. 102).

Ma perché The Canary Murder Case ebbe tutto questo successo? Analizziamo la storia.

Innanzitutto chi è la Canarina? Prendendo a prestito la stessa prosa di Wilard Huntigdon Wright “..Margaret Odell aveva ricevuto il soprannome di Canarina in seguito a una parte sostenuta in un elaborato balletto orni­tologico delle Folies, dove ogni ragazza aveva una gonna che richiamava qualche uccello. A lei era toccato il ruolo della ca­narina; e il suo costume di satin bianco e giallo, insieme alla massa di luminosi capelli biondi e la carnagione bianca e ro­sea, l’avevano distinta agli occhi degli spettatori come una creatura di notevole fascino. Prima che trascorressero 15 giorni, tanto concordi erano stati gli elogi della critica e così regolari gli applausi del pubblico che il Balletto degli uccelli divenne il Balletto della canarina e la signorina Odell fu pro­mossa al rango di quella che caritatevolmente potrebbe esser definita première danseuse, con l’attribuzione di un valzer in assolo e una canzone interpolata appositamente perché desse prova delle sue molteplici grazie e talenti.

Alla chiusura della stagione, la ballerina aveva lasciato le Folies e, durante la successiva e spettacolare carriera nei luo­ghi di ritrovo della vita notturna di Broadway divenne popo­larmente e familiarmente nota come la Canarina. Fu così che, quando la trovarono brutalmente strangolata nel suo apparta­mento, il delitto fu definitivamente denominato: l’omicidio della Canarina” (S.S. Van Dine, The Canary Murder Case,“La Canarina Assassinata”, trad. Pietro Ferrari, Il Giallo del Lunedì, L’Unità/Mondadori, 1992, pag.7).

La Canarina è Margaret Odell, attricetta e soubrette di locali di serie B, di night club, che è poi diventata famosissima in certi ambienti di Broadway. Conosce il suo ruolo e sa quale sia anche il giudizio che le riservano negli ambienti borghesi di cui lei rappresenta il richiamo: nel balletto non fa altro che fare il verso ad un uccello e mostrare le gambe. Ma si illude di poter scalare la società e conquistare un suo posto importante. E’ un po’ lo stesso discorso che fa la puttana di un Bordello di lusso (la prostituta sogna un amore impossibile con un bel cliente che oltre che utilizzarla per il suo piacere, la introduca nel mondo “normale”) il discorso di Margaret Odell, che, finito lo spettacolo, si ritrova nel grigiore della vita i ogni giorno, da cui esce temporaneamente solo nel volgere di uno spettacolo in cui uomini facoltosi in ghette, cilindro e marsina, fanno la coda per vederla , magari dondolarsi su un’altalena, su un trespolo, su cui lei, La Canarina, mostra le gambe.

E’ chiaro quindi che Margaret Odell, come farebbe una qualsiasi mantenuta, cerchi qualcuno che le assicuri, almeno nel suo mondo fatto di lustrini e pailettes, una certa onorabilità e almeno l’illusione di aver scalato quella società che invece non la accetterà mai. E’ la società degli anni ‘venti, in cui la grande crisi economica portò sul lastrico decine di migliaia di persone, ma che favorì anche l’arricchimento maggiore di chi già era ricco.

La Canarina ha molte amicizia maschili e non lo nega: i suoi accompagnatori la sfoggiano come oggi si farebbe con una Ferrari Testarossa, le altre donne la invidiano o ne parlano male, lo immaginiamo, ma lei pensa di poter usare queste amicizie, per i suoi scopi, che sono quelli di far carriera. Ha raccolto le confessioni di chi stava tra le sue gambe, ed un bel giorno decide di far il gran passo: decide di forzare la mano ad uno dei suoi amanti, e metterlo con le spalle contro il muro. E’ facile pensare, e poi lo si saprà, a cosa aspiri La Canarina: non vuol più essere “La Canarina”, ma una signora del Jet-Set, appartenere a quell’ambiente di cui ha conosciuto “tanti validi esponenti”. Solo che non capisce una cosa molto semplice: chi mai sposerebbe una “Canarina”? Ma lei si illude. E come tale resta vittima dei suoi stessi sogni.

Un bel giorno “La Canarina” vien ritrovata morta, assassinata, strangolata.

L’immagine che ne da Van Dine è terribile:

Il capo era rivolto all’indietro, come per una costrizione violenta…i capelli, disciolti, ricadevano dalla nuca sulla spalla nuda come la cascata raggelata di un liquido dorato; aveva perso ogni bellezza; la pelle era esangue, gli occhi vitrei; la bocca era aperta e le labbra convulse. Il collo, sui due lati della cartilagine tiroidea, mostrava orribili lividi scuri. La Canarina indossava un leggero abito da sera di pizzo Chantilly nero sopra ad uno chiffon color crema. Sul bracciolo del divano aveva gettato una cappa di un tessuto dorato, bordata di ermellino…a parte i capelli arruffati, una delle spalline dell’abito era stata strappata e il sottile pizzo del corpetto si era aperto in un lungo squarcio..una scarpetta di satin si era sfilata ed il ginocchio destro era contorto in dentro vero il divano, come se la poveretta avesse cercato di liberarsi dalla soffocante morsa del suo antagonista: Le sue dita erano ancora piegate,senza dubbio come nel momento in cui si era arresa alla morte” (S.S. Van Dine, “La Canarina Assassinata”, trad. Caterina Ciccotti, I Classici del Giallo, Barbera Editore, 2010, pag.22-23).

Dal sopralluogo effettuato dalla polizia emerge che mancano dei gioielli, che invece avrebbero dovuto esserci, secondo quanto afferma la sua domestica: quindi si è portati a identificare l’assassinio, come l’effetto di una rapina, o di un furto in appartamento, finito male (per Odell).

Tuttavia, questo è il giudizio della polizia per bocca del Procuratore Distrettuale di New York, F.X. Markham, che conduce le indagini. Di diverso avviso sarà il giudizio di Philo Vance, amico del Procuratore, osservatore imparziale e di geniali intuizioni, che salverà anche questa volta la Polizia da una figuraccia, e che invece sonderà una strada che nessuno aveva intravisto.

Philo Vance è una evoluzione di Sherlock Holmes, radicale: se eredita da Holmes l’attenzione ai particolari, agli indizi, non è però un applicatore integerrimo di essi. Infatti gli indizi che magari porterebbero a orientare le indagini in un certo verso, devono accordarsi ad una ricostruzione psicologica che in base ad essi spieghi tutti i quid rimasti insoluti. E per far questo, Philo Vance, diversamente da Sherlock Holmes, sonda l’anima e la mente dell’uomo, con l’attenzione che il buon Conan Doyle non aveva contemplato per il suo Sherlock Holmes. Si raffrontano così due diversi ideali: quello umanistico, attento alla psicologia e alle altre arti scaturenti dalla passione e dal gusto (Pittura, Scultura, Musica) di Philo Vance; e quello scientifico, analitico, di Sherlock Holmes.

Tuttavia, Philo Vance, osserva alcuni particolari, e in virtù della sua capacità di vedere al di là del mero indizio, ne dà una spiegazione tale che la visione di un omicidio susseguente ad un tentativo di rapina finisce per crollare miseramente.

Normalmente, quando si parla di questo romanzo, tutti individuano la sottigliezza del ragionamento di Van Dine, nella spiegazione della Camera Chiusa, in effetti “immaginifica”: spiegare non tanto come l’assassino e il testimone siano potuti entrare, quanto come essi siano potuti uscire, visto che il portiere quando va via, spranga sempre dal di dentro il portoncino che porta nel cortile interno al palazzo (l’uscita posteriore) con un chiavistello, in tale maniera che chiunque entri nel palazzo stesso, dopo la sua uscita, debba passare per forza davanti al centralinista, impressiona; e impressionò in quel tempo, moltissimo.

Ma ancor di più impressionò il pubblico dei lettori (e dei critici) l’aver inventato un modo che dilazionasse in avanti nel tempo l’azione delittuosa, cioè dopo che il suo accompagnatore della sera assieme al centralinista l’avessero sentita parlar e rispondere alle domande fatte da loro fuori della porta.

Se tuttavia la soluzione della Camera Chiusa e l’espediente per far apparire accaduto dopo, un omicidio che era stato invece commesso prima, rappresentano i mezzi con cui l’investigatore inchioda l’assassino, e che sono messi in chiaro da chiunque analizzi questo romanzo, pochi, pochissimi o nessuno, hanno esaminato gli altri momenti della deduzione vandiniana.

Secondo me, un altro momento in cui Van Dine impressiona il lettore è quando fa argomentare Vance molto molto sottilmente, sulla posizione relativa al corpo della vittima e sugli strappi subiti dai suoi abiti: se davvero Margaret Odell fosse stata affrontata in un corpo a corpo, immaginando che si sarebbe difesa con tutte le proprie forze, per quale motivo un innocente mazzolino, che le è stato ritrovato in grembo, non sarebbe stato scagliato altrove? Per terra, per esempio? E inoltre se così fosse stato, il collo non sarebbe stato rivolto all’indietro, ma la vittima sarebbe dovuta cadere avanti. Quindi… il delitto non si è consumato così, e si è tentato, con una messinscena, di depistare le indagini: lo strangolamento è avvenuto dal di dietro, quando la vittima non si aspettava che chi le stava dietro la strangolasse, ergo si fidava di lui/lei. Ma ci sono gli strappi del vestito! Altra messinscena: gli strappi sono stati fatti post-mortem per confondere il ragionamento degli investigatori.

Secondo ragionamento molto sottile è quello, concernente la chiave dell’armadio: per quale motivo essa è posta internamente all’armadio, quando comunemente essa invece dovrebbe esser infilata nella serratura esternamente?

C’erano quindi, quella sera, in quella stanza, tre persone: Margaret Odell e due altre persone, di cui una nascosta nell’armadio. Chi è stato l’assassino e chi il testimone? L’assassino ha anche rubato in un secondo tempo, oppure è stato l’altro a rubare? Le due persone presenti nell’appartamento, nei loro diversi ruoli, sono legate ad un altro ragionamento che si fa largo allorché Philo Vance nota come un porta-documenti sia vuoto, e come un portagioie di acciaio sia stato apparentemente forzato con un attizzatoio di ghisa: se davvero ci fosse stato un ladro avrebbe certamente usato uno strumento più idoneo per far saltare il coperchio, piuttosto che usare un attizzatoio. Tanto più che un esperto chiamato da Vance ne corrobora la tesi: che cioè vi son stati due momenti diversi nell’effrazione: quello rozzo con l’attizzatoio, che non ha sortito altri effetti se non di ammaccare il coperchio, e quello altamente professionale, effettuato con uno strumento di acciaio, probabilmente un grimaldello. Perché mai si sarebbe dovuto portare dalla camera vicina un attizzatoio inadeguato a far quello che ha fatto il grimaldello?

In parole povere, Vance postula l’azione in due momenti separati, da parte di due diverse persone. Ecco una primo fatto accertato, di grande importanza: nell’appartamento, quella sera, la sera del sabato, due persone sono state lì, probabilmente in un tempo successivo alla morte della Canarina. Il che non vuol dire necessariamente che entrambi avessero partecipato all’omicidio.

Fatto sta che il secondo ignoto visitatore sarà ucciso e solo dopo la sua morte Vance, individuando l’espediente per ritardare la morte, darà un volto all’assassino. In questo caso l’espediente sarà direttamente messo in relazione all’attività dell’assassino.

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Poison in Jest : analisi di un romanzo di rottura

gennaio 15th, 2013

Un nuovo articolo di Pietro De Palma in esclusiva per il blog de “Il Giallo Mondadori”.

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Lo Speciale N. 68 del Giallo Mondadori “Veleni Letali”,uscito nell’inverno 2012, prima di Natale,  propone 2 romanzi, il primo di John Dickson Carr, il secondo di Hillary Waugh, ed un racconto di Anthony Berkeley: di Carr è proposto “Piazza Pulita” (Poison in Jest), assente da oltre trent’anni dall’edicola; di Waugh, un romanzo ancor più difficile a trovarsi, “Veleno in Famiglia”, ( Pure Poison); di Berkeley, il rarissimo “Il Baratttolo Sbagliato” (The Wrong Jar). Tuttavia, sebbene le opere di Waugh e di Berkeley possano essere oggetto di attenzione al pari dell’opera di Carr, è chiaro che l’attesa dello Speciale da parte di molti, era giustificata dal fatto che vi fosse presentata “Piazza Pulita”, di cui molti lamentavano la non pubblicazione da molti anni a questa parte.

Poison in Jest è una delle opere senza personaggio fisso di Carr.

Apparve nel 1932. A quel tempo, l’unica serie fissa che Carr avesse allestito, era quella di Bencolin, di cui erano usciti quattro titoli (It Walks By Night, 1930; Castle Skull, 1931; The Lost Gallows, 1931). Nel 1932 uscirono altri due titoli: The Waxworks Murder, che meritò anche l’edizione americana: The Corpse In The Waxworks; e Poison in Jest, appunto.

Vediamo la storia.

Jeff  Marle va a trovare il giudice Quayle. Nella sua casa imponente vi vive tutta la sua famiglia assieme a lui: la moglie, i 4 figli (Matt, Clarissa, Jinny, Mary), il genero e marito di Clarissa, dottor Twillis, più il personale di servitù. In origine, i figli erano cinque: c’era anche Tom, che aveva però preferito andar via da casa e pertanto era stato diseredato.

Nella casa regna la tristezza,  il risentimento tra vari rappresentanti della famiglia, e nei confronti del giudice, che crede sia odiato da molti, e un orgoglio mal interpretato, perché ai fasti di un tempo, di cui sono rappresentanti le vestigia della casa, tra cui una magnifica statua dell’imperatore Caligola, cui manca una mano, fa da contraltare la miseria effettiva, giacchè il capofamiglia non ha più nessun soldo, i figli fingono che siano ancora i Quayle di un tempo, mentre l’unico che tiene in piedi la baracca è il dottor Twills, che, agiato, foraggia le necessità del vecchio.

Ecco quello che Marle trova al suo arrivo. Il giudice teme per la sua vita, parla di un suo manoscritto, e, nel mentre, accadono due oscuri fatti: qualcuno tenta effettivamente di uccidere il vecchio giudice avvelenando il sifone del seltz con idrobromuro di joscina, di cui il medico ha una bottiglia contenente circa 300 mg nella sua stanza, in virtù dei suoi trascorsi come psichiatra; e nello stesso tempo, l’avvelenatore cosparge il pane tostato della moglie del giudice, con dell’arsenico.

Il dottor Twills, rivela a Marle di avere dei sospetti su chi possa essere l’avvelenatore e teme nuovi sviluppi visto che la bottiglia contenente la joscina gli è stata sottratta. Prima che possa però arrivare al dunque, viene avvelenato mortalmente con lo stesso alcaloide.

A gestire le indagini è il Commissario di Contea Sargent. Ma se è vero che almeno ufficialmente è lui il responsabile dell’inchiesta, in realtà dietro di lui si muovono Marle, che è un poliziotto, e soprattutto un investigatore privato, Pat Rossiter, innamorato della figlia di Quayle, Jinny, chiamato lì e annunciato da un telegramma spedito prima dell’omicidio di Twills: è lui che risolverà l’enigma.

Nella casa c’è un’atmosfera di morte e di pazzia: il giudice è ossessionato da una mano bianca che si muove e gli appare (sarebbe quella persa dalla statua), qualcuno ride nel momento in cui Twills muore, qualcuno tenta di avvelenare il giudice Quale e la moglie con due diversi tipi di veleno, il giudice parla di complotto, Twills nei suoi appunti, vergati prima di morire, ha scritto che qualcosa è stato bruciato nel caminetto, ha lasciato degli strani ghirigori che potrebbero riferirsi ad uno schizzo di persona ed una formula chimica, quella della morfina. In realtà sul braccio del giudice viene individuata una serie di segni causati da iniezioni (morfina?): l’ossessione della mano quindi sarebbe il frutto di allucinazioni? Oppure la morfina viene data per altro?

Fatto sta che con un’abbondanza di indizi e di persone sospettate, Sargent non sa che pesci prendere. Si ricava solo che qualche giorno prima si era parlato di avvelenamento allorché si era ricordato il caso della Marchesa de Brinvilliers e del suo amante, il Cavaliere di Saint-Croix, celebri avvelenatori del secolo diciottesimo. E che quindi qualcuno ne aveva ricavato l’idea base.

Si sono sentiti dei passi, che la signora Quale, attribuisce ad una donna, prima che lei venisse avvelenata: passi veloci, passettini. Abbiamo un’avvelenatrice? Chi? La signora Quayle è esclusa: per quale ragione si sarebbe avvelenata? Rimangono quindi le altre due figlie: Jinny e Clarissa.

Ci sarebbe qualcuno del personale, ma viene presto escluso. A sua volta, il padre rilancia l’ipotesi di un avvelenatore maschio: mentre ricorda gli aventi di qualche giorno prima, ricorda che in quel mentre era entrato il figlio Matt ed aveva sentito tutto (ma del resto, interrogato, il giudice Quayle si affretta a dire che la porta era aperta e quindi chiunque avrebbe potuto sentire l’oggetto del suo discorso); Matt però era quello che aveva portato alla madre il pasto, in cui il pane era avvelenato.

Insomma di carne sul fuoco ce n’è in abbondanza.

Pat Rossiter arriva a casa: è Jeff che lo trova per la prima volta, ed il ritratto che ne fa è di un pazzo, se non di un personaggio altamente bislacco: “C’era un uomo seduto per terra, che stava parlando ad una scala. In una mano teneva un vecchio secchio di legno, e nell’altra qualcosa che assomigliava a una calza rotta. Una coperta incrostata si sporcizia gli pendeva dalle spalle…Sospirò e cominciò ad alzarsi in tutta la sua sorprendente statura, togliendosi la polvere dall’abito. Aveva un orrendo cappello piantato indietro sulla testa, e dal labbro inferiore gli pendeva un mozzicone di sigaretta spento…con l’espressione più felice che avessi visto su faccia umana…Poteva avere la mia stessa età, con una faccia simpatica e vivace, begli occhi ed un’eterna aria di curiosità.Aveva le spalle forti come un uomo di mare, ed era avvolto in uno strano mantelloverde: le sue scarpe erano fra le più grandi che avessi mai visto e portava una cravatta con i colori di Harrow…Ho sempre desiderato fare l’investigatore, dopo essere stato licenziato da tutti i posti di lavoro..Sedette sullo scalino..con la coperta sporca gettata sulle spalle.Buttando via il mozzicone, tirò fuori cartine e tabacco e mi guardò quasi con aria di trionfo…Dicevo che sono un po’ strano..Il vecchio, là dentro mi considera come un veleno!” (Speciale del Giallo Mondadori N.68, Dicembre 2012, John Dickson Carr, Poison in Jest, traduz. Iti Dussich Knowles, cap. 11, pagg. 87-88-89).

Jeff gli annuncia che il dottor Twills è stato assassinato e ci sono stati due tentativi di avvelenamento. Rossiter si mette all’opera, anche con metodi non proprio ortodossi, per esempio quando chiede ai presenti, di provare a fare degli schizzi, delle prime cose che fossero venute in mente:

“..Tracciate un disegno. – Che cosa? – Tracciate un disegno, ripetè l’altro, con tono fermo e diventando serio. – Ma non capite l’importanza di fare un disegno? Non ne vedete l’importanza profondamente psicologica che avrà sulla soluzione del caso? – No, che mi venga un accidente se ci capisco qualcosa – disse Sargent. – Che disegno? – Uno qualsiasi. – Ma sentite – suggerii con la massima calma possibile – che senso ha tutto ciò? Io non so disegnare e credo neanche Sargent. – Ah, ma questo è il punto, non lo capite? Se aveste saputo disegnare, non ve l’avrei chiesto, vi pare?” (op. cit.  pag. 104).

Questi metodi, alcuni come Sargent ritengono possano essere ascritti ad nuovo modo di investigare, altri come Marle li reputano delle stranezze, altri come il dottor Reed, il medico amico di Quayle, li definiscono delle “stupidaggini”. Persino Virginia Quale,  Jinny, “la ragazza” di Rossiter, è arrabbiata, convinta che l’investigatore, che lei ha chiamato a casa con un telegramma, stia combinando una delle sue.

Fatto sta che, per strano che possa sembrare, anche questa caratterizzazione psicologica dell’inconscio avrà una spiegazione nella soluzione finale. Rossiter, incompreso, deriso, strano e bislacco che possa sembrare, riuscirà a individuare l’assassino, non prima però che sia riapparso “il figliol prodigo”, Tom;  e che nella cantina, egli, l’omicida,  abbia piantato un’accetta nel cranio di Clarissa.

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