IL DIABOLICO COMPLOTTO DEL DOTTOR ISHI
Spesso si invocano le questioni in sospeso con la Storia per appianare i contenziosi del presente. È il caso del Giappone, protagonista scomodo di una sempre rinnovata querelle con la Cina sugli esperimenti biologici durante la seconda guerra mondiale. L’argomento era già stato oggetto di un accurato e scioccante documentario di Peter Williams e David Wallace, con la consulenza scientifica del dottor R. John Pritchard, prodotto in Gran Bretagna dalla Television South. A riportarlo in auge, la scoperta nei sotterranei dell’Università di Tokyo di resti di ossa umane.
I media riscoprono così la storia sinistra del programma nipponico di guerra batteriologica e chimica.
Ne fu artefice un medico, poi assurto al grado di generale, Shiro Ishii, che per le origini aristocratiche e l’educazione religiosa (buddista) potrebbe essere soprannominato il Josef Mengele del Sol Levante. Laureatosi nel 1927 all’Università Imperiale di Kyoto con una tesi sui batteri gemelli gram positivi, il suo scopo dichiarato era sfruttare la conoscenza biologica per vantaggi militari di tipo tattico e strategico. Con le epidemie si potevano distruggere prima e meglio i nemici. Il che rientrava nella filosofia espansionista dell’élite nipponica. La guerra che si preparava non aveva fondamenta ideologiche e razziali, come nel Terzo Reich, più semplicemente si puntava alla conquista di spazi e risorse. In seguito, il Giappone avrebbe rivestito la sua aggressione tout-court con un tipico eufemismo da Sol Levante, Daitoa Koyoeiken: sfera comune di benessere asiatico. Per realizzarlo, tutta una classe di imperialisti non esitò a impegnare il Paese nel gigantesco sforzo bellico che doveva culminare nell’aggressione contro gli Stati Uniti a Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941.
Ma il dottor Ishii aveva incominciato la sua battaglia già nel 1932, preparando vaccini per immunizzare le truppe. Dopo una serie di viaggi all’estero, il Mengele nipponico non s’illudeva che in un prossimo conflitto sarebbe stato rispettato il divieto di usare gas e armi batteriologiche, sancito a Ginevra il 17 giugno 1925. Per giunta, la sua comprensione della mentalità occidentale, lo induceva a credere che gli studi in questo campo sarebbero stati seriamente circoscritti dallo spirito umanitario che impediva esperimenti su cavie umane. Nel 1933, Ishii fu dotato a Tokyo del Boeki kenkyu-shitsu, laboratorio di ricerca per la prevenzione delle epidemie, costato 200.000 yen dell’epoca. In seguito, lo scienziato inventò un filtro per l’acqua in grado di depurarla dai batteri in tempi più brevi della tradizionale bollitura.
Fin dal 1931, truppe imperiali occupavano la Manciuria. Fu là, a 24 chilometri dalla città settentrionale di Harbin, in località Pingfan, che nell’agosto 1936 venne istituita la famigerata Ishii butai, unità Ishii. Con la consuetudine bellica di confondere i nomi delle installazioni, fu conosciuta anche come Unità 731, unità Togo, unità Kamo, unità Manciuria 25202, Saikin Kenkyu sho (centro batteriologico sperimentale) e Boekikyusui Bu (dipartimento di igiene e purificazione idrica). Sotto queste mutevoli vesti, il compito di preparare armi batteriologiche. Il budget era di 6.000.000 di yen, allocati tramite l’armata del Kwantung, che occupava la Manciuria. Una cifra considerevole se rapportata al bilancio dell’intera università di Tokyo, di soli 12.000.000 di yen.
Ishii reclutò il meglio dell’intelligentsia accademica per portare presto la potenzialità di produzione di germi a quote che sfioravano i 400 kg. Quanto bastava per contaminare e distruggere più volte l’intero pianeta. Le armi batteriologiche erano l’asso nella manica del Sol Levante, con uno status nell’impiego bellico della scienza paragonabile a quello tedesco delle V1 e V2 e a quello americano del Progetto Manhattan, la bomba atomica. Non è un caso che le potenze vincitrici abbiano poi beneficiato di queste tre linee portanti per i loro terrificanti arsenali contemporanei.
Non che all’epoca americani, inglesi e russi stessero con le mani in mano. Washington aveva compreso anzitempo l’importanza della guerra chimica e biologica istituendo un centro segreto a Camp Detrik, nel Maryland. La Gran Bretagna ne aveva uno a Porton Down. Roosevelt tuttavia, al contrario di Curchill, considerava inumano il ricorso simili armi, ossessionato dalla memoria dell’attacco tedesco col gas a Ypres durante la prima guerra mondiale, da cui prese il nome l’iprite. I russi, dal canto loro, conducevano esperimenti in Mongolia, a Ulan Bator, non lontano dalla Manciuria dove impazzava l’Unità 731. Inoltre, i servizi segreti occidentali avevano avuto sentore dell’interesse nipponico per la guerra batteriologica da tentativi effettuati da agenti di Tokyo di acquisire virus pericolosi dai centri di ricerca medica Rockefeller a New York e in Brasile.
Gli uomini di Ishii svilupparono nove differenti tipi di bombe per diffondere epidemie in territorio nemico: le I, Ro, Ha, Ni e U in ferro; le Uji,Uji tipo 50 e Uji tipo 100 di porcellana; le Ga di vetro. Gli ordigni venivano caricati di colture di germi e detonavano senza esplodere, solo liberandoli nell’aria. Un altro sistema era quello di bombardare le aree da contaminare con riso, batuffoli di cotone e topi carichi di pulci e zecche portatrici di antrace e peste bubbonica.
Parallelamente, l’Unità 100, agli ordini del veterinario Yujiro Wakamatsu, lavorava a Mogatong su sistemi di distruzione delle mandrie attraverso contagi epizootici. E ancora, l’Unità 516 sull’isola di Okuno, prospiciente Hiroshima, sperimentava i gas. La Marina, dal canto proprio, lavorava al siluro Mark VII, in grado di convogliare colture batteriologiche contro il nemico, e i palloni Fu, alcuni dei quali trasportati dal vento precipitarono negli Stati Uniti provocando la morte per ustioni di una donna e dei suoi cinque figli.
Il capitolo più spaventoso del programma batteriologico giapponese è quello ancora coperto dal segreto. Gli esperimenti su cavie umane. Maruta, o «ciocchi di legno», questo il tremendo appellativo dei prigionieri destinati a morti atroci quanto e forse più di quelle perpetrate dai nazisti. Cinesi e russi immigrati in Manciuria furono le prime vittime del programma di Ishii. Nessuna gratuita crudeltà in questo, secondo successive testimonianze. Per gli alfieri della guerra batteriologica si trattava di acquisire dati sulle reazioni del corpo umano a vaccini e malattie indotte deliberatamente. Altrettanto orrore si provocò per studiare gli effetti della denutrizione e del congelamento.
Poi Ishii ebbe un dubbio: e se il metabolismo dei caucasici, cioè gli occidentali, fosse differente? Dopo la caduta di Bataan e il crollo delle Filippine, i carnefici dell’Unità 731 ebbero materiale in abbondanza fra i prigionieri di guerra. Per loro l’inferno aveva il nome del campo di Mudken, sempre in Manciuria. Qui tuttavia i maltrattamenti si alternarono a un ambiguo regime di stretta sorveglianza medica che rese a lungo impossibile discernere la verità. Tanto da poter accreditare la tesi dei medici giapponesi che sostenevano di inoculare vaccini, non virus, agli internati.
Sta di fatto che i prelevati per trattamenti speciali non tornarono mai indietro. Divennero maruta. I pochi scampati provocarono una ridda di interrogativi burocratici in patria sugli indennizzi per i danni spesso irreversibili contratti sotto le «cure» dei dottori del Sol Levante.
Il 2 settembre 1945 il generale Douglas MacArthur sbarcava a Tokyo per la firma della resa incondizionata da parte del Giappone. Gli alleati avevano stabilito a Potsdam nella conferenza del 25 luglio che la popolazione nipponica non doveva essere piegata a un regime di schiavitù, bensì spinta verso la democrazia, per evitare che cadesse sotto l’influenza sovietica. Con la guerra fredda che incalzava, MacArthur raccomandò ai suoi collaboratori di non includere l’imperatore Hirohito fra i criminali di guerra. E neppure gli scienziati che avevano contribuito al programma batteriologico. Con un patto sconcertante, il dottor Naito, collaboratore di Ishii, ottenne l’immunità per sé e gli altri dell’Unità 731 in cambio di informazioni scientifiche agli alleati che non dovevano essere condivise con i russi.
Ishii, dapprima dato per morto, si era in realtà rifugiato in Corea, dove voci controverse lo diedero per tornato durante la guerra che oppose truppe dell’ONU e cinesi agli inizi degli anni ‘50 sulla linea famigerata del 38° parallelo. A quell’epoca, Mosca e Pechino sostennero che gli americani impiegavano armi batteriologiche realizzate con il contributo determinante degli ex componenti dell’Unità 731. Peraltro, il comandante in capo occidentale fu MacArthur, prima che Truman lo sostituisse con Ridway.
Ishii morì il 9 ottobre del 1959 dopo essersi convertito al cattolicesimo. Sua figlia Harumi negò che il padre fosse il mostro dipinto da una Storia più sussurrata che denunciata. L’apporto dello scienziato alle ricerche batteriologiche degli alleati nel dopoguerra non fu mai provato con assoluta certezza. I sovietici tentarono con il processo di Khabarovsk di far emergere quelle verità taciute dalla corte di Yokoama, che aveva condannato i vertici nipponici come criminali di guerra omettendo di citare in giudizio gli scienziati dell’Unità 731. La guerra fredda fece leggere l’episodio come mera propaganda comunista.
Gran parte dei collaboratori di Ishii si votò al silenzio e raggiunse posti di prestigio, soprattutto nello zaibatsu, il complesso finanziario e industriale giapponese. Uno di loro, Shiro Kashara, ha dichiarato: «Anche a Pingfan lo spirito era quello dei kamikaze: dire sì senza condizioni, entrare in una strada senza via d’uscita, senza alcuna riflessione.»