Il Professionista, la spy story e Segretissimo in TV

febbraio 22nd, 2013

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Andrà in onda domenica, su Canale Cultura (Digitale terrestre 130 – 132 – Channel 24) alle ore 21.00, la trasmissione Spy&Spy.

In studio, Ospite di Joe Denti, ci sarà Stefano Di Marino per parlare del Professionista, di Segretissimo e di spionaggio.

Da non perdere.

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Un futuro al cinema per Stal

marzo 9th, 2010

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Un futuro al cinema per Stal

La notizia era nell’aria da qualche giorno ma ho preferito aspettare la conferma ufficiale dell’autore prima di diffonderla. Il produttore Dino De Laurentiis ha acquistato i diritti per la riduzione cinematografica di “Stal” l’ex spetsnaz creato da Franco Forte e già apparso in due occasioni su “Segretissimo”: la prima nell’antologia “Legion” con un racconto breve, la seconda lo scorso anno col romanzo “Operazione Copernico”. Un secondo libro su cui Franco Forte sta lavorando, è atteso poi per l’uscita quest’anno. Al momento Forte è impegnato in team con lo staff della Dino De Laurentiis Company e con uno sceneggiatore della Universal.

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In questa primo stadio progettuale, i tre sono all’opera sul personaggio di Stal, al fine di renderlo il più possibile tridimensionale, mantenendo tutte le caratteristiche già note ai lettori di “Operazione Copernico” ma approfondendo ulteriormente le note di contorno e il passato di Redka “Stal” Starnelov; Franco, in particolare, ne sta scrivendo una biografia dettagliata che va già oltre quanto proposto in ambito narrativo, pur restando fedele al suo personaggio. In una fase successiva, si occuperà di scrivere il soggetto per un film che avrà Stal come protagonista, seguendo le linee di movimento suggerite dallo stesso Dino De Laurentiis, con cui Franco è in contatto costante.

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Vi terrò sicuramente aggiornati a mano a mano che questo progetto “Segretissimo” si evolve. Intanto complimenti a Franco Forte e a Redka “Stal” Starnelov per questo primo sbarco negli States di un testimonial della Italian Legion.

 

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Visti con il Professionista/13

agosto 21st, 2009

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VISTI CON IL PROFESSIONISTA. I CLASSICI DEL CINEMA DI SPIONAGGIO:

 

I CANNONI DI NAVARONE

 

A cura di Stephen Gunn

Narratore scozzese veterano della seconda guerra mondiale, Alistair MacLean (1922-1987) firmò un gran numero di romanzi di guerra e avventura,a volte con lo pseudonimo di Ian Stuart. Nelle sue storie c’è sempre un risvolto spionistico, un gioco d’inganni, la missione impossibile, anche quando racconta il West come Agguato al passo del nibbio (una storia di traffico d’armi con gli indiani portata sullo schermo con Charles Bronson nel film Io non credo a nessuno). Tra tutte le sue avventure quella forse più celebre e più attinente al tema di questa rubrica resta I cannoni di Navarone portata al cinema nel 1961.

 

Ancor più di Dove osano le aquile (che ha risvolti spionistici marcati ma è forse più bellica, almeno nella realizzazione per lo schermo) questa storia non solo riassume tutti gli elementi fondamentali dello spionaggio bellico d’azione ma è anche modello per tutto il filone “agenti d’assalto” di cui 007 è alfiere indiscusso. La trama è apparentemente semplice. In un’isoletta del Mediterraneo un contingente inglese è destinato al massacro. La Germania vuole mostrare i muscoli con un’azione spettacolare che convinca la Turchia a scendere in campo a fianco dell’Asse . I soldati asserragliati e senza riserve non possono essere evacuati perché nella vicina isola fortificata di Navarone i tedeschi possiedono due micidiali cannoni a lunga gittata che impediscono il passaggio di qualsiasi flotta di soccorso. Prendere militarmente l’isola sarebbe un suicidio. Così il comandante Franklin (Anthony Quayle) organizza una squadra di commando incaricata di risolvere il problema con un’azione di forza. Cinque giorni a disposizione e sei uomini non tutti dal passato cristallino. A comandare il team insieme a Franklin c’è Mallory (Gregory Peck) duro, asciutto, un uomo con una missione, disposto anche a dimenticare la sua umanità pur di portarla a termine. È l’epitome perfetta di quello che, negli anni a venire, diventerà l’agente d’assalto della spy-story. Intelligente, efficace nell’azione e dotato di un innegabile carisma. Il suo contraltare è Miller (David Niven) esperto di esplosivi ma uomo comune trascinato in guerra suo malgrado. Pieno di scrupoli umanitari è la coscienza di Mallory con cui sarà in contrasto sino alla fine quando, insieme, risolveranno la missione. Poi c’è il tostissimo colonnello Andrea Stravru (Anthony Quinn), più che mai calato in un ruolo etnico come hollywood lo dipinse. Ufficiale dell’esercito greco, Stavru è un duro, un contrabbandiere, un killer a sangue freddo. Ma ha perso la famiglia e ritiene responsabile Mallory della tragedia. Ha giurato di ucciderlo a fine missione. Arriva il cupo Braun, spietato al punto essersi guadagnato il soprannome di “Boia di Barcellona”. Interpretato da uno spigoloso Stanley Baker è un personaggio secondario ma ben caratterizzato. Il killer stanco di uccidere, l’uomo che esita e, per questo, pagherà il suo sbaglio. Ultimo del gruppo Paulo Papadinos ( James Darren), giovane emigrato greco che a New York, è diventato un gangster e torna nella sua isola ignaro di ritrovarvi la sorella Maria (Irene Papas, donna forte a capo dei partigiani. Con lei troviamo anche Anna (Gia Scala) che incarna l’elemento più femminile e seducente della storia che poco concede al sentimentalismo. Una vicenda di pura guerra? No, perché sin da principio la missione segreta appare segnata da sospetti (il cameriere curdo sorpreso a origliare…) continui assalti dei tedeschi che rivelano la presenza di uno o più traditori nel gruppo. L’azione procede incalzante tra sparatorie agguati e una magnifica scena di tempesta in mare seguita da una scalata a un costone roccioso sotto la pioggia. In questo frangente Franklin cade e si rompe la gamba in due punti. Per la missione diventa un peso. Non solo. Se non verrà curato con i sulfamidici immediatamente rischia di morire di cancrena. Ma se i tedeschi lo prendono potrebbe rivelare tutto suo malgrado sotto l’effetto della scopolamina. Lo spettro dell’eliminazione di un compagno per salvare la missione prende forma nel gruppo e forse è proprio questo il problema al centro della vicenda. I commandos sono uniti da un unico scopo ma carattere e interessi personali generano correnti di odio sotterranee. Mallory, che qui si rivela agente esperto, rivela al ferito una falsa informazione: un presunto attacco in forza sul versante opposto dell’isola. In effetti dopo alcune traversie i commando vengono catturati dai tedeschi. Riescono a fuggire ma Franklin cade nelle mani delle SS e, come previsto, rivela un’informazione falsa che cambia gli equilibri di forza tra tedeschi e commandos.

 

Il conto alla rovescia non permette esitazioni. Ma proprio all’ultima notte Miller scopre che gran parte dei suoi esplosivi sono stati resi inutilizzabili. E qui la storia di spionaggio raggiunge il suo picco perché per tutta la durata del film lo spettatore è stato costantemente stuzzicato dall’idea che nel gruppo ci sia un traditore. Ed è proprio la bella Anna che si rivela debole, collaboratrice dei nazisti non per avidità o ideale ma per paura. Le cicatrici che dovrebbe avere sulla schiena, prova delle torture subite dai tedeschi, non esistono. Smascherata, mette il gruppo in una difficile situazione. Miller sfida Mallory a ucciderla, quasi per ribellarsi di fronte alle sue fredde macchinazioni spionistiche.

 

Mallory, che pure è attratto da Anna e ne comprende le motivazioni, si prepara a eseguire la condanna. Sarà proprio la ruvida Maria a giustiziare l’amica togliendolo d’impaccio. Maria, pur restando un personaggio di contorno, conferisce alla storia umanità e nerbo. La sua presenza risolve anche il problema della vendetta di Stavru che, innamorato di lei, decide di perdonare Mallory.

 

La parte finale del film è tutta azione. Il commando s’infiltra nella montagna fortificata e tra sparatorie, corse contro il tempo ed esplosivi che tardano a fare il loro lavoro, lo spettatore ha la sua bella dose di emozioni. Anche a tanti anni di distanza resta un grandissimo film d’azione e spionaggio.

 

Molti dei personaggi e delle situazioni oggi possono sembrare dei clichè ma come al solito, è necessari ricordare che si tratta di un film e una storia imitati in cento occasioni diverse. In pratica ha fatto scuola generano tantissimi epigoni.

 

Molto efficaci i duelli, le sequenze di movimento che ben si inseriscono nella cornice greca ricostruita con sapienti tocchi di colore. A rendere tutto però più drammatico è il cast che riesce pur con una sceneggiatura che non ha tempo per divagazioni a far salire la tensione anche quando non si spara.

 

 

 

SCHEDA TECNICA

Genere: Spie in Guerra

 

I cannoni di Navarone(The Guns of Navarone), USA, 1961- durata 157’- regia di J. Lee. Thompson. Sceneggiato da Carl Foreman dal romanzo di Alistair MacLean- Interpreti: Gregory Peck: Mallory- David Niven- Miller- Anthony Quinn. Stavru- Irene Papas. Maria Papadinos- Stanley Baker: Braun- James Darren: Paulo Papadinos- Gia Scala: Anna- realizzato da Columbia disponibile in DVD in numerose edizioni widescreeen con colori rimasterizzati.

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Visti con il Professionista/12

agosto 8th, 2009

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VISTI CON IL PROFESSIONISTA:I CLASSICI DEL CINEMA DI SPIONAGGIO

MUNICH

A cura di Stephen Gunn

Non solo un grande film di spionaggio ma una riflessione sui conflitti arabo-israeliani e i loro tortuosi percorsi, sugli uomini e i meccanismi della lotta clandestina, le paranoie e, alla fine, l’inutilità di tutto. Spielberg dirige l’orchestra consapevole della delicatezza dell’argomento, delle sue origini ebraiche e delle aspettative del pubblico che, dopotutto, cerca sempre (ma non solo) un grande spettacolo.

 

Monaco, settembre 1972. I fatti sono noti. Undici atleti israeliani vengono sequestrati durante i giochi olimpici. Seguono ore di frenetiche contrattazioni che tolgono il fiato al mondo intero. Un intervento delle ancora non preparatissime teste di cuoio tedesche scatena una tragedia. Il mondo segue attonito i bollettini di una strage. Nessuno degli ostaggi si salverà una nuova formazione terroristica creata dallo sceicco Salameh s’impone alle cronache coinvolgendo l’intero pianeta nel conflitto arabo israeliano: Settembre nero. Quasi un film nel film, girato mescolando spezzoni di telegiornali d’epoca, ricostruzioni drammatiche e altre immagini di repertorio. La vicenda avrà un suo completamento narrativo nel corso di tutta la vicenda. Basato sulle memorie di un vero agente del Mossad che si firmò George Jonas e creò un piccolo caso letterario nel 1984 con il libro Vendetta, Munich ricostruisce una dolorosa pagina dell’antiterroismo. Israele reagisce alla strage non solo con i bombardamenti dei campi di addestramento in Palestina. Affida a un giovane agente figlio di un eroe Avner Kaupfman (Eric Bana) l’incarico di eliminare Salameh e altri dieci organizzatori di Settembre Nero. Tutto in Europa, dove i terroristi si sentono sicuri, fuori da ogni regola e legame con Tel Aviv. Una classica operazione nera. Avner, futuro padre, turbato da rovelli familiari e patriottismo ( sui quali si dilunga il libro ma che il film non tralascia) diventa un kidon. Figura questa divenuta familiare nel lessico della spy-story. Avner diventerà poi modello per Gabriel Allon, protagonista di una fortunata serie di romanzi di Daniel Silva trai quali ricordiamo Il restauratore. Nel film Avner mette insieme una squadra di agenti senza copertura. C’è l’efficientissimo militare Steve (con il viso di Daniel Craig in fase pre-Bond), il meticoloso Carl (Ciran Hinds particolarmente aderente al ruolo), l’antiquario Hans (Hans Zischler), vecchio soldato pronto a gettarsi nella mischia malgrado l’età e il costruttore di giocattoli trasformato in bombarolo Robert (Mathieu Kassovitz). Sopra tutti loro c’è la mente organizzativa di Ephraim ( Geoffrey Rush) attento ai conti ma ancor più alle ambiguità che impediscono al commando di lasciare qualsiasi traccia possa ricondurre a Israele. Tra Francoforte, Roma, Cipro, Atene comincia un gioco di precisione, feroce e micidiale. La squadra si amalgama, trova in una misteriosa organizzazione privata guidata dall’ambiguo Papà (Michael Lonsdale ) informazioni e mezzi per colpire gli obiettivi predestinati. Piani perfetti realizzati sul filo del secondo con mezzi a volte di fortuna da uomini sin troppo umani costretti a uccidere come macchine da guerra. Qui inizia una sorta di dance macabre di pedinamenti, attentati, bombe, inseguimenti in cui non viene mai meno la spettacolarità, ogni scena, ogni dialogo vengono perfettamente controllati dal regista. La realtà e la fiction si confondono. È evidente che non v’è nulla di sportivo o avventuroso nelle scene di azione. Gli attentatori e i loro avversari usano gli stessi mezzi. E ciò che colpisce di più è l’aspetto delle vittime. Anziani e apparentemente innocui signori borghesi. Arabi integrati in Europa eppure, viene detto ai vari membri del commando, spietati pianificatori di stragi. Con il passare del tempo la macchina comincia a incepparsi, il nemico reagisce con attentati ancora più feroci. Spesso a un bersaglio cancellato se ne sostituisce un altro ancor più temibile che bisogna annientare. I legami con i servizi segreti russi portano a drammatiche conseguenze, il gruppo è costretto a colpire anche a Beirut provocando l’irritazione di Papà e del suo gruppo di trafficanti di informazioni rigorosamente apolitici. Qui emerge tutto un mondo parallelo a quello dei grandi servizi. Gente che vende informazioni, mezzi, assassini, doppiogiochisti. Un popolo dell’ombra che sembra uscito da un romanzo ma ci appare terribilmente vero. Gli assassini diventano prede e cominciano a morire. Proprio a Londra dove il commando manca Salameh segretamente protetto dalla CIA che lo paga per non colpire i diplomatici USA. Carl viene eliminato da una bella killer olandese che prima lo seduce poi lo sgozza. Avner, Steve e Hans decidono di punirla. Dalla missione passiamo a un territorio personale. Il giovane idealista Robert torna in Belgio per una pausa di riflessione. Mal gliene incoglie, perché finirà vittima di una attentato ma non prima che i suoi compagni abbiano giustiziato , in una scena di crudo realismo, la bella assassina a pagamento e Hans venga pugnalato da ignoti a Francoforte. Dopo un fallito nuovo tentativo di assassinare Salameh (che verrà nella realtà ucciso negli anni ’80 come si vede in Spy Game), Avner e Steve rientrano alla base. Ma il giovane, ormai schiavo delle stesse paranoie del suo mestiere, non vuol più saperne. Trasferitosi a New York con la moglie, arriva a sospettare persino dei suoi capi. Un drammatico confronto a Brooklyn con Ephraim scava un baratro tra il kidon e il suo servizio. Alla fine Settembre Nero è stato decimato ma altri più feroci e abili terroristi sono saliti alla ribalta in quella che si prospetta una guerra senza fine. La finzione ci riporta alla realtà….

 

Film lungo e impegnativo, ottimamente fotografato e recitato, Munich è forse la vera novità degli ultimi anni in fatto di spy-story cinematografica. Malgrado l’insistente sostrato psico-filosofico della vicenda il ritmo è sempre serrato, le caratterizzazioni sono in bilico tra realismo e fantasia e l’azione ha sempre un suo spettacolare realismo che permette di seguire la storia anche solo superficialmente interessandosi al suo svolgimento. Ma è nei paradossi come la notte trascorsa in una casa-sicura, fianco a fianco, degli agenti israeliani e un gruppo di terroristi di vari gruppi che si coglie il vero interesse del regista. Non una semplice storia d’intrattenimento ma la volontà di raccontare una pagina ambigua della storia d’Israele senza fare regali a nessuno, né agli avversari né ai proprio compatrioti. “Chi ha inventato il terrorismo?” si chiede lo sconsolato Carl dopo l’ennesimo sanguinoso attentato. “Lo Stato di Israele non è nato senza spargimenti di sangue.” Eppure emerge la logica della sopravvivenza, del battersi comunque sino all’ultimo uomo, da entrambe le parti come una ineluttabile realtà, una strada senza apparentemente uscita.

 

 

SCHEDA TECNICA – Genere. Lotta al terrorismo

 

 

Munich(id.),USA 2006 Durata 157’- – regia di Steven Spielberg- sceneggiatura di Tony Kasher e Rick Roth dal romanzo di George Jonas “Vendetta”- Interpreti- Eric Bana: Avram- Ciaran Hinds: Carl- Mathieu Kassovitz: Robert- Daniel Craig:Steve- Michael Lonsdale: Papà- Mathieu Amalric: Louis- Geoffrey Rush: Ephraim- realizzato da Universal & Dreamworks è disponibile in Dvd dal 2007.

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Visti con Il Professionista/8 – Peacemaker

maggio 20th, 2009

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VISTI CON IL PROFESSIONISTA:I CLASSICI DEL CINEMA DI SPIONAGGIO

Peacemaker

A cura di Stephen Gunn

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“La Russia oggi? Un casino! Quanto mi manca la Guerra fredda!” esclama un agente dei Servizi americani mentre il mondo è in subbuglio in seguito a un’esplosione nucleare avvenuta nei monti Urali. Che non si sia trattato di un incidente ma del primo passo di un complesso piano terroristico ordito da un gruppo di serbo-bosniaci decisi a coinvolgere il mondo occidentale nella loro tragedia, lo spettatore lo sa già.

Con un inizio suggestivo ( fumate bianche di treni in corsa nelle montagne caucasiche, scintillio di infrarossi e musiche dell’Armata Sovietica), Mimi Leder smentisce la convinzione che una donna non possa girare un serrato film d’azione, genere ritenuto abitualmente “da maschi”. Siamo nel ‘97 in epoca di correttezza politica, di finto benessere e il timore di un attacco terroristico nel cuore dell’Occidente sembra ancora e solo un’idea da film. E la sceneggiatura di Michael Schiffer riflette perfettamente un’epoca che adesso ci sembra lontanissima.

Julia Kelly (la Kidman qui bellissima e volitiva) è una donna acuta, indipendente, certamente sicura nelle sue convinzioni. Un personaggio tipico dei thriller della fine del ventesimo secolo. Essere a capo di una task force speciale per il controllo dell’energia atomica da due settimane non l’aiuta quando scoppia il caso di una “nuova Chernobyl”. Fortunatamente le affiancano un ufficiale dei servizi d’azione con il viso e l’aplomb canagliesco di George Clooney (nel film si chiama Tom Devoeux). Intrallazzone, donnaiolo e a volte violento, Devoeux sembra dover ingaggiare una guerra dei sessi con la bella collega. Ma tutto si svolge in poche battute perché entriamo subito nel vivo della vicenda. Alexander Komarov, mastino dell’Armata Rossa deciso a farsi una fortuna a ogni costo ha provocato un incidente e fatto detonare un’arma nucleare in piena Russia per rubarne altre 19 e venderle in Iran. Il piano non è suo ma di Dusan, diplomatico serbo di Sarajevo, pianista, vedovo di guerra che ha organizzato l’operazione in cambio del nucleo di un solo ordigno che progetta di far saltare all’ONU nel corso di una conferenza per la pace nella Ex Yugoslavia. Nei primi venti minuti lo spettatore si trova molte carte in mano, solo con il procedere serrato della vicenda riuscirà a dare un viso a buoni e cattivi e un senso a tutta l’operazione. La vicenda segue binari ben collaudati del genere.

Si sposta a Vienna dove Devoeux e Julia incontrano il colonnello Dimitri Vertikoff, ufficiale russo forse non onestissimo ma chiaramente schierato contro i fanatici del genere di Komarov. Indagando su una società di trasporti austriaca, la Kordek, che fornisce servizi alla mafia russa, ci rimetterà la pelle. Una delle sequenze d’azione clou si svolge proprio in piena Vienna. Devoeux spara, scazzotta, guida come un matto e non si risparmia neppure un gesto di violenza a sangue freddo per l’epoca (dominata da scrupoli di correttezza anche nei film d’azione) piuttosto coraggioso. Julia è sconvolta, condanna il collega maschilista e non nasconde l’indignato disprezzo per i suoi metodi. Eppure una scintilla tra Devoeux e Julia si accende benché i loro rapporti rimangano sempre irrisolti, lasciati all’intuizione del pubblico. L’indagine procede tra triangolazioni satellitari, incursioni informatiche e umane intuizioni. Komarov viene bloccato alla frontiera con l’Iran ma la bomba mancante è l’unica che veramente potrebbe esplodere.

Ormai coppia collaudata sul campo Devoeux e Julia si trasferiscono nella metropoli americana che, malgrado l’allarme terroristico, sembra quasi incurante.

Sullo sfondo svettano ancora le torri gemelle. Nel frattempo abbiamo conosciuto meglio Dusan e i suoi compagni. Se questi sono il classico gruppo di idrofobi bombaroli, Dusan è un uomo ferito, segnato dalla morte dei suoi cari. Ritiene l’Occidente responsabile dei massacri nel suo paese in quanto fornitore di armi. Forse ha ragione. Di certo far assassinare un collega parlamentare e portare personalmente la bomba nel cuore della 42° strada lo sconvolge. Ma Dusan non vacilla sino all’ultimo. La fase finale della vicenda è tutta americana. Filmata con dinamismo e abilità, la caccia al terrorista è scandita da un timer e ripropone,all’interno di una chiesa, la classica lotta contro il detonatore. Forse qualcuno potrà pensare che si tratti di un espediente già visto, ma l’aderenza al ruolo degli interpreti, il montaggio concitato ma non confuso rendono piacevolissima la conduzione dell’intreccio. Ad anni di distanza il film resta un piccolo classico del filone. Soprattutto è emblematico di un’epoca. Oggi tutto è più sporco, più cattivo. Forse a causa di un decennio d’inizio secolo dove la guerra si è protratta troppo a lungo e non solo in lontani campi arroventati dal sole mediorientale. Le immagini della Russia in disfacimento, la fotografia di Sarajevo ridotta a un cumulo di macerie dove uomini e donne cercano ancora di sopravvivere e resistere sono forse il pezzo forte del film. Tracciano un quadro di una situazione che ai tempi non fu analizzata con sufficiente lucidità. Eppure i segni erano tutti lì, davanti ai nostri occhi. Entro quattro anni il fuoco sarebbe piovuto dal cielo veramente e New York avrebbe cambiato skyline con i risultati che tutti sappiamo. “Non è la nostra guerra”, la frase che Devoeux pronuncia cercando di placare l’ossessionato Dusan, avrebbe perso di senso. È curioso come un film d’intrattenimento, un film di spionaggio, brillante nei dialoghi e adrenalinico nell’azione (non un prodotto d’autore) abbia focalizzato problemi e situazioni con tanta chiarezza. Una storia articolata e varia nelle ambientazioni quanto negli spunti, con un buon mix tra commedia (i rapporti tra Clooney e la Kidman sono sempre appena sopra le righe e anche l’inevitabile lieto fine, lascia intendere che la figura femminile rimanga saldamente alla guida della relazione) , indagini, doppi inganni e azione. Questa si riassume fondamentalmente in tre momenti. Il furto delle testate nucleari sul treno è un brano d’antologia nella sua essenzialità. Del violento inseguimento a Vienna abbiamo già accennato e non possiamo che compiacerci della quasi totale assenza di accorgimenti in computer grafica. La spy-story richiede in certe situazioni realismo, corpi che si battono senza prodezze da super eroi, auto “vere” che si ribaltano e momenti d’emozione reali come l’assalto degli elicotteri americani al camion russo in fuga sul ponte sospeso.

In un’epoca in cui il filone sembrava morto una bella prova, sicuramente da tenere in evidenza in una ideale cineteca di spionaggio.

SCHEDA TECNICA. Genere:guerra al terrorismo

The Peacemaker (id.) di Mimi Leder- 1997. Sceneggiatura originale di Michael Schiffer ispirata a un articolo di Andrew e Lesile Cockburn sul contrabbando di armi nucleari dagli arsenali dell’unione Sovietica – Durata:119’- Interpreti. George Clooney: Tom Devoeux- Nicole Kidman. Julia Kelly- Armin Mulder Sthal: Dimitri Vertikoff – Michael Iures:Dusan- – realizzato dalla Dreamworks, il film è reperibile in DVD in varie collane su licenza della Dreamworks Home Entertainment.

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Visti con il Professionista/5: Maschere e Pugnali

aprile 11th, 2009

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VISTI CON IL PROFESSIONISTA: I CLASSICI DEL CINEMA DI SPIONAGGIO

MASCHERE E PUGNALI

A cura di Stephen Gunn

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Realizzato in piena Guerra fredda ma ambientato negli ultimi mesi del Secondo Conflitto Mondiale, Maschere e Pugnali è diventato un classico. Tanto che il titolo è diventato sinonimo di operazioni segrete. Ancor più quello originale, Cloak And Dagger (‘Cappa e spada’, termine usato nella realtà e nella finzione letteraria per indicare le missioni di spionaggio) . Prima ancora di addentrarci in un film che, malgrado gli anni e l’assenza del colore rimane un piccolo capolavoro di struttura e tensione, è di rilievo il tema politico espresso da Lang. “Pace? Non c’è pace. Questi sono gli anni della guerra atomica, che Dio ci aiuti se pensiamo di poter nascondere questo segreto al mondo” , diceva il personaggio di Gary Cooper in una battuta tagliata dalla censura. Ma qualcosa nei dialoghi d’esordio resta. Cooper interpreta lo scienziato Alvah Jesper, un fisico che vanta legami di amicizia con colleghi anche “dall’altra parte”, un uomo che concepisce la scienza per il bene dell’umanità e s’indigna che, durante la Guerra mondiale, con un solo miliardo di dollari si sarebbe potuto sconfiggere il cancro invece di costruire bombe. È quel poco che la censura dell’epoca (in pieno scontro tra i blocchi) lasciò a questa storia che racconta della lotta contro i nazisti ma allude a conflitti successivi.

Reclutato dall’Office of Strategic Services, il servizio antesignano della CIA, Alvah non può che accettare. La sua missione è contattare una collega ungherese fuggita in Svizzera e convincerla a passare informazioni agli Alleati sui progressi delle ricerche atomiche naziste. Anche se il mondo dello spionaggio gli pare una buffonata (dai rivolti pericolosi, però!) Alvah è convinto che i segreti dell’atomo non debbano cadere nelle mani di Hitler. Per la verità, malgrado qualche errore da dilettante(si fa individuare subito dalla Ghestapo per un sospetto eccesso di cautela all’aeroporto), Alvah mostra subito di avere la stoffa della spia. E non solo perché si muove con disinvoltura e freddezza dimostrando che anche un professore può fare a cazzotti e sparare senza problemi se la Patria lo richiede. I nazisti preparano per lui la cosiddetta ‘trappola del miele’, facendolo avvicinare da un’avvenente agente provocatrice. Accortosi del tranello, Alvah rivolta la situazione e compromette la bella maliarda convincendola freddamente a collaborare. Una fortuna, perché la collega ungherese è stata eliminata e l’azione si trasferisce in Italia. Siamo presumibilmente sulla costa ligure alla quale Cooper approda da un sottomarino. Accolto dalla Resistenza si finge tedesco e prende contatto con Giovanni Polda (Vladimir Sokoloff), collega di un tempo costretto dall’OVRA (i servizi segreti del Duce) a collaborare con i tedeschi da un ricatto. Sua figlia, infatti, è stata rapita, e tenuta in una località sorvegliata della Toscana. Mentre i partigiani si attivano per liberare la ragazza, comincia una partita di nervi tra Alvah (nome che sembra una voluta parodia del classico WASP americano) e Luigi, assassino dell’OVRA. Lo sfondo è una città del Nord ritratta con qualche tocco di ingenuità ma sufficiente realismo. La scritta IL DUCE HA SEMPRE RAGIONE è inquietante, minacciosa. Un po’ riscatta il film da un certo macchiettismo nel ritrarre gli italiani, costantemente impegnati a cantare per strada, a vendere frutta in cassette, insomma tutto il repertorio dei clichè riguardanti il nostro paese. Un altro punto a favore di questa sezione italiana del film è il personaggio di Gina (Lili Palmer), una donna che accoglie dapprima rudemente Alvah, ma poi s’innamora dell’agente americano. Gina, al di fuori del ruolo quasi obbligato dalla trama, risulta credibile. La sua femminilità affiora a poco a poco dalle crepe di una durezza imposta dalla guerra, dalla vita clandestina. Ma la vicenda procede tesa malgrado gli intermezzi sentimentali. Non risparmia neanche crude scene d’azione. Il duello a mani nude tra Alvah e Luigi in un androne è forse uno dei momenti più duri del film, considerata l’epoca. E Lang non lesina neanche una bella sequenza di guerriglia in un casolare, tra nazisti e partigiani. I tedeschi infatti – nella più pura tradizione della guerra tra Servizi – hanno già eliminato la figlia di Polda e si fingono da un’infiltrata per bloccare la fuga dell’anziano professore. Ci penserà Gina a uccidere anche questa agente nemica. La corsa contro il tempo per raggiungere l’aereo inglese che può restare a terra solo poco tempo è un classico dello spionaggio utilizzato negli anni successivi in numerosi film e romanzi ma, in questo caso, la tensione è sapientemente costruita.

Inevitabile la scena d’amore finale e la decisione di Gina di restare in italia sino alla fine della guerra.

Insomma un film ben riuscito che non nasconde un tema politico (contro la corsa agli armamenti atomici in qualsiasi epoca) ma che mette sulla scena tutti i meccanismi della spy-story tradizionale con un ritmo per l’epoca modernissimo.

Cooper è a suo agio nei panni dell’agente anche se, come professore, è veramente molto scaltro e preparato alla violenza. Non rinuncia neppure a qualche espressione ironica che non guasta anche nel contesto della vicenda amorosa inserita in uno sfondo drammatico. Un peccato che il romanzo originale di Corey Ford e Alastair MacBain sia praticamente introvabile. Il film di Lang è quasi contemporaneo agli esordi cinematografici dell’agente 007 ma il contrasto è stridente. Dimostrazione che all’epoca la guerra di spie era argomento diffuso e gradito al pubblico in tutte le sue forme. La mancanza di glamour e di colore, l’insistenza sul pericolo e il logorio della continua tensione occhieggiano al noir ma anche questa è una caratteristica della spy-story. L’uomo-pedina, solo contro il mondo, nelle mani dei superiori in una partita contro un nemico che è tale solo per accidente, perché il caso lo ha voluto dall’altra parte. Una sorta di terribile, crudelissimo gioco che piega la scienza e la vita delle persone ai suoi personali fini. Tutto, naturalmente, raccontato con abilità, senza lungaggini e con la giusta dose di emozioni.

 

SCHEDA TECNICA.

 

Genere: Spie in Guerra.

Maschere e pugnali (Cloak and Dagger)di Firtz Lang-1963. Durata :106’ Sceneggiatura di Albert Maltz e Ring Lardner dal romanzo omonimo di Corey Ford e Alistair MacBain. Interpreti: Gary Cooper :Alvah Jesper- Lili Palmer :Gina- Vladimir Sokoloff: Giovanni Polda) . Del film esiste una recente e buona versione in DVD pubblicata nel 2006 dal marchio Ermitage.

 

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Visti con il Professionista/4: 007 – Dalla Russia con Amore

marzo 17th, 2009

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VISTI CON IL PROFESSIONISTA: I CLASSICI DEL CINEMA DI SPIONAGGIO

007 – DALLA RUSSIA CON AMORE

A cura di Stephen Gunn

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Tra i classici del cinema di spionaggio Dalla Russia con amore (1963) era una scelta obbligata anche se, per successo e popolarità, quasi tutti gli episodi interpretati da Sean Connery sono diventati pilastri del genere. Eppure è in questo film, per certi versi anomalo rispetto al format della serie di spionaggio più duratura e famosa nel mondo, che ritroviamo tutti i segni distintivi dell’intero filone dedicato ai super agenti d’assalto. Il romanzo originale si svolgeva in piena Guerra fredda e dedicava una lunga introduzione al mondo dell’intelligence sovietica. Al cinema l’elemento politico è sfumato. Lo 007 dei film nasce per essere uno spettacolo d’intrattenimento e avventura per tutti ed è sempre stato attento a non prendere posizioni politiche “pericolose”. Benché incentrato sul furto di un decodificatore Lektor in possesso dei Russi all’ambasciata di Istanbul, la sceneggiatura inserisce di prepotenza la SPECTRE creando un nuovo “blocco” apolitico, criminale, terroristico che si rivela ben più organizzato e pericoloso del KGB. Film anomalo sin dalle prima battute, dicevamo. James Bond… muore infatti nella serrata scena d’apertura, ucciso con la garrota celata nell’orologio da un biondissimo Robert Shaw nei panni di Grant, assassino psicopatico, modello per moltissimi altri avversari. Ovviamente non è il vero Bond a lasciarci la pelle, lo rivela una maschera sotto la quale vediamo una ‘cavia’ umana con tanto di baffi, giusto perché lo spettatore abbia chiara la situazione. Dopo questo “ colpo” però il nostro eroe non appare sulla scena per più di 15 minuti, tempo cinematografico lunghissimo. In questo frammento vediamo costruirsi una tela di ragno intorno a 007 che viene sempre evocato e acquista forza con il profilarsi degli avversari. La SPECTRE, che, se vogliamo, è quasi un abbinamento tra la Mafia e Al Qaeda, è incarnata con una trovata geniale dal suo misterioso capo di cui vediamo solo le maniche accarezzano il mitico persiano bianco. Poi c’è Kronsteen (Vladek Sheybal, altro viso notissimo in quegli anni nel filone), l’orribile Rosa Klebb (Lotte Lenya) e Red, Grant. Questi, statuario e micidiale, fino alla fine segue non visto dall’eroe le fasi dell’operazione. L’idea di inserire la sua presenza minacciosa alle spalle dell’ignaro Bond è forse il vero tocco di genio della sceneggiatura rispetto al romanzo. La tensione sale aggiungendo emozioni alle ambientazioni esotiche. Negli anni ‘60 il pubblico non ha ancora la possibilità di viaggiare con facilità e anche un semplice spostamento aereo verso la Turchia assume la valenza di un sogno. Tra gli elementi che caratterizzeranno non solo la serie dedicata a 007 ma tutto lo spionaggio scritto (su Segretissimo in particolare) e filmato di quegli anni, l’esotismo giocherà un ruolo paritario all’intreccio. Sin dai suggestivi titoli di testa giocati sul corpo voluttuoso di una danzatrice del ventre agli angoli più pittoreschi di Istanbul, lo spettatore è trascinato in un universo lontano, pericoloso, che confina con quello della grande avventura tout court.

Video – Titoli di testa

Le versioni rimasterizzate della pellicola rendono giustizia ai vecchi quartieri di case di legno, alle moschee e ai bazar, alle ville sul Bosforo e anche agli interni retrò, tutti rigorosamente in legno, dell’Orient Express. Se a questo aggiungiamo un intrigo che, per una volta è prettamente spionistico ed evita raggi della morte e folli alla conquista del mondo, ben si capisce perché Dalla Russia con amore resti un film amatissimo anche da chi ha saltuariamente frequentato il genere. La punta avvelenata nella scarpa di Rosa Klebb, i pesci siamesi da combattimento, il decifratore Lektor (che assomiglia moltissimo alla famosa macchina Enigma usata dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale) forniscono quel tocco di strabiliante tecnologia che ben si equilibra con l’esotismo dell’ambientazione. Ovviamente è il ritmo dell’azione a catturare lo spettatore. Connery sempre più è a suo agio nei panni del Bond concepito dal regista Terence Young, leggermente differente dall’eroe cupo di Fleming. Più bon vivant, più distaccato e ironico, non rinuncia a una certa dose di cinismo con donne e avversari. Per l’epoca la violenza è spesso molto esplicita, ne è prova il duello a mani nude con Grant, a bordo dell’Orient Express, che resta uno dei migliori “pezzi” d’azione della serie. L’intrigo per rubare il decifratore, umiliare e compromettere un famoso agente inglese attirando nella famosa “trappola del miele” grazie alla sontuosa Tanya Romanova (un’italianissima Daniela Bianchi in perfetta aderenza alla spia russa sinceramente non dotata di mente acutissima ma certamente invitante!) funziona come un meccanismo di precisione. Questo grazie a una sceneggiatura firmata da Richard Maibum che integra dove necessario il ritmo della narrazione con battute e scene d’azione assenti nel romanzo. L’inseguimento sui motoscafi e lo scontro uomo contro elicottero (ispirato a Intrigo internazionale di Hitchcock!) chiariscono la differenza tra il racconto romanzato e l’esigenza di creare uno spettacolo cinematografico incalzante. Per la verità tutti i primi film della serie 007 appaiono oggi dotati di una capacità di strutturare gli avvenimenti e inanellare i fatti molto superiore per le pellicole del loro tempo. Se tutto ciò, a volte, va a scapito della coerenza e del realismo è bene ricordare che il mondo di Bond, come lo vediamo sullo schermo, è solo simile al nostro. In realtà tutti, eroi e “cattivi”, vivono a una velocità superiore, illuminati da luci che esaltano ogni colore, ogni sfumatura.

È un po’il trucco, vincente della serie, concesso, è doveroso ammetterlo, da un gran dispendio di mezzi economici ma anche di talenti. Per quanto si siano realizzate delle ottime imitazioni (una su tutte la serie dedicata a OSS117 diretta da Andrè Hunebelle) nessuna è mai riuscita a creare un così perfetto abbinamento di elementi diversi. Siamo a grande distanza dallo spionaggio realistico, cupo di LeCarré, ma lo spionaggio avventuroso si regge sulla sospensione dell’incredulità, sulla capacità di trovare glamour anche negli scenari più squallidi quali potrebbero essere un accampamento di zingari o una fogna sotterranea. Una menzione particolare va alla scelta degli interpreti che sono parte integrante del “look” della vicenda. E nella girandola di intrighi, agguati, appuntamenti clandestini che ci regala Dalla Russia con amore, ci piace concludere rendendo omaggio a Pedro Armendariz che, già gravemente ammalato, recita con brio la parte di Kerim Bey, residente dell’MI6 a Istanbul. Armendariz non vedrà la fine delle riprese ma porterà a termine senza una smorfia tutte le sue scene. Come non citare la famosa battuta che accompagna l’eliminazione del killer Grilenku mentre scappa da una botola ricavata dalla bocca di Anita Ekberg su un manifesto. “Ferito o meno, devo premerlo io quel grilletto”. E James Bond cede, per una volta, il centro dell’azione al suo comprimario.

SCHEDA TECNICA. Genere: Agenti d’assalto

 

Agente 007 dalla Russia con amore(From Russia with Love),1963, diretto da Terence Young. Sceneggiatura di Richard Maibum dal romanzo di Ian Fleming. Durata : 135’ – Sean Connery :James Bond – Robert Shaw: Red Grant- Daniela Bianchi : Tanya Romanova- Pedro Armendariz : Kerim Bey- Lotte Lenya: Rosa Klebb- Realizzato da United Artist. Dal 2001 la MGM ha diffuso in DVD numerose versioni rimasterizzate e ricche di interessanti extra di tutta la serie. La più famosa risale al 2006 in occasione del ventunesimo film della serie, offerta con una valigetta simile a quella che si vede proprio in questo film.

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Visti con il Professionista/3: Spy Game

marzo 10th, 2009

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VISTI CON IL PROFESSIONISTA: I CLASSICI DEL CINEMA DI SPIONAGGIO

SPY GAME

A cura di Stephen Gunn

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Praticamente un “bigino” sulla storia dello spionaggio dagli anni ‘70 al ‘91. Con la caduta dell’URSS sembrano cadere i blocchi e la ragion d’essere dello spionaggio come è stato inteso durante la Guerra fredda. Ma gli uomini sanguinano e non si rassegnano. Soprattutto ad abbandonare gli amici. Perché questo film, diretto con un’eccellente controllo di ogni singola immagine da Tony Scott, è soprattutto una storia d’amicizia tra il vecchio agente Nathan Miur (Redford) e il suo giovane e bizzoso allievo Tom Bishop (Pitt). Di mezzo c’è un pezzo di storia, tutto il marcio del mondo dello spionaggio e i suoi compromessi e anche una donna, Elizabeth Headley ( Catherine McCormack), pomo della discordia in un’operazione che da professionale si trasforma in un massacro.

 L’inizio sembra Mission Impossibile. Nel carcere di Sou Chu, in Cina, un gruppo di agenti della CIA si fingono medici per vaccinare soldati e reclusi nel corso di un’epidemia di colera. Invece Bishop sta realizzando una rocambolesca operazione per recuperare la donna che ama, venduta dalla CIA ai cinesi. Ne combina di tutte ma viene catturato.

Non basta, l’operazione l’ha concepita da solo e, a meno che Langley non lo dichiari agente catturato in azione, sarà giustiziato entro ventiquattro ore.

 Alla sede della CIA cercano ogni pretesto per lasciarlo alla sua sorte. Cina e USA sono al tavolo di un delicato meeting economico e nessuno vuole scandali.

 Nathan Miur dovrebbe avallare la linea dei pezzi grossi confermando che Bishop è solo un assassino. Ma, nel suo ultimo giorno prima della pensione, Miur proprio non ce la fa. Contro tutto e tutti, in particolare un odiossissimo funzionario in giacca e cravatta – simbolo del potere costituito – Miur ingarbuglia le carte.

Mentre in sala riunioni rievoca la storia di Bishop sin dal suo reclutamento in Vietnam, fa di tutto pur di salvargli la pelle. Arriva a impiegare fondi propri e a organizzare un’operazione clandestina che porterà alla liberazione di Bishop ed Elizabeth all’ultimo minuto. Ma il fulcro del film è la ricostruzione (con qualche piccola imprecisione. L’azione a Berlino è introdotta da un brano dei Dire Straits che risale a cinque anni dopo…bazzeccole!) delle principali azioni nere della CIA durante la Guerra fredda. Bishop e Miur si conoscono a Da Nangm in Vietnam, e la vecchia volpe della CIA prova subito stima per il ragazzino dalla mira infallibile e la faccia da fotomodello.

Bishop vive con il suo “spotter” locale in una zona riservata del campo, mangia cibo vietnamita e questo dettaglio rivela in lui doti innate. Sul campo il suo odore si fonde con quello del nemico. Con sottile abilità Miur manipola Bishop a Berlino prima isolandolo poi offrendogli un posto nell’Agenzia.

Primo in addestramento sul campo, Bishop è sin troppo umano. Al punto di contravvenire alle regole dell’amico mentore. Dopo una furiosa lite in seguito a un’operazione dai due lati del Muro(che atmosfera…) passiamo al blocco centrale della vicenda. Beirut, anni ‘80. Scott fotografa una città in fiamme dove la CIA fa e disfa, progetta attentati tra cannonate, colazioni sotto il tiro dei cecchini, campi profughi e infidi alleati. Compare la bella Elizabeth, militante schierata con un brutto conto da regolare con i Servizi cinesi. L’omicidio dello sceicco Salameh (uno degli autori della strage di monaco, sfuggito al commando del Mossad… presente anche in Munich di Spielberg) viene ricostruito con precisione, mescolato a rovelli e contrasti personali. Miur ammonisce il suo protetto di mantenere un distacco professionale da Elizabeth. Niente da fare.

 Li vediamo salutarsi, i due amici, con freddezza e rimpianto in partenza per differenti destinazioni. Bishop non sa che la CIA ha deciso di “regalare” Elizabeth ai cinesi e che, dell’ignobile baratto, è responsabile Miur. In una scena tagliata nella versione per le sale ma presente negli extra del DVD, vediamo Miur costretto a prendere la difficile decisione. In sala intuiamo la verità da uno scambio di sguardi tra lo stesso Miur e Troy, il vice direttore della CIA, che, alla fine, gli copre le spalle proprio perché l’agente ormai in pensione si assume la responsabilità di quella porcheria. Il film è tutto un intreccio tra tradimenti, senso del dovere, amicizia, amore e ben calibrate scene d’azione. Se pure l’operazione “Cena fuori” con cui Bishop viene salvato dalla Delta Force Americana abbia qualcosa di poco realistico in una vicenda al contrario improntata sul realismo, resta uno dei migliori film di spionaggio degli ultimi anni. Redford in particolare gioca al meglio la sua faccia rugosa che lo spettatore si è abituato negli anni a identificare come quella di un paladino dei diritti civili. Inevitabile il rimando a I tre giorni del Condor e a Tutti gli uomini del presidente.

Brad Pitt ha ancora il cipiglio del ragazzino selvaggio di “L’ombra del diavolo”, ma l’accoppiata con Redford funziona meglio di quella con Harrison Ford. Catherine McCormack è particolarmente aderente al ruolo della “pasionaria”, occidentale innamorata delle cause nobili e perse, non immune al fascino fanciullesco di Pitt. Siamo lontani dal fascino perverso che aleggia intorno alle figure femminili nei film di spionaggio ma è una presenza femminile di peso che un po’ ricorda Diane Keaton in La Tamburina.

L’azione intercalata tra presente e passato, tra i labirintici uffici di Langley e ben ricostruite location d’ambiente aggiunge valore a una sceneggiatura essenziale ma perfettamente lineare nel suo svolgimento.

Di tutto il film, però, la sezione più interessante risulta la ricostruzione della guerra civile in Libano, uno scenario che credevamo appartenere al passato, alla Guerra fredda appunto, ma che in questi tempi è tornato tristemente di attualità.

 

SCHEDA TECNICA

Genere: Guerra fredda

SPY GAME (Spy game, USA, 2001)- regia di Tony Scott- Sceneggiatura originale: Michael Frost Beckner e David Arata- Durata 122’- Robert Redford : Miur – Bradd Pitt: Tom Bishop- Catherine Mc Cormack: Elizabeth Headley . Realizzato dalla Universal, il Dvd è reperibile dal 2002 in varie versioni a uno o più dischi.

 

 

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Visti con il Professionista/2: The Bourne Identity

febbraio 19th, 2009

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VISTI CON IL PROFESSIONISTA: I CLASSICI DEL CINEMA DI SPIONAGGIO

THE BOURNE IDENTITY

A cura di Stephen Gunn

spy-cineo2-the-bourne-identityscale.jpgRobert Ludlum (1929-2001) è stato forse uno dei più prolifici e amati scrittori di spionaggio del ventesimo secolo… e forse lo è anche nel ventunesimo, se consideriamo la decina di volumi scritti da abili professionisti (tra i quali Eric van Lustbader, Gayle Linds e Patrick Larkin) ma che recano il suo nome. Un marchio di fabbrica di un filone spionistico basato su intrighi quasi kafkiani, molta azione e un continuo rovesciamento di fronti. Un nome senza volto fu pubblicato nel 1981 e rappresenta forse il suo capolavoro. Ebbe, in quegli anni, anche una riduzione televisiva molto fedele con Richard Chamberlain e Jacklyn Smith, ma il personaggio di Jason Bourne, killer senza memoria e umanissima “macchina “ per uccidere in rivolta contro i suoi stessi burattinai, è tornato al successo solo nel 2002. The Bourne Identity di Doug Liman ha riscritto le regole dello spionaggio cinematografico, lanciato presso il grande pubblico un nuovo eroe e rivitalizzato tutto il filone. Dei tre film finora realizzati con il personaggio(The Bourne Supremacy, 2004, e The Bourne Ultimatum, 2007) è quello che presenta maggiori analogie con il romanzo originale. Non solo, la storia è meglio equilibrata tra azione e indagine e le frenetiche sequenze girate con la macchina a mano, impronta d’autore di Paul Greengrass (autore dei successivi capitoli) non sono ancora presenti, a tutto vantaggio della scorrevolezza del racconto. Certo, rispetto al romanzo le variazioni sono molte, ma il trascorrere degli anni nella spy-story è particolarmente importante. Un nome senza volto raccontava la storia di un agente infiltrato che, per stanare lo Sciacallo (terrorista solo vagamente ispirato al “vero” Sciacallo) creava un sicario fittizio per attirare il suo bersaglio allo scoperto. Nel corso di un’operazione finita male, Bourne veniva ferito e gettato in mare. Ripescato al largo di Marsiglia, si scopriva senza memoria. Unico indizio: un numero di conto cifrato in Svizzera inserito sottopelle. Nell’adattamento del romanzo originale di degli sceneggiatori Gilroy ed Herron, sparisce lo Sciacallo e lo smemorato si ritrova al centro di una complessa trama di inganni e omicidi. Sicario programmato con il lavaggio del cervello, si è lasciato distrarre dal viso di una bimba e ha mancato il suo bersaglio, uno scomodo politico africano. Nel tentativo di comprendere chi è, Bourne risale una labile traccia da Zurigo a Parigi, incontra una “ragazza selvaggia” di cui s’innamora e scopre di essere la pedina di un programma chiamato Treadstone. Ovviamente è una sezione segreta della CIA finalizzata all’omicidio politico. Concklin (che nei romanzi di Ludlum è il mentore di Bourne) qui diventa il suo peggior nemico. Cos’ha di diverso The Bourne Identity da moltissimi film del filone basati sul complotto? Prima di tutto una innovativa carica di violenza e un look delle scene d’azione decisamente più aggressivo della media. Le sequenze di lotta a corpo a corpo, le sparatorie e gli inseguimenti in auto sono altrettanto improbabili di quelli proposti da un film di James Bond ma hanno un taglio più ruvido e violento. Agli occhi dello spettatore, probabilmente, più realistico. Azzarderei che il recente restiling dei film di 007 ne abbia risentito. Poi, per la prima volta, un film di spionaggio diventa un prodotto per il pubblico giovane che, negli anni, ha preferito diversi filoni relegando le storie di spie allo scaffale dedicato ai “vecchi”. Il merito è certamente di Matt Damon, francamente non credibilissimo nel primo episodio, ma certamente in grado di smuovere una fascia di spettatori più giovane di entrambi i sessi. La presenza di Franka Potente e di Julia Stiles inserisce le immancabili figure femminili della spy-story, proponendone una versione più moderna e meno stereotipata della “fatalona”cui siamo abituati. In effetti tutto il film sembra una lotta tra giovani confusi, a volte violenti ma decisi a trovare la verità e un oscuro mondo di cospirazioni popolato da “adulti” cui Chris Cooper (Concklin) e Brian Cox (il suo capo Abbott, cattivo anche nel secondo episodio) danno un volto convincente. l’ambientazione praticamente tutta europea conferisce quel tocco esotico (per il mercato USA…) che ha sempre caratterizzato lo spionaggio classico. Anche in questo caso Marsiglia, Parigi, Zurigo, la campagna francese fotografati d’inverno, lividi di giorno e baluginanti di luci arancioni di notte, creano un set che si discosta molto dal glamour dei modelli più noti. Banche, centrali operative stipate di monitor, alberghi di lusso non mancano ma non c’è compiacimento nel modo in cui sono ritratti. Bourne corre, lotta, sanguina all’interno di androni bui, indossa abiti consunti, si muove in un mondo che preme psicologicamente contro di lui, isolandolo. Non c’è necessità di gadget fantasiosi. I sofisticati sistemi di comunicazioni sul cui funzionamento la storia insiste in questo come nei successivi episodi, sono solo versioni leggermente più avanzate di quel materiale che anche noi possiamo acquistare in qualsiasi negozio. Una trovata particolarmente indovinata è l’inserimento degli “assett”, delle risorse umane dell’organizzazione Treadstone. Sono killer come Bourne, sottoposti ad addestramenti massacranti che possiamo solo immaginare, e a un lavaggio del cervello che li ha resi quasi delle macchine. Disponibili in ogni parte del mondo, si celano tra noi, ma basta un messaggio sul cellulare per scatenarne una ferocia quasi sovrumana. L’abilità in combattimento, il fascino della quasi invincibilità ha un prezzo. Per Bourne che si ritrova di colpo a combattere tra due personalità opposte ma anche per i suoi avversari. Memorabile è il confronto nelle campagne invernali chiazzate di neve sporca con il sicario venuto a eliminarlo. Questi ha il viso quasi sconosciuto, per i tempi, di Clive Owen. Forse la sequenza migliore di tutto il film è il loro duello a fucilate nei campi. Ferito a morte Owen manifesta un’empatia ricambiata verso Bourne. Entrambi sono coscienti di essere macchine, ma strumenti umani usurati. Owen si lamenta di martellanti emicranie, dell’insofferenza ai fari. Che lo faccia in punto di morte con una scarica di pallettoni nel ventre e riesca a scambiare un sorriso con Bourne è una trovata che umanizza i personaggi.

Totalmente privi di morale e disumani sono invece i capi; sia Concklin che continuamente parla di ‘fare pulizia’ con totale sprezzo della vita umana, che il vecchio Abbot. Questi, vista la mala parata, fa eliminare lo stesso Concklin, cancella ogni prova dell’operazione Treadstone e, allo stesso tempo, presenta al Congresso un progetto con identiche finalità mascherandolo da programma di addestramento. E la partita ricomincia.

 

SCHEDA TECNICA

Genere: Il nemico siamo noi

The Bourne Identity(id) del 2002 diretto da Doug Liman. Sceneggiatura :Tony Gilroy e William Blake dal romanzo di Robert Ludlum. – Durata:113’ – Matt Damon: Jason Bourne – Franka Potente: Marie Kreutz: – Chris Cooper: Concklin. Brian Cox : Abbott. Julia Stiles: Niki. L’assasino:Clive Owen- – realizzato dalla Universal disponibile in DVD dal 2003.

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Visti con il Professionista/1: Chiamata per il Morto

febbraio 10th, 2009

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VISTI CON IL PROFESSIONISTA: I CLASSICI DEL CINEMA DI SPIONAGGIO

CHIAMATA PER IL MORTO

A cura di Stephen Gunn

spy-cine-01-chiamata-peril-morto.jpgEsordiamo ripescando un piccolo capolavoro tratto da un spy-story d’annata, firmata da maestri del genere. Il romanzo “Chiamata per il morto”(The Deadley Affair) di John LeCarré era del 1961, Sidney Lumet lo diresse nel 1966. Siamo in piena Guerra Fredda ma anche nel momento di maggior fulgore del cinema di spionaggio nella sua versione spettacolare. Sono gli anni, infatti, di James Bond-Sean Connery, quelli in cui Segretissimo con le copertine stuzzicanti di Carlo Jacono vendeva decine di migliaia di copie… ogni settimana.

Apparentemente il film di Lumet va contro corrente rispetto alla moda glamour-avventurosa del momento. Racconta una storia di spionaggio senza eroismi, apparentemente poco esotica, una caccia alla Talpa che si svolge nei quartieri più proletari di Londra (i pub e le autofficine di Battersea, la zona dei moli sul Tamigi) e sfiora solo a volo d’aquila gli uffici del Foreign Office e un centralissimo teatro londinese dove si svolge la scena culminante della vicenda. Eppure anche nei personaggi, così disperati, volutamente “squallidi” ci sono non azzardate somiglianze con il filone ispirato a 007. Difficile da credere? Charles Dobbs (James Mason) è il nome del personaggio che, nel romanzo, è George Smiley, l’ometto grigio, eroe di tutta la saga di LeCarré. Da buona spia ama mimetizzarsi ma non si capisce bene la ragione di cambiarne il nome nel film. Dobbs è un uomo non più giovane, vecchia spia inglese, ligio al dovere e implacabile nella lotta al Comunismo che, all’epoca, è ancora il più odiato e principale avversario di Sua Maestà. Dobbs non ha le qualità atletiche di 007 e la sua vita sentimentale è un fallimento. La giovane moglie Ann (Harriet Andersson) è una ninfomane pronta a gettarsi nei letti di chiunque, eppure ambiguamente legata al marito. La disillusione dell’amore per una donna più giovane è una delle costanti narrative di LeCarré e il rapporto tra Smiley (Dobbs) e Ann sarà il tema portante di tutti i suoi romanzi. Però… Dobbs (lo chiameremo così per rigore verso il film in oggetto) ha un rapporto quasi sadomasochista con la moglie alla quale arriva a perdonare tutto e, così facendo, riesce sempre a portarla di nuovo a casa. Ma le debolezze personali di Dobbs sono controbilanciate dall’estrema efficienza nel lavoro. Contro le spie avversarie il “piccolo ometto grigio” è spietato, implacabile esattamente come 007. Si serve di altre armi perché in queste storie la violenza non è così spettacolare. Ma, alla resa dei conti, smascherato l’agente nemico che ha cercato anche di fregargli la moglie solo per depistalo, Dobbs diventa una furia. Pur con un braccio rotto si batte con ferocia ed elimina l’avversario. E mostra un’identica freddezza quando smaschera una rete di spie o tratta con superiori inetti, preoccupati solo di non alterare il sistema di alleanze ed equilibri tra i dipartimenti. Il Servizio segreto visto come l’apparato burocratico di una grande azienda: questa è la visione di Le Carré riportata anche in questo film. Il capo è un vanesio soprannominato nei dipartimenti rivali “Marlene Dietrich”, pronto a coprire tutto e a rinunciare a capire pur di non sollevare polveroni. E Dobbs si costruisce un suo esercito personale con “vecchi rottami” come l’agente in pensione Mendel o giovani inesperti quale Appleby che ne rispettano il carisma anche a rischio della vita. La vicenda è, come molte storie di spionaggio britanniche, ispirata alla più grande paura dei servizi inglesi del dopoguerra. L’infiltrazione dei Russi nei loro organici. La storia di Philby e McLean, reclutati nelle università dal partito comunista negli anni ‘30 e rivelatisi dopo la guerra efficientissime spie del KGB, fu uno scandalo che allontanò USA e Gran Bretagna per anni alimentando una voragine tra i rispettivi servizi. Qui una lettera anonima getta su un funzionario inglese il sospetto di tradimento. Dobbs indaga scoprendo null’altro che un passato di giovanili simpatie per la causa marxista. Ma l’uomo viene ritrovato apparentemente suicida nel corso della notte. Facile accusare Dobbs di aver tartassato inutilmente un innocente. Qui scatta lo spirito guerriero del vecchio agente che comincia scoprire incongruenze (la sveglia telefonica predisposta dall’assassinato che dà il titolo al film), l’ambiguità della vedova (Elsa, con il viso di Simone Signoret) , un misterioso Biondo che comincia a pedinare lo stesso Dobbs per Londra. In più nella sua vita ricompare brevemente l’affascinante Dieter Frey (Maximilian Schell), agente di Dobbs in Svizzera durante la Seconda guerra mondiale. Il suo giudizio sembra velarsi perché al giovane Dobbs è realmente affezionato e il tradimento di sua moglie proprio con Frey rischia di mescolare le carte in tavola. Ma sono il senso del dovere a tutti i costi, la freddezza a dispetto di ogni sentimento che consentono a Dobbs e ai suoi aiutanti di intrappolare la vera Talpa e il suo “controllo”. Senza addentrarci troppo nei dettagli della trama per non rovinare il piacere a chi volesse rivedere questo film da poco ristampata in una versione rimasterizzata di ottima qualità, diremo che Lumet gioca al meglio le sue carte in una memorabile sequenza a teatro. Con lo sfondo emblematico della scena madre dell’Edoardo II, spie e controspie tirano di fioretto alzando la tensione, senza risparmiarsi morti ammazzati e drammatici confronti. Un film emblematico della Guerra Fredda ma anche una delle migliori trasposizioni (benché non fedelissima) dell’opera di Le Carré sugli schermi. La ricostruzione di una Londra degradata dove è comprensibile trovare disperati disposti a vendere il proprio Paese, illusi da speranze di eguaglianza sociale, è perfetta. Alla fine non ci sono buoni o cattivi, né esistono stereotipi assoluti di mariti modello, mogli irrimediabilmente imperfette, seduttori senza umanità. I personaggi sono…umani, con una miscela a volte sconcertante di qualità e lati oscuri.

 

Il mondo delle spie è fatto di grigi. Ed è significativo che Dobbs rimpianga lo spionaggio contro i nazisti. Quella, gli sembra, era una guerra dove i ruoli erano ben chiari. La stessa frase che, oggi, sentiamo ripetere dai vecchi agenti dei romanzi e dei film a proposito della Guerra Fredda.

 

Un caso? Forse la conferma che la guerra “vecchia” sembra sempre più pulita e leale di quella “nuova”.

 

Fa parte anche questo della visione distorta del mondo delle spie.

 

Scheda tecnica – Genere: Guerra Fredda

 

CHIAMATA PER IL MORTO-The Deadly Affair- 1966 diretto da Sidney Lumet- sceneggiatura Paul Dehn dal romanzo di John Le Carré. Durata 107′ interpreti: James- Mason: Dobbs – Maximilian Schell : Dieter Frey – Simone Signoret: Elsa Fennan: – Harriet Andersson: Ann – Harry Andrews: Mendel.- Kenneth Haig: Appleby- realizzato da Columbia- disponibile in DVD nel 2007 da Sony

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