Diario mediocre del solito giallista scacchista con il solito piede e tre quarti nella tomba (ora anche più di tre quarti)

novembre 11th, 2011

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Un diario con spunti di lettura e di vita personale. Io ci provo. Tante stronzate sono diventati best seller e dunque al limite mi avrà letto solo Dario, scuotendo i suoi capelli fluenti. Tra l’altro il titolo, volutamente tirato a bischero, serve per pararmi da qualsiasi critica seria (come si fa a criticare un pezzo con un titolo così?). Un po’ come il trucchetto della chiacchierata tra vecchi amici. Ogni tanto mi metto qui e butto giù qualcosa. Vediamo un po’…

13 giugno

Parto dal personale che mi viene meglio (figuriamoci il resto, dirà qualcuno). Sparito l’omino zoppo delle seconda guerra mondiale che mi angustiava durante le mie passeggiate in quel di Ampugnano. Un po’ mi dispiace e un po’ mi sento sollevato. L’egoismo umano è duro a morire. Ora posso scendere tranquillo dalla macchina e cominciare il viaggio, in tutti i sensi, della lettura, camminando e leggendo che ho acquisito una perizia particolare nel fare contemporaneamente le due azioni, senza sbattere contro i tronchi di qualche albero (dopo un paio di capocciate ho incorporato il percorso giusto). L’unico momento in cui riesco a distrarmi è l’arrivo di un giovanotto tutto scamiciato anche d’inverno che borbotta a voce alta continuamente fra sé. Allora non posso fare a meno di guardarlo per un attimo, alzare gli occhi al cielo e ringraziare il Signore della mia attuale condizione psicofisica (pure da brivido).

14 giugno

Imperversano le portatrici di pocce (non è una novità), sia come autrici che come personaggi di libri scritti anche dai portatori di palle. Non c’è niente da fare. Mi limito agli ultimi casi (chi vuole saperne di più http://www.thrillermagazine.it/rubriche/detective_lady/ ).

Rosa Mogliasco ha scaricato la commissaria Barbara Gillo (“L’amore si nutre d’amore”, Salani 2011); Alessia Gazzola ha tirato fuori Alice Allevi, anamopatologa ventisettenne di Messina, specializzando in medicina legale (“L’allieva”, Longanesi 2011); M.C. Beaton ha scodellato, da alcuni annetti devo dire, Agatha Raisin in pensione prima del tempo da una società di pubbliche relazioni (“Agatha Raisin e la quiche letale”, astoria 2011); infine il nostro Luigi Bernardi si è divertito a creare la detective pm Antonia Monanni (“Niente da capire”, Perdisa 2011).

Ne ho letti un paio e mi sono bastati. Dispiace per gli altri che saranno ottimi e ho sentito parlare molto bene del libro di Bernardi (Perdisa arriva a Siena?). Mi è bastata la Raisin, anzi la Beaton. Una lungagnata, una storia arzigogolata e nel contempo banalotta, che fugge via attraverso il solito linguaggio leggerino leggerino. Alla fine il primo capitolo del prossimo libro. Che lascerò sugli scaffali.

Mi è bastata (e pure avanzata) l’Allevi, anzi la Gazzola. Tutta la vicenda scivola melensa e sciapita con Alice al centro della scena fra sussulti, batticuore, rossori, pianto, caduta per terra, bacio trascinante e incredibile, invidia e gelosia, momenti di abbattimento e frustrazione (pure di distrazione se riesce a perdere perfino un cadavere), attraverso l’ormai classico linguaggio legger-spiritoso che va tanto di moda. Praticamente un gialletto in un romanzetto rosa. Di una fragilità sconcertante nel suo aspetto “giallo” e di una risaputa banalità in quello “rosa”. Poi vendono (se vendono) e hanno ragione loro.

Dimenticavo Ethel Thomas di Cortland Fitzsimmons, (“Delitto ai grandi magazzini”, Polillo 2011). La più vecchia di tutte, sia come età, settantacinque anni suonati, sia come anno di nascita letterario (1936). Una signorina “discretamente lucida”, porta una parrucca bionda, mai sposata anche se gli uomini le sono piaciuti (specialmente quelli più giovani). Una vecchietta arzilla, per non farla troppo lunga. E pure ricca che non guasta. Che dire? Ethel non è Miss Marple, Cortland non è la Christie e dunque la storia si presenta  piuttosto artefatta e raffazzonata, con troppi morti ammazzati in poco tempo e poco spazio. Un minore passabile della letteratura poliziesca.

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Dissertando di Camere Chiuse:John Dickson Carr Vs Clayton Rawson

luglio 29th, 2011

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Puntuale come il rapido delle 7e40, arriva il nuovo articolo firmato Pietro De Palma. L’amico Pietro ha anche un interessante blog   , sul quale vi invito a leggere la recensione di un capolavoro del noir dal titolo ” Lo strano amore di Martha Ivers”. Buone letture e buone vacanze (a chi le fa!).

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Il primo ad aver inventato una Camera Chiusa, The Big Bow Mystery, nel 1896, fu Israel Zangwill; ma il primo ad aver elevato il problema ed il sottogenere narrativo, che da essa prese il nome, ad un tale livello di raffinatezza da assurgere a vette di inusitata grandezza, fu John Dickson Carr.

John Dickson Carr, che pur americano visse per molti anni in Inghilterra, fin dall’inizio della sua attività, provò a fondere, nelle sue opere narrative, più generi: il fantastico, il sovrannaturale, il gotico, il poliziesco ad enigma, creando virtuosistici intrecci il cui scopo era mettere in crisi il lettore, costringendolo prima ad accettare passivamente una situazione dei fatti che pareva incredibile se non addirittura sovrannaturale, per poi  accantonarla, sulla base di una soluzione tecnicamente ineccepibile, di cui forniva tutti gli appigli logici, così da comporre il puzzle e dargli forma definitiva .

I suoi romanzi, fin dal primo di essi, rifuggirono da trame troppo semplici, e si concentrarono preferibilmente sui temi classici del “whodunnit”, e in particolar modo quelli del “delitto impossibile” (come per esempio The Curse of the Bronze Lamp, in cui si ricollega idealmente, nella dedica ad Ellery Queen, ad un radiodramma di quest’ultimo, The Disappearance of Mr. James Phillimore, trasmesso il 14 o 16 gennaio 1943), e ancor più in modo massiccio, quelli de “la Camera Chiusa”; anzi, proprio per la trattazione sistematica di tutte le possibili variazioni di una Camera Chiusa, Carr è ritenuto da tutti, il più grande tra tutti i romanzieri che abbiano trattato questo particolare genere poliziesco, in cui l’elemento centrale non è tanto quello di scoprire il responsabile quanto come il crimine (delitto, furto o quant’altro) venga commesso.

Invariabilmente, in tutti i romanzi che abbiano una Camera Chiusa, la prima impressione degli investigatori coinvolti nell’indagine è che il criminale sia svanito nel nulla : è inutile dire quanto Carr amasse questa situazione del “delitto impossibile” e come svanire nell’aria fosse diventata la sua fissazione (soleva dire “faded into thin air”).

Discende, ovviamente da ciò, il fatto che, la soluzione debba ascriversi o a evento soprannaturale o invece che essa debba avere una base rigorosamente logica.  Ma, una volta inventata la situazione paradossale di un delitto avvenuto all’interno di camera chiusa dall’interno, sono state create via via, non solo da Carr ma da una nutrita schiera di scrittori versati al problema, tutte le possibili varianti: camera chiusa dall’interno, camera le cui entrate sono guardate a vista da soggetti di fiducia, camera in cui esistono marchingegni fisici in grado di creare la situazione di impossibilità, situazioni non previste che fanno scattare il presupposto di impossibilità, “camere allargate” (distese di neve, di sabbia, di acqua), “camere” diverse (automobili, cabine telefoniche,  tetti, scale), etc..

Carr, del resto, a confermare la fama che dall’esterno gli è stata riconosciuta, tentò ad un certo punto, di dare una classificazione il più possibile esaustiva delle Camere, fondandola su molteplici sottocategorie. Va da sé che l’aver posto una tale trattazione teorica, in un romanzo piuttosto che in un altro, deve aver significato qualcosa per lui : deve cioè aver conferito a quel romanzo (che è The Hollow Man, “Le tre bare”), il sigillo dell’opera migliore, o almeno dell’opera più rappresentativa tra i tanti firmati John Dickson Carr.

E’ però il caso di sottolineare che, nell’ambito della produzione firmata come sopra in cui trovano spazio le due serie di Henri Bencolin e di Gideon Fell e parecchi romanzi storici, il genere de “The Looked Room” non è quello preferito, in quanto se è vero che notevoli e addirittura eccezionali sono alcuni esiti (oltre a The Hollow Man, ci piace ricordare He Who Whispers o The Case of the Constant Suicides o ancora The Witch of the Low Tide ) è altrettanto vero che vi sono altri romanzi che non contengono Camere Chiuse anche se sono di altrettanta eccezionale fattura (ad es. Arabian Nights Murder ); e quindi ci pare significativo che aver ideato una dissertazione teorica sul genere della Camera Chiusa, e averla inserita in uno dei pochi romanzi capolavori firmati con il suo nome e cognome, nell’ambito di una serie di romanzi in cui molti non contengono questa particolare situazione, debba avere un significato particolare: perché cioè non inserire la “Looked-Room Lecture” nell’ambito della serie che ha protagonista principale H.M. e firmata Carter Dickson, votata proprio alla Camera Chiusa?

Innanzitutto The Hollow Man è del 1935: prima di esso, Carr aveva firmato con il suo nome e cognome per esteso Hag’s Nook e The Mad Hatter Mystery nel 1933, Eight of Swords e The Blind Barber nel 1934, e Death Watch già nel 1935, oltre che 3 dei quattro titoli con Bencolin; mentre con pseudonimo Carter Dickson, The Plague Court Murders e The White Priory Murders nel 1934, e  The Red Widow Murders (primo romanzo di Carr pubblicato in Italia) nel 1935.

Ora, perché mai Carr pensò bene di affidare a Fell invece che a Bencolin e ancor più ad H.M. la “Looked-Room Lecture”? Intanto i romanzi con Bencolin prima del 1935, seppure geniali, sono intrisi sino al midollo e sino alla fine di un’atmosfera nera e gotica che stride con quella solare della razionalità affermata; inoltre quelli con H.M., se proprio si vuole analizzare per bene il tutto, non è proprio vero che non abbiano anche loro le proprie dissertazioni: infatti, in due romanzi con H.M. della prima serie, quella che va sino allo scoppio del secondo conflitto mondiale, cioè in The White Priory Murders del 1934 e in The Peacock Feather Murders o The Ten Teacups del 1937 vi sono due riflessioni, che seppur più contenute della “Conferenza di Fell”, a parer mio hanno pari importanza. Per questo ritengo opportuno metterle a confronto con quella più celebre per accentuare il fatto che Carr, laddove pontifichi, non lo faccia mai a vanvera; e che le riflessioni che Carr mette in bocca a H.M., pur ignorate o almeno sottovalutate dai critici, abbiano pari valore, sottolineando un aspetto che nella trattazione teorica ne “Le tre bare”, manca.

Cominciamo con la celeberrima dissertazione sulle camere chiuse (da cui espungerò i passi per me più significativi), presente in The Hollow Man (1935):

“La maggior parte dei lettori, sono lieto di dire, va matta per le stanze chiuse. Ma – è qui il maledetto guaio – perfino i loro amici sono frequentemente dubbiosi. Io ammetto di esserlo spesso. Quindi, per il momento, ci metteremo tutti quanti a studiare la faccenda e vediamo cosa riusciamo a scoprire. Perché siamo dubbiosi quando sentiamo la spiegazione della stanza chiusa?….

Un uomo scappa da una stanza chiusa a chiave..be’?… È la fuga dalla stanza che mi lascia perplesso. E per vedere se riusciamo a trovare un filo conduttore, traccerò un abbozzo sommario dei vari sistemi per commettere delitti in stanze sigillate, classificandoli separatamente.

– Primo! C’è il delitto commesso in una stanza ermeticamente sigillata che è realmente sigillata ermeticamente e dalla quale nessun assassino è mai uscito perché nella stanza non c’era nessuno. Spiegazioni:
Uno. Non è assassinio ma una serie di coincidenze che finiscono con un incidente che somiglia a un assassinio. Poco prima che la stanza venisse chiusa c’è stato un furto, un’aggressione, un ferimento, oppure un rumore di mobili che si spaccano che fa pensare a una lotta mortale. Più tardi la vittima viene incidentalmente uccisa o stordita in una stanza chiusa e si presume che tutti questi avvenimenti abbiano avuto luogo nello stesso tempo…

Due. È delitto, ma la vittima è costretta a uccidersi o a soccombere accidentalmente. Questo può avvenire a causa di una stanza abitata dagli spettri, per suggestione, o più normalmente, per del gas filtrato dall’esterno. Questo gas o veleno fa perdere la testa alla vittima che si abbandona a violenze sfasciando la stanza come se vi fosse stata una lotta, tanto che finisce col morire per una ferita da coltello che s’infligge da se stesso…

Tre. È delitto, per mezzo di un congegno meccanico installato nella stanza e nascosto in un qualunque mobile dall’aspetto innocente…

Quattro. È suicidio con l’intenzione di farlo apparire delitto. Un uomo si accoltella con un ghiacciolo, il ghiacciolo si scioglie! e poiché nella stanza non si trova nessun’arma, si presume il delitto. Un uomo si spara con un’arma legata a un elastico… l’arma, quando lui la lascia andare, sparisce nel camino, fuori dalla vista. Varianti di questo trucco (non concernenti stanze chiuse) sono state la pistola, attaccata a un peso con una cordicella, che dopo lo sparo schizza nell’acqua dal parapetto di un ponte; e, sullo stesso stile, la pistola gettata da una finestra in un cumulo di neve.
Cinque. È un delitto che trae il suo problema dall’illusione ottica e dalla personificazione. Così: la vittima, ritenuta sempre viva, è già assassinata dentro una stanza la cui porta è sorvegliata. L’assassino, sia vestito come la sua vittima o scambiato, da dietro, per la vittima, entra precipitosamente nella stanza. E precipitosamente si libera del travestimento ed esce istantaneamente dalla porta sotto le proprie spoglie. L’illusione ottica è che lui, uscendo, si sia semplicemente scontrato con l’altro. Qualunque cosa accada, lui ha un alibi perfetto perché, quando più tardi verrà scoperto il cadavere, si presumerà che il delitto sia stato commesso dopo che la vittima impersonata è entrata nella stanza.
Sei. È un delitto che, per quanto commesso da qualcuno sul momento fuori della stanza, sembra commesso da qualcuno che doveva essere stato dentro la stanza.
“Nello spiegarvi questo – disse il dottor Fell interrompendosi bruscamente – classificherò simile tipo di delitto sotto il nome di Delitto da Lontano o Delitto del Ghiacciolo, dato che di solito è una variante di quel principio. Ho già parlato dei ghiaccioli, capite cosa intendo. La porta è chiusa ermeticamente, la finestra è troppo piccola perché l’assassino possa passarvi, tuttavia la vittima viene pugnalata nell’interno della stanza e l’arma è introvabile. Be’, il ghiacciolo è stato sparato dall’esterno come una pallottola… non staremo a cavillare se sia possibile o meno, non più di quanto abbiamo fatto per i misteriosi gas cui ho accennato prima – e si scioglie senza lasciar traccia.
Sette. Questo è un delitto che dipende da un effetto esattamente alla rovescia di quello del numero cinque. Cioè si presume che la vittima sia morta molto prima di quello che è in realtà. La vittima è addormentata (drogata ma illesa) in una stanza chiusa. I colpi alla porta non riescono a svegliarla. L’assassino si finge molto spaventato, forza la porta, entra per primo e uccide, pugnalando o sgozzando e suggestionando poi gli altri a credere di aver visto qualcosa che non hanno visto… – Calma! Un momento! – interruppe Hadley battendo sul tavolo per ottenere attenzione. Il dottor Fell, con espressione soddisfatta, si voltò gentilmente verso di lui e gli sorrise. Hadley continuò: – Tutto questo sarà magnifico. Hai sviscerato tutte le situazioni delle camere chiuse…
– Tutte? – ribattè il dottor Fell spalancando gli occhi. – Non proprio, direi. Non ho neanche trattato a fondo i metodi sotto quella determinata classificazione. Ho fatto solo un abbozzo. Bah, lasciamo perdere.

Ora stavo per parlare dei vari sistemi di truccare porte e finestre in modo che sembrino chiuse dall’interno. Ah. Ehm. Ecco, signori. Continuerò….C’è il camino vuoto con la stanza segreta dietro…. Ma l’assassino che taglia la corda arrampicandosi su per un camino è rarissimo…Delle due principali classifiche – por­te e finestre – la porta è di gran lunga la più popola­re e vi posso elencare qualche sistema in modo che sembri chiusa dall’interno.

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Primo. Trafficare con la chiave che è sempre nella serratura. Questo era il metodo antico preferito, ma le sue varianti sono troppo note oggi perché qualcuno le usi seriamente. Il gambo di una chiave può essere afferrato e girato dall’esterno: noi stessi lo abbiamo fatto per aprire la porta dello studio di Grimaud…

Secondo. Togliendo i cardini della porta senza toc­care la serratura o il paletto. Questo è un trucco inge­gnoso noto alla maggior parte dei ragazzini quando vogliono aprire una credenza chiusa a chiave, natural­mente i cardini devono essere dalla parte esterna.

Terzo. Manomettere il paletto. Cordoncino di nuo­vo. Questa volta con un congegno di spilli o aghi da rammendo, per mezzo del quale il paletto viene spin­to dall’esterno dall’azione della leva di uno spillo in­filato all’interno della porta mentre il cordoncino è in­filato nel buco della serratura. Philo Vance, al quale faccio tanto di cappello, ci ha mostrato la migliore applicazione di questa trovata…Ellery Queen ci ha mostrato un altro sistema ancora, che comportava la partecipazione del morto stesso… ma raccontato così senza parlare di tutti gli sviluppi farebbe un effetto talmente pazzesco che non si renderebbe un buon servigio a quel geniale scrittore.

Quarto. Manomettere un saliscendi. Questo normal­mente si effettua incastrando sotto la sprangherà qual­cosa che può essere eliminato dopo che la porta è sta­ta chiusa dall’esterno, in modo che la sprangherà possa ricadere. Il miglior metodo è di gran lunga l’uso del­l’insostituibile cubetto di ghiaccio: lo si mette sotto la sprangherà e non appena è sciolto, la spranghetta scen­de. C’è anche un caso in cui la brusca chiusura della porta basta a far cadere la spranghetta.

Quinto. Un’illusione ottica, semplice, ma efficace. L’assassino, dopo aver commesso il suo delitto, ha chiuso la porta dall’esterno e si è tenuto la chiave.

(John Dickson Carr, The Hollow Man, “Le tre bare”, traduz. Maria Luisa Bocchino, I Classici del Giallo Mondadori N.234 del 1976, passi tratti dal Cap.17 “La conferenza sulla stanza chiusa a chiave”, pagg.183-195).

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“Il doppio” comune denominatore ne “Il caso dei fratelli siamesi” di Ellery Queen

dicembre 22nd, 2010

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Avevo visto esposto tempo fa, in una libreria, un romanzo di Alexandre Dumas che non conoscevo: Les freres corses, “I fratelli corsi”, un breve romanzo o racconto lungo che dir si voglia. Una bella storia, potrei dire una ghost story : in una famiglia corsa, nell’imminenza della morte, nel ramo maschile, appare un defunto, a chi sta per passare a miglior vita. Ma, se ne parlo, è perché al centro della storia vi sono 2 fratelli, Lucien e Louis che si somigliano come due gocce d’acqua: 2 fratelli monozigoti. Sono lontani, uno a Parigi, l’altro in Corsica, ma sono uniti da quella telepatia che molte volte pone in stretto legame 2 fratelli gemelli. E così quando uno viene ucciso in un duello, l’altro nello stesso identico momento sente un forte dolore nel punto del torace dove l’altro è stato ferito mortalmente, prima che il fratello, seguendo la tradizione di famiglia, gli compaia a chiedere giustizia. Orbene, mentre leggevo questo romanzo di Dumas, mi è balzato singolarmente davanti agli occhi il tratto d’unione con un grande romanzo di Ellery Queen: “Il Caso dei Fratelli Siamesi”, che tratta di fratelli, siamesi e non, ma che tratta soprattutto “il tema del doppio”, per la prima volta, nei romanzi di Ellery Queen.

Prima del romanzo in questione, che è il settimo firmato da Ellery Queen, i due cugini Dannay e Lee avevano pubblicato The Roman Hat Mystery, The French Powder Mystery, The Dutch Shoe Mystery, The Greek Coffin Mystery, The Egyptian Cross Mystery, The American Gun Mystery, e anche 3 romanzi sotto lo pseudonimo di Barnaby Ross: The Tragedy of X, The Tragedy of Y, The Tragedy of Z. Va detto che oramai nel 1933 Frederick (Daniel Nathan) Dannay detto “Danny” e Manfred Bennington (Manford Lepofsky) Lee detto “Manny”, cugini e nati entrambi nel 1905, erano sulla cresta dell’onda: i loro romanzi andavano a ruba.

All’inizio il loro investigatore si comportava alla maniera di Philo Vance, e dal creatore di Philo Vance, S.S. Van Dine ( i cui titoli seguivano la formula base : The + Sostantivo + Murder Case), i due cugini mutuarono la caratteristica formula base del titolo: The + Aggettivo di Nazionalità + Sostantivo + Mystery, cosa che andò avanti fino al 1935, quando cioè, con Halfway House (1936), quest’abitudine terminò. All’inizio, tuttavia, pur consci del valore del loro primo manoscritto, The Roman Hat Mystery, essi penarono per riuscire a piazzarlo presso qualche editore: solo Frederick A. Stokes gliel’accettò, dimostrando il fiuto che altri non avevano saputo valutare, tanto più che i due avevano vinto il concorso bandito nel 1928 dalla rivista McClure’s e dalla casa editrice Lippincott  per la migliore opera prima poliziesca, ma poi la rivista era fallita e passata di mano ad altro editore, che invece di pubblicare il loro romanzo aveva scelto altro.

 Il loro più grande personaggio è stato Ellery Queen che poi ha dato il nome alla loro ditta comune: il suo nome si fa risalire all’amico d’infanzia di Danny, Ellery Hermann, più che al poeta William Ellery Leonard (in gioventù Danny aveva coltivato velleità poetiche) o all’editore Ellery Sedgwick.

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Va detto anche che i due cugini avevano il fiuto degli affari e molto intelligentemente, i romanzi che hanno come protagonista non Ellery Queen ma l’attore shakespeariano Drury Lane, erano stati dati alle stampe con altro pseudonimo, Barnaby Ross. Francis M.Nevins Jr., storico autore del celebre studio critico su Ellery Queen, “Royal Bloodline: Ellery Queen Author and Detective”, afferma che il nome Barnaby Ross potrebbe essere stata la reminiscenza di un palazzo in Elmira conosciuto come Barnaby’s Barn, in cui Dannay spesso giocava quando era bambino e che figura nel suo romanzo autobiografico The Golden Summer, anche se in effetti Barnaby Ross viene menzionato per la prima volta in The Roman Hat Mystery,”La Poltrona N.30″, nell’introduzione (che in Italia è disponibile solo nell’edizione tradotta da Montanari): lì viene collegato Richard Queen (e suo figlio Ellery) a Barnaby Ross: “..Richard Queen..ai tempi dei suoi brillanti risultati conseguiti nell’ormai vetusto caso di assassinio di Barnaby Ross..” . Interessante è che l’estensore delle introduzioni, che compaiono nei primi romanzi, sono firmate da un fantomatico J.J. McC. Nella prima, quella appunto di The Roman Hat Mystery, vengono affermate delle cose di cui non si troverà più traccia nei successivi romanzi: Ellery è sposato ed è padre di un bel bambino, vive in Italia, ed Ellery Queen e Richard Queen sono solo pseudonimi. Ma la cosa più interessante, una vera chicca riguarda il famoso J.J.McC. C’è chi ha osservato, infatti, che un  McClure è presente in uno degli ultimi romanzi di Ellery Queen, Face to face; nessuno si è accorto però che questo nominativo rimanda a chi bandì il concorso per il quale i due Queen concorsero con il loro primo romanzo: la rivista McClure.

I due cugini avevano adottato una tecnica (che potremmo dire) di marketing: creare una finta querelle sul valore dei romanzi (indiscusso) rimpallandosi accuse e contraccuse e sfidandosi pubblicamente e vicendevolmente su presunte qualità nel risolvere deduttivamente dei delitti. Il tutto era partito con la convocazione presso una scuola di giornalismo dei due, al fine di illustrare le tecniche di scrittura: era stato tirato a sorte chi dovesse recarvisi ed era uscito Lee che vi si era recato mascherato. Sfruttando la maschera nera, in un secondo tempo, i due presero ad affrontarsi anche sul palcoscenico: Dannay impersonava Barnaby Ross, mentre il cugino Ellery Queen. La popolarità dei due arrivò alle stelle e cominciò a circolare persino la voce che Ellery Queen fosse un altro pseudonimo di S.S. van Dine, mentre Barnaby Ross lo era del grande critico americano Alexander Woolcott (che si vantava di essere stato fonte di ispirazione per il Nero Wolfe di Rex Stout). Poi un bel giorno, il 10 ottobre 1936, sul Publishers Weekly, i due ammisero che era stato un loro bluff, riuscitissimo, per imporre dei romanzi che forse avendo un protagonista diverso avrebbero potuto risentire della disaffezione del pubblico dei lettori, oltre che la stessa produzione vertiginosa di romanzi avrebbe potuto inflazionare le vendite degli stessi.

Nel 1933, intanto, era comparso The Twin Siamese Mystery, che s’impose nella loro produzione per svariati motivi, come uno dei migliori romanzi in assoluto del loro primo periodo creativo, contraddistinto dall’oramai celebrata “Sfida al lettore”.

Nevins dice in merito al romanzo in esame: “..Nel successivo The Siamese Twin Mystery (II caso dei fratelli siamesi, 1933) Queen tenta nuovamente di infondere una dimensione filosofica nell’enigma deduttivo for­male, riscuotendo un notevole successo ad entrambi i livelli. Ellery e suo padre, di ritorno da una vacanza in Canada, restano intrappolati dall’incendio di una foresta su un fianco della Arrow Mountain. La loro unica speranza consiste nel salire verso la cima della montagna, e un bel po’ dopo il tramonto scoprono una casa sulla vetta. Ora che l’incendio divora l’intera base del monte, i due Queen trovano assai gradita l’ospitalità loro offerta dal dottor John Xavier, eminente chirurgo ormai in pensione, e dalla sua strana famiglia, ma ben presto appare chiaro che qualcosa non va per il verso giusto. Chi è l’odioso ciccione che vaga per la montagna? Perché diversi anelli sono stati rubati all’interno della casa durante la settimana preceden­te? Chi è la donna sconosciuta che si nasconde in una delle camere da letto del piano superiore? E chi o che cosa è quella creatura simile a un granchio che si aggira per i corridoi della casa di notte? Il mattino dopo il dottor Xavier viene trovato ucciso da un colpo d’arma da fuoco nel suo studio, con un solitario dinanzi a sé e la metà strappata di un sei di picche in mano. I due Queen devono risolvere il delitto da soli, poiché ormai l’incendio ha isolato la vetta, e nonostante l’incalzare delle fiamme ha presto luogo un secondo omicidio, questa volta con una vittima che stringe in pugno la metà di un fante di quadri. Il culmine viene raggiunto allorché il fuoco raggiunge la casa e tutti i membri della famiglia Xavier si rifugiano in cantina nell’attesa che le fiamme giungano fino a loro” . Come si vede, ce n’è abbastanza di carne da mettere sul fuoco, anche se onestamente, va riconosciuto che il romanzo, nonostante sia uno dei migliori del primo periodo creativo, è tuttavia meno intricato e cervellotico di The Greek Coffin Mystery , “Il Caso Khalkis”, che invece viene riconosciuto da molti e anche dallo stesso Nevins, come il “..romanzo investigativo più complicato, più spaccacervello e meglio costruito che sia stato pubblicato negli Stati Uniti durante l’Età dell’Oro del genere poliziesco”.

Innanzitutto vediamo come Arrow Head, la casa sulla vetta di una montagna attorniata dal fuoco che divampa, prefiguri un caso di Camera Chiusa allargata: è come un’isola, attorniata dal mare, da cui l’assassino non può fuggire, come “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie o ancora in modo più attinente, come l’assassinio in una casa al di fuori della quale c’è un ciclone e quindi da cui non si può uscire, in “La casa nel ciclone” di Newton Gayle. Le fiamme che attorniano Arrow Mountain, più o meno tra il Wyoming e l’Utah, costringono tutti gli occupanti della casa, tra cui anche l’omicida e il detective, a convivere fino a quando non sarà finita. In un certo modo Ellery, rinchiuso in cantina con gli altri, spiega la soluzione, quale antidoto alla paura di finire arsi: è un modo come un altro per non pensare ad un male più grande, riflettendo su un male più piccolo in quel momento: quello scaturito in quella casa e di cui lui, in quel momento, è supremo arbitro.

Il romanzo si pone come uno degli esempi migliori di quella caratteristica tutta queeniana, che è the dying message, “il messaggio del morente”, comparso per la prima volta in occasione del terzo omicidio di The Tragedy of X: la vittima prima di esalare l’ultimo respiro, cerca di indirizzare con un messaggio specifico, chi saprà interpretarlo in maniera appropriata: qui per es. è una carta, prima il sei di picche, poi il fante di quadri, tagliato a metà: vedremo quale altro significato potrà avere nel prosieguo del ragionamento, ma qui limitiamoci semplicemente a segnalarlo. Faccio notare una cosa che mi è balzata alla mente: leggendo questo romanzo, al tempo in cui fu scritto, chiunque, senza averne la prova certa, avrebbe però potuto ipotizzare (oltre quello che si era letto nell’introduzione a The Roman Hat Mystery) un legame tra Barnaby Ross ed Ellery Queen: infatti, se ben si vede, la prima volta che Ellery Queen introdusse “il messaggio del morente”, fu in Tragedy of X. E in The Twin Siamese Mystery, muore un X anzi, ne muoiono due: quindi, a ben donde, anche questa è una Tragedia di X !

Tuttavia questo mirabolante romanzo si segnala per una serie di estrose deduzioni e variazioni sul tema della falsa confessione; e per due caratteristiche: la prima, connaturata alla vicenda narrata, è la mancanza del corollario degli agenti e del sergente Velie che di solito compaiono nei primi romanzi; la seconda, molto più importante, è la mancanza di The Challenge to Reader, “La sfida al Lettore”. Infatti questo è il primo romanzo in cui manca, anzi per essere più preciso, in cui sembrerebbe mancare: infatti, nella cantina, mentre al di fuori il fuoco divampa nella casa e minaccia le loro stesse vite, Ellery si rivolge ai presenti e chiede: “..Prima che vi racconti la mia storiella, non c’è nessun altro, come Smith, che ha una confessione da fare? Ci fu silenzio. Ellery studiò lentamente i loro volti, uno per uno.. – Ostinati sino alla fine, vedo. Allora dedicherò i miei ultimi..i miei prossimi momenti a questa faccenda..” (E. Queen,  The Twin Siamese Mystery, Il Caso dei Fratelli Siamesi, Speciale Del Giallo Mondadori n.38 del  2003, trad. Gianni Montanari, pag. 229). Stefano Benvenuti e Gianni Rizzoni, autori di una celebrata opera Mondadori di molti anni fa, “Il Romanzo Giallo”, affermavano che in realtà, anche se non vi è alcuna segnalazione di una “Sfida al Lettore”, essa fosse camuffata : siccome l’invito al colpevole non avrebbe avuto senso perché quello non si sarebbe certamente fatto avanti, essi concludevano che l’invito non poteva che essere rivolto al lettore stesso.

Tuttavia io personalmente son rimasto sempre un tantino disorientato da questa sofistica spiegazione: perché mai, proprio in un romanzo come questo, la sfida sarebbe dovuta mancare e non anche in altri? Io invece non vorrei che “La Sfida al Lettore” in realtà ci fosse, magari nella prima edizione, quella rarissima di Stokes, e poi con la continua pubblicazione in formati economici e non integrali, questa forma di sfida fosse andata persa. Del resto degli scritti di Ellery Queen, alcune cose sono rarissime e non solo le prime edizioni di Stokes ma anche per esempio gli esemplari della prima rivista di racconti pubblicata dai due cugini. Comunemente si sa che essi fondarono la EQMM; ma non si sa per esempio che, prima della pubblicazione di essa a partire dal 1941, essi avessero tentato di pubblicare un’altra rivista (che avrebbe dovuto presentare romanzi e racconti selezionati), di cui uscirono solo quattro numeri (rarissimi e i cui prezzi nel caso si trovassero varrebbero cifre astronomiche) mentre un quinto in forza di pubblicazione, non fu pubblicato: Mistery League.

La critica ha dibattuto a vario modo sull’importanza di questo romanzo, non tanto per la sua struttura, ma per ciò che sottende alla sua realizzazione. Infatti è questo il primo romanzo in cui molti segnali disseminati nella trama, rimandano ad un malessere sempre più forte, un vero e proprio disagio, che si era instaurato tra i due cugini. Essi infatti, pur uniti dalla loro storia e dalle loro comuni origini ebraiche, pur avendo insieme creato dei best sellers, poco a poco si erano resi conto di essere entrati in un gioco che andava al di là della loro sfera personale (che avrebbe compreso poi testi per trasmissioni radiofoniche, sceneggiature per il cinema, e la creazione dell’ EQMM, L’Ellery Queen Mystery Magazine, dove sarebbero state raccolte le migliori storie brevi, racconti, del panorama poliziesco internazionale). I due non si sopportavano più, e finivano spesso per litigare, anche in maniera plateale, come quando, mentre erano in uno studio radiofonico, venne sospesa una trasmissione a causa delle grida che si sentivano provenire da altro ambiente dove stavano “discutendo” i due cugini: andò a finire, che per non stare neanche troppo vicini, uno andò a vivere in e l’altro in: Manfred Lee si occupava della stesura del romanzo e dello stile, mentre Frederick dell’invenzione della messinscena narrativa e del plot. In pratica il modus agendi della coppia si è potuto evincere allorché alcuni anni fa, Crippen & Landru ha pubblicato l’ultimo romanzo inedito della coppia: si tratta di Tragedy of Errors, un canovaccio lungo una settantina di pagine scritto da Dannay e poi, dopo la morte di Lee, rimasto in un cassetto fin quando, dopo la morte di Dannay, è stato riscoperto: “Danny” scriveva le trame e ideava il plot, mentre poi a stendere il romanzo nella forma definitiva, ci pensava “Manny”. Insomma..la mente e il braccio!

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 Remi Schulz, un grande studioso di enigmi,francese, e grande esperto di Cabbala, ha scritto degli interessanti articoli, esaminando alcuni aspetti dell’opera di Queen: le tesi che egli porta avanti non ci sentiamo del tutto di condividere, in quanto egli tendenzialmente cerca di portare acqua al suo mulino, ma alcune delle sue considerazioni sono veramente interessanti, tanto più che il significato nascosto nei testi, è la caratteristica della Kabbalah, dottrina che due ebrei come i due cugini dovevano conoscere se non condividere : “..est le septième roman des Queen, effectivement paru fin 33, l’un des plus réussis de cette première période fort prisée par Borges qui s’est déclaré peiné de la bifurcation des Queen hors du sentier de la pure déduction..”. Remi Schulz cita anche un celebre racconto di Juan Antonio Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano (Borges è presente con qualche racconto in EQMM)  facendo riferimento al fatto che ad un certo punto la via che i due cugini avevano percorso insieme, si fosse arrestata dando origine ad una biforcazione sul sentiero della pura deduzione: in pratica secondo lui Borges, scrivendo il racconto si sarebbe metaforicamente riferito ai due Queen. Questa a noi pare un’interpretazione presa per i capelli: Schulz in sostanza rileva la somiglianza di Herbert Quain, scrittore inventato e protagonista di un altro racconto, Esame dell’opera di Herbert  Quain, con Ellery Queen, che per lui è fortemente indicatrice, anche perché Borges era stato ospitato su EQMM e il racconto che di lui cita è poliziesco. Il fatto è che la comune interpretazione di Il giardino dei sentieri che si biforcano, è basata sulla presa in esame del Tempo non in senso assoluto ma relativo, “una rete crescente di tempi divergenti, convergenti e paralleli..che s’accostano, si biforcano, si tagliano o s’ignorano per secoli comprende tutte le possibilità” (J.L.Borges : Finzioni – Trad. Franco Lucentini, Einaudi, 1955 ristampa 2010,pagg.90-91).

Interpretazione metafisica, potremmo dire fantascientifica, ma non poliziesca. Va detto però che Il giardino dei sentieri che si biforcano è del 1941, tempo in cui i due probabilmente avevano già maturato la volontà di stare divisi (anche se apparve su EQMM solo nell’agosto del 1948: traduttore fu Anthony Boucher). E se Schulz pensa a Queen come ispiratore di Quain è perché, ma non lo dice, c’è qualcosa che lega indissolubilmente questo ipotetico romanzo di autore inventato, a Ellery Queen: il narratore dice che “..L’editore lo mise in vendita negli ultimi giorni del novembre 1933. Ai primi di dicembre dello stesso anno, le gradevoli e ardue involuzioni del Siamese Twin Mystery affaccendarono sia Londra che New York..” (J.L.Borges: Finzioni, Esame dell’opera di Herbert Quain, trad. Franco Lucentini, Einaudi, 1955 ristampa 2010, pag.64).

Prendiamo in esame un altro passo assai significativo del suo studio: “..Le mystère du jumeau siamois, du Siamese twin, est peut-être une première manifestation de ce malaise entre les cousins. Alors que tous les premiers Queen sont parus avec la reine de carreau (Queen of diamonds) en couverture, Dannay a convoqué ici une dame Carreau d’origine française mère de jumeaux xiphopages ; un chirurgien spécialisé envisage de les séparer, il est assassiné ; un des jumeaux est soupçonné à cause d’un valet de carreau coupé en deux (une double figure tête-bêche dans un jeu américain), ce qui pose le délicat problème du châtiment..”.

Per chi non conosce il francese, Schulz afferma che “il mistero del fratello siamese può essere una prima manifestazione di questo disagio dei due cugini. Allora che tutti i primi (romanzi) di Queen presentano in copertina una regina di quadri, Dannay ha convocato qui una signora Carreau di origine francese, madre di gemelli siamesi; un chirurgo specializzato in operazioni di separazione viene assassinato; uno dei gemelli è sospettato a causa di un fante di quadri tagliato in due pezzi (una doppia figura nel gioco di carte americano), che pone il  delicato problema della pena..La nonna comune dei due cugini Dannay e Lee si chiamava Rachele, il nome della regina di quadri nel gioco francese”.

In effetti quello che dice Schulz può avere una sostanza reale: le prime edizioni dei romanzi di Queen, prima de “Il Caso dei fratelli siamesi” presentano in effetti una regina di quadri in copertina, che rappresenterebbe come logo la ditta dei due cugini: perché proprio una regina di quadri e non di picche o di fiori o di cuori? Schulz dice che qui c’è una Carreau (vero) e Madame Carreau madre  dei due fratelli siamesi metaforicamente rappresenta una donna di quadri, madre di due fratelli siamesi (un nome, Ellery Queen, che nasconde l’unione di due persone, che sono per forza uniti pur avendo due menti e due corpi diversi, e che vorrebbero distaccarsi: i due cugini); c’è un chirurgo esperto in separazioni di fratelli siamesi che muore assassinato (in sostanza nel momento in cui i due cugini avrebbero potuto essere divisi, è intervenuto qualcosa a sancire la loro indivisibilità). Il fratello siamese che viene sospettato lo è a causa di un fante di quadri diviso in due (una carta che ha il fante speculare nelle due metà della carta): ancora una rappresentazione della riunione di due persone in una. Tacciamo sul resto: la mano sinistra aperta e quella destra chiusa, il ragionamento sul fatto che non fosse mancino, e quindi sulla volontarietà dell’atto, tanto più che la rigidità cadaverica sarebbe cominciata subito dopo la morte, a causa del fatto che fosse diabetico: ma questa particolarità è presente anche in un altro romanzo, The Egyptian Cross Mystery, scritto precedentemente a questo, insomma un particolare che i due avrebbero utilizzato adattandolo ad altro contesto.

Ma per quale motivo innanzitutto i due Queen avrebbero scelto una Donna di quadri invece che quella di altro seme? Il seme del quadri secondo noi è peculiare nei quattro e ha una caratteristica che gli altri non hanno: rovesciata, è sempre un quadri, non c’è cioè un verso: le picche rovesciate sono rovesciate, i cuori e i fiori altrettanto, ma il quadri rovesciato non lo è, non si può vedere se lo sia, è la rappresentazione dell’unità, della perfezione dei semi. Tuttavia la ragione più profonda della scelta, è data dalla storia familiare comune ai 2 cugini, singolarmente collegata ad una carta da gioco. Se riandiamo all’origine dei giochi di carte, troviamo che la capitale vera e propria, il luogo dove per la prima volta le carte francesi furono usate e da dove si diffusero altrove, nei Paesi limitrofi, fu, dal XVI secolo, la città di Rouen: lì in particolare, alle carte con soggetti (ai fanti, alle regine, ai re) vennero dati dei nomi. In origine la tabella dei nomi era la seguente:         

Re di Picche = David, Re di Cuori=Alexander (Alessandro Magno), Re di Quadri= Caesar (Giulio Cesare), Re di Fiori=Charles (Carlo Magno); Fante di Picche=Hector (Ettore, principe di Troia),Fante di Cuori=La Hire (Etienne de Vignoles, comandante dell’esercito francese nel tempo di Giovanna d’Arco), Fante di Quadri=Ogier (uno dei cavalieri di Re Artù), Fante di Fiori=Judas Maccabaeus (Giuda Maccabeo); Regina di Picche= Pallas (Pallade Atena), Regina di Cuori= Rachel (Rachele, moglie di Isacco),Regina di Quadri=Argine (anagramma di Regina), Regina di Fiori=Judith (Giuditta).

Secondo una interpretazione molto interessante, alcuni di questi nomi sarebbero delle storpiature francesi: così Argine (che non si è ancora riusciti a capire a chi si riferisse) deriverebbe da Argeia, mitica principessa della città Argo; Rachel non si riferirebbe a Rachele ma a Ragnel moglie di Sir Gawain, un altro dei cavalieri della Tavola Rotonda; e infine La Hire potrebbe derivare da Aulus Hirtius, uno dei comandanti di Giulio Cesare. In questo modo le 12 carte a soggetto apparterrebbero a 4 grandi famiglie: personaggi biblici, personaggi di derivazione greca, personaggi di derivazione romana, personaggi cristiani. Tuttavia, quando le carte da gioco si furono adeguatamente diffuse in Francia, alla terminologia di Rouen si affiancò quella di Parigi, che aveva delle differenze, una delle quali a noi interessa particolarmente:  il Re di Cuori diventa Charles e quello di Fiori, Alessandro Magno, mentre gli altri sono invariati; il Fante di Picche è Ogier, quello di Cuori.. La Hire, di Quadri..Ettore, e di Fiori..Judas Maccabaeus; infine la Regina di Picche è Pallade, la Regina di Cuori è Judith, la Regina di Quadri è Rachel, la Regina di Fiori è Argine. Puntiamo l’attenzione su Rachel=Regina di Quadri: le madri dei due cugini, le sorelle Rebecca e erano figlie degli emigranti ebrei russi, Leopold e Rachel Wallerstein : Rachel..ecco il nesso!  Del resto anche Remi Schulz vi accenna : “La grand-mère commune aux cousins Dannay et Lee se prénommait Rachel, le nom de la reine de carreau dans les jeux français”. Tuttavia Remi Schulz per il romanzo in questione in pratica si ferma qui; noi invece.. andiamo  avanti.

 Notiamo innanzitutto che a questo punto, se Rachele, Regina di quadri nelle carte francesi, era anche il nome della nonna materna dei 2 cugini, e se nel romanzo abbiamo una Madame Carreau ( che secondo Luca Conti potrebbe esser stata una reminiscenza di Madame Laveau, la regina del Voodoo in New Orleans) e Carreau in francese designa il seme di quadri  madre dei due gemelli siamesi  Francis e Julian, significa che possiamo idealmente e giustamente associare Francis e Julian a Dannay e Lee, e la stessa carta, il Fante di Quadri (doppia nella specularità dei due fanti) può, in virtù dell’associazione Carreau=Quadri=Queen, rappresentare non solo uno dei due fratelli siamesi, ma anche uno dei due cugini Queen, come pure, più ancora singolarmente, la carta strappata in due può significare una unione..strappata: la divisione di una unità in due.

Ma quello che ho osservato in particolare è una cosa su cui nessuno ha posto la propria attenzione: per quale motivo il chirurgo si chiama Xavier? Innanzitutto Xavier non è un nome comune in USA, almeno non è comune come John, Bill, Jack: dove i Queen avrebbero tratto l’ispirazione e perché avrebbero proprio scelto questo nome a rappresentare il chirurgo che ha il compito nel romanzo di separare i due fratelli siamesi?

Osservo innanzitutto che il romanzo è del 1933: da alcuni anni aveva cominciato a suonare in New York un grande musicista di origine spagnola, che aveva messo su una propria band, specializzandosi nella musica d’accompagnamento e soprattutto in tanghi, per cortometraggi e lungometraggi, e a partire dal 1931 era diventata la principale attrazione della stagione del Waldorf Astoria Hotel, uno dei più grandi e conosciuti di New York : Xavier Cugat. E’ possibile che il grande arrangiatore e musicista spagnolo-cubano, abbia fornito l’ispirazione per quel personaggio del romanzo? Secondo me, potrebbe essere possibile, ma comunque poi bisognerebbe vedere il perché proprio questo nome e non un altro li avesse colpiti: secondo me, all’origine della scelta del nome, ci fu la lettera iniziale: la X. Perché?

Abbiamo già fatto notare come questo romanzo si apparenta idealmente a The Tragedy of X , e quindi X potrebbe esser stata scelta per legare i due romanzi. Tuttavia, la X, nel nostro caso, potrebbe rappresentare il “bifrontismo” dei 2 cugini, il loro “doppio”: infatti la  X, la lettera CHI greca, rappresenta il Chiasmo, che ha una forma a croce: gli elementi si dispongono ” in corrispondenza inversa” l’uno nel confronto dell’altro, per cui ciò che è in basso a sinistra si specchia in ciò che è in alto a destra, e così via. Del resto la corrispondenza a chiasmo come coppia di opposti, si apparenta a quella delle due immagini speculari secondo un asse simmetrico, rivolte una verso l’altra o entrambe che guardano le due direzioni opposte, un bifrontismo che ci richiama il Dio Giano (tanto più che se notiamo la rappresentazione del dio bifronte e lo stilizziamo potremmo ricavarne una X. Poi chissà come pensandoci, ho notato come eufonicamente Jianus sia molto simile a John, il John di Xavier: in Ellery Queen tutto ciò che sembrebbe dettato dalle coincidenze non lo è e leggere tra i righi non è un esercizio campato in aria, ma connesso con le credenze ebraiche dei due cugini. Tra i due quello che era più versato a questi enigmi era ovviamente Dannay, tanto più che era lui a creare le basi delle sceneggiature e del plot : era lui a sentire di più questa necessità di staccarsi dal cugino?

 E Mark, l’altro fratello di John? Anche lui è un nome scelto apposta? Remi Schulz, sempre nel suo saggio, nota la singolarità del fatto che Twain sia molto vicino come forma della parola a Twins (Siamesi). Coincidenza ?

“..Dannay a écrit seul un roman, publié en 53 sous son vrai nom de naissance Daniel Nathan, The golden summer, basé sur des souvenirs d’enfance… Si The golden summer est bien plus qu’un doublon de Tom Sawyer, son titre semble calqué sur celui du premier roman de Twain, The gilded age (L’Age doré)”. Ci sembra di no, e ci sembra anche che l’osservazione di Schulz sia ancorché interessante: Dannay scrisse nel’53 un romanzo che parlava della sua infanzia, The Golden Summer, un romanzo molto simile se vogliamo all’oggetto del Tom Sawyer di Mark Twain, ma ancor più vicino nel titolo al primo di Mark Twain : The Gilded Age, “L’Età d’Oro”.

Osserviamo che tuttavia ambedue i soggetti, il fratello di John Xavier, Mark Xavier e Mark Twain hanno lo stesso nome: un altro tentativo di Dannay di collegarsi alle loro persone, un’ulteriore metafora?

Se proprio vogliamo, il tema del doppio è molto insistente nella produzione dei due cugini da questo momento: ho notato un’altra cosa di cui nessuno si è accorto,che cioè, per esempio, per fare un ulteriore collegamento alla questione dibattuta in questo articolo, il nome Mark, non compare solo in questo romanzo, ma anche altrove: c’è per esempio un radiodramma che si chiama “The Adventure of the Mark of Cain” . Il Marchio di Caino, cioè il marchio dell’assassino di Abele,  richiama singolarmente nel suo titolo anche due nomi fortemente caratterizzanti nella produzione queeniana: il Mark di cui abbiamo parlato, che è parte di un doppio (John-Mark) e Cain, che è parte di un altro doppio (Abel Bendigo-Cain Bendigo) in The King is Dead, “Il Re è Morto”, in cui compaiono altri due fratelli. Tra l’altro, a evidenziare l’importanza di queste accezioni nel continuum dell’opera queeniana, va ricordato che anche un capitolo di “Once was a woman”, si chiama “The Mark of Cain”.

Mark, Xavier, due fratelli. Ma..Xavier chi ci ricorda anche? A noi ricorda anche il telepate capo degli X-Men, il Professor Charles Xavier. Possibile che Stan Lee abbia guardato a Ellery Queen? E’ curioso, ma anche se non sarebbe proprio strettamente attinente ai richiami dei due Queen con il tema del doppio, notiamo come non solo Xavier ricorra nella saga degli X-Men (ancora una volta la X). Infatti, anche qui c’è un doppio: Xavier e il suo fratellastro, il malvagio prima e poi redento “Phenomenon”, che guarda caso si chiama Cain Mark . Strano, vero? E se proprio volessimo analizzare la figura, potremmo anche dire che i due Xavier sono molto simili: come John Xavier si occupa della separazione di fratelli siamesi, cioè di fratelli uniti mostruosamente a causa di una disfunzione genica, anche Charles Xavier si occupa di esseri umani nati mutanti in ragione di un gene particolare : il gene X. E se volessimo ancor più cercare il pelo nell’uovo, potremmo dire che i 2 fratelli siamesi non sono altro che dei mutanti. Quindi..

Nel mare delle cose interessanti di questo romanzo, mi è balzata in mente un’altra cosa che desidero far notare: nella mano destra di John Xavier viene ritrovato un frammento di “Sei di picche”. Il perché stringesse un frammento invece che una carta intera è già una cosa che mi ha fatto pensare e poi non viene spiegato: una supposizione che mi verrebbe spontanea è che John Xavier avesse strappato la carta e avesse stretto il frammento nel pugno per non far notare all’interno della mano qualcosa di anomalo che sarebbe potuta essere una carta; però, essa, anche se accartocciata, comunque non sarebbe stata visibile, e lui, medico, ancorché diabetico, avrebbe dovuto supporre una sua immediata rigidità cadaverica.

Ce n’è tuttavia un’altra curiosa: nel romanzo c’è il disegno di un sei di picche diviso in due frammenti: il primo, quello stretto nel pugno non è spiegazzato e rappresenta due semi interi e le punte di altri due; l’altro, quello spiegazzato, due semi interi e le radici visibili di altri due divisi per la metà. Ora, in cartomanzia, il sei di picche rappresenta un avviso per un errore che si potrebbe fare ma che non durerebbe molto (l’errore di aver prima individuato il colpevole, poi di averlo erroneamente scagionato ed infine di averlo inchiodato nuovamente?). Ma se prendiamo in esame i due frammenti ci troviamo di fronte ad un frammento che vale due picche e ad uno che ne vale quattro; ora il due di picche rappresenta una divisione (amore o amicizia), il quattro, una decisione difficile che si sta per prendere: la decisione difficile dei due Queen di separarsi? Tuttavia, nel primo capitolo della Parte Seconda, “Il sei di picche”, osserva Richard Queen che John Xavier ha utilizzato una carta con cui stava facendo un solitario ( allorché l’assassino gli ha sparato due proiettili nello stomaco: ancora la simbologia del due, quasi che nel momento in cui qualcuno volesse intervenire per separare l’unione di due, essi stessi volessero non essere separati) : “..Il sei in questione era tra il sette ed il cinque di quadri – mormorò l’ispettore”. In cartomanzia, il cinque di quadri rappresenta un’atmosfera di amicizia o di lavoro amichevole, mentre il sette di quadri il dover prendere una decisione su qualcosa che non si è preso precedentemente in considerazione. Mi sembra chiaro il riferimento al dover prendere una decisione difficile su una divisione che non si è voluta mai prendere in esame e che porterà ad una atmosfera di amicizia o di lavoro amichevole: una volta separati, i due cugini lavorarono alla stesura di molti altri romanzi, dividendosi i compiti ed evitando purtuttavia di stare assieme. Interpretazione arbitraria?

Ma, è bene ricordarlo, il pezzo di carta che John Xavier tiene stretto in pugno è quello con solo due semi di picche: quindi..divisione; mentre è stato accartocciato e buttato via, il secondo pezzo della carta, quello che significava “decisione difficile che si sta per prendere”: in altre parole, che l’ultima parola per la divisione (dei due cugini?) era già stata presa. E la decisione è tenuta dalla mano destra mentre la mano sinistra non ha nulla in mano: cioè, ancora ipotizzando, si potrebbe dire che la mano destra voleva la divisione, la mano sinistra no. Mano destra, mano sinistra, che appartengono alla stessa persona: altra rappresentazione per due diverse entità (Dannay e Lee) che fanno parte di un tutt’uno (La ditta comune Ellery Queen)? Questo ci porterebbe ad un’ultima domanda che per il momento, in mancanza di riscontri di natura biografica, rimane senza risposta: quale dei due cugini voleva la separazione e chi no? Si sa che Dannay era piuttosto introverso e aveva dei guai in famiglia mentre il cugino era di altra natura. Ma si potrebbe ipotizzare tutto ed il contrario di tutto, in mancanza di dati biografici oggettivi, su chi volesse, all’interno della coppia, più dell’altro distaccarsi: Dannay che era l’ideatore della trama e della messinscena del plot vi accenna, ma poi..nulla più.

Infine c’è un’altra cosa, non detta, che mi si è rivelata in tutta la sua importanza alla fine del libro: il Sei di Picche a saperlo interpretare bene poteva anche essere un modo per identificare l’assassino: stranamente Ellery Queen si ferma al valore della carta, il Sei e all’acrostico che lo indica : infatti  “Il dottor Xavier..prima di morire ha accusato SIX di averlo assassinato” (Cap. V; taccio sul significato delle parole dell’acrostico per non rivelare il nome dell’assassino). Si ferma a ciò e non va oltre. Strano. Molto strano. E io suppongo che originalmente Dannay avesse pensato di far rivelare a Ellery dell’altro, ma poi non l’avesse fatto. Cosa? Semplice. Perché Sei di picche e non quadri o fiori o cuori? La forma? Il significato di Picche = Morte? Secondo me c’è dell’altro. E’connesso alla terminologia francese, già utilizzata nel caso di Carreau = Quadri : in francese, PICCHE si dice PIQUE. Ora, qual è la strana affezione di cui è affetto l’omicida, e che si vedrà è alla base dell’intero romanzo? La cleptomania. In altre parole, c’è qualcuno che durante il romanzo ruba degli oggetti: anelli, ma anche di valore insignificante. E quale animale è designato comunemente come ladro? La Gazza, che comunemente viene appellata Ladra: Gazza Ladra. E qual è il nome scientifico della Gazza? PICA PICA. PIQUE-PICA : interessante, vero? Una cosa che sicuramente oltre a me anche Dannay deve aver pensato all’epoca, perché il riferimento mi sembra non casuale ma troppo diretto. E perché allora Ellery Queen non lo rammenta alla fine? Forse per non ricalcare il fatto di esser stato distolto da altre cose durante l’avventura? Ellery molto spesso finisce per fare il sapientone nei suoi primi romanzi, cioè tende a polemizzare e disquisire anche troppo, a prendere dei  granchi e poi alla fine essere costretto a fare dietro-front: non accade solo qui ma anche altrove. O forse è il segno di una precedente stesura utilizzata non del tutto? Non lo so.

Anthony Boucher, grande scrittore e critico di letteratura poliziesca, durante un’intervista, nel 1951, ebbe a dire : “The detective story itself was an American invention; and after a long period of British pre-eminence, Ellery Queen as writer and editor has done as much as anyone (and probably more) to make it once more an American possession. . . Ellery Queen is the American detective story”.

Possiamo non essere d’accordo?

                                                                                                                   Pietro De Palma

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Scorribande giallistiche

dicembre 13th, 2010

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Incasinamenti sentimentali- Ma il noir è morto o non è morto?- Tra bassotti e mastini- Il rinnovamento della Mondadori- In giro per blog-  Gli irritanti spot della pubblicità- Eco porta scompiglio e…e Jonathan che fa?

Questa volta non mi lascio trascinare da un solo argomento (vedi l’ultimo pezzo sul riso e il sorriso)  ma saltello giulivo (finalmente!) di qua e di là come un fringuello appena nato. Ormai questo con il blog del giallo Mondadori è diventato per me un appuntamento assolutamente imprescindibile. Un momento di svago e di riflessione su ciò che accade nel mondo letteral-giallistico, con qualche puntatina nel personale. Un momento di relax, insomma, per togliere di mezzo incipienti paturnie senili.

Dunque, partiamo. Già assodata la sfiga tremenda dei protagonisti in altra sede, ora assodiamo un tormentato incasinamento sentimentale prodotto soprattutto dalle autrici giallistiche. Sfrutto una parte di articolo già scritto per “Corpi freddi” (visitatelo!).

“Non voglio fare distinzione tra autore maschio e femmina che mi frego qualche sudata simpatia, ma se l’autore è una dolce fanciulla (va bene per qualsiasi età) e il personaggio principale è pure dotato di “argomenti” femminili, sicuro che l’amore, quando c’è, trattasi di amore incasinato. Incasinatissimo. Su questo non ci piove.

Senza andare troppo indietro mi rifaccio agli ultimi esempi che mi sono capitati a tiro. Prendiamo Janne Korowa, giovane giudice istruttore di Nanterre, personaggio principale di “L’istinto del sangue”, Garzanti 2010. Trentacinque anni, zitella. Vita sentimentale tribolata. Citati come fidanzati un avvocato, un ingegnere informatico, un editore fallito e “Molti altri…”. Ultimo della serie il fotografo Thomas che le fa girare gli zibidei e allora vada pure al diavolo. Non aggiungo le disgrazie che in questo genere di libri sono come il cacio sui maccheroni (rimando a http://corpifreddi.blogspot.com/2009/11/la-paura-della-sfiga-fabio-lotti.html ).

Cassandra Fallows, scrittrice in “L’amica di un tempo” di Laura Lippman, Giano 2010, non è da meno (va verso la cinquantina e la menopausa). Due matrimoni alle spalle con “relazioni prima, dopo e durante i legami coniugali” ( meglio non farsi mancare niente). Da ragazzetta incline ai giovanotti con i capelli rossi e, cito testualmente, “me ne scopai quanti più possibile” che il buon tempo si vede dal mattino. Non mancano, naturalmente, le pene d’amore e, dulcis in fundo, il sacrificio per l’Amore, quello con la a maiuscola (di solito non ricambiato, tanto per creare un’atmosfera più sofferta).

Cambiando latitudine il risultato, a dir la verità, un po’ cambia. In ” La dea cieca” di Anne Holt, Einaudi 2010, l’avvocato Karen Borg non si limita a sognare il poliziotto  Håkon Sand ma salta sul letto allegramente insieme a lui (e questa volta niente da fare per il povero marito di cui taccio il nome). Qui abbiamo pure, devo dire accennato con molto garbo e tatto, il rapporto omosessuale tra Hanne Wilhelmsen “una donna straordinariamente bella, da poco promossa al grado di detective” alla centrale di Oslo, e la dottoressa Cecilie, con la quale convive da diciannove anni senza che gli altri lo sappiano (o fanno finta di non sapere).

Di solito in diversi romanzi polizieschi si creano situazioni opposte: la donna in gran spolvero fra i maschietti alla fin fine sogna l’amore vero e quella impacchettata con l’unico uomo della sua vita è percorsa da fremiti stuzzicarelli che poco hanno a che vedere con il sentimento. Difficile trovare un rapporto tranquillo e sicuro per tutte le centinaia di pagine della storia. Anche perché l’incasinamento sentimentale (in genere) serve a rendere ancor più appetibile l’incasinamento delittuoso. Il lettore, si sa, è sotto sotto, un po’ cattivello e si diverte a seguire vicende complicate e sofferte (per i personaggi) dimenticandosi, oltretutto, le proprie. Sempre che, vista la qualità di certi romanzi, non siano una frana tutti e due (più che probabile)”. Ultimamente alla ribalta tradimenti per ogni dove a rendere più appetitosa la vicenda…

Domande angoscianti che serpeggiano sulla salute delle sigle giallistiche: il noir è morto?, il thriller come sta?, il mystery che fine ha fatto? Domande angoscianti, dicevo, con risposta univoca. Una valanga di noir, thriller, mystery e via discorrendo a dimostrazione che le sigle, come gli umani, non ne vogliono proprio sapere di tirare il calzino.

Ancora sui mallopponi scandinavi che, secondo alcuni, invadono il mercato togliendo spazio agli autori nostrani, piccinini santi. Ora a me queste tonnellate di roba stanno pure in quel posto, però ricordiamoci che siamo nel villaggio globale dove tutto può entrare da tutte le parti. Come scrittore di scacchi mi sono dovuto confrontare con i colossi dell’est europeo (la Russia, l’ex Jugoslavia ecc…), padroni incontrastati del settore. Ergo, prima che spuntasse fuori il mio nome su qualche libro, centinaia di articoli, centinaia di partite per corrispondenza, un anno intero per scrivere il primo. E dunque un culo così senza avere tanti santi in Paradiso (già detto  millanta volte ma i vecchietti sono ripetitivi da morire e poi ci tengono a far sapere le loro titaniche imprese. Voi, comunque, non contrariateli e assentite con la testa…). Conclusione? Un consiglio spassionato frutto di atavica saggezza: Arrangiatevi!.

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Riso e sorriso (soprattutto il mio) tra furti, rapine e morti ammazzati.

ottobre 26th, 2010

Una nuova “chiacchierata tra vecchi amici” del Nostro Fabio Lotti. 

Buon divertimento.

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A scuola ero un patito del tema libero. Anzi, all’inizio, del “pensierino” libero che alle elementari si partiva da questo. Mi è rimasto impresso un pensierino di un ragazzo che fece scompisciare tutto il paese (Staggia). Verteva sulla figura del muratore. Papale papale “ Zenzerino. I maratore fa i gabinetto e poi ci caca” che, a parte gli errori ortografici, formulava una sintesi perfetta di lavoro e utilità. Il poveretto si beccò l’appellativo di “Zenzerino” per tutta la sua vita…Dicevo del tema libero. Potevo scorrazzare a mio piacimento con la fantasia e farlo lungo come mi pare. Ci infilavo di tutto e di più, mentre parecchi compagni andavano nel pallone per tirar fuori tre parole. In compenso ero io a sudare freddo, quando si trattava di mettere insieme un paio di numeri.Ah, la Natura…Eccomi dunque a sfruttare la mia presunta dote anche in campo giallistico. Parto dal riso e dal sorriso intrufolato per lo più nel romanzo poliziesco.Domanda alla Di Pietro “Che c’azzecca il sorriso e il riso con la nera signora dalla lunga falce?”.Di primo acchito sembra proprio che non c’azzecchi niente. A meno che la vista del morto non ci riporti alla mente le battute che faceva da vivo e allora una risatina (se erano passabili) sotto voce ci può anche scappare. Eppure la morte non è proprio disgiunta dal sorriso, anzi dal riso, che in certe società il dipartito si festeggia con canti e balli senza piangerci troppo sopra.

Il riso come spauracchio contro la morte,  diciamo pure uno spernacchio tanto per cercare di renderla  meno terribile.Sorriso e morte, dunque, ci può stare. Nella realtà, volevo dire, figuriamoci nei parti allucinanti e allucinati della fantasia umana. Ergo nel romanzo poliziesco (già detto). Sorriso che si può carpire in vari modi e vari espedienti sui quali un breve accenno come in una chiacchierata fra vecchi amici. Il trucco della chiacchierata è furbetto e pure vigliacchetto. Ci si può permettere un linguaggio semplice e nello stesso tempo nascondere qualche pecca culturale (se è una chiacchierata non si sta a guardare tanto per il sottile). Mentre l’aggettivo “vecchi” tende a scoraggiare qualsiasi tipo di intervento. Soprattutto degli amici che non vogliono riconoscere lo scorrere inesorabile del tempo. Meglio una pagina bianca che gli insulti (consiglio per i giovani scrittori).

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Il segreto di Tassart (1255)

settembre 3rd, 2010

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Tassart, antica dimora di lord Henry, conte di Grayle, della sua bella moglie Helen, del loro figlio Charles e della giovane, ambiziosa lady Katherine.Tassart, dove non è tutto oro quello che luccica. La famiglia è infatti in piena decadenza e lord Henry,quasi sul lastrico e in pessime condizioni di salute, è costretto a condurre un’esistenza ritirata. Finché una mattina non viene trovato morto: avvelenato. E la soluzione del delitto sembra davvero semplice. Troppo semplice perché il giovane, sagace ispettore Poole di Scotland Yard abbocchi. 

Henry Wade (1887-1969) è lo pseudonimo dell’ufficiale britannico sir HenryLancelot Aubrey-Fletcher, uno degli inventori del police procedural. Wade ricoprì a lungo cariche municipali e giudiziarie nel Buckinghamshire e utilizzò spesso i suoi gialli per ironizzare sulla corruzione degli ambienti politici e finanziari del suo paese. Il principale detective da lui creato è l’ispettore Poole,giovane e aristocratico funzionario di Scotland Yard. 

All’interno, l’articolo “I seicento volti di J.J. Marric” di Giulio Leoni.  

(vai alla visualizzazione completa del volume) 

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Un “born writer”: Rufus King. Invenzioni, stile e rapporti con la letteratura di genere coeva

maggio 26th, 2010

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di Pietro De Palma

Rufus King (1893-1966) fu un romanziere molto attivo dalla fine degli anni ’20 alla fine degli anni ’50 inizio ’60, pur facendo tutto sommato vita ritirata: in vita, nulla di lui si sapeva molto, all’infuori del fatto che vivesse “nella parte rurale dello Stato di New York, che fosse single, e che ogni anno avesse problemi a causa della neve”[1], tant’è vero che si “fece una villa” a Miami; del resto proprio a Miami ambientò alcune delle sue storie.

Altra cosa che si sa è che avesse studiato a Yale[2], che nel 1916 si laureò e che si arruolò proprio in quell’anno per la Grande  Guerra e che dopo di essa lavorò per del tempo come operatore radio sulle navi

Oggi è molto poco conosciuto e i suoi romanzi vengono di rado pubblicati, ma al tempo fu molto noto: era un fine esponente di quella scuola di scrittori americani (anche J.D.Carr, Mignon Eberhart) che non volevano rinunciare alla scuola di giallo all’inglese, in favore invece della “scuola dei duri”, nata in ambiente americano.

In Italia è stato un autore, pubblicato parecchio negli anni ’30 – ’40 e ’50, e meno dopo: infatti, parecchi dei romanzi pubblicati soprattutto da Mondadori, risalgono a questi anni. Solo in pochissimi casi, altre case editrici si son cimentate in romanzi di Rufus King : tra queste, la Casa Editrice Martello con I Gialli del Veliero : “Il colombo della morte” (The Deadly Dove, 1945); la Italedit di Cremona che pubblicò “Intervallo Tragico”: questa pubblicazione, ricavabile tramite ricerca OPAC, è disponibile solo presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, ma non si ricava da alcun indizio, il suo titolo d’origine[3]; e i Gialli del Secolo di Gherardo Casini Editore.

I rapporti tra il mondo dell’editoria italiana e Rufus King, possono essere inquadrati dal carteggio assai interessante  tra un famoso traduttore degli anni trenta, Mario Benzing, e la casa Editrice Bemporad[4] .

Mario Benzing, fine traduttore, di origine tedesca, di moltissime opere di narrativa straniera in Italia, che aveva già intrattenuto rapporti con la Bemporad per altri romanzi, il 9 maggio 1933, scriveva:

“..Mi permetto d’informarvi che ho ottenuto l’esclusività per la traduzione delle opere  di Rufus King, giovane scrittore americano veramente eccezionale […]. Non soltanto incuriosisce, come Wallace e Van Dine, ma anche interessa: i suoi personaggi sono vivi, studiati, e i suoi casi anche psicologici, profondamente umani. Tutti casi circoscritti, a campo chiuso: uno yacht, una famiglia, una casa; e sono i casi più efficaci del genere e insieme anche i più difficili a congegnare con rispetto al buon senso, e a sostenere senza borra per trecento pagine. Si svolgono negli ambienti dell’aristocrazia americana, che il King conosce a fondo; e li risolve il detective Valcour, della polizia di Nuova York, uno specialista di quegli ambienti, che sa cercare indizi anche nei meandri delle anime. Per la cessione dei diritti di traduzione, Rufus King chiede soltanto L. 800  per  romanzo. La serie Valcour si compone di dieci romanzi, naturalmente indipendenti”.

Faccio notare due cose: la prima è che la serie completa con personaggio principale Valcour è di undici romanzi; la seconda, ancor più interessante, riguarda la data  riportata nel carteggio: infatti,  se non è sbagliata, dovremmo dedurne che Rufus King aveva in mente già la serie o gran parte di essa oppure l’aveva già scritta e attendeva la pubblicazione di ciascun romanzo: non potremmo infatti altrimenti comprendere come il Nostro parlasse di una serie di dieci romanzi con protagonista Valcour, (per bocca di Benzing) quando a quell’anno, 1933, di romanzi con protagonista il Tenente Valcour, ne erano usciti solo sei; gli altri quattro (Benzing parla di una serie di dieci) sarebbero usciti posteriormente: The Lesser-Antilles Case, 1934 – Profile of a Murder, 1935 – The Case of the Constant God, 1936 – Crime of Violence, 1937; infine, l’undicesimo, Murder Masks Miami, sarebbe uscito nel 1939.[5]  Quello che possiamo evincere è che Benzing volesse proporre alla Bemporad quello che per lui era un affare: Rufus King chiedeva allora solo 800 lire per ognuno dei suoi romanzi (compenso deducibile in caso di forfait, come affermato in altro passo) molto noti oltre oceano: si accontentava di poco o era solo molto modesto? Fatto sta che la Bemporad rifiutò il 12 maggio la proposta: “..Non conosciamo affatto questo autore. D’altronde abbiamo già una riserva di libri di questo genere per le nostre collezioni, fra gli altri tutti i più recenti volumi del celebre autore inglese Oppenheim”.

Allora Benzing rinnovò la proposta con altre argomentazioni: cercò di forzare l’assenso della controparte facendo riferimento al fatto che delle case editrici italiane fossero interessate alla pubblicazione dei romanzi di R.King: “..la Libri X sta per pubblicare Sangue a bordo di uno yacht..”; e il 20 maggio inviò, all’editore, l’edizione americana di Murder in the Willett family, mentre  il 1° giugno fu la volta di Valcour meets murder. La Bemporad rinviò ogni decisione al futuro pur riconoscendo la validità dei romanzi proposti, ma.. non se ne fece nulla , nonostante lo stesso traduttore ricordasse che altri editori erano in contatto e trattativa con gli agenti dello scrittore. In Mondadori, “Delitto sullo yacht” (trad. di Matilde Fanno) uscì nel 1936, e “L’agguato” (tit. orig. Valcour meets murder; trad. di Cesare Giardini), nel 1937; mentre “Delitto in casa Willett” (trad. di Carla Merlo) uscirà solo nel 1975.

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Un manierista del Ventennio : Ezio d’Errico

dicembre 10th, 2009

Questo mese vogliamo proporVi un articolo di Pietro De Palma, su uno dei grandi autori del Giallo Italiano troppo a lungo dimenticati: Ezio D’Errico.

 Buona lettura

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Ezio d’Errico fu figura avventurosa: giornalista,  autore radiofonico, pittore astrattista assai conosciuto e geniale romanziere, anche di polizieschi; un personaggio sempre alla ricerca di qualcosa, di nuovi stimoli, estremamente curioso: Carlo Carrà, in una critica su una mostra di quadri astrattisti di Ezio d’Errico, pubblicata sull’ “Ambrosiano” nel 1936, lo definì “pittore irrequieto”. Una caratteristica che notiamo in altri spiriti ribelli dell’epoca: Pound, Antheil. Ma loro si indirizzarono in un filone di pensiero che guardava con simpatia al nazismo e ad un certo elitarismo spirituale; D’Errico, era invece semplicemente, secondo me, quello che comunemente si dice di un artista, che crede in se stesso e nella sua arte e che non riconosce altri padroni a se stesso che non essa stessa: se non un “un anarchico”, almeno “un anarcoide”.

D’Errico aveva già insegnato grafica in una scuola per tipografi, e pubblicato “un Primo e un Secondo Manifesto dell’Arte tipografica”, qualificandosi come elemento di spicco dell’astrattismo italiano, rivestendo anche una posizione di critica delle correnti pittoriche europee; ma non sopportava l’irregimentazione, non sopportava un potere superiore al suo cui piegarsi e per questo non aveva proseguito nella carriera di ufficiale dei carabinieri, pur essendo arrivato al ruolo di Maggiore.

Nel 1936 cominciò la sua carriera di scrittore di romanzi polizieschi, dando alle stampe il suo primo romanzo, molto interessante proprio per capire le sue caratteristiche peculiari, Qualcuno ha bussato alla porta, cui seguirono molti altri romanzi, in tutto una ventina.

Dopo la Guerra, dopo aver pubblicato nel 1947 il ventesimo romanzo col commissario Richard, “La nota della lavandaia”, ripudiò tutti i romanzi gialli da lui prodotti precedentemente e si oppose alla loro ripubblicazione, e per un certo tempo diresse la rivista “Crimen”, per poi interessarsi al teatro: scrisse dei lavori che lo imposero nel cosiddetto “Teatro dell’Assurdo” di cui divenne un elemento di spicco. Durante l’occupazione di Roma, pare avesse svolto un’attività clandestina di stampa antifascista, e del resto Louis Kibler in Ezio d’Errico’s Theater of the Absurd: Three Plays, lo definisce “a rabid anti-fascist” (Introduction, pag.14).

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Nell’ambito del poliziesco, nato in Italia sotto l’egida della Mondadori, egli si mosse intelligentemente: diversamente da De Angelis, anche per non trovarsi in certo modo limitato dall’ottusità delle censura di regime che indicava persino gli scenari in cui doveva muoversi un autore che volesse ambientare in Italia le sue storie poliziesche, egli scelse come fondo per i propri drammi la Parigi simenoniana. E proprio a Simenon egli si rifece, scegliendo di iniziare le avventure del suo personaggio fisso, il Commissario Richard, nel momento in cui  il Commissario Maigret di Simenon scomparve dalla scena letteraria: infatti Simenon, come accade a tutti coloro che diventano famosi per qualcosa e poi vi restano appiccicati contro la loro volontà, si scocciò e nel 1933 mandò in pensione il suo Commissario Maigret, dopo aver risolto il suo ultimo ufficiale caso, L’écluse n°1, anzi, più propriamente, lo mandò a occuparsi del giardino di una villetta sulla riva della Loira – quasi che fosse un altro Nero Wolfe – abitandovi assieme alla moglie.

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Torna Fabio Lotti,..tutti sotto coperta.., col Giallo!

ottobre 14th, 2009

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Il sesso nel romanzo poliziesco

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Un titolo bombolone per attirare l’attenzione dei lettori. Una specie di specchietto per le allodole. Una presa in giro. Una fregatura. Chi pensa che da vecchietti si diventi più buoni si sbaglia di grosso. Da vecchietti, come il sottoscritto, si diventa più cattivi. O meglio, non proprio più cattivi ma diciamo più…più dispettosi. Ecco la parola giusta. Ci si diverte a fare quelle cose che in passato non si facevano per una specie di innato pudore o per paura di passare male. Il famoso giudizio della gente. Del quale, del giudizio della gente voglio dire, ad un certo punto della vita ce ne importa il classico fico secco. Con l’assillo della nera signora dalla lunga falce che ci corre ostinatamente appresso il rossore della vergogna sparisce per lasciare il posto alla classica faccia mattonata. E così il lettore clicca su questo pezzo e viene fregato. Perché figuriamoci se io voglio scrivere una vera storia del sesso nel romanzo poliziesco, che manco saprei buttar giù la mia di storie dove il sesso te lo potrei spiattellare in quattro e quattr’otto. E figuriamoci un’artra vorta se vi voglio parla’ di tutte le segretarie, darche ledi, femmesse fatalesse, gnoccolone che sculettavano nell’arde boile ameri’ano in quell’uffici porverosi che a’ i’ solo pensiero mi fanno veni’ l’asma. Tanto pe’ dinne una. Ma un ci penso nemmeno (staggese). Anche perché poi ci sarebbe il solito critico tutto per benino e precisino a farmi le bucce. Qui hai lasciato questo, qua sei stato superficiale…e insomma avete capito.

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La prima produzione di John Dickson Carr: i quattro racconti di Bencolin

settembre 7th, 2009

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Cari lettori del Giallo Mondadori, oggi vogliamo proporvi un saggio breve di Pietro De Palma sulle prime opere del celeberrimo “giallsta” Statunitense.

Prima di augurarVi un buon proseguimento di lettura, cogliamo l’occasione per augurare un buon compleanno a Piero, storico lettore, collezionista e da oggi “contribuente” del Giallo.

Dario PM Geraci

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Tra le forme letterarie, i racconti hanno sempre pagato dei tributi ai romanzi: rappresentano quasi una produzione minore, delle storie da scrivere senza impegnarsi particolarmente, in momenti di rilassatezza. Almeno questa è la percezione che ne ha il lettore; invece..

Invece il racconto è un genere importante quanto il romanzo, non dirò di più o di meno: ne ha una forma più concentrata, possedendo anche delle caratteristiche ricorrenti in quest’ultimo: se vi è una presentazione dei personaggi e della situazione in oggetto, esse devono essere stringate, e lo sviluppo non molto esteso, per necessità di condensazione in un numero di pagine più ristretto; ma tutto il resto..è lo stesso. Anzi se vogliamo, il racconto ha la sua buona parte di difficoltà, perché se nel romanzo taluni “allungano il brodo” con descrizioni e narrazioni che poi nulla hanno a che fare con il nocciolo della storia, nel racconto ciò non è possibile: si devono avere idee chiare e si deve condurre la storia con un filo logico e una tensione, che dalla prima pagina all’ultima, conduca il lettore a godere della fine, senza sotterfugi, escamotages, rallentamenti, perdite di tempo (e di pagine).

Se nella letteratura “impegnata” il racconto gode di una fortuna inferiore al romanzo, in quella “di genere” e nel nostro caso in quella “gialla”, possiamo dire che, almeno non in Italia, il Racconto Giallo ha avuto una fortuna non inferiore a quella del Romanzo: perché tuttavia in Italia il racconto non abbia avuto pari fortuna, questo è altro discorso. La situazione però è questa: nel mondo sia anglosassone, che l’ha fatta da padrone, e in quello più chiuso, del giallo franco-belga, i racconti hanno avuto la loro buona fetta di pubblico e di popolarità. Ancor oggi, molti autori contemporanei scrivono racconti, ma nel passato, si sono avuti addirittura autori specializzati, per es. Edward D. Hoch, autore anche di romanzi di fantascienza e di apocrifi queeniani, ma soprattutto di oltre..900 racconti, divisi in più serie, tra cui quelli che raccontano di Camere Chiuse e delitti impossibili, sono i preponderanti. Ma anche Joseph Commings si è riservata la sua buona fetta di fama, con le storie del senatore Banner. La messe maggiore, tuttavia, si è avuta con i grandi autori sia di Giallo classico che di Hard Boiled: Ross MacDonald, Ellery Queen, C.Daly King, Agatha Christie, Dashiell Hammett, e moltissimi altri, tra cui John Dickson Carr.; e proprio di Carr parleremo, a proposito dei suoi primi quattro racconti con Henri Bencolin.

Potrebbe sembrare un discorso molto relativo, affrontare la tematica dei racconti carriani puntando l’attenzione solo su 4 racconti, quando la produzione totale ne conta oltre trenta. Ma questo breve saggio non si propone di esaurire la tematica complessiva del racconto in Carr, ma solo di creare un’inquadratura, che possa essere recepita da qualunque lettore, circa la produzione carriana avente come soggetto principale Henri Bencolin.

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