Dissertando di Camere Chiuse:John Dickson Carr Vs Clayton Rawson

luglio 29th, 2011

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Puntuale come il rapido delle 7e40, arriva il nuovo articolo firmato Pietro De Palma. L’amico Pietro ha anche un interessante blog   , sul quale vi invito a leggere la recensione di un capolavoro del noir dal titolo ” Lo strano amore di Martha Ivers”. Buone letture e buone vacanze (a chi le fa!).

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Il primo ad aver inventato una Camera Chiusa, The Big Bow Mystery, nel 1896, fu Israel Zangwill; ma il primo ad aver elevato il problema ed il sottogenere narrativo, che da essa prese il nome, ad un tale livello di raffinatezza da assurgere a vette di inusitata grandezza, fu John Dickson Carr.

John Dickson Carr, che pur americano visse per molti anni in Inghilterra, fin dall’inizio della sua attività, provò a fondere, nelle sue opere narrative, più generi: il fantastico, il sovrannaturale, il gotico, il poliziesco ad enigma, creando virtuosistici intrecci il cui scopo era mettere in crisi il lettore, costringendolo prima ad accettare passivamente una situazione dei fatti che pareva incredibile se non addirittura sovrannaturale, per poi  accantonarla, sulla base di una soluzione tecnicamente ineccepibile, di cui forniva tutti gli appigli logici, così da comporre il puzzle e dargli forma definitiva .

I suoi romanzi, fin dal primo di essi, rifuggirono da trame troppo semplici, e si concentrarono preferibilmente sui temi classici del “whodunnit”, e in particolar modo quelli del “delitto impossibile” (come per esempio The Curse of the Bronze Lamp, in cui si ricollega idealmente, nella dedica ad Ellery Queen, ad un radiodramma di quest’ultimo, The Disappearance of Mr. James Phillimore, trasmesso il 14 o 16 gennaio 1943), e ancor più in modo massiccio, quelli de “la Camera Chiusa”; anzi, proprio per la trattazione sistematica di tutte le possibili variazioni di una Camera Chiusa, Carr è ritenuto da tutti, il più grande tra tutti i romanzieri che abbiano trattato questo particolare genere poliziesco, in cui l’elemento centrale non è tanto quello di scoprire il responsabile quanto come il crimine (delitto, furto o quant’altro) venga commesso.

Invariabilmente, in tutti i romanzi che abbiano una Camera Chiusa, la prima impressione degli investigatori coinvolti nell’indagine è che il criminale sia svanito nel nulla : è inutile dire quanto Carr amasse questa situazione del “delitto impossibile” e come svanire nell’aria fosse diventata la sua fissazione (soleva dire “faded into thin air”).

Discende, ovviamente da ciò, il fatto che, la soluzione debba ascriversi o a evento soprannaturale o invece che essa debba avere una base rigorosamente logica.  Ma, una volta inventata la situazione paradossale di un delitto avvenuto all’interno di camera chiusa dall’interno, sono state create via via, non solo da Carr ma da una nutrita schiera di scrittori versati al problema, tutte le possibili varianti: camera chiusa dall’interno, camera le cui entrate sono guardate a vista da soggetti di fiducia, camera in cui esistono marchingegni fisici in grado di creare la situazione di impossibilità, situazioni non previste che fanno scattare il presupposto di impossibilità, “camere allargate” (distese di neve, di sabbia, di acqua), “camere” diverse (automobili, cabine telefoniche,  tetti, scale), etc..

Carr, del resto, a confermare la fama che dall’esterno gli è stata riconosciuta, tentò ad un certo punto, di dare una classificazione il più possibile esaustiva delle Camere, fondandola su molteplici sottocategorie. Va da sé che l’aver posto una tale trattazione teorica, in un romanzo piuttosto che in un altro, deve aver significato qualcosa per lui : deve cioè aver conferito a quel romanzo (che è The Hollow Man, “Le tre bare”), il sigillo dell’opera migliore, o almeno dell’opera più rappresentativa tra i tanti firmati John Dickson Carr.

E’ però il caso di sottolineare che, nell’ambito della produzione firmata come sopra in cui trovano spazio le due serie di Henri Bencolin e di Gideon Fell e parecchi romanzi storici, il genere de “The Looked Room” non è quello preferito, in quanto se è vero che notevoli e addirittura eccezionali sono alcuni esiti (oltre a The Hollow Man, ci piace ricordare He Who Whispers o The Case of the Constant Suicides o ancora The Witch of the Low Tide ) è altrettanto vero che vi sono altri romanzi che non contengono Camere Chiuse anche se sono di altrettanta eccezionale fattura (ad es. Arabian Nights Murder ); e quindi ci pare significativo che aver ideato una dissertazione teorica sul genere della Camera Chiusa, e averla inserita in uno dei pochi romanzi capolavori firmati con il suo nome e cognome, nell’ambito di una serie di romanzi in cui molti non contengono questa particolare situazione, debba avere un significato particolare: perché cioè non inserire la “Looked-Room Lecture” nell’ambito della serie che ha protagonista principale H.M. e firmata Carter Dickson, votata proprio alla Camera Chiusa?

Innanzitutto The Hollow Man è del 1935: prima di esso, Carr aveva firmato con il suo nome e cognome per esteso Hag’s Nook e The Mad Hatter Mystery nel 1933, Eight of Swords e The Blind Barber nel 1934, e Death Watch già nel 1935, oltre che 3 dei quattro titoli con Bencolin; mentre con pseudonimo Carter Dickson, The Plague Court Murders e The White Priory Murders nel 1934, e  The Red Widow Murders (primo romanzo di Carr pubblicato in Italia) nel 1935.

Ora, perché mai Carr pensò bene di affidare a Fell invece che a Bencolin e ancor più ad H.M. la “Looked-Room Lecture”? Intanto i romanzi con Bencolin prima del 1935, seppure geniali, sono intrisi sino al midollo e sino alla fine di un’atmosfera nera e gotica che stride con quella solare della razionalità affermata; inoltre quelli con H.M., se proprio si vuole analizzare per bene il tutto, non è proprio vero che non abbiano anche loro le proprie dissertazioni: infatti, in due romanzi con H.M. della prima serie, quella che va sino allo scoppio del secondo conflitto mondiale, cioè in The White Priory Murders del 1934 e in The Peacock Feather Murders o The Ten Teacups del 1937 vi sono due riflessioni, che seppur più contenute della “Conferenza di Fell”, a parer mio hanno pari importanza. Per questo ritengo opportuno metterle a confronto con quella più celebre per accentuare il fatto che Carr, laddove pontifichi, non lo faccia mai a vanvera; e che le riflessioni che Carr mette in bocca a H.M., pur ignorate o almeno sottovalutate dai critici, abbiano pari valore, sottolineando un aspetto che nella trattazione teorica ne “Le tre bare”, manca.

Cominciamo con la celeberrima dissertazione sulle camere chiuse (da cui espungerò i passi per me più significativi), presente in The Hollow Man (1935):

“La maggior parte dei lettori, sono lieto di dire, va matta per le stanze chiuse. Ma – è qui il maledetto guaio – perfino i loro amici sono frequentemente dubbiosi. Io ammetto di esserlo spesso. Quindi, per il momento, ci metteremo tutti quanti a studiare la faccenda e vediamo cosa riusciamo a scoprire. Perché siamo dubbiosi quando sentiamo la spiegazione della stanza chiusa?….

Un uomo scappa da una stanza chiusa a chiave..be’?… È la fuga dalla stanza che mi lascia perplesso. E per vedere se riusciamo a trovare un filo conduttore, traccerò un abbozzo sommario dei vari sistemi per commettere delitti in stanze sigillate, classificandoli separatamente.

– Primo! C’è il delitto commesso in una stanza ermeticamente sigillata che è realmente sigillata ermeticamente e dalla quale nessun assassino è mai uscito perché nella stanza non c’era nessuno. Spiegazioni:
Uno. Non è assassinio ma una serie di coincidenze che finiscono con un incidente che somiglia a un assassinio. Poco prima che la stanza venisse chiusa c’è stato un furto, un’aggressione, un ferimento, oppure un rumore di mobili che si spaccano che fa pensare a una lotta mortale. Più tardi la vittima viene incidentalmente uccisa o stordita in una stanza chiusa e si presume che tutti questi avvenimenti abbiano avuto luogo nello stesso tempo…

Due. È delitto, ma la vittima è costretta a uccidersi o a soccombere accidentalmente. Questo può avvenire a causa di una stanza abitata dagli spettri, per suggestione, o più normalmente, per del gas filtrato dall’esterno. Questo gas o veleno fa perdere la testa alla vittima che si abbandona a violenze sfasciando la stanza come se vi fosse stata una lotta, tanto che finisce col morire per una ferita da coltello che s’infligge da se stesso…

Tre. È delitto, per mezzo di un congegno meccanico installato nella stanza e nascosto in un qualunque mobile dall’aspetto innocente…

Quattro. È suicidio con l’intenzione di farlo apparire delitto. Un uomo si accoltella con un ghiacciolo, il ghiacciolo si scioglie! e poiché nella stanza non si trova nessun’arma, si presume il delitto. Un uomo si spara con un’arma legata a un elastico… l’arma, quando lui la lascia andare, sparisce nel camino, fuori dalla vista. Varianti di questo trucco (non concernenti stanze chiuse) sono state la pistola, attaccata a un peso con una cordicella, che dopo lo sparo schizza nell’acqua dal parapetto di un ponte; e, sullo stesso stile, la pistola gettata da una finestra in un cumulo di neve.
Cinque. È un delitto che trae il suo problema dall’illusione ottica e dalla personificazione. Così: la vittima, ritenuta sempre viva, è già assassinata dentro una stanza la cui porta è sorvegliata. L’assassino, sia vestito come la sua vittima o scambiato, da dietro, per la vittima, entra precipitosamente nella stanza. E precipitosamente si libera del travestimento ed esce istantaneamente dalla porta sotto le proprie spoglie. L’illusione ottica è che lui, uscendo, si sia semplicemente scontrato con l’altro. Qualunque cosa accada, lui ha un alibi perfetto perché, quando più tardi verrà scoperto il cadavere, si presumerà che il delitto sia stato commesso dopo che la vittima impersonata è entrata nella stanza.
Sei. È un delitto che, per quanto commesso da qualcuno sul momento fuori della stanza, sembra commesso da qualcuno che doveva essere stato dentro la stanza.
“Nello spiegarvi questo – disse il dottor Fell interrompendosi bruscamente – classificherò simile tipo di delitto sotto il nome di Delitto da Lontano o Delitto del Ghiacciolo, dato che di solito è una variante di quel principio. Ho già parlato dei ghiaccioli, capite cosa intendo. La porta è chiusa ermeticamente, la finestra è troppo piccola perché l’assassino possa passarvi, tuttavia la vittima viene pugnalata nell’interno della stanza e l’arma è introvabile. Be’, il ghiacciolo è stato sparato dall’esterno come una pallottola… non staremo a cavillare se sia possibile o meno, non più di quanto abbiamo fatto per i misteriosi gas cui ho accennato prima – e si scioglie senza lasciar traccia.
Sette. Questo è un delitto che dipende da un effetto esattamente alla rovescia di quello del numero cinque. Cioè si presume che la vittima sia morta molto prima di quello che è in realtà. La vittima è addormentata (drogata ma illesa) in una stanza chiusa. I colpi alla porta non riescono a svegliarla. L’assassino si finge molto spaventato, forza la porta, entra per primo e uccide, pugnalando o sgozzando e suggestionando poi gli altri a credere di aver visto qualcosa che non hanno visto… – Calma! Un momento! – interruppe Hadley battendo sul tavolo per ottenere attenzione. Il dottor Fell, con espressione soddisfatta, si voltò gentilmente verso di lui e gli sorrise. Hadley continuò: – Tutto questo sarà magnifico. Hai sviscerato tutte le situazioni delle camere chiuse…
– Tutte? – ribattè il dottor Fell spalancando gli occhi. – Non proprio, direi. Non ho neanche trattato a fondo i metodi sotto quella determinata classificazione. Ho fatto solo un abbozzo. Bah, lasciamo perdere.

Ora stavo per parlare dei vari sistemi di truccare porte e finestre in modo che sembrino chiuse dall’interno. Ah. Ehm. Ecco, signori. Continuerò….C’è il camino vuoto con la stanza segreta dietro…. Ma l’assassino che taglia la corda arrampicandosi su per un camino è rarissimo…Delle due principali classifiche – por­te e finestre – la porta è di gran lunga la più popola­re e vi posso elencare qualche sistema in modo che sembri chiusa dall’interno.

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Primo. Trafficare con la chiave che è sempre nella serratura. Questo era il metodo antico preferito, ma le sue varianti sono troppo note oggi perché qualcuno le usi seriamente. Il gambo di una chiave può essere afferrato e girato dall’esterno: noi stessi lo abbiamo fatto per aprire la porta dello studio di Grimaud…

Secondo. Togliendo i cardini della porta senza toc­care la serratura o il paletto. Questo è un trucco inge­gnoso noto alla maggior parte dei ragazzini quando vogliono aprire una credenza chiusa a chiave, natural­mente i cardini devono essere dalla parte esterna.

Terzo. Manomettere il paletto. Cordoncino di nuo­vo. Questa volta con un congegno di spilli o aghi da rammendo, per mezzo del quale il paletto viene spin­to dall’esterno dall’azione della leva di uno spillo in­filato all’interno della porta mentre il cordoncino è in­filato nel buco della serratura. Philo Vance, al quale faccio tanto di cappello, ci ha mostrato la migliore applicazione di questa trovata…Ellery Queen ci ha mostrato un altro sistema ancora, che comportava la partecipazione del morto stesso… ma raccontato così senza parlare di tutti gli sviluppi farebbe un effetto talmente pazzesco che non si renderebbe un buon servigio a quel geniale scrittore.

Quarto. Manomettere un saliscendi. Questo normal­mente si effettua incastrando sotto la sprangherà qual­cosa che può essere eliminato dopo che la porta è sta­ta chiusa dall’esterno, in modo che la sprangherà possa ricadere. Il miglior metodo è di gran lunga l’uso del­l’insostituibile cubetto di ghiaccio: lo si mette sotto la sprangherà e non appena è sciolto, la spranghetta scen­de. C’è anche un caso in cui la brusca chiusura della porta basta a far cadere la spranghetta.

Quinto. Un’illusione ottica, semplice, ma efficace. L’assassino, dopo aver commesso il suo delitto, ha chiuso la porta dall’esterno e si è tenuto la chiave.

(John Dickson Carr, The Hollow Man, “Le tre bare”, traduz. Maria Luisa Bocchino, I Classici del Giallo Mondadori N.234 del 1976, passi tratti dal Cap.17 “La conferenza sulla stanza chiusa a chiave”, pagg.183-195).

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Considerazioni generali sul Philo Vance interpretato da Giorgio Albertazzi

maggio 17th, 2011

Cari lettori de “Il Giallo Mondadori”, oggi, sono lieti di presentarVi un lungo e articolato saggio di Pietro De Palma su “Philo Vance”, uno dei simboli del genere a noi tanto caro. Certo di farVi cosa gradita, Vi auguro una buona lettura.

                                                                                                              Dario Geraci

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Nel 1974, La RAI Radiotelevisione Italiana, che un tempo contribuiva alla cultura in Italia creando i più bei sceneggiati e le più belle riduzioni teatrali (talora lo fa ancora), mandò in onda i 3 primi casi di Philo Vance, di S.S. Van Dine (La strana morte del signor Benson, La Canarina assassinata, La fine dei Greene), ridotti per la televisione, affidando il personaggio principale a Giorgio Albertazzi,

Per la TV, Albertazzi aveva gà lavorato e aveva conseguito notevoli risultati, ancor oggi apprezzati (L’Idiota di Dostojevskj, Mr Hyde di Stevenson); il Philo Vance viene ritenuto comunemente un interludio, una produzione minore nell’ambito di quelle interpretate dall’attore: io penso invece che abbia rappresentato una tappa significativa, al pari delle altre produzioni ricordate.

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Dal mystery (lottiano) all’hard boiled

marzo 3rd, 2011

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Prima il mystery e poi l’hard boiled con quel che segue. Strano, mi pare proprio strano. Che un ragazzaccio di strada, un monellaccio strafottente (tutta apparenza eh…), un lettore appassionato di Tex Willer, e dunque di spazi aperti, cavalcate, cazzotti e sparatorie, di frenetico movimento, insomma, si fosse lasciato irretire e conquistare in seguito da spazi angusti, spesso chiusi, da vecchiette sferruzzanti e omettini grigi il cui unico movimento era dato dalle indaffarate cellule grigie. Strano, ma forse spiegabile, che già il movimento lo avevo fatto di mio a correr per strade, boschi, campagne e torrenti, sudato fradicio e con le scarpe rotte. Mi ci voleva un po’ di pace, di tranquillità, di restare un po’ fermo a riflettere, a ragionare, a dare spazio al pensiero e seguire gli eventi con ferma e incrollabile logica. Sì, deve essere stato così che sono caduto esausto tra le braccia di Agatha e degli altri creatori del mystery misterioso e indecifrabile. E anche (forse) per un desiderio inconscio di ordine, di pulizia, di riscattare almeno nella pagina, con l’arresto del malfattore di turno, qualche marachella bricconcella che mi portavo dietro con un certo senso di colpa (così la coscienza era a posto).

Dopo (non tanto come fatto temporale ma come vero interesse) venne l’hard boiled con tutto l’armamentario che si portava appresso: squarci di città tumultuose, uffici scalcinati puzzolenti di fumo, facce grifagne, pupe rotonde e femmine fatali, inseguimenti, fughe, sparatorie da tutte le parti, whisky a go-go…Già whisky a go-go, e se non era whisky sarà stato bourbon e comunque un qualcosa diverso, magari nel nome, ma uguale nell’effetto: un bruciabudella da tracannare in un colpo solo senza farla tanto lunga.  E poi giù a scrivere, a creare, con lo scrittore e il personaggio a diventare un tutt’uno, l’alito infuocato dall’alcol e dalla sigaretta che restava miracolosamente appesa di sghimbescio e penzolante tra le labbra (non cadeva mai, figlia d’un cane!).

L’alcol, il maledetto alcol, che ritrovavo in ugual misura tra Re, Regine, Torri, Alfieri, Cavalli e pedoni. Questa volta come carburante (forse) per fantasticare tra le sessantaquattro caselle, per escogitare un trucco, una trappola, un Matto spietato. Talvolta per distruggersi, per portarsi fuori dal mondo…

E se da una parte c’erano i vari Poe, Chandler, Hammett, Bunker, Ellroy, Burke, Himes, King, Lovecraft, Thompson, Rice e via discorrendo (un mio articoletto su http://corpifreddi.blogspot.com/2010/07/vite-difficili-di-fabio-lotti.html); dall’altra esistevano i vari Tal, Alekhine, Bogoljubow, Blackburne, Marshall, Marco, Stahlberg, Kholmov, Lutikov, Vujovic e ancora via discorrendo. Grandi giocatori, grandi sbornie. Grandi sbornie, grandi giocatori (perché non mi sono mai ubriacato?). Gli aneddoti non mancano, ce ne sarebbero da raccontare per serate intere….Alekhine, campione del mondo dal 1927 al 1935 e dal 1937 al 1946,  perde un titolo per via delle sbevazzatone alcoliche. Più precisamente contro Max Euwe che non era un fulmine di guerra. Sembra che espletasse perfino qualche bisogno impellente sul pavimento del tavolo da gioco. Però con grande sforzo di volontà si disintossica e ritorna in forma come prima. Tal, invece, campione del mondo nel 1960, riesce a vincere, completamente sbronzo, un torneo in Canada. Si dice che venisse sorretto da due aiutanti, per arrivare a sedersi davanti alla scacchiera. Insuperabile giocatore d’attacco ebbe una salute travagliata per il fumo e la vodka. E due occhi che fulminavano. Ci fu addirittura un giocatore, Pal Benko, che all’inizio di una partita contro Tal si mise un paio di occhiali neri “per neutralizzare quello che, secondo lui, era il potere ipnotico del campione del mondo (“Aneddoti di scacchi” di Mario Leoncini, Messaggerie Scacchistiche 2003, pag. 62. Sempre dello stesso autore, per quanto riguarda curiosità varie sul mondo scacchistico, “A ladro!”, Caissa Italia 2005).

Culo e camicia furono la bottiglia di whisky e Blackburne, forte giocatore inglese dell’Ottocento, soprannominato “La morte nera” per il suo stile aggressivo e combinativo, tale da “uccidere” in poco tempo avversari di caratura inferiore. Se vedeva qualcosa di alcolico in giro non aveva scampo, fosse pure sul tavolo da gioco di un avversario. Una volta, persa una partita con Steinitz, altro grande Re degli scacchi, lo buttò giù dalla finestra. Fortuna che si era al pian terreno…(Per chi vuole saperne di più http://soloscacchi.altervista.org/?p=14625). E già che ci sono cito pure il mio “Partita a scacchi con il morto”, scritto in collaborazione con il sopraccitato Mario Leoncini, Prisma 2004 ( prisma@nexus.it ) , nel quale, oltre al gialletto con il commissario Marco Tanzini, di mia produzione, e “Meraviglie sulla scacchiera” dell’amico, potete trovare “Un giretto tra i Grandi del presente e del passato” che dovrebbe recarvi piacevole compagnia (e così ho fatto contento anche l’editore).

Ritorno all’hard boiled e riprendo un pezzo scritto qualche tempo fa per “Sherlock Magazine”. Da studentello più o meno sbarbato ero come una spugna. Assorbivo, pur facendo finta di sbattermene, per non finire nella spregevole schiera dei secchioni, qualsiasi cosa dicessero i miei professori. Quelli in cui avevo fiducia, naturalmente (ergo, in pochi). Alle superiori ce n’era uno che mi colpì con una specie di profezia rivelatasi, almeno nel mio caso, fondata. Egli asseriva, allora con  corale scetticismo e risatine varie che, andando avanti lungo il cammino della vita, il gusto dei lettori, in genere, cambia. Mentre in tenera età siamo presi dalla lettura nuda e cruda del testo, infischiandocene di qualsiasi apparato critico poi, seppur lentamente, avviene quasi il contrario e le note, le introduzioni ed i commenti risaltano in primo piano. Questo mi è capitato più volte, specialmente con i libri di storia. Diverso tempo fa la profezia si è di nuovo avverata. Sfogliando il bel libro “Chandler-Romanzi e racconti 1933-1942″, pubblicato dalla Mondadori nella splendida (e costosetta) collana de “I Meridiani” nel 2005, mi sono imbattuto nel saggio introduttivo di Stefano Tani e lì sono rimasto per un tempo all’incirca eguale (si fa per dire) a quello dedicato alla lettura dell’intero “corpus”. Segno inequivocabile che sto invecchiando o che sono già invecchiato. Almeno come lettore, secondo il noto vaticinio (pia illusione quella di essere invecchiato solo come lettore…).

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Le vite di Chandler e di Poe mi hanno sempre appassionato, come tutte le vite parecchio “sbandate” di tanti grandi scrittori ed artisti. Forse per una specie di contrasto con il grigio tran tran della mia. Inutile farne il riassunto. La conoscono tutti (quella di Chandler). Ciò che colpisce di più sono l’educazione vittoriana, la buona scuola, il matrimonio con una “mamma” più vecchia di lui e l’alcool. Da questo miscuglio (e da altro ancora) nasce lo scrittore. E dallo scrittore nasce il suo Doppio: quel Philip Marlowe che rappresenta il rovescio della medaglia dell’uomo, con il suo senso di giustizia e di “pulizia” morale. Nell’arte, (secondo quanto si apprende da “La semplice arte del delitto”), ci deve essere sempre un principio di redenzione che viene incarnato, quando si tratti del giallo realistico, dall’investigatore. Egli allora diventa l'”eroe” senza macchia e senza paura, il “tutto”. Ma questo eroe chandleriano, Philip Marlowe, appunto, si sdoppia nelle sue manifestazioni esterne brutali e ciniche perché “per una metà risponde a un codice dell’onore tutto britannico” e per l’altra metà “ostenta la crudezza colloquiale e il pratico individualismo dell’uomo americano”.

Anche la vita di Poe non è stata da meno nel colpire la mia fantasia. Soprattutto la sua fine. Il 27 settembre 1849 parte alla volta di New York, per sbrigare alcune faccende e ritornare velocemente a Richmond, in Virginia, dove vuole sposare la vedova Sarah Elmira Royster, un vecchio amore di gioventù. Ma fra il 28 settembre e il 3 ottobre sparisce. Viene ritrovato in un bar completamente fuori di testa con altri vestiti addosso e privo di soldi. Ricoverato d’urgenza in ospedale alterna momenti di delirio ad altri di una certa lucidità, ma non sa spiegare quello che gli è successo. Muore il 7 ottobre, e da allora inizia una ridda di insinuazioni e calunnie. Vi è più di una teoria, ma nulla di certo e documentato.

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Thin air

novembre 8th, 2010

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Sarebbe un vero peccato leggere lo straordinario romanzo di Howard Browne senza prima aver letto questo ottimo (come di consueto) articolo di Luca Conti.

Questo, come molti altri imperdibili contenuti, sono disponibili sul suo sito ufficiale: lconti.com

Non mi resta che augurarvi una buona lettura.

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Howard Browne (Omaha, Nebraska, 15 aprile 1907 – San Diego, California, 28 ottobre 1999) è stato – malgrado sia completamente sconosciuto in Italia – uno dei personaggi chiave nella storia dell’hard boiled e della fantascienza, sotto il suo vero nome ma anche con lo pseudonimo di John Evans. Con tale firma, infatti, Browne ha scritto tra il 1946 e il 1949 quattro romanzi nei quali appare il detective privato Paul Pine, considerato dalla critica uno dei più brillanti emuli di Philip Marlowe. Browne e Chandler vantavano una solida amicizia, nata negli anni in cui Browne era direttore di Amazing Stories, una delle più popolari riviste pulp di fantascienza del’epoca, pubblicata da un autentico colosso del settore quale la Ziff-Davis; e il nome «John Evans» appartiene ad una delle primissime incarnazioni di Philip Marlowe, come si può verificare nel racconto di Chandler No Crime in the Mountains.

Browne, figlio illegittimo di una maestra di scuola diciassettenne e di un medico itinerante, era stato adottato dalla famiglia di un fornaio, scomparso quando Howard aveva poco più di dodici anni. Il giovane Browne finì quindi per qualche anno in una sorta di casa-famiglia, fin quando la madre adottiva non poté dimostrare di poterlo mantenere; all’interno dell’istituzione, comunque, aveva già scoperto il suo interesse per la scrittura, e a quindici anni decise infine di abbandonare gli studi per trovare lavoro a Chicago. Nella migliore tradizione degli scrittori americani, collezionò i più disparati impieghi in acciaierie, sanatori, magazzini di uova, come commesso viaggiatore, eccetera: tutto questo fino alla Grande Depressione del 1929, quando il gangsterismo iniziò ad espandere la sua influenza sulla città soprattutto grazie al bootlegging, la distillazione e vendita illegale di alcolici.

La crisi economica permise a Browne di trovare con relativa facilità numerosi lavori in un campo in evidente espansione come quello del recupero crediti, fin quando (era il 1937) la lettura di un racconto sul Chicago Daily News gli fece balenare l’idea che, certo, anche lui poteva diventare uno scrittore. E perché no? Detto, fatto. Un racconto di mille parole, scritto in men che non si dica e inviato al giornale, aprì a Browne le porte del mondo delle riviste pulp.

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Storia di Mary, di Stanislas, di John, di Edward.. e di Isaac

ottobre 15th, 2010

Ecco un nuovo, interessante, articolo di Pietro De Palma.

Buona lettura. 

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Tra i tanti romanzi polizieschi degli anni Trenta del Novecento, se ne ricorda qualcuno che tratta di automi. Il primo è L’Ennemi sans Visage (noto anche come anche M. Wens et l’automate) di Stanislas André Steeman. Il motivo di questa tendenza, e da cosa tali romanzi abbiano preso le mosse, è presto detto. Non si può parlare di automi nei romanzi polizieschi senza citare il libro che  ha dato origine a tutto quanto: Frankenstein, pubblicato nel 1818 da Mary Shelley. Frankenstein fu un grande romanzo gotico, un gotico per certi versi molto più moderno di opere simili, come Vathek di Beckford o The Monk di Lewis.

Mary Wollstonecraft Godwin, figlia del politico e filosofo William Godwin, era nata nel 1797. Il padre le aveva conferito un’educazione sorprendentemente ricca di spunti culturali, e per molti anni il salotto di Godwin ospitò alcuni degli ingegni più grandi dell’epoca: tra questi il grande poeta Percy Bysshe Shelley. A diciassette anni Mary, educata alle idee molto avanzate del padre (che professava tra l’altro l’adesione all’amore libero) fuggì in Francia assieme a Shelley (a quei tempi sposato e di cui era innamorata) e alla sorellastra Claire Clermont; in seguito, dopo il suicidio della moglie di lui, Harriet, si sposò con Percy, nel 1816. L’anno successivo la coppia fu invitata a Ginevra da Claire, che era diventata l’amante di George Byron, e fu proprio qui che Mary ebbe l’ispirazione per Frankenstein: in quelle giornate piovose si parlava di Darwin, dell’energia elettrica e della possibilità di esplorare la vita dopo la morte. Indubbiamente l’ispirazione trasse materia proprio dai colloqui tra John Polidori (l’autore di The Vampire), Percy B. Shelley e George Byron – cui lei stessa aveva assistito – ma anche molto probabilmente dalla leggenda del Golem, creatura senza anima e coscienza, al servizio degli uomini: infatti, ancor prima che uscisse Frankenstein, uno dei fratelli Grimm, Jacob, in un articolo scritto nel 1808 e pubblicato sullo Zeitung für Einsiedler del poeta e scrittore romantico Achim von Arnim, aveva reso popolare, diffondendolo, il suo mito. La leggenda narrava di un rabbino polacco, Elija Ba’al Schem di Chelm, che nella Polonia medievale aveva creato un Golem servendosene come di un angelo protettore del ghetto ebraico, infondendogli vita grazie alla parola «Dio» che recava scritta sulla fronte e alla quale era stata aggiunta la parola «Verità». Così, con la frase «Dio è Verità» sulla fronte, il Golem prendeva vita; quando invece lo si voleva distruggere, bastava togliere una lettera dalla parola «verità,» l’Aleph, per trasformarla in un’altra che significava «morte»: «Dio è morte». In seguito questa leggenda era stata riportata a Praga, laddove si dice che un altro rabbino, Jehuda Löw ben Bezalel di Praga, avesse plasmato un Golem di cui però aveva perso il controllo; dopo le distruzioni da questi apportate, il Rabbino – tornato a dominare il Golem – lo avrebbe nascosto nella soffitta della sinagoga Staronova, ancor oggi esistente a Praga. Il mito del Golem, in realtà, risale a molto tempo addietro, per certi versi addirittura alla nascita dell’uomo: infatti, in ebraico, Golem significa «materia grezza» o anche «embrione,» e tale sarebbe stato Adamo prima che Dio infondesse in lui il soffio della vita: una forma di fango.

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Un “born writer”: Rufus King. Invenzioni, stile e rapporti con la letteratura di genere coeva

maggio 26th, 2010

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di Pietro De Palma

Rufus King (1893-1966) fu un romanziere molto attivo dalla fine degli anni ’20 alla fine degli anni ’50 inizio ’60, pur facendo tutto sommato vita ritirata: in vita, nulla di lui si sapeva molto, all’infuori del fatto che vivesse “nella parte rurale dello Stato di New York, che fosse single, e che ogni anno avesse problemi a causa della neve”[1], tant’è vero che si “fece una villa” a Miami; del resto proprio a Miami ambientò alcune delle sue storie.

Altra cosa che si sa è che avesse studiato a Yale[2], che nel 1916 si laureò e che si arruolò proprio in quell’anno per la Grande  Guerra e che dopo di essa lavorò per del tempo come operatore radio sulle navi

Oggi è molto poco conosciuto e i suoi romanzi vengono di rado pubblicati, ma al tempo fu molto noto: era un fine esponente di quella scuola di scrittori americani (anche J.D.Carr, Mignon Eberhart) che non volevano rinunciare alla scuola di giallo all’inglese, in favore invece della “scuola dei duri”, nata in ambiente americano.

In Italia è stato un autore, pubblicato parecchio negli anni ’30 – ’40 e ’50, e meno dopo: infatti, parecchi dei romanzi pubblicati soprattutto da Mondadori, risalgono a questi anni. Solo in pochissimi casi, altre case editrici si son cimentate in romanzi di Rufus King : tra queste, la Casa Editrice Martello con I Gialli del Veliero : “Il colombo della morte” (The Deadly Dove, 1945); la Italedit di Cremona che pubblicò “Intervallo Tragico”: questa pubblicazione, ricavabile tramite ricerca OPAC, è disponibile solo presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, ma non si ricava da alcun indizio, il suo titolo d’origine[3]; e i Gialli del Secolo di Gherardo Casini Editore.

I rapporti tra il mondo dell’editoria italiana e Rufus King, possono essere inquadrati dal carteggio assai interessante  tra un famoso traduttore degli anni trenta, Mario Benzing, e la casa Editrice Bemporad[4] .

Mario Benzing, fine traduttore, di origine tedesca, di moltissime opere di narrativa straniera in Italia, che aveva già intrattenuto rapporti con la Bemporad per altri romanzi, il 9 maggio 1933, scriveva:

“..Mi permetto d’informarvi che ho ottenuto l’esclusività per la traduzione delle opere  di Rufus King, giovane scrittore americano veramente eccezionale […]. Non soltanto incuriosisce, come Wallace e Van Dine, ma anche interessa: i suoi personaggi sono vivi, studiati, e i suoi casi anche psicologici, profondamente umani. Tutti casi circoscritti, a campo chiuso: uno yacht, una famiglia, una casa; e sono i casi più efficaci del genere e insieme anche i più difficili a congegnare con rispetto al buon senso, e a sostenere senza borra per trecento pagine. Si svolgono negli ambienti dell’aristocrazia americana, che il King conosce a fondo; e li risolve il detective Valcour, della polizia di Nuova York, uno specialista di quegli ambienti, che sa cercare indizi anche nei meandri delle anime. Per la cessione dei diritti di traduzione, Rufus King chiede soltanto L. 800  per  romanzo. La serie Valcour si compone di dieci romanzi, naturalmente indipendenti”.

Faccio notare due cose: la prima è che la serie completa con personaggio principale Valcour è di undici romanzi; la seconda, ancor più interessante, riguarda la data  riportata nel carteggio: infatti,  se non è sbagliata, dovremmo dedurne che Rufus King aveva in mente già la serie o gran parte di essa oppure l’aveva già scritta e attendeva la pubblicazione di ciascun romanzo: non potremmo infatti altrimenti comprendere come il Nostro parlasse di una serie di dieci romanzi con protagonista Valcour, (per bocca di Benzing) quando a quell’anno, 1933, di romanzi con protagonista il Tenente Valcour, ne erano usciti solo sei; gli altri quattro (Benzing parla di una serie di dieci) sarebbero usciti posteriormente: The Lesser-Antilles Case, 1934 – Profile of a Murder, 1935 – The Case of the Constant God, 1936 – Crime of Violence, 1937; infine, l’undicesimo, Murder Masks Miami, sarebbe uscito nel 1939.[5]  Quello che possiamo evincere è che Benzing volesse proporre alla Bemporad quello che per lui era un affare: Rufus King chiedeva allora solo 800 lire per ognuno dei suoi romanzi (compenso deducibile in caso di forfait, come affermato in altro passo) molto noti oltre oceano: si accontentava di poco o era solo molto modesto? Fatto sta che la Bemporad rifiutò il 12 maggio la proposta: “..Non conosciamo affatto questo autore. D’altronde abbiamo già una riserva di libri di questo genere per le nostre collezioni, fra gli altri tutti i più recenti volumi del celebre autore inglese Oppenheim”.

Allora Benzing rinnovò la proposta con altre argomentazioni: cercò di forzare l’assenso della controparte facendo riferimento al fatto che delle case editrici italiane fossero interessate alla pubblicazione dei romanzi di R.King: “..la Libri X sta per pubblicare Sangue a bordo di uno yacht..”; e il 20 maggio inviò, all’editore, l’edizione americana di Murder in the Willett family, mentre  il 1° giugno fu la volta di Valcour meets murder. La Bemporad rinviò ogni decisione al futuro pur riconoscendo la validità dei romanzi proposti, ma.. non se ne fece nulla , nonostante lo stesso traduttore ricordasse che altri editori erano in contatto e trattativa con gli agenti dello scrittore. In Mondadori, “Delitto sullo yacht” (trad. di Matilde Fanno) uscì nel 1936, e “L’agguato” (tit. orig. Valcour meets murder; trad. di Cesare Giardini), nel 1937; mentre “Delitto in casa Willett” (trad. di Carla Merlo) uscirà solo nel 1975.

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La condanna del sospetto

marzo 13th, 2010

Roberto Riccardi, vincitore del Premio Tedeschi, ci regala una riflessione intensa su un caso di cronaca, tornato, sfortunatamente sotto i riflettori.

L’articolo che riportiamo qui, sul Blog del Giallo Mondadori, appare per gentile concessione del quotidiano “Il Tempo”

Buona lettura

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Se si è ucciso doveva essere colpevole. Era innocente, non ha retto il peso di un’accusa infondata. Tutto valido, tutto opinabile. Di sicuro c’è che poche ore fa Pietrino Vanacore si è messo alla guida della sua auto. Marina di Torricella, provincia di Taranto. Ogni posto è buono, quando hai stabilito di scrivere la parola fine alla tua vita. E il portiere dello stabile B di via Poma 2, dove il 7 agosto 1990 si è spenta Simonetta Cesaroni, la sua decisione l’aveva presa. L’ha spiegata in poche righe, prima di lasciarsi affogare in un corso d’acqua: “20 anni di martirio senza colpa e di sofferenza portano al suicidio”. Vent’anni: tanto era durato il suo calvario, in un’altalena di incriminazioni che lo aveva visto più volte al centro dell’inchiesta capitolina. Nelle ore del delitto, negli uffici dell’Associazione Italiana Alberghi della Gioventù dove Simonetta lavorava, terzo piano scala B, nessuno era entrato o uscito. A questo si legano i primi sospetti. Nella scala tre persone: la vittima, l’anziano architetto Cesare Valle e il portiere. Si aggiungono un alibi precario, macchie di sangue sui pantaloni che risulteranno dello stesso Vanacore, elementi che lo lasciano a lungo nella lista nera. Omicida, complice di Federico Valle, figlio dell’architetto, inquinatore della scena del crimine. Nulla però regge al vaglio giudiziario, in un procedimento che vede oggi un altro imputato alla sbarra.        

C’è un elemento che colpisce, nella vicenda dell’uomo Pietrino. La sua responsabilità oggettiva, perché di quella scala, nel giorno del sangue e della falce, era il custode. Pesa l’ombra di un’altra morte misteriosa: nel 1984 Renata Moscatelli era stata trovata soffocata con un cuscino, nello stesso stabile, e non c’erano segni di scasso. Il portiere come il maggiordomo, colpevole ideale se il teatro di un crimine è un palazzo, il tipico luogo in cui viviamo, dove abbiamo il diritto di sentirci protetti. Così si è innescata l’ulteriore tragedia, chiedendo il conto di una vita a chi poteva offrire solo quello delle sue azioni. Galeotto fu il mestiere. Inquietante come il Dirk Bogarde di un film anni Settanta, intellettuale come il riccio raccontato da Muriel Barbery, il portiere è una figura vicina, che intreccia le nostre vite alla sua. Secondo ricerche recenti è uno dei lavori che scompaiono, uccisi dalla tecnologia che ovunque soppianta l’uomo. Intanto è scomparso lui, Pietrino Vanacore. Il suo dolore, la sua angoscia, li ha portati con sé.                                                                                                       

Roberto Riccardi (autore di “Legame di sangue”)

“Il Tempo” il 10.03.10 (pag. 9)

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La prima produzione di John Dickson Carr: i quattro racconti di Bencolin

settembre 7th, 2009

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Cari lettori del Giallo Mondadori, oggi vogliamo proporvi un saggio breve di Pietro De Palma sulle prime opere del celeberrimo “giallsta” Statunitense.

Prima di augurarVi un buon proseguimento di lettura, cogliamo l’occasione per augurare un buon compleanno a Piero, storico lettore, collezionista e da oggi “contribuente” del Giallo.

Dario PM Geraci

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Tra le forme letterarie, i racconti hanno sempre pagato dei tributi ai romanzi: rappresentano quasi una produzione minore, delle storie da scrivere senza impegnarsi particolarmente, in momenti di rilassatezza. Almeno questa è la percezione che ne ha il lettore; invece..

Invece il racconto è un genere importante quanto il romanzo, non dirò di più o di meno: ne ha una forma più concentrata, possedendo anche delle caratteristiche ricorrenti in quest’ultimo: se vi è una presentazione dei personaggi e della situazione in oggetto, esse devono essere stringate, e lo sviluppo non molto esteso, per necessità di condensazione in un numero di pagine più ristretto; ma tutto il resto..è lo stesso. Anzi se vogliamo, il racconto ha la sua buona parte di difficoltà, perché se nel romanzo taluni “allungano il brodo” con descrizioni e narrazioni che poi nulla hanno a che fare con il nocciolo della storia, nel racconto ciò non è possibile: si devono avere idee chiare e si deve condurre la storia con un filo logico e una tensione, che dalla prima pagina all’ultima, conduca il lettore a godere della fine, senza sotterfugi, escamotages, rallentamenti, perdite di tempo (e di pagine).

Se nella letteratura “impegnata” il racconto gode di una fortuna inferiore al romanzo, in quella “di genere” e nel nostro caso in quella “gialla”, possiamo dire che, almeno non in Italia, il Racconto Giallo ha avuto una fortuna non inferiore a quella del Romanzo: perché tuttavia in Italia il racconto non abbia avuto pari fortuna, questo è altro discorso. La situazione però è questa: nel mondo sia anglosassone, che l’ha fatta da padrone, e in quello più chiuso, del giallo franco-belga, i racconti hanno avuto la loro buona fetta di pubblico e di popolarità. Ancor oggi, molti autori contemporanei scrivono racconti, ma nel passato, si sono avuti addirittura autori specializzati, per es. Edward D. Hoch, autore anche di romanzi di fantascienza e di apocrifi queeniani, ma soprattutto di oltre..900 racconti, divisi in più serie, tra cui quelli che raccontano di Camere Chiuse e delitti impossibili, sono i preponderanti. Ma anche Joseph Commings si è riservata la sua buona fetta di fama, con le storie del senatore Banner. La messe maggiore, tuttavia, si è avuta con i grandi autori sia di Giallo classico che di Hard Boiled: Ross MacDonald, Ellery Queen, C.Daly King, Agatha Christie, Dashiell Hammett, e moltissimi altri, tra cui John Dickson Carr.; e proprio di Carr parleremo, a proposito dei suoi primi quattro racconti con Henri Bencolin.

Potrebbe sembrare un discorso molto relativo, affrontare la tematica dei racconti carriani puntando l’attenzione solo su 4 racconti, quando la produzione totale ne conta oltre trenta. Ma questo breve saggio non si propone di esaurire la tematica complessiva del racconto in Carr, ma solo di creare un’inquadratura, che possa essere recepita da qualunque lettore, circa la produzione carriana avente come soggetto principale Henri Bencolin.

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Avvinti come l’edera

aprile 18th, 2009

Mi permetto di riprendere e rimpolpare cose già scritte per illuminare lo stretto rapporto che esiste fra il giallo e gli scacchi, sperando di attirare l’attenzione dei lettori su questi due meravigliosi parti dell’intelletto umano (ho esagerato?).La passione per il giallo l’ho avuta sin da piccolo quando, frugando per caso in una cantina di un mio cugino, mi ritrovai fra le mani una avventura di Perry Mason pubblicata dalla Mondatori sulla cui copertina campeggiava il volto del noto attore Raymond Burr (molti lo ricorderanno come uno dei protagonisti de La finestra sul cortile di Hitchcock, quello che ha fatto la felicità di tanti depressi mariti tagliando a pezzi la moglie) che è stato uno degli interpreti principali, se non l’unico, di questo popolare avvocato.

La passione per gli scacchi è avvenuta, invece, molto più tardi e precisamente nel 1972 al tempo dell’ormai mitico incontro mondiale Spassky-Fischer nella gelida Islanda. Fu un mio scolaro del liceo scientifico Galileo Galilei di Siena, l’attuale Maestro Alessandro Patelli presidente del circolo scacchi del CRAL del Monte dei Paschi, a condurmi lungo le strade tormentate della scacchiera. Leggi tutto »

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