La condanna del sospetto

marzo 13th, 2010 by Moderatore

Roberto Riccardi, vincitore del Premio Tedeschi, ci regala una riflessione intensa su un caso di cronaca, tornato, sfortunatamente sotto i riflettori.

L’articolo che riportiamo qui, sul Blog del Giallo Mondadori, appare per gentile concessione del quotidiano “Il Tempo”

Buona lettura

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Se si è ucciso doveva essere colpevole. Era innocente, non ha retto il peso di un’accusa infondata. Tutto valido, tutto opinabile. Di sicuro c’è che poche ore fa Pietrino Vanacore si è messo alla guida della sua auto. Marina di Torricella, provincia di Taranto. Ogni posto è buono, quando hai stabilito di scrivere la parola fine alla tua vita. E il portiere dello stabile B di via Poma 2, dove il 7 agosto 1990 si è spenta Simonetta Cesaroni, la sua decisione l’aveva presa. L’ha spiegata in poche righe, prima di lasciarsi affogare in un corso d’acqua: “20 anni di martirio senza colpa e di sofferenza portano al suicidio”. Vent’anni: tanto era durato il suo calvario, in un’altalena di incriminazioni che lo aveva visto più volte al centro dell’inchiesta capitolina. Nelle ore del delitto, negli uffici dell’Associazione Italiana Alberghi della Gioventù dove Simonetta lavorava, terzo piano scala B, nessuno era entrato o uscito. A questo si legano i primi sospetti. Nella scala tre persone: la vittima, l’anziano architetto Cesare Valle e il portiere. Si aggiungono un alibi precario, macchie di sangue sui pantaloni che risulteranno dello stesso Vanacore, elementi che lo lasciano a lungo nella lista nera. Omicida, complice di Federico Valle, figlio dell’architetto, inquinatore della scena del crimine. Nulla però regge al vaglio giudiziario, in un procedimento che vede oggi un altro imputato alla sbarra.        

C’è un elemento che colpisce, nella vicenda dell’uomo Pietrino. La sua responsabilità oggettiva, perché di quella scala, nel giorno del sangue e della falce, era il custode. Pesa l’ombra di un’altra morte misteriosa: nel 1984 Renata Moscatelli era stata trovata soffocata con un cuscino, nello stesso stabile, e non c’erano segni di scasso. Il portiere come il maggiordomo, colpevole ideale se il teatro di un crimine è un palazzo, il tipico luogo in cui viviamo, dove abbiamo il diritto di sentirci protetti. Così si è innescata l’ulteriore tragedia, chiedendo il conto di una vita a chi poteva offrire solo quello delle sue azioni. Galeotto fu il mestiere. Inquietante come il Dirk Bogarde di un film anni Settanta, intellettuale come il riccio raccontato da Muriel Barbery, il portiere è una figura vicina, che intreccia le nostre vite alla sua. Secondo ricerche recenti è uno dei lavori che scompaiono, uccisi dalla tecnologia che ovunque soppianta l’uomo. Intanto è scomparso lui, Pietrino Vanacore. Il suo dolore, la sua angoscia, li ha portati con sé.                                                                                                       

Roberto Riccardi (autore di “Legame di sangue”)

“Il Tempo” il 10.03.10 (pag. 9)

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4 Responses

  1. StefanoN

    Vanacore faceva parte di quelle storie che, non chiarite subito, non si chiariranno mai: troppe volte raccontate per diventare davvero reali.

  2. il professionista

    davvero interessante…ho seguuito i fatti un po’ alla lontana non rientrando nel mio genere di interessi di ricerca peròè sempre interessante leggere un resoconto dettagliato…

  3. andrea

    bell’articolo!

  4. Vincenzo Cipriani

    Salve,
    credo che Vanacore non sia colpevole ma piuttosto che abbia cercato di difendere qualcosa, il suo condominio, che per lui equivaleva alla difesa del proprio lavoro, non una cosa da poco. Quel condominio era fatto di proprietari, di affittuari, di persone che si recavano lì solo per lavoro. Distributi confusmente sulla scala dello stabile B di via Poma 2, ma ordinati in modo matematico nella sua mente. Un portiere sa bene da quali di queste persone dipende la sua esistenza. Penso quindi che abbia agito sulla base di una sorta di istinto di sopravvivenza.
    Come per altre storie mi iscrivo tra quelli che sperano nella stesura di un velo pietoso, sapendo però che ci sono due elementi che lo renderanno impossibile: un cognome difficile da dimenticare e uno sguardo fissato in una foto, che sembra raccontare più di un romanzo.

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