A novembre…
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Il sesso nel romanzo poliziesco
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Un titolo bombolone per attirare l’attenzione dei lettori. Una specie di specchietto per le allodole. Una presa in giro. Una fregatura. Chi pensa che da vecchietti si diventi più buoni si sbaglia di grosso. Da vecchietti, come il sottoscritto, si diventa più cattivi. O meglio, non proprio più cattivi ma diciamo più…più dispettosi. Ecco la parola giusta. Ci si diverte a fare quelle cose che in passato non si facevano per una specie di innato pudore o per paura di passare male. Il famoso giudizio della gente. Del quale, del giudizio della gente voglio dire, ad un certo punto della vita ce ne importa il classico fico secco. Con l’assillo della nera signora dalla lunga falce che ci corre ostinatamente appresso il rossore della vergogna sparisce per lasciare il posto alla classica faccia mattonata. E così il lettore clicca su questo pezzo e viene fregato. Perché figuriamoci se io voglio scrivere una vera storia del sesso nel romanzo poliziesco, che manco saprei buttar giù la mia di storie dove il sesso te lo potrei spiattellare in quattro e quattr’otto. E figuriamoci un’artra vorta se vi voglio parla’ di tutte le segretarie, darche ledi, femmesse fatalesse, gnoccolone che sculettavano nell’arde boile ameri’ano in quell’uffici porverosi che a’ i’ solo pensiero mi fanno veni’ l’asma. Tanto pe’ dinne una. Ma un ci penso nemmeno (staggese). Anche perché poi ci sarebbe il solito critico tutto per benino e precisino a farmi le bucce. Qui hai lasciato questo, qua sei stato superficiale…e insomma avete capito.
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Ecco il trailer dell’articolo di Massimo Pietroselli che trovate questo mese in edicola.
Buona visione
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Giulio Leoni, attualmente in libreria con il Suo splendido romanzo “La regola delle ombre”, ci ha voluto regalare un ricordo legato al Suo primo incontro con il Giallo Mondadori.
Buona lettura
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Avete presente la Scuola d’Atene, quel quadrone che riempie una parete delle stanze vaticane? Anzi un fresco, a voler essere esatti. E quei due signori al centro, vestiti all’antica, che sembrano chiacchierare tra loro nell’atrio della stazione di Milano, in mezzo a una turba di partenti e arrivanti, venditori ambulanti, straccioni?Di sicuro dibattono da secoli su una questione essenziale, da molto prima che a Raffaello venisse in mente di ritrarli. E scommetto che non c’è nessuno, tra quanti si siano fermati almeno un momento a naso all’aria a guardarli, che non si sia chiesto di che si tratti. Se ne sono immaginate molte, da una questione di donne a se il processo del conoscere discenda da un’ordinata scomposizione in sottoclassi delle prime idee, o non piuttosto da una risalita avventurosa dalla foresta di indizi e parzialità che ci circonda nell’esperienza quotidiana.
Direte: che c’entra con il tuo primo giallo? Centra, invece. Perché secondo me in realtà quei due stanno questionando se sia meglio Sherlock Holmes o Maigret. O almeno ne ero sicuro quando venni trascinato a vederli la prima volta dal mio professore di scuola media, con tanto di vestito buono, scarpe lucide e capelli ravviati con acqua e sapone. Uno, il capellone col dito al cielo, è chiaro che prende le parti del primo e spinge per ineccepibili cascate deduttive, al massimo intessute di qualche abduzione e qualche induzione di nascosto. Nel confort di un salottino vittoriano, tra una pipata e una punta di cocaina.L’altro sta di certo per i giri in bistrot e le esplorazioni nelle portinerie odorose di minestra di cavoli del secondo, e dice chiaramente: «Macché, piedi per terra, amico! Dal particolare al generale, e scarpinare!»Io tenevo per il capellone, così d’istinto.
Fino a quel momento non avevo letto nessun giallo, solo fantascienza uranica. Venivo da immersioni in Verne e Salgari, ed ero più interessato alle sabbie di Marte che ai pavimenti in graniglia delle questure.Ma con un’eccezione: uno zio scapestrato mi aveva passato di soppiatto un librone di Poe, e tra gli orrori e le paure avevo scoperto quel fatto meraviglioso di come dall’osservazione del selciato di Parigi si potesse ricostruire il pensiero di quello che ti sta vicino. Quel fatto mi aveva affascinato, e attribuivo la mia incapacità a fare altrettanto solo alla diversa allure dei sampietrini di Roma, perché si sa, Parigi è sempre Parigi. Per cui da Dupin passai illico et immediate alla ricerca dei libri di Conan Doyle, a detta dello zio un clone sfacciato, che però all’epoca erano praticamente introvabili. Vi ricordate quei deliziosi libretti con la copertina bianco-nera, e la costola col nastro telato rosso? Ormai fuori catalogo giravano soltanto per bancarelle: ma il guaio era che, disposti di taglio negli scatoloni, avevano la dannata tendenza a confondersi con quelli simili della collana dedicata all’eroe di Simenon.
E che delusione quando mi capitava di adocchiarne nel mucchio tre o quattro, e scoprire che erano tutti racconti del baffone francese (perché io ero convinto che Maigret fosse come Gino Cervi, esattamente come milioni di italiani, e fu un trauma quando scoprii che invece era biondo e glabro come Jean Gabin). La mia collezione non riusciva a completarsi insomma per via di quel dannato Peppone: avevo grossi buchi nel canone, e non per via del topo di Sumatra, notoriamente introvabile, ma pure La valle della paura, il mitico Segno dei quattro e per lo meno una ventina di racconti si sottraevano alle mie brame. Fu in queste ambasce che mi imbattei in un Giallo Mondadori che sarebbe stato il mio primo: il numero 949, Uno studio in nero. Diavolo, un romanzo inedito di Sherlock Holmes! Lo conservo ancora come un cimelio di famiglia. Col tempo il giallo acceso della copertina si è mosso, virando un po’ sull’arancio. Ma la mano col coltello e il Big Ben sullo sfondo sono sempre come li disegnò il grande Jacono. Oddio, il polsino lascia un po’ a desiderare, non è proprio filologicamente corretto per un capo fin de siècle, e considerando la bellezza del romanzo Carlo avrebbe potuto metterci un po’ più di fantasia. Ma non è questo il punto. Il fatto è che senza saperlo avevo scoperto Ellery Queen. Al momento non mi fece un grande effetto, devo essere sincero. Preso dalla vicenda del mio eroe preferito saltellai bellamente sui tratti contemporanei della narrazione, e mi sfuggì del tutto la grazia con cui Ellery, una specie di Andrea Chenier con la testa ancora sul collo, tornava a fare versi antichi con dei pensieri nuovi. La gioia degli apocrifi e degli pseudobiblia sarebbe arrivata più avanti, passando per Lovecraft. Ma intanto il virus era stato inoculato. Uno che sapeva raccontare così bene le storie degli altri, fosse capace di raccontare bene anche qualcosa di suo?
E così il giorno dopo tornai alla bancarella.
Giulio Leoni
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Intervista a cura di Dario pm Geraci
Amici del giallo, stavolta ci troviamo in compagnia di Massimo Pietroselli, autore dell’ottimo “La porta sulle tenebre” che proprio in questi giorni, vede la luce, nelle librerie spagnole.
Come di consueto, ecco le nostre cinque domande che ci aiuteranno a conoscere meglio l’autore del mese.
DG: Allora Massimo, come ci si sente sulle pagine del Giallo Mondadori? Tu non sei nuovo a questo tipo di “excursus” tra i periodici Mondadori.
MP: Tutt’altro. Da Urania al Giallo, prima con “Il palazzo del diavolo” e ora con la ristampa della “Porta sulle tenebre”, è un po’ che frequento questi paraggi. Dal 1995, per l’esattezza. Ci si sente in ottima compagnia: la collana del Giallo è una miniera in cui si trova di tutto, una gioia per i collezionisti. Adesso Cornell Woolrich esce in edizioni rilegatissime e raffinate (e magari, con lo strillo “inedito” leggermente esagerato)? Be’, lo pubblicava il GM. E Chase? Idem. E Jim Thompson, David Goodis, John Wainwright, Ruth Rendell. Per non parlare del Catalogo Aureo: Christie, Gardner, Stout, Wallace… E in mezzo a loro, piccolo piccolo, ci sto pure io. Come dovrei sentirmi?
DG: Parlaci di questo romanzo. Cosa ti ha spinto a scriverlo?
MP: Il piacere di raccontare, che dopo il gradimento del mio premio Tedeschi mi ha consentito di tornare presto alle sudate carte. Il piacere di costruire una storia, i rimandi, lo sfondo storico, i personaggi: un puzzle in cui sei autore e solutore ad un tempo. E il fatto che ogni tanto qualcuno mi scrivesse “E allora, il nuovo Quadraccia? Perché il personaggio più amato della serie pare essere l’odioso Quadraccia, piuttosto che il riservato Archibugi. E’ proprio vero: come diceva Kirk Douglas “La virtù non è fotogenica.” Quanto al plot, è piuttosto complesso per poterlo riassumere in breve. Diciamo soltanto che il primo romanzo si incentrava sulla speculazione edilizia, questo sull’intreccio tra politica e affari. Tutto documentato. E per sopramercato, c’è un inglese oppiomane convinto che un serial killer londinese si aggiri per Roma, un bambino forse ucciso e segnato con una doppia W che rimanda a Poe, un giornalista che scompare, un cadavere irriconoscibile che viene ripescato dal Tevere… E poi c’è Roma. Quella prima degli scempi. Quella prima della Grande Svendita.
DG: Ultimamente, il thriller italiano ha spostato la propria attenzione verso gli intrighi economico/politici che riempiono le pagine dei quotidiani negli ultimi anni. Possiamo dire che “La porta sulle tenebre” rientra in questa “new wave” pur facendo riferimento ad un contesto storico diverso?
MP: Questo non so dirlo. Per quanto mi riguarda ho scoperto, studiando il periodo dell’Italia fine XIX secolo, gli stessi discorsi, le stesse facce, gli stessi comportamenti di oggi: per cui capita che, parlando di cose di ieri, si parli dicose di oggi. Questo è forse l’aspetto più desolante, “noir” delle mie storie: non nasce dalla trama in sé, ma piuttosto dallo sconforto di chi constata che niente è cambiato. Questo forse è qualunquismo, ma posso motivarlo.
DG: I nostri lettori hanno ravvisato uno spiccato senso cinematografico nel tuo modo di narrare. Quali sono i tuoi gusti in ambito cinematografico? Per quanto riguarda invece quello letterario, a chi ti senti più “vicino” come autore?
MP: Davvero hanno parlato di senso cinematografico? Questo mi fa molto piacere, perché in realtà le mie regole narrative, se pure ne ho, nascono dal cinema piuttosto che dalla letteratura. Per esempio, una regola base viene da un produttore americano che, a uno sceneggiatore “impegnato” che voleva lanciare un messaggio, rispose: “Se vuoi mandare un messaggio, lascia stare la sceneggiatura e scrivi un telegramma”. Sacrosanto. Io penso sempre che uno scrittore sia un regista che fa vedere quel che vuole al lettore attraverso l’occhio della fantasia. Può indirizzare la costruzione dell’immagine nel suo teatro mentale, può fare zoom, panoramiche, primi piani: può nascondere dettagli, distogliere l’attenzione, dilatare o accorciare il tempo, montare e smontare scene. E in più può far sentire odori, sapori, umori… Per quanto riguarda il cinema, amo tutti i registi che raccontano per immagini. Diceva John Ford: “Un bel film è quello che ha tanta azione e poco dialogo.” E dunque John Ford, Alfred Hitchcock, Ernst Lubitsch, Orson Welles, Stanley Kubrick, Pietro Germi e tanti altri. Per quanto riguarda la letteratura e mischiando alla rinfusa, direi: Simenon, Graham Greene, Sciascia, Chandler, Ross McDonald, McBain, Stevenson, Dickens… uff. Troppi. Lasciamo stare.
DG: Chiudiamo con qualche anticipazione. A cosa stai lavorando attualmente? Possiamo sperare di ritrovarti ospite tra qualche tempo sulle nostre pagine?
MP: Dunque: ho già accennato su questo blog (animato tra l’altro da conoscitori del “giallo” degni di Rischiatutto) che nella prossima primavera dovrebbe uscire il terzo romanzo della serie “romana”, dal titolo “L’affare Testa di Morto”. Per inciso, la Testa di Morto è un orologio da tasca in foggia di teschio, e viene da “Il piacere” di D’Annunzio. In questa puntata, si parlerà della politica che alimenta guerre per destabilizzare altri governi. Roba mai vista prima. E scopriremo qualcosa di inedito sul riservato Archibugi. Che forse è un po’ troppo riservato… Adesso sto invece scrivendo un romanzo storico ambientato nell’impero di Marco Aurelio, che dovrebbe uscire nelle librerie fra un anno e forse più, dal titolo “L’aquila di sabbia e ghiaccio”. Non è un giallo, ma un romanzo di avventura e intrigo che mi pare stia venendo bene. Ma prima di tutto, il mese prossimo ci sarà, dopo De Pascalis, Luceri e Leoni (tutti amici che saluto con affetto), il mio articolo sul concetto di omissione nel giallo! A proposito, ho preparato pure un casereccio trailer. Casomai vi mando il link.
Grazie per il tempo che ci hai concesso caro Massimo.
A presto e buon lavoro!
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Cari lettori del Giallo Mondadori, oggi vogliamo proporvi un saggio breve di Pietro De Palma sulle prime opere del celeberrimo “giallsta” Statunitense.
Prima di augurarVi un buon proseguimento di lettura, cogliamo l’occasione per augurare un buon compleanno a Piero, storico lettore, collezionista e da oggi “contribuente” del Giallo.
Dario PM Geraci
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Tra le forme letterarie, i racconti hanno sempre pagato dei tributi ai romanzi: rappresentano quasi una produzione minore, delle storie da scrivere senza impegnarsi particolarmente, in momenti di rilassatezza. Almeno questa è la percezione che ne ha il lettore; invece..
Invece il racconto è un genere importante quanto il romanzo, non dirò di più o di meno: ne ha una forma più concentrata, possedendo anche delle caratteristiche ricorrenti in quest’ultimo: se vi è una presentazione dei personaggi e della situazione in oggetto, esse devono essere stringate, e lo sviluppo non molto esteso, per necessità di condensazione in un numero di pagine più ristretto; ma tutto il resto..è lo stesso. Anzi se vogliamo, il racconto ha la sua buona parte di difficoltà, perché se nel romanzo taluni “allungano il brodo” con descrizioni e narrazioni che poi nulla hanno a che fare con il nocciolo della storia, nel racconto ciò non è possibile: si devono avere idee chiare e si deve condurre la storia con un filo logico e una tensione, che dalla prima pagina all’ultima, conduca il lettore a godere della fine, senza sotterfugi, escamotages, rallentamenti, perdite di tempo (e di pagine).
Se nella letteratura “impegnata” il racconto gode di una fortuna inferiore al romanzo, in quella “di genere” e nel nostro caso in quella “gialla”, possiamo dire che, almeno non in Italia, il Racconto Giallo ha avuto una fortuna non inferiore a quella del Romanzo: perché tuttavia in Italia il racconto non abbia avuto pari fortuna, questo è altro discorso. La situazione però è questa: nel mondo sia anglosassone, che l’ha fatta da padrone, e in quello più chiuso, del giallo franco-belga, i racconti hanno avuto la loro buona fetta di pubblico e di popolarità. Ancor oggi, molti autori contemporanei scrivono racconti, ma nel passato, si sono avuti addirittura autori specializzati, per es. Edward D. Hoch, autore anche di romanzi di fantascienza e di apocrifi queeniani, ma soprattutto di oltre..900 racconti, divisi in più serie, tra cui quelli che raccontano di Camere Chiuse e delitti impossibili, sono i preponderanti. Ma anche Joseph Commings si è riservata la sua buona fetta di fama, con le storie del senatore Banner. La messe maggiore, tuttavia, si è avuta con i grandi autori sia di Giallo classico che di Hard Boiled: Ross MacDonald, Ellery Queen, C.Daly King, Agatha Christie, Dashiell Hammett, e moltissimi altri, tra cui John Dickson Carr.; e proprio di Carr parleremo, a proposito dei suoi primi quattro racconti con Henri Bencolin.
Potrebbe sembrare un discorso molto relativo, affrontare la tematica dei racconti carriani puntando l’attenzione solo su 4 racconti, quando la produzione totale ne conta oltre trenta. Ma questo breve saggio non si propone di esaurire la tematica complessiva del racconto in Carr, ma solo di creare un’inquadratura, che possa essere recepita da qualunque lettore, circa la produzione carriana avente come soggetto principale Henri Bencolin.
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Intervista a cura di Dario pm Geraci
Innanzitutto la voglio ringraziare per aver accettato l’invito nel rilasciare questa breve intervista e un grosso benvenuto da tutti i lettori del Giallo Mondadori.
DG: Vuole parlarci di Shangai? Cosa l’ha ha spinta a virare così pesantemente sul thriller rispetto al giallo di stampo classico?
Shanghai è nato dall’esigenza di porre uno stacco tra me i i miei personaggi abituali. Credo che capiti un po’ a tutti gli scrittori. perché i personaggi seriali, ancorché molto rassicuranti, talvolta diventano pesanti come certi parenti che ti stanno sempre addosso. Hai bisogno di tirare il fiato e di fare il punto della situazione. C’è anche da dire che mi piace molto cambiare e cimentarmi con storie e situazioni nuove. E poi ero tornata dalla Cina e allora “Shanghai” è stato come prolungare il mio rapporto con una città che ho amato da subito. Una piccola confidenza. I miei antenati erano cinesi, capitati in Italia, precisamente a Venezia, all’inizio dell’Ottocento. Sicché il romanzo è anche un omaggio alle mie antiche, ma mai dimenticate, origini.
DG: Leggiamo dalla Sua biografia che è allieva nientepopòdimenoche di Ed McBain, una leggenda del Giallo. Potrebbe raccontarci brevemente la Sua esperienza o qualche ricordo legato alla Sua figura?
Ho conosciuto Ed McBain in occasione di un corso di scrittura poliziesca. Quattro giorni di full immersion nel mondo del Giallo e della scrittura. Un’esperienza unica…Dopo il corso abbiamo iniziato a scriverci e, senza presunzione, posso dire che siamo diventati amici. Mister Evan era un uomo eccezionale, di una sensibilità ed umanità incredibili. Mi chiamava “Annamaria, Secondo me”, perché i miei interventi iniziavano spesso con “secondo me”. Una cosa che ricordo di lui è la sua generosità e il suo umorismo. Molto anglosassone, direi. Non si risparmiava mai, anche quando era ormai alla fine ha trovato il tempo per inviare un breve messaggio ai bambini della mia classe. Stavamo lavorando sulla sceneggiatura degli “Uccelli” e Mister Evan li esortava a non stare troppo vicino alla finestra, soprattutto se in giro c’erano gabbiani e corvi.
DG: Lei rientrerebbe sicuramente in una ipotetica “Hall of fame” del Giallo Mondadori, avendo pubblicato ormai una decina di romanzi in questa storica collana. Qual è il Suo rapporto con il Giallo e tra tutti i romanzi pubblicati, a quale è rimasta più affezionata?
Il mio rapporto con il Giallo è personalissimo e fa parte da sempre della mia vita. Ho iniziato a leggere mistery intorno ai dieci anni (partendo da zia Agata, ovvio) e da allora non ho mai smesso. Mi piace scrivere Gialli perché ogni volta è una grande sfida. Metto in scena i miei personaggi, tramo e brigo, annodo e riannodo. Mi diverto molto, anche se non sempre sono rose e fiori perché quando scrivo sono davvero esigente con me stessa. Penso che “Tesi di laurea” sia il libro a cui sono più affezionata perché ha una storia forte e importante che mi convince sempre a distanza di anni. Probabilmente lo riscriverei tale e quale. E poi c’è “Gangster” che, ancor prima di “Shanghai”, ha impresso una svolta alla mia scrittura. In “Gangster” l’elemento forte è stata la raccolta della documentazione. E anche per questo aspetto devo ringraziare Mister Evan. Lui diceva sempre: “Sei mesi per documentarmi, tre mesi per scrivere”.
DG: Ora un gioco proposto anche ad alti autori “passati” a fare quattro chiacchiere qui sul blog. Se dovesse scegliere uno dei Suoi romanzi da trasporre per il cinema, quale sceglierebbe e a chi affiderebbe la regia?
Ahi che domanda! Se dovessi essere proprio sincera direi che mi piacerebbe vedere tutti i miei romanzi sul grande schermo, ma dovendo scegliere….Dunque vediamo… Forse “Shanghai” si presta molto per essere trasposto sul grande schermo. C’è molta azione, molta violenza, e un mondo esotico che affascina sempre. Il regista? Ridley Scott, oppure David Cronenberg. E “Tesi di Laurea”, naturalmente, per la regia di Dario Argento. Dal momento che devo pensare in grande, tanto vale non essere avari, no?
DG: Purtroppo siamo già arrivati all’ultima domanda, quindi cercheremo di sfruttarla al meglio per dare ai lettori qualche anticipazione sui Suoi lavori futuri e se vorrà anche un saluto al popolo del Giallo Mondadori.
I miei progetti futuri? Una spy story che dovrebbe uscire nel 2010 su Segretissimo e una ripresa dei miei personaggi seriali, Antonio Maffina ed Erica Franzoni. Poverelli sono lì che aspettano da un anno…
Un grosso abbraccio al popolo del Giallo Mondadori che mi ha seguito in tutti questi anni e al quale va la mia gratitudine.
Grazie per la Sua disponibilità e alla prossima intervista!
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Tra le uscite del mese di Luglio, ce n’è una in particolare, sulla quale vorrei spendere due parole. Mi riferisco ad “Appuntamenti in nero” di Cornell Woolrich. L’opera che viene proposta dal Giallo Mondadori è tra le più importanti per conoscere, approndire, scoprire o riscoprire, un autore imprescindibile per la storia del thriller. Saccheggiato dal cinema, emulato da una nutrita schiera di epigoni e mai abbastanza incensato, Woolrich va considerata la pietra angolare del giallo in tutte le sue sfumature. Sono tanti i motivi per il quale quest’uscita merita una menzione speciale, vuoi per la qualità del testo, vuoi per il “peso specifico” che accompagna ogni passaggio editoriale di uno dei più grandi autori della storia del poliziesco. Il mio però è diverso: senza tralasciare alcun dato oggettivo sull’autore, il sentimento che nutro nei confronti del vecchio Cornell è molto profondo, se vogliamo personalissimo ma scommetto che lo stesso è condiviso dalla maggior parte degli amanti del giallo. Se volessimo stilare una trinità del noir, accanto a Raymond Chander e Dashiell Hammett non potremmo che inserire Cornell Woolrich, l’autore che, forse più di ogni altro, ha “suonato” le sue storie, imprimendone a fuoco un marchio di fabbrica distinguibile fra milioni. Non era influenzato da alcun mostro sacro della new wave del noir, anzi, essendone lui uno degli epigoni ha casomai “plasmato” la lirica di diversi altri autori che ne hanno seguito le sue tracce, senza mai eguagliarlo. Personalmente inserisco Woolrich, in quella sottocorrente del noir, che amo etichettare come “Blues”, contraddistinta non solo da un eccellente apparato narrativo e da un tipizzazione eccelsa dei caratteristi, ma, soprattutto, da quella flebile “anomia” che accompagna melanconicamente protagonisti, ambienti e situazioni all’interno di una determinata opera. Non è essenziale scavare nella sfera privata del’autore per saperne di più sulla sua opera, è uno sport che non mi piace e non mi piace soprattutto farlo con Cornell Woolrich che da sempre viene “additato” da certa critica più per i suoi costumi che non per il suo “genio”. Non era un rivoluzionario, nemmeno un “personaggio” (nell’accezione più ampia del termine), Woolrich è stato il trait -d’union tra la tradizione e l’innovazione, tra l’età d’oro del crime e il noir americano che verrà dopo la sua scomparsa. Cornell Woolrich è stato e sempre sarà quella piccola tessera di una piramide altissima che sta alla base, si nota poco ma senza la quale la struttura cadrebbe violentemente a terra.
Dario pm Geraci
In coda Vi segnalo uno splendido articolo di Luca Conti sul rapporto tra Woolrich e il cinema.
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Suzanne Jones, inappuntabile e stimata professoressa di storia e madre di tre figli, quando indossa una maschera e impugna la pistola diventa la rapinatrice Allison Murrieta, amante delle belle macchine e della fama mediatica, degna erede del leggendario Joaquín Murrieta, fuorilegge della California di metà Ottocento. A suon di colpi oculatamente pubblicizzati, questa nuova incarnazione di Robin Hood che ruba ai ricchi – soprattutto le catene di fast food che sfruttano biecamente la manodopera – per donare (in parte) ai poveri, diventa una celebrità locale. Finché una sera s’imbatte in una carneficina tra bande rivali e in un bottino caduto dal cielo: quasi mezzo milione di dollari in diamanti. Un colpo molto più pericoloso di quelli a cui Allison è abituata, e una tentazione irresistibile. Ma scomparire con un carico di diamanti rubati significa attirare l’attenzione non delle forze dell’ordine, ma del più potente ricettatore di Los Angeles, il deus ex machina del crimine nella metropoli e il più pericoloso killer in circolazione: il salvadoregno Lupercio.
E mentre Allison fugge per la città, soltanto il vicesceriffo Charlie Hood, incaricato di fare luce sul caso, potrà ritrovarla e salvare Suzanne, la donna nascosta dietro la maschera della popolare criminale, e della quale sembra essersi innamorato…
Considerato uno dei più interessanti e profondi autori americani di thriller, con Nero come il diamante T. Jefferson Parker ci offre un noir incalzante e di modernità assoluta, che riflette sulle idee di realtà e menzogna nella vita delle metropoli e sulla costruzione dei miti nell’era dei media.
maggiori informazioni all’indirizzo
T. Jefferson Parker (Los Angeles 1953), ha iniziato come giornalista, professione nella quale ha ottenuto diversi premi, e nel 1985 ha cominciato la sua carriera di scrittore. Tra i suoi libri ricordiamo L’ora blu, La luce rossa, Acque nere, Una faida per Tom e California Girl, con cui, nel 2005, ha vinto il premio Edgar, bissando il successo del 2002. L’autore vive a Fallbrook, in California.
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Sul blog del Giallo Mondadori, un gradito ritorno: La semplicissima arte del delitto II di Fabio Lotti.
Buona lettura.
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Ci risiamo. Ma non fatemene una colpa. Il fenomeno giallistico (in senso lato) ha assunto una tale dimensione (nel bene e nel male) che è impossibile che non se ne parli. Se ne hanno parlato e ne parlano anche pezzi più o meno grossi della cultura che un tempo si scriveva con la C maiuscola ed ora è diventato un contenitore dove ci si infila quasi tutto. Compreso il nostro giallo. Anche se qualcuno si affretta a fare sempre i distinguo come il poeta Maurizio Cucchi che è stato randellato e fatto a pezzi da una torma di giallofili inferociti. Averlo saputo per tempo lo avrei difeso non fosse che per puro spirito di contraddizione. Alla fine, però, si scopre che un giallo l’ha scritto pure lui. Ma allora Cucchi Cucchi…E dunque ne posso parlare anche io che è una vita che ci sto dietro e non mi chiedete quale è il motivo di questo ripetuto intervento perché non lo so. E se anche lo sapessi non ve lo dicessi tanto per restare in sintonia con la grammatica dei giorni nostri.
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